Incoraggiato da Trump, Israele stringe la presa su Gerusalemme

Tamara Nassar

15 febbraio 2018, Electronic Intifada

Israele ha iniziato i lavori per un nuovo grande progetto di insediamento nella Gerusalemme est occupata. Secondo il “Palestinian Center for Human Rights” [“Centro Palestinese per i diritti umani”, ndt.] (PCHR), lo scorso martedì pomeriggio sono iniziati i lavori per la costruzione di un centro per studi religiosi ebraici nella Città Vecchia di Gerusalemme.

Il centro è a poca distanza dalla moschea di Al-Aqsa, uno dei luoghi più sacri per l’Islam. Il PCHR ha affermato che il progetto è una diretta violazione dei diritti palestinesi su Gerusalemme, e che “altererebbe e cambierebbe gravemente le caratteristiche storiche della città.”

Fa parte di un piano per eliminare la cultura palestinese, reinventare la storia di Gerusalemme in base ad una narrazione sionista ed espellere i palestinesi dalla città.

Il progetto è iniziato nello stesso momento in cui le autorità israeliane stanno installando un posto di blocco militare alla Porta di Damasco, una delle entrate della Città Vecchia, frequentemente utilizzata dai palestinesi.

La decisione del presidente Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele sembra aver dato “via libera alle autorità israeliane per espropriare il territorio palestinese, in particolare nella Gerusalemme occupata, a favore dei progetti di colonizzazione,” ha aggiunto il PCHR.

Le autorità israeliane hanno approvato il piano nel 2015. Il progetto prevede la costruzione di un edificio di tre piani su 2.800 m2 a Gerusalemme est.

La costruzione di questa colonia violerebbe le leggi internazionali.

Violerebbe anche una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvata nel dicembre 2016, che afferma che Israele deve “cessare immediatamente e completamente ogni attività di colonizzazione nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme est.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha chiesto ai governi del resto del mondo di bloccare la costruzione del progetto e di fare pressioni su Israele perché rispetti le leggi internazionali.

Imposizione di tasse alle Chiese palestinesi

I palestinesi stanno anche condannando la decisione di Israele di iniziare a raccogliere tasse dalle Chiese e dalle istituzioni delle Nazioni Unite a Gerusalemme.

Le autorità dell’occupazione israeliana hanno preso questa iniziativa – che è l’ultima aggressione contro la nostra capitale, Gerusalemme occupata, e contro i suoi abitanti originari – per realizzare le illusioni delle autorità occupanti di espellerli a forza,” ha affermato Yousef al-Mahmoud, un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La decisione del consiglio comunale di Gerusalemme controllato da Israele si basa su una richiesta da parte di Gabriel Hallevy, un professore israeliano di diritto, secondo cui le esenzioni di imposta per le Chiese riguardano solo le proprietà utilizzate per il culto o per insegnare la religione.

Il consiglio comunale ha iniziato a raccogliere circa 186 milioni di dollari da 887 proprietà a Gerusalemme che sono di Chiese e delle agenzie ONU, dopo aver congelato i loro conti bancari.

Le organizzazioni colpite comprendono l’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Il municipio ha già sequestrato circa 3 milioni di dollari dalla Chiesa cattolica, 2 milioni da quella anglicana, 500.000 dollari da quella armena e 161.000 dalla Chiesa greco ortodossa.

Svuotare Gerusalemme

I capi religiosi hanno affermato che Nir Barkat, il sindaco israeliano di Gerusalemme, sta violando i trattati internazionali che esentano le Chiese dalle tasse statali.

Al-Ahmoud dell’ANP ha affermato che non ci sono leggi al mondo che impongono tasse su luoghi di preghiera, tranne le leggi dell’occupazione.

Ora Israele cerca di reinterpretare queste leggi, che sono rimaste in vigore fin dai giorni dell’Impero Ottomano.

Atallah Hanna, un arcivescovo della Chiesa greco ortodossa, ha affermato che l’imposizione di tasse segna l’ultimo tentativo di Israele di svuotare Gerusalemme dalle sue istituzioni religiose e dagli abitanti palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




54 pazienti sono morti in attesa che Israele gli permettesse di uscire da Gaza

Ali Abunimah

14 febbraio 2018, The Electronic Intifada

Cinquantaquattro palestinesi sono morti l’anno scorso aspettando che Israele permettesse loro di lasciare la Striscia di Gaza per curarsi.

Una di loro era Faten Ahmed, una ragazza ventiseienne con una rara forma di cancro. E’ morta in agosto mentre aspettava da Israele il permesso di viaggiare per ricevere trattamenti di chemioterapia e radioterapia non disponibili a Gaza.

Aveva già mancato otto appuntamenti ospedalieri a causa di ritardi o rifiuti da parte di Israele del “benestare di sicurezza”, riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Ahmed è una delle cinque donne morte di cancro nello stesso mese in attesa del permesso da Israele che non è mai arrivato.

In totale, fra i morti l’anno scorso in attesa del permesso, 46 erano malati di cancro.

Uno scioccante numero di morti

Questo sconcertante pedaggio evidenzia l’impatto letale dell’assedio sempre più stretto di Israele sui due milioni di persone che vivono a Gaza.

Vediamo sempre più Israele ritardare o negare l’accesso a trattamenti che potrebbero salvare delle vite, che sia il cancro o altro, e di conseguenza un numero impressionante di malati palestinesi muoiono, mentre il sistema sanitario di Gaza – sottoposto a mezzo secolo di occupazione e a un decennio di blocco totale – è sempre meno in grado di provvedere ai bisogni della popolazione” ha detto martedì Aimee Shalan, amministratore delegato di Medical Aids for Palestinians.

La sua associazione assistenziale, insieme ad Amnesty International, Human Rights Watch, il Centro Al Mezan per i Diritti Umani e i Medici per i Diritti Umani di Israele, ha rivolto un urgente appello a Israele affinché “tolga le illegali restrizioni totali alla libertà di movimento della popolazione di Gaza, molto problematiche per coloro con gravi problemi di salute.”

