La Palestina denuncia la ‘pirateria’ di Israele dopo la riduzione dell’ammontare delle tasse

Redazione di MEMO

5 settembre 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che martedì il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha denunciato come “pirateria” la riduzione dell’ammontare delle tasse da parte di Israele.

Martedì il ministro delle Finanze israeliano ha affermato che dedurrà una quota di denaro dai fondi che Tel Aviv riscuote per conto dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) per rimborsare i debiti per l’elettricità palestinese con la Israel Electric Corp (IEC).

Questi sono pirateria e furto sistematici del nostro denaro,” ha affermato Shtayyeh in una dichiarazione.

Queste riduzioni sono una dichiarazione di guerra finanziaria che fa parte della guerra politica in corso contro il popolo palestinese,” ha aggiunto.

Il premier palestinese ha sollecitato l’amministrazione statunitense e l’Unione Europea “a intervenire per fermare tutte queste politiche”, preavviso di “pericolose ripercussioni” della decisione di Israele.

Secondo i mezzi di comunicazione israeliani, il debito palestinese con la IEC è stimato in circa due miliardi di shekel (circa 526 milioni di euro).

Tuttavia la controparte palestinese afferma che i suoi debiti sono solo di 800 milioni di shekels (210.5 milioni di euro).

Negli ultimi anni l’ANP sta affrontando molteplici difficoltà economiche come risultato delle decisioni israeliane di ridurre o di bloccare il trasferimento delle entrate fiscali palestinesi raccolte da Israele.

Il gettito fiscale – conosciuto in Palestina e Israele come maqasa –viene raccolto dal governo israeliano per conto della ANP sulle importazioni ed esportazioni palestinesi. Israele in cambio incassa una commissione del 3% delle entrate fiscali raccolte.

Gli introiti fiscali, che costituiscono la fonte principale delle entrate della ANP, sono stimati intorno ai 30-33 milioni di euro al mese.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




“Noi non staremo in silenzio”: le forze dell’autorità palestinese effettuano una incursione a Tulkarem e uccidono un combattente.

Redazione di Palestine Chronicle (PC)

30 agosto 2023 – Palestine Chronicle

Mercoledì un giovane palestinese è stato ucciso quando le forze dell’Autorità Palestinese (AP) si sono scontrate con i combattenti della resistenza palestinese nel campo profughi di Tulkarem nella Cisgiordania occupata.

Secondo la rete di notizie palestinese Quds News Network (QNN), gli scontri sono scoppiati quando le forze dell’AP hanno cercato di rimuovere le barricate erette nel campo dai combattenti della resistenza palestinese per impedire che le forze dell’occupazione israeliana facciano incursioni dell’area.

Secondo quanto riferito, le forze dell’AP hanno aperto il fuoco contro i combattenti, causando la morte di un palestinese venticinquenne.

QNN ha identificato la vittima come Abdelqader Zakdah.

Talal Dweikat, un portavoce per l’agenzia per la sicurezza palestinese, ha fatto un resoconto diverso rispetto a quello dei testimoni oculari.

In una dichiarazione rilasciata alla WAFA, l’agenzia di notizie ufficiale palestinese, ha sostenuto che “l’uomo armato ha aperto il fuoco dopo che le forze di sicurezza hanno rimosso materiali pericolosi e barriere da dentro il campo, le cause per cui le forze di sicurezza sono intervenute”.

Molti palestinesi ritengono che l’AP serva gli interessi dell’occupazione israeliana. Negli ultimi mesi si é saputo di scontri tra combattenti palestinesi e forze di sicurezza dell’AP in varie parti della Cisgiordania.

Un anonimo combattente palestinese ha affermato all’agenzia di notizie Reuters che la resistenza “non rimarrà in silenzio.”

Egli ha accusato l’AP di “aiutare le forze di occupazione ad arrestare giovani che sono sulla lista dei ricercati (di Israele).

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




A Gaza il soddisfacimento dei bisogni primari è parte integrante della nostra liberazione

Mohammed R. Mhawish

11 agosto 2023 – +972 Magazine

Le proteste nella Striscia assediata evidenziano perché la leadership palestinese, pur sotto occupazione, deve curarsi sia della resistenza che della governance.

La scorsa settimana il governatorato meridionale di Khan Younis e altre aree al centro della Striscia di Gaza hanno assistito a scene di tensione quando diverse migliaia di palestinesi sono scesi in piazza per protestare contro le frequenti interruzioni di corrente, la scarsità di cibo e in generale la durezza delle condizioni di vita. Con la marcia al grido di “Bidna N’eesh” (“Vogliamo vivere”) le proteste di massa costituiscono un’espressione significativa del risentimento pubblico accumulato per anni tra la popolazione sotto assedio.

In risposta hanno sfilato dei cortei a sostegno di Hamas, il partito islamista che governa la Striscia, inneggiando al governo e aggredendo chi non esprimeva sostegno al movimento. Secondo quanto riferito, poco dopo è intervenuta la polizia che ha confiscato i telefoni cellulari ed effettuato numerosi arresti.

Le proteste sono seguite a giorni di intensa frustrazione e contrarietà nei confronti del governo di Hamas, dopo che un abitante di Khan Younis è rimasto ucciso in seguito al crollo di uno dei muri della sua casa mentre le autorità locali tentavano di demolirlo col pretesto che fosse stato costruito su una via pubblica. Le autorità hanno affermato che la morte dell’uomo sarebbe stata un tragico incidente e hanno licenziato il sindaco del Comune responsabile.

Sembra che le marce, per la loro dinamicità, brevità e impatto diretto, siano coordinate da movimenti di base attraverso piattaforme online e social media. Diversi palestinesi che erano tra la folla mi hanno detto che le loro proteste derivano da una richiesta fondamentale riguardante i loro diritti umani di base, che comprendono necessità come i servizi pubblici, occupazione, libertà di viaggiare e la possibilità di intraprendere attività commerciali fuori dalla Striscia. Al momento in cui scrivo il governo di Hamas non ha reso pubblica alcuna prospettiva di soluzione a nessuna di queste rimostranze, né di risposta alla rabbia della gente.

L’energia elettrica è al centro delle richieste dei manifestanti. Per quanto la crisi energetica di Gaza preceda le attuali proteste, le ondate di caldo torrido che quest’estate hanno investito la regione hanno portato le temperature nella Striscia oltre i 38 gradi. Il caldo non ha fatto che accentuare il crescente malcontento tra i 2,3 milioni di palestinesi che vivono nel territorio, confinati in una striscia di terra di circa 360 km2 che dal 2007 è stata tagliata fuori in seguito ad un blocco israeliano che colpisce ogni aspetto della vita quotidiana.

Questa frustrazione collettiva si è accumulata nell’arco di un considerevole periodo di tempo, poiché la popolazione di Gaza deve sopravvivere con razionamento che va dalle quattro alle sei ore di elettricità al giorno. Per far fronte alle prolungate interruzioni di corrente alcune abitazioni e aziende ricorrono a generatori privati o pannelli solari. Per altri che non possono permettersi apparecchiature così costose, modeste lampadine LED alimentate a batteria forniscono un’illuminazione improvvisata, mentre altri ancora cercano di combattere il caldo facendosi vento con vassoi di plastica.

Secondo gli enti energetici locali durante la stagione estiva Gaza necessita di circa 500 megawatt di energia elettrica al giorno. Tuttavia attualmente riceve da Israele solo 120 megawatt, con l’ulteriore contributo di 60 megawatt proveniente dall’unica centrale elettrica dell’enclave, ripetutamente danneggiata dagli attacchi militari israeliani e indebolita dalle restrizioni sull’importazione di materiali edili. Ultimamente i filmati dei social media hanno mostrato Gaza avvolta nell’oscurità notturna con poche luci nelle sue città.

Mentre l’opinione pubblica e l’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania attribuiscono le proteste di Gaza prevalentemente all’occupazione israeliana, molte persone credono che Hamas abbia ancora una certa possibilità, e l’obbligo, di avviare misure efficaci, anche aumentando la produzione e il funzionamento della centrale al massimo della potenza, soprattutto durante l’estate.

Sopportare il peso

Negli ultimi 16 anni Gaza è diventata un coacervo di avversità umanitarie, economiche e politiche. L’enclave ha vissuto diverse ondate di guerre mortali con Israele, la più devastante nell’estate del 2014. La chiusura imposta a tutti i valichi di Gaza ha fatto precipitare l’economia fino ad una condizione di degrado, portando a un forte aumento della disoccupazione e con conseguente grave scarsità di beni di prima necessità e altre risorse.

I palestinesi hanno dovuto attraversare divisioni significative all’interno della loro leadership politica, la più evidente delle quali rappresentata dagli scontri armati tra Fatah e Hamas nel 2007. Nelle elezioni parlamentari del 2006 Hamas assicurò la vittoria nei confronti delle altre fazioni arrivando a controllare la maggioranza in parlamento e la carica di primo ministro, mentre il leader di Fatah Mahmoud Abbas venne eletto alla presidenza.

Il governo palestinese venne subito sottoposto a sanzioni da parte di Israele, Stati Uniti e Paesi europei, con conseguente esacerbazione della rivalità tra fazioni che portò Hamas a conquistare Gaza. Da allora il territorio è sprofondato sotto il peso del rigido assedio israeliano.

Tuttavia le attuali manifestazioni a Gaza si distinguono per l’elevato livello di impegno pubblico e per il numero di manifestanti coinvolti. La gravità della situazione comprende molteplici aspetti e le condizioni di vita della popolazione stanno diventando sempre più difficili.

I palestinesi chiedono da tempo nuove elezioni generali esprimendo un’intensa richiesta di cambiamento. Eppure il sostegno pubblico ad Hamas a Gaza persiste e cresce la preoccupazione che le voci di coloro che cercano una qualche forma di cambiamento e ripristino dei propri diritti vengano soffocate, sia dalle autorità israeliane che da quelle palestinesi.

Ci sono diversi aspetti delle complessità in evoluzione tra gli attori politici palestinesi. Fatah e Hamas sono coinvolti in un continuo gioco di accuse reciproche, in quanto l’una attribuisce i problemi di Gaza all’altra. L’ANP sollecita Hamas a prendere iniziative, anche se ritiene principalmente responsabile Israele (con cui l’ANP collabora in base agli Accordi di Oslo) in quanto potenza occupante. Nel frattempo sono le persone a scontare le conseguenze e ad affrontare le deleterie ripercussioni, mentre continua la debole ricerca di una riconciliazione.

Ultimo ma non meno importante, il Jihad islamico, un tempo movimento marginale, è recentemente emerso come un attore significativo nel panorama geopolitico palestinese. Durante le ultime due guerre israeliane contro Gaza nell’agosto 2022 e nel maggio 2023 il Jihad islamico ha mostrato una capacità decisionale relativamente indipendente ed efficace sul fronte militare, sebbene cerchi ancora l’appoggio politico e militare di Hamas come autorità dominante.

Al di là della frammentazione sociale a Gaza e in Cisgiordania, un vincitore sta attualmente prendendo tutto: l’estrema destra israeliana, che mina incessantemente le fondamenta della lotta palestinese e porta avanti il suo progetto di disperdere permanentemente la popolazione palestinese in differenti enclave territoriali e politiche.

Sotto la guida di Benjamin Netanyahu l’attuale governo sta cogliendo ogni opportunità per consolidare la sua presenza in Cisgiordania. Ciò comprende la costruzione di insediamenti illegali, l’annientamento di qualsiasi tentativo di resistenza armata o popolare e l’annessione di terre e risorse palestinesi, indebolendo ulteriormente le basi di qualsiasi processo politico palestinese.

Un fronte unito per la liberazione

Le attuali proteste a Gaza riprendono indubbiamente le legittime richieste del popolo palestinese, meritevole e capace di forgiare un nuovo fronte unito verso la libertà e la dignità. Ma resta la domanda più importante: i leader palestinesi hanno la volontà di ascoltare queste richieste e di adottare misure efficaci per soddisfarle?

Sia gli osservatori esterni che quelli interni spesso attribuiscono le divisioni tra le fazioni palestinesi a contrastanti interessi politici e ideologici. Eppure tali differenze dovrebbero semmai gettare le basi e lo slancio per un’ampia coalizione politica che possa armonizzare i bisogni comuni con l’obiettivo della liberazione. Mentre alcuni sostengono che le fazioni palestinesi si stiano gradualmente riallineando contro Israele e non l’una contro l’altra, molti nutrono ancora un sentimento di perdita di speranza sulla possibilità di vedere un giorno una leadership unificata che comprenda le variabili della guerra e della pace, della resistenza e della governance, e che riunisca tutti i palestinesi sotto un’amministrazione unica.

A Gaza c’è una forte convinzione che avere una presenza armata che salvaguardi il diritto dei palestinesi all’autodifesa contro l’aggressione militare israeliana non dovrebbe mettere in secondo piano l’aspirazione delle persone a vivere con quel tanto di autonomia e agiatezza possibile sotto l’occupazione. L’obiettivo di rompere il blocco israeliano, un tempo il principale faro di speranza per la libertà a Gaza, si intreccia con la ricerca di soddisfare i bisogni di base all’interno dei confini di Gaza, come ad esempio altre due ore al giorno di accesso all’acqua potabile o all’elettricità.

Ciò è accompagnato dall’opinione diffusa che Hamas, come altre fazioni palestinesi, stia cercando di controllare e mettere a tacere l’attivismo e il dissenso di base, suscitando ulteriore irritazione nell’opinione pubblica. L’accoglimento a parole dell’idea di cambiamento da parte dei leader palestinesi non dovrebbe solo significare riconciliare le loro visioni contrastanti, ma anche smettere di nascondere sotto il tappeto le richieste collettive della gente per un futuro migliore.

In effetti l’intensificarsi degli attacchi israeliani contro tutti i palestinesi nell’intero Paese e l’obiettivo di disgregare la sfera pubblica a Gaza rendono queste proteste un momento ideale per riaffermare la necessità di una leadership palestinese unificata che possa progredire, dare priorità alla difesa dei valori umani e alle esigenze fondamentali della vita sotto occupazione e non tentennare tra rapidi mutamenti del panorama regionale e internazionale, che hanno messo in disparte le richieste di libertà e nel contempo di condizioni di vita dignitose dei palestinesi.

È ancora più importante che le attuali leadership, sia a Gaza che in Cisgiordania, si astengano dal governare con diktat e rispettino invece la volontà della maggioranza, osservando quadri normativi del Paese e la prospettiva della liberazione. È improbabile che il tentativo di forzare il cambiamento attraverso un conflitto aperto con una opinione pubblica scontenta abbia successo. Non è mai stato un metodo giusto o di successo per raggiungere l’autodeterminazione, specialmente sotto la guida di fazioni minoritarie frammentate, ognuna delle quali scandisce uno slogan diverso ed è apparentemente indifferente alla rappresentanza democratica. Ogni leader finisce per aggrapparsi al potere senza alcuna reale intenzione di migliorare e salvaguardare la vita dei propri elettori.

Per superare queste sfide i palestinesi devono essere in grado di esprimere critiche in consonanza coi simpatizzanti di ciascuna delle parti, dimostrando così la possibilità di essere uniti, piuttosto che limitarsi a dimostrare che i loro leader hanno torto. Le attuali proteste a Gaza e l’Intifada Unitaria scoppiata in tutta la Palestina due anni fa indicano la necessità di un tale percorso comune. Una volta che sarà stato veramente raggiunto, nessuna influenza esterna potrà impedire, ignorare o frammentare la sostanziale maggioranza delle persone che vogliono liberarsi dalla spirale dell’esclusione.

Fino ad allora il popolo palestinese merita la possibilità di affrontare il fondamentale dibattito su una tanto necessaria tabella di marcia politica in grado di determinare il destino della sua lotta. Mettendo da parte gli argomenti divergenti della realpolitik sul campo di battaglia interno e facendo ciò che può essere fatto per le persone con gli strumenti disponibili, solo allora i palestinesi potranno continuare ad essere saldi e fiduciosi di fronte ad una forza di occupazione.

Mohammed R. Mhawish è un giornalista e scrittore palestinese che vive a Gaza. È uno degli autori del libro “A Land With A People – Palestines and Jews Confront Zionism” [Una terra con un popolo – palestinesi ed ebrei di fronte al sionismo, ndt.] (Monthly Review Press Publication, 2021).

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il presidente palestinese Abbas licenzia 12 governatori dell’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania e a Gaza

Jack Khoury

10 agosto 2023 – Haaretz

L’ufficio di Abbas comunica che otto governatori della Cisgiordania e quattro di Gaza sono stati ‘congedati.’ Gli esperti credono che le destituzioni siano un tentativo di promuovere una nuova leadership e mettere a tacer le critiche contro l’Autorità Palestinese

Giovedì il presidente palestinese Abbas ha destituito la maggior parte dei governatori distrettuali dell’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania e alcuni anche a Gaza.

Secondo la dichiarazione rilasciata dall’ufficio di Abbas i funzionari “congedati” includono gli otto governatori di Jenin, Nablus, Tulkarem, Qalqilyah, Betlemme, Tubas, Hebron e Gerico. 

Abbas ha anche destituito quattro governatori che operano per conto dell’Autorità Palestinese a Gaza, sebbene nella Striscia controllata da Hamas siano privi di una reale autorità e abbiano un ruolo più che altro simbolico. In un comunicato dell’ufficio di Abbas si dice che una commissione capeggiata dal presidente esaminerà i candidati che fungeranno da nuovi governatori. 