Nel 2017 le autorità di occupazione israeliane hanno accettato solo il 54% delle domande di permesso a lasciare Gaza per ragioni mediche, la percentuale più bassa da quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha cominciato a raccogliere dati nel 2008.

Israele ha tragicamente rafforzato la stretta mortale; la percentuale di permessi concessi è caduta dal 92 % del 2012 all’82% del 2014 per poi scendere al 62 % nel 2016 prima di raggiungere l’anno scorso il punto più basso.

Le associazioni per la salute e i diritti umani segnalano che l’ONU e il Comitato Internazionale della Croce Rossa hanno dichiarato il blocco di terra, navale e aereo di Israele su Gaza, che impedisce i movimenti della popolazione, una “punizione collettiva” – un crimine di guerra.

I palestinesi di Gaza hanno perso più di 11.000 appuntamenti medici programmati nel 2017 in seguito al rifiuto o alla risposta fuori tempo delle autorità israeliane alle richieste di permessi”, dichiarano le associazioni.

La complicità di Egitto e Autorità Nazionale Palestinese

Le associazioni sottolineano anche come l’Egitto e l’Autorità Nazionale Palestinese con sede a Ramallah abbiano avuto un ruolo nel peggiorare la situazione: “L’Egitto ha per lo più tenuto chiuso dal 2013 il valico di Rafah alla popolazione di Gaza, contribuendo così a diminuire l’accesso alle cure mediche.”

In quanto Stato confinante con un territorio che soffre di una lunga crisi umanitaria, l’Egitto dovrebbe facilitare l’accesso della popolazione agli aiuti umanitari”, affermano. “Ciò nonostante, la responsabilità finale resta a Israele, la forza di occupazione.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha anche drasticamente ridotto il sostegno finanziario alle cure mediche fuori Gaza come parte delle sanzioni intese a forzare Hamas perché ceda il controllo sulla gestione di Gaza.

Queste restrizioni da parte dell’ ANP hanno causato almeno un morto, secondo le associazioni. Ma le autorità mediche di Gaza hanno detto che più di una dozzina di persone, inclusa una bimba di tre anni con un problema cardiaco, sono morte aspettando un sostegno economico da Ramallah.

Tutto questo accade nel mezzo di una crisi prodotta dal prolungato assedio, che ha portato al collasso di pezzi fondamentali del sistema sanitario.

In una condizione di diffusa povertà e disoccupazione, almeno il 10% dei bambini più piccoli soffre di malnutrizione cronica, a Gaza manca più della metà di tutte le medicine e le dotazioni mediche necessarie o è inferiore al fabbisogno mensile, e la cronica mancanza di elettricità ha fatto sì che le autorità abbiano tagliato sulla sanità e altri servizi essenziali”, affermano le associazioni della sanità e dei diritti umani.

Fine dell’assedio

All’inizio di questo mese, gli ospedali di Gaza hanno cominciato a chiudere i battenti poiché i generatori d’emergenza sono rimasti senza combustibile, costringendo a rimandare centinaia di operazioni chirurgiche.

Mercoledì, RT (Russia Today) ha mandato in onda questo resoconto da Gaza sulla situazione critica dei malati di cancro. La corrispondente Anya Parampil ha parlato con Zakia Tafish il cui marito Jamil è morto dopo che gli è stato più volte impedito di andare a Gerusalemme a operarsi.

L’emittente ha anche trasmesso un notiziario sul peggioramento della situazione degli ospedali nei territori.

A seguito dell’allarme ONU sull’incombente catastrofe, il Qatar e gli Emirati Arabi si sono impegnati la scorsa settimana ad un finanziamento a breve termine di 11 milioni di dollari per prevenire per qualche altro mese una catastrofe ancora peggiore.

Comunque, come notano le associazioni dei diritti umani, non c’è altra soluzione a lungo termine che la fine dell’assedio.

Le restrizioni di movimento imposte dal governo israeliano sono direttamente legate alla morte dei pazienti e all’aggravarsi delle sofferenze, dovendo i malati chiedere i permessi”, ha detto Issam Younis direttore di Al Mezan.

Queste pratiche fanno parte del regime di chiusura e di permessi che impedisce ai malati di vivere dignitosamente, e viola il diritto alla vita.”

Medical Aid for Palestinian, con sede in Inghilterra, si sta appellando alla gente perché si rivolga ai legislatori del parlamento britannico e “chieda loro di premere sul governo britannico affinché agisca per salvare delle vite a Gaza.”

(Traduzione di Luciana Galliano)

 




La crisi per la corruzione di Netanyahu: ne faranno le spese i palestinesi

Danny Rubinstein

Giovedì 15 febbraio 2018, Middle East Eye

L’iniziativa di imputare il primo ministro israeliano per corruzione potrebbe spingerlo ancor di più nelle braccia della destra nazionalista: i palestinesi ne subiranno le conseguenze

In quanto anziano giornalista israeliano che ha scritto di palestinesi praticamente fin dalla fine della guerra del 1967 [la “guerra dei Sei Giorni”, ndt.], desidero testimoniare che nelle ultime settimane i palestinesi hanno continuato a dire che la loro situazione attuale è la peggiore di sempre.

Ed è ulteriormente peggiorata in seguito al terremoto politico provocato dalla raccomandazione della polizia israeliana che Netanyahu venga imputato di corruzione. Più la situazione di Netanyahu vacilla, più dovrà appoggiarsi alla sua base tradizionale: la destra ed i coloni. Ed il prezzo verrà pagato dai palestinesi. Per spiegare il rapporto tra Netanyahu ed i palestinesi dobbiamo tornare indietro a un episodio del suo passato.

Qualche anno fa, durante una sorta di incontro a Gerusalemme tra israeliani e palestinesi, il poeta israeliano Avoth Yeshurun (il nome d’arte di Yehiel Perlmutter), si alzò e si rivolse al poeta arabo Hanna Abu Hanna.

Solo un poco”

Yeshurun spiegò di essere arrivato come un pioniere nella terra di Israele, dopo le persecuzioni in Europa, per costruire una nuova società ebraica, una società giusta. Parlò a lungo della sua scoperta di una società ed una cultura arabe che per centinaia di anni erano state all’avanguardia della civilizzazione nel mondo. “Voi arabi siete grandi e forti,” disse.

Avete avuto le prime scuole di medicina al mondo; avete portato l’algebra in Europa insieme al sistema decimale e allo zero; avete rilanciato la filosofia aristotelica; avete guidato il mondo nell’arte, nella poesia, nella scienza, nella geografia e nell’astronomia, e avete rapidamente conquistato la vastità dell’Est e parte dell’Europa.”

Yeshurun guardò Hanna Abu Hanna e gridò: “Ecco quello che vi chiedo: spostatevi un poco, solo un poco. Voi dominate dall’oceano occidentale (il Marocco) fino al Golfo Persico, 300 milioni di persone, lasciate un po’ di spazio per noi, spostatevi un poco, solo un poco!!!”

Ricordo molto bene quell’incontro perché chi parlò dopo fu un anonimo giovane arabo che si alzò per affrontare Avoth Yeshurun e disse, in sostanza: “Cosa intendi per spostarci un poco? Cosa sarebbe un poco? Sono nato a Jaffa e tutta la mia famiglia vi aveva vissuto per centinaia di anni, e non mi sono spostato un poco, mi sono spostato di un bel po’, mi sono spostato del tutto. Noi siamo rifugiati. Abbiamo perso tutto. La casa e il giardino sono persi, la famiglia si è sparpagliata dappertutto. Questo è ‘un poco’?”

Debole – e forte

Tra i palestinesi che ho conosciuto, c’è sempre stata una tensione tra la loro identificazione come arabi e quella come palestinesi. In quanto arabi fanno parte di una nazione vasta, potente e prospera, ma come palestinesi sono deboli e impotenti. Recentemente abbiamo commemorato i 100 anni dalla emanazione della dichiarazione Balfour (novembre 1917), che nella cronologia palestinese è considerata l’inizio del conflitto tra la Palestina ed Eretz Yisrael [la Terra di Israele, ndt.].

E nel corso di questo secolo i palestinesi hanno continuamente cercato l’aiuto del grande e potente mondo arabo nella loro lotta contro l’Yishuv (pre-Stato) ebraico [la comunità degli ebrei sionisti in Palestina prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, ndt.] prima e contro Israele poi. I Paesi arabi tentarono di aiutare i palestinesi. Ci furono un tentativo durante la rivolta araba del 1936-39 e ovviamente le guerre del 1948 e poi del 1967 e dell’ottobre 1973. Ma tutti questi tentativi fallirono.

Spesso a Yasser Arafat è stato chiesto cosa avesse determinato il problema palestinese ed egli ha sempre dato la stessa risposta: “Siamo stati traditi dagli arabi.” Arafat pensava che gli arabi avessero tradito i palestinesi quando firmarono l’armistizio del 1949 con Israele, e che li tradirono di nuovo quando non consentirono ai palestinesi di continuare la loro lotta popolare contro Israele.

Lui stesso venne incarcerato in Egitto quando era studente al Cairo. In seguito fu imprigionato in Libano, in Siria (1966), e perseguitato in Giordania durante il “Settembre Nero” [repressione dei palestinesi da parte dell’esercito giordano, ndt.] nel 1970. La ragione fu sempre la stessa: Arafat e i suoi nazionalisti palestinesi lealisti chiedevano che gli Stati arabi li aiutassero a lottare – e ormai da molto tempo i governanti arabi si sono rifiutati.

Il “tradimento arabo” dei palestinesi continua tuttora – più che mai. Si prenda, ad esempio, l’Egitto, lo Stato arabo più grande e forte e quello che ha lottato per i palestinesi più di quanto abbia fatto qualunque altro Paese arabo. Il regime del Cairo sotto il generale al-Sisi è in una pessima situazione. Oggi la popolazione egiziana è circa di 100 milioni di abitanti. I problemi economici sono senza precedenti.

Una volta il presidente Sadat disse a noi, un gruppo di israeliani, che comprendeva i problemi di sicurezza di Israele. “Avete sempre paura che gli arabi vi attacchino, ma la nostra paura è diversa: ogni giorno temiamo che, alla sera, non avremo abbastanza da mangiare.”

Oltre alla terribile sfida economica di alimentare un centinaio di milioni di egiziani, il regime del Cairo è minacciato dai gruppi estremisti islamici. L’ISIS [lo Stato islamico, ndt.] è attivo nella penisola del Sinai; recentemente ha operato un attacco contro una moschea a ovest di El Arish e ucciso più di 300 fedeli. Il generale al-Sisi ha grandi problemi ad affrontare l’estremismo islamico.

In questo contesto posso immaginare il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che arriva per un incontro al Cairo con al-Sisi e gli dice: “Mi devi aiutare. Gli israeliani hanno costruito altre 50 unità abitative nella loro colonia di Ma’ale Adumim ed hanno espulso e demolito le case di decine di famiglie palestinesi, e un soldato ha arrestato una ragazza a Nabi Saleh, nei pressi di Ramallah…”

In un immaginario scenario piuttosto stravagante come questo, il generale al-Sisi starebbe pensando che Abu Mazen ha perso la testa. L’Egitto sta affrontando problemi di vita o di morte di decine di milioni di persone e Abu Mazen sta parlando al leader egiziano di qualche casa mobile parcheggiata in qualche colonia. Questi sono i problemi dei palestinesi?

In questo contesto la cooperazione militare e di intelligence tra Israele e l’Egitto è migliore di quanto non sia mai stata. Israele aiuta l’Egitto nella sua guerra contro gli estremisti islamici nel Sinai. L’Egitto è diventato un vero alleato di Israele.

La situazione è simile tra Israele e la Giordania, dove il re Abdullah ha problemi economici da affrontare, con centinaia di migliaia di rifugiati siriani, e deve respingere militanti islamici sulle frontiere con la Siria e l’Iraq. La cooperazione di intelligence tra Israele ed Amman è un fatto consolidato e ben noto da molto tempo.