Gli unici non destituiti sono il governatore di Ramallah, vicino ad Abbas, e i due di Salfit e Gerusalemme. Funzionari di alto livello dell’AP hanno detto ad Haaretz che Abbas sta anche prendendo in considerazione ulteriori e più ampi cambiamenti del governo.

Si dice che l’opinione pubblica palestinese sia stata colta di sorpresa dall’annuncio, poiché nessun media locale aveva anticipato nei suoi reportage tale decisione. Ci si aspettava che i cambiamenti fossero fatti nel governo, ma non specificatamente fra i governatori distrettuali dell’AP

Neppure i governatori sono stati informati in anticipo della decisione e l’hanno saputo da una nota ufficiale dell’agenzia di stampa palestinese. I funzionari avrebbero detto ai loro colleghi che rispetteranno la decisione, nonostante il modo in cui la notizia è stata fatta loro arrivare.

Politici al vertice di Fatah hanno riferito ad Haaretz che probabilmente la notizia delle destituzioni sarà accolta positivamente dall’opinione pubblica palestinese, poiché parecchi dei congedati avevano suscitato vaste critiche.

In Cisgiordania si pensa che la decisione sia un tentativo di Abbas di ridurre la disapprovazione della gente nei confronti dell’AP, cresciuta a causa delle attività di sicurezza. L’anno scorso, dopo l’arresto di tre palestinesi per possesso illegale di armi da parte delle forze dell’AP, uomini armati hanno aperto il fuoco contro il quartier generale dell’AP nella città cisgiordana di Jenin.

Secondo una dichiarazione dell’ufficio di Abbas, il comitato che consiglierà sulla sostituzione dei governatori include sia importanti funzionari dell’AP che membri di partiti indipendenti. Storicamente i governatori sono nominati personalmente dal presidente dell’AP, di solito perché vicini a politici di Fatah o all’ufficio del presidente.

Esperti stimano che le destituzioni siano un tentativo di promuovere una nuova dirigenza e placare le critiche contro l’AP.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La scomoda verità su Ain Al-Hilweh, capitale dello shatat e dell’agonia palestinese

Ramzy Baroud

8 agosto, 2023 , MiddleEastMonitor

Il campo profughi palestinese di Ain Al-Hilweh in Libano è noto come “capitale dello shatat palestinese”. Il termine potrebbe non suscitare molte emozioni tra coloro che non lo comprendono appieno né tantomeno hanno patito l’esperienza straziante della pulizia etnica e dell’esilio perpetuo, e della tremenda violenza che ne è seguita.Shatat è tradotto approssimativamente come “esilio” o “diaspora”.

Tuttavia il significato è molto più complesso. Può essere compreso solo con l’esperienza vissuta. Nemmeno allora è facile condividerne il senso. Forse i blocchi kafkiani di cemento, zinco e macerie, torreggianti uno sull’altro e che fungono da “rifugi temporanei” per decine di migliaia di persone, raccontano una piccola parte della storia.

Il 30 luglio è ripresa la violenza nell’affollatissimo campo palestinese; si è brevemente interrotta dopo l’intervento del Comitato Azione Congiunta Palestinese, poi è ripresa, mietendo la vita di 13 persone e continuando a crescere. Altre decine sono state ferite e a migliaia sono fuggite.

Tuttavia la maggior parte dei rifugiati è rimasta, perché diverse generazioni di palestinesi ad Ain Al-Hilweh comprendono che c’è un momento in cui la fuga non serve a niente poiché non garantisce né la vita né una morte dignitosa. I massacri nei campi profughi di Sabra e Shatila del settembre 1982 testimoniano questa presa di coscienza collettiva.

Prima di scrivere questo articolo ho parlato con diverse persone nel sud del Libano e ho passato in rassegna molti articoli e rapporti che descrivono ciò che sta accadendo ora nel campo. La verità è ancora sfocata o, nella migliore delle ipotesi, frammentaria.

Sui media arabi si è spesso relegato Ain Al-Hilweh a rappresentazione simbolica della profonda sofferenza palestinese. I principali media occidentali non si sono mai preoccupati della sofferenza palestinese ma si concentravano principalmente sull’”illegalità” del campo, sul fatto che sia al di fuori della giurisdizione legale dell’esercito libanese e sulla proliferazione di armi tra i palestinesi e le altre fazioni al suo interno, tutte impegnate in lotte intestine apparentemente infinite e presumibilmente inspiegabili.

Ma Ain Al-Hilweh, come gli altri undici campi profughi palestinesi in Libano, racconta una storia completamente diversa, più urgente del mero simbolismo e più logica dell’essere il risultato di rifugi illegali. È essenzialmente la storia della Palestina, o meglio, della distruzione della Palestina per mano delle milizie sioniste nel 1947-48. È una storia di contraddizioni, orgoglio, vergogna, speranza, disperazione e, in ultima analisi, tradimento.

Non è facile seguire la cronologia degli eventi prima dell’ultimo scoppio di violenza.

Alcuni suggeriscono che i combattimenti siano iniziati quando è stato compiuto un tentativo di omicidio – attribuito ai combattenti di Fatah nel campo – contro il leader di un gruppo islamista rivale. Il tentativo è fallito ed è stato seguito da un’imboscata in cui presunti islamisti hanno ucciso un alto comandante di Fatah e molte delle sue guardie del corpo.

Altri suggeriscono che l’assassinio del generale della Sicurezza Nazionale palestinese Abu Ashraf Al-Armoushi sia stato del tutto ingiustificato. Altri ancora, tra cui il primo ministro libanese Najib Mikati, hanno accusato forze esterne e i loro “ripetuti tentativi di usare il Libano come campo di battaglia per il regolamento dei conti”.

Ma chi sono queste entità, e qual è lo scopo di tali intrusioni?

Le cose si complicano. Sebbene impoverito e sovraffollato, Ain Al-Hilweh, come altri campi palestinesi, è uno spazio politico molto conteso. In teoria, questi campi hanno lo scopo di consolidare e proteggere il legittimo diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi. In pratica, vengono utilizzati anche per minare questo diritto sancito a livello internazionale.

L’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Mahmoud Abbas, ad esempio, vuole assicurarsi che i lealisti di Fatah dominino il campo, da cui il suo lavoro per negare ai rivali palestinesi qualsiasi ruolo nel sud del Libano.

Fatah è il più grande gruppo palestinese all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Domina sia l’OLP che l’ANP. In passato, il gruppo ha perso il suo dominio su Ain Al-Hilweh e altri campi. Per Fatah la lotta per il predominio in Libano è costante.

Ain Al-Hilweh è importante per l’ANP anche se l’OLP sotto la guida di Abbas ha ampiamente rinnegato i rifugiati del sud del Libano e il loro diritto al ritorno e si è concentrato principalmente sul governo di specifiche regioni della Cisgiordania sotto gli auspici dell’occupazione israeliana.

Tuttavia i rifugiati in LIbano rimangono importanti per l’ANP principalmente per due motivi: uno, come fonte di legittimazione per Fatah e due per prevenire, in Libano come ovunque, qualsiasi critica, per non parlare della resistenza, nel campo palestinese sostenuto dall’Occidente.

Nel corso degli anni centinaia di rifugiati di Ain Al-Hilweh sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani così come nelle lotte intestine palestinesi-libanesi e palestinesi-palestinesi. Israele ha commesso gran parte delle uccisioni per garantirsi che la resistenza palestinese in Libano fosse eliminata alla fonte. Il resto della violenza è stato compiuto da gruppi che cercavano il dominio e il potere a volte per se stessi ma spesso come milizie per procura di poteri esterni.

Intrappolate nel mezzo ci sono 120.000 persone – la popolazione stimata di Ain Al-Hilweh – e, per estensione, tutti i rifugiati palestinesi del Libano.

Tuttavia non tutti gli abitanti di Ain Al-Hilweh sono rifugiati palestinesi registrati. Questi ultimi sono stimati dall’URWA, l’agenzia delle Nazioni Unite creata per prendersi cura dei profughi palestinesi, in circa 63.000. Gli altri sono fuggiti lì dopo l’inizio della guerra siriana, che ha fatto aumentare la popolazione dei campi libanesi e acuito le tensioni esistenti.

L’intrappolamento dei rifugiati, tuttavia, è molteplice: è l’effettivo confinamento fisico dettato dalla mancanza di opportunità e integrazione nella società libanese tradizionale, è il grande rischio nel lasciare il Libano come rifugiati clandestini contrabbandati attraverso il Mediterraneo e la sensazione, soprattutto tra le generazioni più anziane, che lasciare il campo equivalga al tradimento del Diritto al Ritorno.