Alleati arabi

E c’è di più. C’è anche una cooperazione politica di livello piuttosto alto tra Israele, Arabia saudita ed Emirati. Israele, i sauditi e gli Stati del Golfo hanno un nemico comune: l’Iran. I sauditi stanno combattendo gli iraniani in Yemen – dove gli iraniani lanciano missili verso il territorio saudita – così come sul suolo siriano e libanese. Quindi ha preso forma una specie di alleanza strategica tra Israele e gli Stati arabi sunniti contro l’Iran sciita. Tutto sotto il patrocinio del presidente americano Donald Trump.

In Medio Oriente i palestinesi non hanno prospettive. Assolutamente nessuna. Nessun Paese arabo li aiuterà, ma potrebbe piuttosto danneggiarli. Benjamin Netanyahu ed il suo governo lo sanno. Possono fare tutto quello che vogliono ai palestinesi. E quindi il governo israeliano di destra continua a costruire e sviluppare le colonie della Cisgiordania.

Il 60% della Cisgiordania che, in base agli accordi di Oslo, è controllato da Israele, è stato quasi completamente annesso a Israele. Praticamente ogni settimana sentiamo di nuove leggi o regolamenti che discriminano gli arabi in Cisgiordania e in Israele. Nell’ultima settimana, per esempio, è stata approvata una legge speciale per accordare all’università della colonia di Ariel lo stesso status di cui godono le istituzioni accademiche all’interno di Israele.

Riguardo a Gaza, non c’è praticamente più niente da dire. I due milioni di palestinesi a Gaza sono stati sotto assedio per un decennio. Gli egiziani ed il regime di Ramallah fanno molto poco per aiutarli. Il risultato è che Gaza è sull’orlo di un disastro umanitario di massa. C’è energia elettrica solo da quattro a otto ore al giorno. L’acqua non è potabile. La disoccupazione è circa del 50%. L’economia è limitata alla generosità delle organizzazioni umanitarie internazionali, guidate dall’ONU, che recentemente hanno fatto notizia quando Trump ha annunciato progetti per ridurre drasticamente il loro bilancio.

Non tanto bene

Come già detto, oggi la situazione dei palestinesi è la peggiore da molto tempo a questa parte. Una società frammentata sprofondata nell’indigenza e sottoposta al potere limitato dell’Autorità Nazionale Palestinese, le cui forze di sicurezza sono diventate, in gran parte, complici di Israele.

Molti israeliani pensano che, finché i palestinesi stanno male, noi qui in Israele stiamo bene.

È così nei conflitti a somma zero. Ma nel nostro caso, non è così.

In Israele ci sono ambienti progressisti che pensano che anche noi siamo in una brutta situazione. Ormai da qualche tempo qui molte organizzazioni dei diritti umani hanno operato come l’opposizione più decisa al governo di Netanyahu.

La prova sta nella dura campagna di attacchi del regime contro le Ong. “Breaking the Silence” e i suoi soldati della riserva apertamente critici contro la condotta dell’esercito in Cisgiordania, “B’Tselem”, “Machsom Watch”, l’“Association for Civil Rights in Israel” [“Associazione per i Diritti Civili in Israele, ndt.], il “New Israel Fund” [“Nuovo Fondo Israele, ndt.]: tutte esistono da almeno 20 anni, ma solo ultimamente il governo Netanyahu le ha definite come il “Nemico numero uno”.

Netanyahu gode di ampio prestigio internazionale. È invitato nelle capitali internazionali, da Delhi a Varsavia, da Mosca a Washington. I suoi problemi sono principalmente in patria. Le critiche sono per lo più degli ambienti progressisti, all’interno di Israele, che non possono sopportare la realtà di quanto sta succedendo ai palestinesi. Egli sostiene sempre che tutte le critiche dirette contro il suo comportamento corrotto vengono da circoli progressisti di sinistra che cercano di rovesciare il suo governo.

Persino la raccomandazione della polizia di imputarlo di corruzione è vista da Netanyahu come nient’altro che un ulteriore tentativo politico da parte della sinistra traditrice di fare un colpo di stato. Quindi il grande timore è che l’attuale situazione lo spinga ancor di più nelle braccia della destra nazionalista e verso nuovi passi contro i palestinesi e contro i suoi nemici di sinistra. Mentre la presa di Netanyahu sul potere si indebolisce, i palestinesi e la sinistra progressista in Israele rischiano di pagarne il prezzo.

Danny Rubinstein è un giornalista e scrittore israeliano. In precedenza ha lavorato per “Haaretz”, dove è stato analista delle questioni arabe e membro del comitato editoriale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La difficile situazione dei lavoratori palestinesi in Israele

Senussi Bsaikri

Middle East Monitor 11 maggio 2014

L’economia palestinese è in stato di totale collasso con una tasso di disoccupazione in Cisgiordania del 31%. Ne consegue che il numero dei palestinesi che cerca lavoro in Israele è in aumento, nonostante le difficoltà da affrontare.

Su una cifra stimata di un milione di lavoratori palestinesi che vivono in Cisgiordania, solo un piccolo numero ha il permesso di lavorare legalmente in Israele. Nel 2009 non più di 23.000 palestinesi hanno avuto il permesso di lavoro. Tuttavia circa 40.000 palestinesi continuano a lavorare in Israele, quasi la metà illegalmente.

Ne consegue che la maggior parte di questi lavoratori sono sfruttati dai datori di lavoro consapevoli della loro condizione illegale, e qualche volta non vengono nemmeno pagati. Se si lamentano sono semplicemente consegnati alle autorità. I 25.000 palestinesi che si stima entrino illegalmente in Israele ogni anno vivono nella costante paura di essere catturati dalla polizia. Secondo Moshe Ben Shi, un portavoce della polizia israeliana di confine, vengono arrestati annualmente 15.000 lavoratori palestinesi illegali.

Condizioni difficili di vita e di lavoro

in un rapporto di Al Jazeera del novembre scorso (2013) un lavoratore palestinese di Tulkarem in Cisgiordania ha descritto i Territori Occupati come “una grande prigione, in cui mancano le condizioni fondamentali della vita”, da cui decine di migliaia di lavoratori palestinesi entrano in Israele senza permesso con un viaggio che richiede fino a 24 ore, anche se Tulkarem si trova in linea d’aria a solo pochi minuti da Israele. Un altro lavoratore ha riferito alla stessa fonte che rimanere in Cisgiordania era assimilabile a “una lenta morte” per cui egli e altri come lui “vanno verso l’ignoto(in Israele) senza un permesso di lavoro”. Un terzo uomo ha detto che “gli uomini non hanno paura della prigione, nè dell’oppressione dell’occupazione”, quello di cui hanno paura più di qualsiasi altra cosa è di rimanere disoccupati.

Secondo il rapporto molti lavoratori vivono all’aria aperta senza la minima dotazione necessaria ai bisogni fondamentali della vita. Non vi sono nè utensili per cucinare nè acqua per lavarsi o per fare il bucato. Quando dormono appendono i loro vestiti ai rami degli alberi e si sdraiano a terra con le scarpe pronti a scappare se la pattuglia della polizia israeliana dovesse comparire

Non vediamo le nostre famiglie per mesi. Qualche volta ti dimentichi dei tratti del viso dei tuoi figli– che crescono mentre sei via… siamo umiliati e perseguitati… lavoriamo dall’alba al tramonto per dei salari molto bassi” ha detto un lavoratore. “Immagina” ha detto un altro, “ vivere così, un giorno dentro, uno fuori, o lavorare per qualcuno per molti giorni che poi lui rifiuta di pagarti e minaccia di denunciarti alla polizia”

Le decisioni politiche peggiorano le condizioni dei lavoratori palestinesi

Le autorità israeliane spesso prendono decisioni che hanno gravi ripercussioni sui lavoratori palestinesi in Israele. Per esempio, il fondo pensione israeliano non permette più di assicurare i lavoratori palestinesi, ed è stata stabilita una tassa annuale di 1.000 dollari per ogni lavoratore palestinese che lavora all’interno della Linea Verde ( la linea dell’armistizio del 1967).

Nel 2007 il governo israeliano ha deciso di sottoporre i lavoratori palestinesi alla legge giordana, ciò che ha avuto come conseguenza la perdita da parte di decine di lavoratori di quei pochi privilegi che possedevano, mentre i lavoratori israeliani nelle stesse condizioni hanno continuato a godere dei benefici della legge israeliana. Gli osservatori ritengono che queste decisioni costringeranno molti lavoratori a lasciare il loro lavoro non essendo in grado di pagare la tassa.

Nonostante una decisione della Suprema Corte costringa i datori di lavoro e il governo israeliano a garantire ai lavoratori palestinesi la previdenza e i diritti alla pensione in base ai contributi da loro versati, le autorità israeliane non hanno applicato la direttiva della Corte. Inoltre, è stato reso noto che un lavoratore medio palestinese versa il 17,5% del suo salario per quelle idennità, senza ricevere nulla in cambio. Da molti ciò è considerato un modo per il governo israeliano di incassare grandi somme di denaro extra senza un aumento della spesa, solamente privando i lavoratori palestinesi del loro diritti.

Questo è un indice del livello di discriminazione verso i palestinesi e viola tutta la normativa internazionale sul lavoro. Contravviene anche all’Accordo Economico di Parigi siglato da Israele e dall’OLP che non permette nessuna riduzione di salario e diritti senza il consenso delle due parti.

La politica di Israele nei confronti dei lavoratori palestinesi

Le autorità israeliane hanno indebolito [la forza contrattuale de] i lavoratori palestinesi, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Israele. Non esiste alcun sindacato o movimento collettivo sindacale che si occupi dei diritti dei lavoratori.

È da notare che le politiche israeliane per l’occupazione hanno spinto i giovani palestinesi ad abbandonare la scuola e trovare lavoro presso le imprese israeliane. Sono stati offerti significativi incentivi finanziari che hanno indotto un gran numero di giovani ad abbandonare la scuola e l’istruzione superiore per andare a lavorare nelle fabbriche, nelle aziende agricole e nei cantieri edili.

Per molti osservatori ciò non è esente da pericoli, particolarmente dopo la prima intifada del 1987. L’emergere di una forza lavoro molto poco istruita avrà un grande effetto sulla struttura e natura della società palestinese. Tuttavia, le restrizioni israeliane sull’attività economica palestinese negli ultimi 60 anni di occupazione hanno reso debole il mercato del lavoro palestinese; ciò scoraggia i giovani in particolare a cercare migliori lavori attraverso l’istruzione. L’economia palestinese non è stata in grado di accogliere un gran numero di persone che cercavano lavoro

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] non ha migliorato la situazione dei lavoratori. Al contrario le condizioni sono peggiorate. il numero di occupati nelle istituzioni dell’ANP ha raggiunto le 160.000 unità, una cifra che non rappresenta le reali necessità del settore. La copertura dei salari di questa enorme forza lavoro ha impedito all’ANP di assistere altri lavoratori con il sostegno di cui abbisognavano.

La politica di chiusura in tutti i Territori Occupati e l’assedio di Gaza hanno duramente colpito la popolazione palestinese e la possibilità di trovare un lavoro. Come parte della repressione dei palestinesi, il governo israeliano ha incoraggiato l’impiego di lavoro a basso costo di persone provenienti da altri Paesi, peggiorando una situazione già pessima per i palestinesi.

Provvedimenti restrittivi sono in vigore riguardo l’occupazione di lavoratori palestinesi nei territori controllati da Israele e comprendono le seguenti[condizioni]:

– Devono ottenere un certificato di sicurezza per poter lavorare

Devono possedere una carta d’dentità magnetica contenente tutti i dettagli personali del lavoratore

– Devono pagare una tassa fino a 500 dollari al mese sia che lavorino che no.