Tutto questo accade in un contesto politico in cui la leadership palestinese ha completamente rimosso i rifugiati dai suoi calcoli, e l’Autorità Nazionale Palestinese vede i rifugiati solo come pedine in un gioco di potere tra Fatah e i suoi rivali.

Per decenni Israele ha cercato di liquidare la discussione sui rifugiati palestinesi e il loro diritto al ritorno. I suoi continui attacchi ai campi profughi palestinesi nella stessa Palestina e i suoi interessi per ciò che sta accadendo nello shatat fa parte della sua ricerca per scuotere le fondamenta stesse della causa palestinese.

Le lotte intestine ad Ain Al-Hilweh, se non riportate sotto controllo totale e duraturo, potrebbero alla fine far ottenere a Israele esattamente ciò che vuole: presentare i profughi palestinesi come un rischio per i paesi ospitanti e, in ultima analisi, distruggere la “capitale dello shatat” insieme alla speranza di quattro generazioni di profughi palestinesi di tornare, un giorno, a casa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina: Israele ha trasformato tutta la Palestina in “una prigione a cielo aperto” per ulteriori piani di annessione

Jeff Wright

16 luglio 2023 – Mondoweiss

Il rapporto di giugno di Francesca Albanese al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU afferma che Israele usa mezzi fisici, burocratici, militari e di sorveglianza per “de-palestinizzare” il territorio occupato, minacciando “l’esistenza dei palestinesi come popolo”.

Nel suo rapporto di giugno al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina, descrive in dettaglio come, attraverso “un sistema di controllo composto da livelli multipli e interconnessi di confinamento“, Israele “ha trasformato la vita dei palestinesi in un continuum carcerario” – equivalente, come scrive, a una prigione a cielo aperto costantemente sorvegliata.

Il suo rapporto documenta i tanti mezzi fisici, burocratici, militari e di sorveglianza che consentono il “sequestro arbitrario di terra e lo sfollamento forzato dei palestinesi” da parte di Israele: caratteristiche, scrive, del colonialismo di insediamento.

Lunedì, nel corso della presentazione del rapporto al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Albanese ha dichiarato: Questi reati sembrano far parte di un piano per de-palestinizzare il territorio. Minacciano l’esistenza dei palestinesi come popolo, come compagine nazionale coesa”.

Esperta di diritto internazionale, Albanese consente al lettore una visione dettagliata dello specifico attraverso una descrizione delle leggi internazionali riguardanti il diritto umanitario e il diritto penale, che nel loro insieme mostrano chiaramente l’illegalità delle azioni di Israele relative ai palestinesi in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) e a Gaza.

È fondamentale, ha detto ai membri del Consiglio per i Diritti Umani, che la comunità internazionale riconosca l’illegalità dell’occupazione israeliana che conduce naturalmente all’apartheid. Questa non può essere rettificata. Non può essere resa più umana semplicemente affrontando alcune delle sue conseguenze più gravi. E’ necessario porvi fine, per ripristinare lo stato di diritto e la giustizia”.

Israele ha sempre negato che il diritto internazionale si applichi alle sue azioni nel territorio occupato, sostenendo che il territorio è conteso, non occupato. Il rifiuto da parte di Israele dell’applicabilità del diritto internazionale, riferisce la Relatrice Speciale, ha portato a violazioni dei principi fondamentali che regolano le situazioni di occupazione, tra cui l’impossibilità di acquisire una sovranità, i doveri di amministrare il territorio occupato a beneficio della popolazione protetta, e [il principio di] provvisorietà.”

In una conferenza stampa che ha fatto seguito alla pubblicazione della relazione di 21 pagine Albanese ha affermato di aver scritto il suo rapporto sul tema della privazione arbitraria della libertà “a causa della estrema gravità della situazione sul terreno“.

Il suo rapporto aggiorna la documentazione delle Nazioni Unite sulle politiche e pratiche israeliane familiari a molti: detenzione arbitraria e arresto senza mandato; incursioni notturne con arresto di minori; il sistema legale su due livelli in Cisgiordania, uno per i cittadini israeliani che vivono in insediamenti illegali, sotto la giurisdizione di tribunali civili, l’altro creato per i palestinesi, sotto l’amministrazione e il sistema giudiziario delle forze di occupazione; il blocco illegale della Striscia di Gaza; un sistema di autorizzazioni arbitrario privo di trasparenza; 270 colonie e basi militari che circondano città, paesi e villaggi palestinesi, impedendone l’espansione; il Muro, posti di blocco, blocchi stradali e strade divise con criteri di segregazione; e la parcellizzazione dei palestinesi in aree separate con leggi diverse che regolano quasi ogni aspetto della loro vita. “L’architettura di confinamento a più livelli”, la chiama nel suo rapporto.

Uno dei contributi significativi del rapporto della Relatrice Speciale è la sua descrizione della sorveglianza digitale da parte di Israele. L’interferenza con il diritto alla privacy, come l’uso di tecnologie di sorveglianza, è regolamentata dal diritto internazionale e deve essere utilizzata solo quando strettamente necessario.

Albanese scrive:

Al contrario, la sorveglianza digitale rafforza in modo pervasivo il controllo delle forze israeliane sullo spazio e sulla vita della popolazione occupata. I palestinesi sono costantemente monitorati attraverso telecamere a circuito chiuso e altri dispositivi ai posti di blocco, negli spazi pubblici, in occasione di eventi e proteste collettive. I loro spazi privati sono spesso invasi a loro insaputa, attraverso il monitoraggio su piattaforme online come Facebook di chiamate e conversazioni online considerate “minacciose” e il tracciamento della posizione e connessione dei telefoni cellulari per stabilire reti e potenziali associazioni, o persino attraverso le loro cartelle cliniche.

“L’occupazione”, riferisce Albanese, “ha favorito da parte di Israele lo sviluppo di potenti tecnologie di sorveglianza, tra cui riconoscimento facciale, droni e monitoraggio dei social media”. Descrive l’uso di sistemi israeliani – come Blue Wolf, Red Wolf e Wolf Pack – che contribuiscono al database israeliano di immagini, informazioni personali e valutazione di sicurezza dei palestinesi della Cisgiordania, compresi quelli che vivono in quartieri di Gerusalemme come Silwan e Sheikh Jarrah. Hanno “creato una ‘sorveglianza trasformata in gioco‘”, scrive Albanese, “in base alla quale le unità militari israeliane fotografano i palestinesi senza consenso impegnandosi persino in inquietanti competizioni“.

“La sorveglianza digitale serve in definitiva a facilitare la colonizzazione”, scrive.

Incaricata nel suo mandato di documentare la situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Albanese elenca anche le violazioni del diritto internazionale da parte delle autorità palestinesi che contribuiscono a rafforzare la morsa del regime imposto dall’occupazione”.

“Gli arresti e le detenzioni arbitrarie effettuati dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania e dalle autorità de facto nella Striscia di Gaza hanno contribuito a soffocare i diritti e le libertà dei palestinesi”, scrive. “Le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato pratiche abusive, insulti, segregazione in celle di isolamento e percosse spesso per estorcere confessioni, punire e intimidire gli attivisti”, riferisce.

Albanese descrive come il coordinamento sulla sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele “ha aperto la strada a un collegamento diretto tra gli apparati di detenzione palestinesi e israeliani”. Le vittime palestinesi, scrive, sono affidate a una “politica della porta girevole”, un ciclo in cui “i palestinesi vengono prima arrestati, interrogati, detenuti e spesso sottoposti a maltrattamenti da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e poi, una volta rilasciati, dalle forze di occupazione, o vice versa.”

Mentre la Legge Fondamentale palestinese, emendata nel 2003, dovrebbe proteggere i diritti e le libertà fondamentali, Albanese scrive che altre leggi palestinesi ancora assegnano delle ampie interpretazioni ad alcuni reati [e] possono includere insulti o calunnie nei confronti di un pubblico ufficiale o di un’autorità superiore, diffamazione a mezzo stampa, o provocazione di un ‘conflitto settario’”.

I palestinesi sospettati di collaborare con Israele affrontano un trattamento ancora più severo”, scrive, e nella Striscia di Gaza possono essere puniti con la pena di morte”.

La relatrice speciale sottolinea anche come l’Autorità Nazionale Palestinese abbia fatto propria la repressione israeliana degli studenti nei campus palestinesi, “detenendo studenti e altri per opinioni politiche dissenzienti, comprese quelle condivise sui social media”.

Tra le conclusioni del suo rapporto:

    • Sotto l’occupazione israeliana generazioni di palestinesi hanno subito una diffusa e sistematica privazione arbitraria della libertà, spesso per i più elementari atti della vita…”.

    • Col privare i palestinesi delle protezioni garantite dal diritto internazionale l’occupazione li riduce a una popolazione ‘de-civilizzata’, spogliata del loro status di persone protette e dei diritti fondamentali. Trattare i palestinesi come una minaccia collettiva da recludere sottrae loro la protezione in quanto “civili” ai sensi del diritto internazionale, li priva delle loro libertà fondamentali e li espropria del loro libero arbitrio e possibilità di restare uniti, autogovernarsi e progredire sul piano politico… “

    • Col passare dalla sicurezza del potere occupantealla sicurezza delloccupazione stessaIsraele ha camuffato la sicurezzasotto la forma di controllo permanente del territorio che occupa e cerca di annettere…. Ciò ha radicato la segregazione, la sottomissione, la frammentazione e, in ultima analisi, l’espropriazione delle terre palestinesi e lo sfollamento forzato dei palestinesi”.

    • “… Sulla base della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale, in particolare la legge sulla responsabilità dello Stato, gli Stati terzi hanno il dovere di non favorire o legittimare l’apartheid coloniale di Israele…”

Albanese cita diversi modi per raggiungere la prima delle due raccomandazioni del suo rapporto: che “il sistema israeliano rivolto a privare arbitrariamente i palestinesi della loro libertà nel territorio palestinese occupato… sia abolito tout court”. La seconda raccomandazione invita il Procuratore della Corte Penale Internazionale ad esaminare, nell’ambito dell’indagine sulla Situazione in Palestina, la possibile perpetrazione dei crimini internazionali da lei descritti.

Alla richiesta di Mondoweiss di un parere sul rapporto della Relatrice Speciale Jonathan Kuttab, esperto di diritto internazionale e attivista per i diritti umani, ha affermato: A differenza di altri commentatori, la signora Albanese applica il diritto internazionale con immediatezza e specificità e non consente che le sue osservazioni vengano travisate da altri attraverso il silenzio o l’esplicita accettazione delle continue violazioni del diritto internazionale da parte di Israele. Altri agiscono come se tale silenzio persistente e prolungato avesse in qualche modo normalizzato o legittimato ciò che costituisce chiaramente un comportamento illegale e un insieme di flagranti violazioni delle norme imposte dal diritto internazionale in relazione al comportamento di una “potenza occupante” nei confronti di una “popolazione civile protetta”.

Essendole stato rifiutato l’ingresso nel territorio occupato da Israele, la Relatrice Speciale ha condotto il suo studio di sei mesi a distanza, con visite in Giordania, incontri e sopralluoghi virtuali, analisi di fonti primarie e pubbliche e [esame di] rapporti di organizzazioni della società civile palestinese.

Al momento della stesura di questo articolo, non abbiamo ancora visto una risposta dallo Stato di Israele. Ma le critiche sono attese a meno che, come successo per la riunione del Consiglio dei Diritti Umani di lunedì, Israele semplicemente ignori il rapporto.

In un articolo pubblicato all’inizio di questo mese Avi Shlaim, professore emerito di relazioni internazionali all’Università di Oxford, ha difeso Albanese dopo le accuse contro di lei di antisemitismo in risposta al suo rapporto di settembre. Schlaim ha scritto che l’approccio di Israele nei confronti delle Nazioni Unite, spesso caratterizzato da disprezzo, si trasforma in “derisione [che] lascia il posto a un’inesorabile denigrazione” di coloro che indagano sulle pratiche di Israele e cercano di indurlo a risponderne”.

“Albanese è un’ esperta internazionale straordinariamente competente e coscienziosa”, scrive Schlaim. Non merita altro che credito per il coraggio e l’impegno che ha dimostrato nell’adempimento del suo mandato presso le Nazioni Unite. Può persino esibire come simbolo d’onore la maggior parte degli attacchi contro di lei da parti sioniste.

“I tre pilastri principali dell’ebraismo sono verità, giustizia e pace”, scrive Schlaim. Albanese incarna questi valori in misura straordinariamente alta. E ci saranno molti ebrei in tutto il mondo, turbati dal tradimento da parte di Israele di questi fondamentali valori ebraici, soprattutto dopo la formazione del governo di coalizione violentemente anti-palestinese, di estrema destra, xenofobo, omofobo e apertamente razzista guidato da Benjamin Netanyahu, che dovrebbero ringraziarla per aver sostenuto questi valori in un momento critico della storia di Israele”.

I sostenitori di una pace giusta dovrebbero stampare il rapporto della Relatrice Speciale, aggiungere una breve nota personale e spedire copie evidenziate ai loro rappresentanti politici eletti e ai media locali.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cisgiordania: indignazione dopo che le forze dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno arrestato un giornalista

Fayha Shalash, Ramallah, Palestina occupata

15 luglio 2023 – Middle East Eye

L’arresto di Aqil Awawdeh segna l’ultima mossa di un evidente giro di vite contro il dissenso in tutta la Cisgiordania occupata

E’ esplosa la rabbia in tutti i territori palestinesi occupati dopo l’arresto di un importante giornalista da parte delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La famiglia di Aqil Awawdeh ha detto che le forze del Servizio di Sicurezza Preventivo Palestinese hanno fatto irruzione nel suo posto di lavoro a Ramallah nel pomeriggio di giovedì, lo hanno arrestato e trasferito in una destinazione ignota.

L’arresto è avvenuto dopo che ha pubblicato un breve video che contestava un’affermazione del portavoce dei servizi di sicurezza palestinesi secondo cui non vi erano detenuti politici nelle loro prigioni.

Alcune ore dopo il suo arresto l’associazione Avvocati per la Giustizia ha annunciato che la detenzione di Awawdeh era stata prorogata fino a domenica.

Il capo dell’associazione, l’avvocato Muhannad Karaja, ha detto a Middle East Eye di aver potuto far visita a Awawdeh per pochi minuti in modo da ottenere il suo consenso alla nomina di un avvocato difensore per seguire il procedimento giudiziario.

Secondo Karaja il giornalista è detenuto dall’Ufficio del Pubblico Ministero con accuse di “incitamento al conflitto razziale” sulla base di post su social media attribuiti a Awawdeh.

Domenica si terrà una seduta investigativa su di lui ed è possibile che venga rilasciato dal Pubblico Ministero, o che venga prolungata la sua detenzione in tribunale, o che venga formulata un’incriminazione”, ha aggiunto.

L’associazione ha condannato l’arresto di attivisti, come anche la Cybercrime Law (legge sui crimini informatici) dell’ANP, che secondo loro aveva di fatto legalizzato la repressione delle libertà pubbliche e dei diritti costituzionali.

Secondo l’associazione la legge viola la Legge Fondamentale palestinese e gli standard internazionali sui diritti umani, compresa la Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici.

La Cybercrime Law è stata approvata nel 2017 dopo la promulgazione del presidente dell’ANP, Mahmoud Abbas. Nonostante le critiche alla legge da parte di istituzioni della società civile, soprattutto le associazioni per i diritti umani, essa è ancora in vigore.

Come risultato, decine di palestinesi sono stati arrestati e sono state presentate denunce.

Decine di prigionieri

La questione della detenzione politica è un punto dolente per molti palestinesi, accanto alle critiche complessive sui servizi di sicurezza palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Asmaa Harish, attivista per i diritti umani e giornalista, ha detto che 40 prigionieri sono stati trattenuti dai servizi di sicurezza palestinesi con motivazioni politiche.

Ha aggiunto che dall’inizio del 2023 si sono verificati più di 300 casi di arresti politici nella Cisgiordania occupata, inclusi studenti universitari, giornalisti e attivisti.

In particolare i giornalisti hanno subito dall’inizio dell’anno molti arresti e aggressioni, comprese campagne di diffamazione e istigazione da parte dei servizi di sicurezza, oltre a ripetute minacce di arresto e di sospensione dal lavoro”, ha spiegato Harish.

Ha detto che le affermazioni che non ci sarebbero detenuti politici dimostrano “una mancanza di rispetto verso le opinioni dei palestinesi”, che vedono ogni giorno la dimensione delle violazioni della loro libertà di esprimere la propria opinione.

Per esempio, la campagna di istigazione contro la rete di informazione internazionale Al Jazeera è un aspetto di ciò che subiscono i giornalisti da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese, oltre a molte altre reti di informazione.”

Il sindacato dei giornalisti palestinesi ha condannato l’arresto di Awawdeh e ha chiesto il suo immediato rilascio, affermando che il suo arresto costituisce una grave violazione della libertà di opinione e del diritto di esprimerla.

La tempistica dell’arresto nella sera di giovedì alla vigilia del weekend, che si estende fino al mattino della domenica, mira a impedire il suo veloce rilascio”, ha affermato l’associazione in una dichiarazione.