Tali misure restrittive significano che si è formato un mercato del lavoro nero, con i lavoratori palestinesi vittime di un aperto e palese sfruttamento

Attraversare le barriere di sicurezza è il peggiore ostacolo che persino i lavoratori legali devono affrontare. Ogni giorno,devono mettersi in coda per ore per passare e poi trovare un mezzo di trasporto sino al loro posto di lavoro. Le misure di sicurezza comprendono ispezioni fisiche e controlli magnetici simili a quelli in aeroporto. Una conseguenza grave sulla salute delle frequenti esposizioni alle radiazioni durante il controllo di sicurezza è l’alto tasso di tumori fra i palestinesi. In molte occasioni, ai lavoratori viene impedito l’ingresso in Israele senza che vengano date spiegazioni. Perciò molti scelgono di rimanere la notte sul posto di lavoro per evitare di passare ogni giorno la sicurezza. Naturalmente questo significa che per lunghi periodi sono separati dai loro familiari anche se in linea d’aria si trovano molto vicini.

Effetti psicologici e sociali

Vivendo fra speranza e disperazione, avendo sempre a che fare con enormi insicurezze e umiliazioni, molti lavoratori palestinesi soffrono di problemi psicologici

Molti risultano disturbati, arrabbiati e pieni di odio per quello che gli israeliani gli stanno imponendo. Simili difficoltà e intimidazioni finiscono col creare un essere umano complesso, incapace di dividere le responsabilità della famiglia, in particolare l’educazione dei figli.

Vittime di truffe

Secondo l’agenzia di notizie Ma’an, alcuni funzionari israeliani, compresi un agente della sicurezza, un dirigente dell’amministrazione e un impiegato del Ministero dell’interno israeliano, insieme ad altri 23 israeliani e 11 palestinesi, hanno costituito una banda criminale che ha truffato migliaia di lavoratori palestinesi negli ultimi tre anni. La banda introduce clandestinamente in Israele i palestinesi e facilita l’emissione e la vendita di falsi permessi di lavoro riscuotendo il 40% del guadagno dei lavoratori

L’inchiesta condotta da Ma’an dice che dopo due giorni che i lavoratori sono entrati in Israele con documenti falsi, i loro nomi vengono dati dalla banda alle autorità israeliane che revocano il permesso in base alla mancanza di lavoro. La cancellazione del permesso di lavoro comporta la perdita dei diritti, stimabili in milioni di shekel israeliani.

Conclusione

La maggior parte dei lavoratori palestinesi che lavorano in Israele hanno bisogno di un sostegno per combattere una sofferenza finanziaria , psicologica e di sfruttamento. Molti si sentono perduti, abbandonati e alienati dalla comunità nella quale vivono e hanno un disperato bisogno di aiuto per poter condurre una vita onesta senza perdere la dignità. La comunità internazionale ha il dovere di costringere il governo israeliano ad attenersi al diritto internazionale e agli accordi sul lavoro assicurando così che i lavoratori palestinesi non vengano discriminati.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Lieberman ha ragione, a Gaza non c’è una crisi, c’è una catastrofe

Amira Hass

12 febbraio 2018, Haaretz

Una ‘crisi’ implica un punto di rottura, e Gaza c’è arrivata molto tempo fa. Siamo oltre ad una rottura nella quotidianità. Siamo ad una catastrofe umanitaria

Nella disputa tra il capo di stato maggiore ed il ministro della Difesa sul fatto se vi sia una crisi umanitaria nella Striscia di Gaza, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha ragione. Non vi è crisi. Una crisi comporta un punto di rottura di un genere che interrompe la quotidianità, che colpisce come una meteora. Non è questa la situazione di Gaza, dove si verifica un costante e previsto deterioramento. Qualunque punto sulla linea di declino è un disastro umanitario.

Il paragrafo precedente ed ogni affermazione che seguirà potrebbero essere argomento di un intero articolo, ma non ne ho il tempo. Nella rubrica “Non dite che non sapevate” si affrontano questioni urgenti e nel nord (del Paese) c’è rischio di guerra. Quindi ci atterremo ai punti principali.

Ogni due o tre mesi un’organizzazione internazionale o palestinese avverte che Gaza è sull’orlo del collasso. Non mentono. Gli avvertimenti criticano i piccoli aiuti di emergenza che non affrontano le cause e semplicemente rallentano il tasso di deterioramento. Si può sicuramente ritenere che qualche carico di medicinali e di fondi per l’emergenza stiano arrivando.

I palestinesi di Gaza sono diventati una comunità di mendicanti. È una vergogna. E la vergogna non è loro.

Gli israeliani e gli americani hanno ragione, in tutta la loro scandalosa ipocrisia, quando chiedono a Hamas perché ha i soldi per le armi, ma non per pagare l’intero salario al personale medico o per gli ospedali e le terapie.

Hamas sta imitando Israele. Come Israele, sposta l’incombenza di prendersi cura dei civili di Gaza sull’Autorità Nazionale Palestinese e sui Paesi donatori. Come Israele, pretende di controllare di fatto la Striscia di Gaza, mentre si sottrae alla responsabilità per la sua popolazione, ma con una fondamentale differenza: Israele è un occupante astuto e malvagio, che mira ad usare i disastri economici ed umanitari per costringere i palestinesi alla resa e all’emigrazione di massa. Hamas è carne e sangue della peculiare comunità palestinese che vive nella Striscia. Scaricare la responsabilità su altri mentre si pavoneggia dei propri armamenti e della lotta armata, non ha fatto che indebolire il suo popolo, il 40% del quale vuole andarsene.

Quando alti dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese, in particolare Mahmoud Abbas, parlano di “Stato di Palestina”, riconosciuto dalle Nazioni Unite, esso comprende la Striscia di Gaza. Gaza è utile per la loro narrazione politica, ma nella pratica quei dirigenti si mostrano indifferenti al destino dei cittadini di Gaza.