I servizi di sicurezza palestinesi hanno trattenuto molti studenti dell’università di Birzeit per più di un mese, incluso il capo de consiglio studentesco, Abdul Majeed Hasan. La loro detenzione è stata prorogata diverse volte dopo la loro partecipazione alle elezioni studentesche in maggio.

L’avvocato Mustafa Shatat ha detto che gli studenti sono stati torturati durante l’arresto e nell’ultima udienza in tribunale uno di loro, Yehia Farah, ha urlato: “Portatemi fuori di qui, voglio andare a casa”.

Sabato mattina fonti locali hanno comunicato che i servizi di sicurezza palestinesi hanno anche arrestato sei studenti dell’università nazionale Al-Najah di Nablus, a causa della loro partecipazione all’organizzazione di una cerimonia di laurea tenuta dal Blocco islamico alcuni giorni fa.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Perché i pogrom dei coloni stanno squassando la Cisgiordania proprio ora

Menachem Klein 

26 giugno 2023 +972

Frustrati dalle reazioni armate ai loro pogrom, i coloni continueranno a propugnare la supremazia ebraica con ogni mezzo necessario.

A volte un evento è così estremo da strappare il paraocchi della deliberata ignoranza alla società ebraico-israeliana. Il pogrom di Huwara lo scorso febbraio in cui centinaia di coloni hanno incendiato la città palestinese nella Cisgiordania occupata è stato un evento del genere. I pogrom della scorsa settimana a Turmus Ayya, Urif e Umm Safa hanno aperto ulteriormente il quadro, costringendo molti israeliani a guardare in faccia a una realtà presente da tempo e che senza dubbio può peggiorare.

Il problema principale non è però nel sottoprodotto dell’occupazione – il terrorismo dei coloni ebrei – ma nell’attività di routine di Israele nei territori. In effetti, la decisione dei dirigenti della sicurezza israeliana di etichettare i pogrom come “terrorismo” indica che il paraocchi è stato levato solo in parte: semplicemente non vogliono che il terrorismo ebraico interferisca o metta in imbarazzo l’autorità di esercito, Shin Bet e polizia.

L’insediamento coloniale è di per sé un atto violento, che sia fatto in accordo con la legge israeliana o con una legge che lo legittima retroattivamente. È violento perché i coloni impongono la loro presenza agli abitanti autoctoni e li privano della terra, dell’acqua, della libertà di movimento e dei diritti umani fondamentali. È un sistema organizzato di violenza per conto dello Stato.

La simbiosi tra esercito e coloni non si limita alla violenza; esiste anche nella concezione che hanno della loro missione. I coloni definiscono esplicitamente la loro missione come l’ebraizzazione dell’area, e lo fanno in modo efficace e coerente. La missione dell’esercito non è garantire la sicurezza a tutti i residenti nei territori – come il diritto internazionale richiede alla potenza occupante – ma piuttosto proteggere i coloni dalle reazioni dei nativi palestinesi, ai quali non è permesso difendersi, né con l’aiuto delle forze di sicurezza palestinesi, né istituendo una propria guardia nazionale.

Il fattore che determina se la vita e la proprietà di un residente della Cisgiordania saranno protette è se è ebreo o meno.

Anche l’espansione delle colonie in risposta all’assassinio di israeliani – come alte cariche del governo si sono impegnate a fare la scorsa settimana – non è un’innocua azione civile. È una violenza senza immediato spargimento di sangue, ma che inevitabilmente genererà una resistenza palestinese seguita da una sanguinosa repressione dell’esercito.

I palestinesi sono tollerati solo se si annullano nel paesaggio, diventando oggetti inanimati che rinunciano alla loro identità collettiva. Ma finché mantengono quell’identità sono per definizione il nemico. L’esercito e lo Shin Bet continueranno a controllarli con dati biometrici ed elettromagnetici che tracciano la loro posizione, le loro azioni e i pensieri espressi nelle telefonate e sui social media. La completa dipendenza dei palestinesi da Israele per i permessi rende facile per le autorità israeliane raccogliere informazioni sulla loro famiglia e le condizioni mediche, le tendenze sessuali, le debolezze personali e l’inquadramento sociale e utilizzare tali informazioni come arma per costringerli a collaborare.

Il predominio ebraico è chiaro come il sole e il popolo palestinese sta sanguinando fisicamente e politicamente. Tuttavia, man mano che le colonie si espandono e l’esercito interviene aumenta l’attrito, e così anche la motivazione palestinese a reagire. Oggi la violenza palestinese ha poca speranza di liberare la Cisgiordania la disparità di potere tra le parti è fin troppo evidente. Piuttosto, intende far pagare un prezzo, un qualsiasi prezzo, ai colonizzatori.

Una frustrazione pericolosa

Questa reazione frustra i coloni. Com’è possibile che tutto il loro potere e la loro supremazia non abbiano ancora cancellato l’identità e la resistenza palestinese? Questa frustrazione è ciò che muove i pogrom, come quelli che abbiamo visto la scorsa settimana, che poi spingono l’esercito e il governo a usare ancora più forza nell’espandere il progetto di insediamento coloniale. Solo pochi giorni fa, il Col. (Forze di Riserva) Moshe Hagar, capo dell’accademia premilitare nella colonia di Beit Yatir, ha invocato la distruzione di una città o di un villaggio palestinesi per dare una lezione ai palestinesi. Nel frattempo Bezalel Smotrich che funge sia da Ministro delle Finanze che come Ministro incaricato degli Affari Civili in Cisgiordania, ha definito “sbagliato e pericoloso” qualsiasi paragone tra ciò che ha definito “terrore arabo” e le “contro-operazioni di civili”.

La loro frustrazione oggi è maggiore di quanto non fosse in passato. Negli anni ’80 e ’90 i coloni nei territori occupati si sono trasformati da movimento civile sostenuto dalla classe dirigente in classe dirigente essi stessi. Si sono fatti strada nei livelli esecutivi degli ambiti governativi di amministrazione e sicurezza che controllano la popolazione palestinese e la sua terra. Oggi, sotto l’attuale governo di estrema destra, hanno raggiunto l’apice del potere. Non pensano affatto a riconoscere dei limiti al proprio potere, perché la direzione delle loro ambizioni politiche è diretta e inequivocabile. Non devono ritrarsi.

L’idea di contenere il conflitto per non perdere il controllo – come sperano di fare esercito, Shin Bet e polizia – è per loro inaccettabile, poiché la loro frustrazione è pari al loro estremismo politico e teologico. I coloni stanno spingendo i dirigenti della sicurezza ad agire secondo la visione di Hagar. A differenza dell'”Operazione Scudo Difensivo” – quando l’esercito israeliano distrusse fisicamente e politicamente l’Autorità Nazionale Palestinese nel 2002 attraverso devastanti invasioni urbane – oggi non c’è più una leadership da decimare. L’ANP sotto il presidente Mahmoud Abbas l’ha già fatto per Israele. L’appello della destra israeliana a lanciare “Scudo Difensivo II” è invece un invito a porre i civili palestinesi come obiettivo centrale piuttosto che come semplice e accettabile effetto collaterale.

La fine del conflitto e la soluzione dei due Stati non sono più interessanti per l’opinione pubblica israeliana e per la comunità internazionale. In mancanza di una soluzione – o più precisamente, della volontà di perseguirne una – i governi stranieri, compresi gli Stati arabi, hanno permesso a Israele di creare un regime unico nell’intera area compresa tra il fiume e il mare senza dover dichiarare ufficialmente l’annessione.

Il fatto che due popoli diversi vivano sotto due sistemi di leggi e un unico potere significa che Israele sta attuando pratiche di apartheid, supremazia razziale e governo militare non come una questione di politica estera, ma piuttosto come politica interna.

Questo è il motivo per cui, ad esempio, il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir sta cercando di istituire una propria milizia privata, per avere il potere di sottoporre i cittadini palestinesi di Israele alla detenzione amministrativa e per approfondire la penetrazione dello Shin Bet nella vita dei cittadini palestinesi di Israele. E, sulla scia degli eventi del maggio 2021 [grave esplosione di violenza iniziata il 10 maggio 2021 e continuata fino all’entrata in vigore del cessate il fuoco il 21 maggio, ndt.] l’esercito israeliano ha ora elaborato piani per agire contro i cittadini palestinesi in caso di conflitto.

I dirigenti di Israele si stanno rendendo conto che devono piegare ulteriormente la legge alla loro volontà, altrimenti l’identità dell’intera area tra il fiume e il mare non sarà mai esclusivamente ebraica. E, sfortunatamente, la sinistra ebraica sionista non ha né la visione né il coraggio per impedire questa tendenza.

Menachem Klein è professore di Scienze Politiche all’Università Bar Ilan. È stato consigliere della delegazione israeliana nei negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2000 ed è stato uno dei leader dell’Iniziativa di Ginevra. Il suo nuovo libro, Arafat e Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed [Arafat e Abbas: ritratti di leadership in uno Stato rinviato], è stato appena pubblicato da Hurst London e Oxford University Press New York.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cisgiordania: sviluppo della resistenza armata palestinese nei campi profughi contro i raid israeliani

Leila Warah, Tulkarem, Cisgiordania occupata

24 giugno 2023 – Middle East Eye

Nur Shams a Tulkarem è il più recente campo di rifugiati ad organizzare delle brigate mentre le incursioni israeliane diventano un elemento costante nelle vite dei palestinesi

Un piccolo gruppo di giovani, di cui tre armati di fucili informalmente imbracciati, staziona fuori da un supermercato. Fissano con circospezione qualunque sconosciuto che entri nel campo profughi, stando all’erta per individuare forze israeliane che possano fare irruzione in qualunque momento.

La scena potrebbe facilmente svolgersi a Jenin o Nablus, due città palestinesi nel nord della Cisgiordania occupata che hanno ricevuto attenzione internazionale per la loro resistenza armata contro l’occupazione di Israele.

Benché i giovani siano del nord, non provengono né da Jenin né da Nablus. Vengono dal campo profughi di Nur Shams a Tulkarem, ancora più ad ovest, e sono membri di un gruppo di resistenza armata recentemente creatosi nella zona.

In un vicolo del campo il 24enne leader delle brigate Tulkarem, Mohammad, dice a Middle East Eye di credere che l’occupazione israeliana non abbia lasciato ai giovani della Cisgiordania altra scelta che rivolgersi alla resistenza armata.

L’occupazione israeliana è la nemica di Dio, perciò io lotto per riavere la nostra terra in nome di Dio”, dice. “Il nostro problema non è che loro sono ebrei, è che stanno occupando la nostra terra.

Se vieni da noi con la violenza la nostra unica opzione è rispondere con la violenza. L’occupazione non ci lascia alcuno spazio di mediazione, solo i fucili.”

Una dura realtà e un futuro nero’

Le Brigate Tulkarem sono nate a febbraio e sono sotto il comando delle brigate Al-Quds, l’ala militare del movimento della Jihad islamica.

Sono formate da 15 militanti del campo di Nur Shams di età tra i 16 e i 25 anni, che si impegnano a “difendersi” contro l’occupazione militare di Israele attraverso la resistenza armata. 

Siamo all’inizio della resistenza. Tutto ciò che è accaduto non è che l’inizio. Stanno emergendo nuove generazioni e la libertà sarà nelle loro mani e sarà ottenuta da loro”, dice Mohammad.

La gente del posto dice che il campo profughi di Nur Shams subisce quasi ogni giorno incursioni militari, incluse cinque operazioni su larga scala in questo anno.

Questa generazione è nata in una dura realtà e un nero futuro. Ogni giorno l’occupazione fa incursione nel campo e arresta i loro padri. Uccidono i loro amici e distruggono tutto”, dice a MEE Ibrahim Al-Nimr, di 51 anni, un attivista che lavora per la Società dei Prigionieri Palestinesi.

Il gruppo crea dei posti di blocco a tutte le entrate del campo e le tiene chiuse tra mezzanotte e mezzogiorno per contrastare le frequenti incursioni e neutralizzare agenti israeliani sotto copertura.

Niya Jundi, abitante di Nur Shams, dice che la comunità “incoraggia gli sforzi della giovane e resiliente generazione che vuole vivere in un Paese libero.”

Ovviamente ci sono inconvenienti nella resistenza. Ci rende più difficile accedere ai servizi, ma è un nostro diritto imbracciare le armi finché non saremo liberi dall’occupazione.”

Una rete di resistenza armata

I locali dicono che la nascita della Brigata Tulkarem è stata indotta dal “martirio” dell’abitante di Nur Shams Saif Abu Libda.

Nato e cresciuto nel campo, Abu Libda si è unito alla Brigata Jenin e sperava di portare un giorno la resistenza armata a casa sua a Nur Shams, cosa che avrebbe completato il “triangolo della resistenza del nord” tra Jenin, Nablus e Tulkarem.

Il 2 aprile 2022 le forze israeliane gli hanno teso un’imboscata e lo hanno ucciso insieme a Saeb Abahra, di 30 anni, e Khalil Tawalbeh, di 24, mentre stavano guidando a Jenin. Tutti e tre erano membri delle Brigate Al-Quds, ma al momento sembra che non fossero impegnati in scontri armati.

Tutti i gruppi di resistenza in Cisgiordania sono in contatto tra di loro. Tutti abbiamo lo stesso obbiettivo”, dice Mohammad.

Jamal Huweil, professore di scienze politiche e relazioni internazionali all’università arabo-americana di Jenin, dice che, come Abu Libda, gente da tutta la Cisgiordania – comprese Tubas, Nablus, Balata e Hebron – è andata a Jenin per conoscere la lotta armata.

Con l’intensificarsi della resistenza armata in Cisgiordania, Israele ha ufficialmente dato inizio alla campagna ‘Spezzare l’Onda’ nel marzo 2022, conducendo incursioni militari quasi quotidiane in tutta la Cisgiordania e incrementando la politica di sparare per uccidere, con la conseguenza di arresti di massa e di segnare l’anno più mortale per i palestinesi nei territori occupati dopo la seconda Intifada due decenni fa.

Huweil ritiene che Israele abbia chiamato così l’operazione riferendosi a Jenin, dove è iniziata l’“onda”.

Israele considera il campo profughi di Jenin un’incubatrice di resistenza. L’onda continua ed ha raggiunto Nablus, il campo profughi di Nur Shams a Tulkarem e il campo profughi Aqbat Jabir a Gerico. Jenin è la fonte della resistenza palestinese e a sua volta un problema per Israele”, dice a MEE.

Anche con la crescita della resistenza armata, Huweil specifica che i rapporti di forza tra l’esercito di prima classe di Israele e i giovani militanti siano molto sproporzionati.

Non c’è paragone, quando loro hanno elicotteri Apache, aerei da ricognizione e unità speciali contro un gruppo di combattenti dotati del minimo indispensabile”, dice.

Mentre la resistenza armata palestinese si diffonde, i leader israeliani hanno invocato l’ “Operazione Scudo Difensivo 2”, con riferimento all’invasione militare su larga scala della Cisgiordania nel 2002 durante la seconda Intifada.

Ci sono discussioni interne se Israele debba espandere le proprie operazioni, ma sospetto che, se proseguiranno su questa strada, la resistenza si farà più forte e agguerrita”, dice Huweil.

Coordinamento della sicurezza palestinese e israeliana

Dirigenti palestinesi e israeliani si sono incontrati due volte quest’anno, a Aqabat in Giordania e a Sharm el Sheikh in Egitto, per discutere dell’economia palestinese, del ridimensionamento della violenza e del ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nel disperdere la resistenza armata in Cisgiordania.

Tuttavia molti palestinesi sono delusi dai colloqui di pace e dalla diplomazia tra dirigenti e denigrano il coordinamento sulla sicurezza tra ANP e Israele per stroncare la resistenza armata, che ha provocato l’insorgere di tensioni in luoghi come Nur Shams.

Il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas non crede nella resistenza armata. Incontra politici israeliani per discutere di situazioni di sicurezza e di economia perché sono fattori che spingono la gente a ribellarsi”, dice Huweil. “Sono spaventati che l’onda del campo di Jenin si allarghi e raggiunga tutta la Cisgiordania, Gaza e il Libano.”

Mohammad dice a MEE che “i colloqui politici non servono a niente. Ci abbiamo provato e sono finiti nel nulla. L’unica strada per riavere la nostra libertà è la forza.”

Sebbene qui l’ANP faccia pressioni sulla resistenza armata, tentando di offrire denaro per abbandonare la resistenza armata ed entrare nella polizia, non concluderà niente”, dice.

L’esercito israeliano non segue le norme internazionali, non segue nessuna regola.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele rilascia un palestinese arrestato mentre accompagnava la moglie ad una visita per un trattamento oculare

Maha Hussaini – Gaza City, Striscia di Gaza assediata

1 maggio 2023 – Middle East Eye

Hassan Abumustafa è stato arrestato nel novembre 2021 al valico di Erez nonostante avesse ricevuto l’autorizzazione a recarsi con sua moglie in Cisgiordania

Dopo mesi di attesa Khaldiya Abumustafa aveva finalmente ottenuto un permesso israeliano che le concedeva di lasciare Gaza City per entrare nella Cisgiordania occupata e sottoporsi a un intervento chirurgico agli occhi, accompagnata dal marito.

Felice di poter riacquistare la capacità di vedere correttamente grazie a cure mediche non disponibili nella Striscia di Gaza, Khaldiya è arrivata con il marito Hassan Abumustafa al confine di Erez la mattina del 24 novembre 2021.