Il taglio del 40% dei medicinali al sistema sanitario pubblico di Gaza non è un decreto divino. Hamas e gli abitanti di Gaza hanno ragione ad accusare l’Autorità Nazionale Palestinese di ritardare deliberatamente gli invii di medicinali per far pressione su Hamas. Questo non è neanche politicamente sensato. Gli abitanti di Gaza criticano apertamente l’Autorità Palestinese, non Hamas.

Il ritardo degli invii di medicinali non è economicamente saggio. I pazienti, invece di essere curati nella Striscia di Gaza, sono indirizzati in ritardo a curarsi altrove. L’Autorità Palestinese paga ed il costo risulta pari a decine di volte il prezzo dei farmaci. Che follia!

E’ ragionevole ritenere che il tasso di malattie sia alle stelle a causa dell’acqua non potabile, della riduzione delle falde acquifere sotterranee, delle acque di scolo non trattate che vanno a finire in mare, del terreno intriso di sostanze chimiche depositate dagli innumerevoli e incessanti bombardamenti da parte di Israele; della spazzatura di cui è così difficile disfarsi; del permanente stato di paura; del numero di persone ferite e rese disabili e dei tanti che soffrono di conseguenze post traumatiche dopo aver perso i loro cari negli attacchi di Israele.

Gli abitanti di Gaza hanno una resilienza ed una capacità di resistenza che ci risulta difficile immaginare. I chirurghi stranieri che lavorano da volontari a Gaza sono meravigliati di come i bambini riescano a stare sulle proprie gambe due giorni dopo l’intervento. Ai bambini di Madrid ci vuole una settimana, mi ha detto Steve Sosebee, direttore del ‘Palestine Children’s Relief Fund’, che porta nei territori occupati centinaia di medici volontari. Questo spiega, allora, la capacità dei gazawi di affrontare la lista di malattie elencate nel paragrafo precedente?

Invece di competere tra loro su chi sia il primo a far fuori il personale sanitario e a tagliare i suoi salari, le dirigenze delle due fazioni palestinesi non potrebbero magari impegnarsi nel genere opposto di competizione: su chi sia il primo ad aumentare i salari delle equipe mediche, in base al riconoscimento dell’importanza del loro lavoro e della loro diligenza ed abnegazione nel corso degli anni, per le quali non sono state ricompensate?

Sosebee ha detto che un volontario francese è andato via con l’impressione che tutti i medici nella Striscia di Gaza siano depressi; Sosebee l’ ha definita un’epidemia di depressione. I medici sanno esattamente come curare i loro pazienti, ma non ne hanno i mezzi. È una depressione indipendente dai bassi salari che ricevono e va al di là della depressione di due milioni di abitanti imprigionati, che non possono liberamente entrare ed uscire dalla Striscia.

Con la sua politica di incarcerazione di massa, che è iniziata nel 1991 e si è rafforzata negli anni 2000, Israele sperava di spingere l’Egitto ad annettere Gaza. Non ci è riuscito. È tempo che l’Europa chieda qualcosa in cambio dei suoi finanziamenti. Gli europei dovrebbero dire che per ogni 1000 dollari che donano per salvare la Striscia, Israele deve lasciare uscire altri 1000 gazawi per studiare, lavorare, proseguire la formazione come medici ed insegnanti e per viaggiare e visitare amici e parenti.

Questo dovrebbe essere ripetuto di continuo: il sistematico periodo di semicollasso potrà essere interrotto solo quando verrà reintrodotta la libertà di movimento per persone e merci. Lasciateli lavorare, anche in Israele, come prima. Si guadagneranno una vita onesta, scambieranno ed esporteranno beni, l’erario palestinese non dovrà raccogliere donazioni dal resto del mondo e la gente vorrà tornare a Gaza perché nessuno le impedirà di andarsene.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Lasciamo che la soluzione dei due Stati muoia di morte naturale

Richard Falk

1 gennaio 2018,middleeasteye

Solo un movimento di solidarietà globale, che esercita una pressione sufficiente su Israele, può creare una trazione politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi

Nonostante tutte le apparenze contrarie, coloro che in Occidente  non vogliono unirsi al partito vittorioso israeliano si aggrappano fermamente alla soluzione dei due stati. Israele ha indicato in misura sempre crescente, con le sue azioni e parole, comprese quelle del primo ministro Benjamin Netanyahu, un’opposizione a una Palestina autenticamente indipendente e sovrana.

Il progetto di espansione degli insediamenti sta accelerando con le promesse fatte da una serie di figure politiche israeliane che nessun colono sarebbe mai stato espulso da un accordo anche se l’abitazione illegale non fosse situata in un blocco di insediamenti.

Domenica, il Partito del Likud di Netanyahu ha invitato unanimemente i legislatori a una risoluzione non vincolante  per unire efficacemente gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata, terra che i palestinesi vogliono per uno Stato futuro.

Aggrappato alla soluzione dei due Stati

Per di più, Netanyahu, anche se a volte parla come se preferisse una ripresa dei negoziati di pace, sembra più autentico quando chiede il riconoscimento di Israele come Stato del popolo ebraico come precondizione per qualsiasi ripresa dei colloqui con i palestinesi.

Per completare il tutto, la decisione di Trump del 6 dicembre dello scorso anno di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e di dare un seguito spostando l’ambasciata degli Stati Uniti toglie dai futuri negoziati una delle questioni più delicate: lo status e la condivisione di Gerusalemme.

Tutto sommato sembra giunto il momento di riconoscere tre conclusioni correlate:

(1) La leadership di Israele ha respinto la Soluzione a due Stati come via per la risoluzione del conflitto;

(2) Israele ha creato condizioni, quasi impossibili da invertire, che rendono del tutto irrealistico aspettarsi la creazione di uno Stato palestinese;

(3) Trump, ancor più dei precedenti presidenti, ha fortemente e visibilmente impegnato la diplomazia americana  a favore di qualsiasi leader israeliano cerchi la fine di questa lotta epica tra i due popoli.

Eppure molte persone di buona volontà e dedite alla pace si aggrappano alla soluzione dei due Stati.