Raggiunto il versante israeliano del valico – l’unico per i palestinesi che vogliono spostarsi tra Gaza e il resto del territorio palestinese occupato – a Khaldiya è stato chiesto di aspettare nell’atrio, mentre suo marito è stato convocato per un interrogatorio.

Trascorse circa 15 ore un ufficiale israeliano è entrato nella sala dove lei stava perdendo la speranza di riuscire a rispettare l’appuntamento in ospedale e le ha ordinato di tornare a casa senza il marito.

“Tuo marito rimane con noi – è in arresto”, le ha detto l’ufficiale.

Hassan, avendo già ricevuto un permesso di uscita e l’assenso da parte del corpo di sicurezza delle autorità israeliane per il passaggio attraverso il confine di Erez, è rimasto sorpreso nel ricevere l’informazione che sarebbe stato perseguito in base ad accuse di “appartenenza a un’organizzazione terroristica”.

Dopo diversi interrogatori e udienze giudiziarie è stato condannato a 18 mesi di carcere.

Martedì, dopo aver scontato la pena, Hassan è stato rilasciato ed è tornato presso la sua famiglia in un campo profughi di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza.

Tuttavia Khaldiya deve ancora sottoporsi a un intervento chirurgico agli occhi.

Ore di interrogatorio

Mia moglie ha una lesione corneale. Aveva bisogno di sottoporsi urgentemente a un trapianto di cornea in modo che le sue condizioni non si aggravassero. E poiché era difficile farlo a Gaza abbiamo avviato le procedure necessarie per ottenere una prestazione medica presso un ospedale in Cisgiordania, ha detto Hassan a Middle East Eye due giorni dopo il suo rilascio.

Già dopo il primo tentativo abbiamo ottenuto un permesso israeliano e ci siamo subito diretti a Erez”.

Ai pazienti che ricevono permessi di uscita israeliani per ricevere cure mediche nei territori palestinesi occupati è consentita la presenza di un accompagnatore, sebbene i minori possano incontrare maggiori difficoltà nell’ottenere i permessi, il che spesso ha come conseguenza il fatto che essi viaggino da soli senza i genitori.

Dopo aver aspettato con mia moglie nell’atrio per un paio d’ore un ufficiale israeliano mi si è avvicinato e mi ha chiesto di seguirlo. Ho superato diversi controlli di sicurezza prima che mi portasse in una stanza dove sono stato perquisito”, riferisce Hassan.

Gli è stato quindi detto di aspettare altre due ore e il suo cellulare è stato confiscato prima che iniziasse un interrogatorio di otto ore.

L’ufficiale dell’intelligence mi ha chiesto di parlargli di me. Gli ho detto il mio nome, il numero dei miei figli e il motivo per cui io e mia moglie dovevamo andare in Cisgiordania. Poi ha detto: ‘No, voglio che tu mi parli delle tue affiliazioni'”, prosegue Hassan.

“Gli ho detto che non avevo alcuna affiliazione e che se avessi avuto dei trascorsi politici non mi sarebbe stato permesso di lavorare nei territori occupati nel 2000 e non avrei presentato una richiesta per accompagnare mia moglie per le cure”.

L’ufficiale israeliano ha informato Hassan che un altro palestinese che era stato precedentemente interrogato al confine di Erez aveva confessato che Hassan era affiliato al movimento palestinese della Jihad islamica (PIJ).

Dal 2016 Israele ha intensificato gli interrogatori per i palestinesi che tentano di attraversare il valico di Erez.

Prima che le autorità israeliane possano elaborare le domande di permesso, molti studenti, uomini d’affari, pazienti e loro accompagnatori devono sottoporsi a un interrogatorio da parte degli agenti della sicurezza.

Mi ha detto che hanno cercato nel mio telefono e hanno trovato precedenti contatti telefonici con persone affiliate alla Jihad islamica. Gli ho detto che lavoravo come portiere in uno dei siti della Jihad e che questo non era un crimine poiché non avevo contribuito ad alcuna attività militare. La mia responsabilità era aprire e chiudere il cancello, e lavoravo lì per lo stipendio, dice a MEE il padre di otto figli.

Mentre hanno iniziato a chiedermi informazioni su diversi membri e attività della Jihad ero solo preoccupato per mia moglie, che era stata lasciata ad aspettare da sola e non sapeva cosa stesse succedendo. Ho chiesto di lei e l’ufficiale ha detto: “Non preoccuparti, chiameremo qualcuno da Gaza perché venga per accompagnarla in Cisgiordania”. Più tardi ho saputo che era una bugia e che era stata lasciata ad aspettare fino a notte, poi le è stato negato l’ingresso ed è stata rimandata a Gaza”.

“Come una trappola”

In alcuni casi anche dopo che i pazienti ricevono i permessi israeliani per entrare nei territori occupati per le cure le autorità israeliane annullano i permessi alla frontiera e negano loro l’ingresso.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2022 sono state presentate dalla Striscia di Gaza bloccata 20.411 domande di permessi di uscita per motivi medici, di cui 6.848 (34%) sono state respinte.

Inoltre, 219 pazienti sono stati sottoposti ad un interrogatorio israeliano al valico di Erez, inclusi 66 malati di cancro, 38 donne e 26 anziani. A circa il 91% di loro è stato negato il permesso di uscita.

L’ufficiale israeliano mi ha detto che ero ufficialmente in arresto e che sarei stato perseguito. Sono stato ammanettato mani e gambe, poi trasferito con un veicolo israeliano in un centro di interrogatorio, dove sono stato ulteriormente interrogato per 26 giorni, poi condannato a 18 mesi di prigione, prosegue Hassan.

Ero come in una trappola. Quando ho presentato la richiesta per accompagnare mia moglie, loro conoscevano già il mio background e la mia professione e mi hanno comunque concesso il permesso per facilitare il mio arresto”.

Islam Abdu, portavoce del Ministero per le questioni dei detenuti e degli ex detenuti di Gaza, ha riferito a MEE che dall’inizio del 2023 sono stati arrestati al confine di Erez otto palestinesi di Gaza, tra cui il malato di cancro Ahmed Abu Awwad, 55 anni, che è stato rilasciato un mese dopo, e Naim al-Sharif, 63 anni, che accompagnava la moglie per cure mediche.

In molti casi il valico di Erez serve come tramite per trattenere i residenti di Gaza. L’occupazione israeliana concede loro i permessi di uscita per attirarli, quindi arrestarli e sottoporli ad una pena”, dice Abdu.

Abbiamo documentato diversi casi in cui le autorità israeliane hanno arrestato pazienti e familiari che li accompagnavano, compresi pazienti in condizioni critiche che necessitavano di cure mediche urgenti”.

Perdita della speranza di una cura

Dopo diverse settimane, quando a sua moglie è stato permesso di fargli visita in prigione, Hassan ha saputo che non si era ancora sottoposta all’intervento e che le sue condizioni stavano peggiorando

Khaldiya ha detto a MEE che dopo la detenzione di suo marito ha presentato tre domande per un trattamento medico nella Cisgiordania occupata.

Non ha ancora ricevuto il permesso.

Ora riesco a malapena a vedere; sto lentamente perdendo la vista e la cosa peggiore è che soffro per un dolore molto intenso. Vivo grazie agli antidolorifici”, ha detto. E’ come se i miei bulbi oculari stessero per cadere dalla faccia. Passo le notti tra la cucina e la mia camera da letto cercando di alleviare il dolore con il ghiaccio.

Quel giorno, durante le lunghe ore di attesa al confine di Erez, avevo il terrore che venisse arrestato. Siamo arrivati alle otto del mattino e solo verso le 11 di sera sono stata informata che era stato arrestato e che mi era stato negato l’ingresso. Sono scoppiata in lacrime e sono tornata a casa perché non potevo farci niente”.

Essendo Hassan il principale sostegno della famiglia sua moglie, i figli e la madre, che vive con loro, durante la sua prigionia hanno avuto difficoltà ad affrontare le spese.

La Commissione per i detenuti ed ex detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese ha concesso alla sua famiglia uno stipendio mensile di 1.800 shekel israeliani (455 euro), ma sua moglie gli inviava 700 shekel (182 euro) per comprare il cibo necessario e coprire i suoi bisogni primari all’interno della prigione.

La caffetteria all’interno del carcere fornisce articoli di base dichiaratamente economici a prezzi molto alti. Settecento shekel potevano a malapena coprire i suoi bisogni primari aggiunge Khaldiyya.

Oggi Khaldiyya, dopo aver perso la speranza di ottenere un permesso israeliano, sta cercando in alternativa di sottoporsi all’operazione a Gaza.

Ci stanno punendo per crimini che non abbiamo commesso, dobbiamo trovare una soluzione con quello che abbiamo”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)