Le parole di Amos Oz, il celebre romanziere israeliano, esprimono un sentimento ampiamente condiviso:

“… nonostante le battute d’arresto, dobbiamo continuare a lavorare per una soluzione a due Stati: rimane l’unica soluzione pragmatica e pratica di questo nostro conflitto che ha portato così tanto spargimento di sangue e dolore in questa terra”.

È anche significativo che Oz abbia fatto questa dichiarazione nel corso di un appello per il finanziamento di fine anno 2017 a favore di ‘J Street’, la voce del sionismo moderato, negli Stati Uniti.

Quello che Oz dice, ed è opinione diffusa, è che non v’è alcuna soluzione disponibile per la Palestina a meno che non ci sia uno Stato ebraico sovrano indipendente lungo i confini del 1967 come nucleo essenziale di ogni credibile accordo diplomatico.

In altre parole, ogni alternativa non sarebbe “pragmatica, pratica” secondo Oz e molti altri. Poiché questo è raramente articolato, ma sembra poggiare sull’asserzione che il movimento sionista, fin dal suo inizio, ha cercato una patria per il popolo ebraico che potrebbe essere garantita ed adeguatamente proclamata solo se sotto la protezione di uno Stato ebraico

Per molti anni la leadership palestinese, riconosciuta a livello internazionale, ha condiviso questo punto di vista e ha dato la sua benedizione formale nella sua Dichiarazione PNC/OLP 1988 che guardava all’accettazione di Israele come Stato legittimo se l’occupazione fosse finita, le forze israeliane si fossero ritirate e la sovranità palestinese stabilita entro i confini del 1967 (che erano significativamente più estesi di quelli proposti dall’ONU attraverso  la risoluzione 181 dell’Assemblea generale – cioè, Israele avrebbe avuto il 78% anziché il 55% del territorio complessivo acquisito dal mandato britannico).

Questo tipo di risultato è stato avallato anche dall’Iniziativa Pace Araba del 2002 e presentato con fiducia come soluzione durante la presidenza di Obama.

Persino Hamas ha appoggiato lo spirito dell’approccio dei due Stati proponendo nel corso dell’ultimo decennio un cessate il fuoco a lungo termine, fino a 50 anni, se Israele dovesse porre fine all’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza che in effetti avrebbero materializzato la soluzione dei due Stati di fatto: Israele e Palestina

Seri dubbi

Ci sono almeno quattro problemi, opportunamente nascosti sotto il tappeto dai sostenitori dei due Stati, uno dei quali è sufficientemente grave da sollevare seri dubbi circa la fattibilità e l’opportunità della Soluzione dei due Stati:

1 – Il sionismo liberale espresse un punto di vista verso una soluzione diplomatica che non è stata condivisa dai governi israeliani più di destra guidati dal Likud che hanno dominato la politica israeliana nel corso del 21° secolo; l’obiettivo israeliano prevedeva l’espansione territoriale – in particolare per quanto riguarda un’allargata e annessa Gerusalemme, con una vasta rete di insediamenti e collegamenti di trasporto in Cisgiordania – sostenuto dalla convinzione fondamentale che Israele non dovesse stabilire confini permanenti fino a che l’intera ‘terra promessa’ come raffigurata nella Bibbia non fosse ritenuta parte di Israele.

Palestinesi si dirigono verso un checkpoint israeliano  / AFP PHOTO / Musa AL SHAER

In effetti, nonostante qualche timidezza nell’affrontare un processo diplomatico, Israele non ha mai credibilmente avallato un impegno nei confronti di uno Stato palestinese entro i confini del 1967 basato sull’uguaglianza dei due popoli.

2 – In secondo luogo, Israele ha creato fatti concreti sul terreno che hanno definitivamente contraddetto la sua dichiarata intenzione di cercare una pace sostenibile basata sulla soluzione dei due Stati.

3 – In terzo luogo, la soluzione dei due Stati, come previsto dai suoi sostenitori, ha di fatto trascurato la difficile situazione della minoranza palestinese in Israele, che ammonta al 20% della popolazione, ovvero a circa 1,5 milioni di persone. Aspettarsi che una minoranza non ebraica così numerosa accetti l’egemonia etnica e le politiche e le pratiche discriminatorie dello Stato israeliano è irrealistica, oltre a essere contraria agli standard internazionali sui diritti umani.

4 – E infine, oltre a questo, sostenere Israele in relazione al popolo palestinese espropriato e oppresso è dipeso dalla creazione di strutture di dominio etnico che costituiscono il crimine dell’apartheid.

Smantellare le strutture dell’apartheid

Come in Sud Africa, non può esserci pace con i palestinesi fino a quando non saranno smantellate completamente le strutture dell’apartheid utilizzate per soggiogare il popolo palestinese (comprese quelle imposte ai profughi e agli esiliati palestinesi), ciò non accadrà finché la leadership e il pubblico israeliano non rinunceranno a insistere sul fatto che Israele è esclusivamente lo Stato del popolo ebraico, includendo un illimitato ed esclusivo diritto al ritorno per gli ebrei e altri privilegi basati esclusivamente sull’identità etnica.

Tutto questo ci spinge a scartare la soluzione dei due Stati come indesiderata da Israele, inaccettabile per i palestinesi e non diplomaticamente raggiungibile, anche se emergesse inaspettatamente una forte volontà politica  sinceramente dedicata alla sua attuazione.

A fronte di una tale critica situazione siamo obbligati a fare del nostro meglio per rispondere a questa domanda inquietante: “C’è una soluzione che sia desiderabile e raggiungibile, anche se non è attualmente visibile nell’orizzonte politico?”

Seguendo queste linee, prefigurate 20 anni fa da Edward Said, due principi fondamentali devono essere raggiunti se si vuole raggiungere una pace sostenibile: agli israeliani deve essere data una patria ebraica all’interno di una Palestina riconfigurata e i due popoli devono stabilire un’autorità costituzionale che difenda i principi fondamentali di uguaglianza collettiva e dignità umana individuale.

Realizzare una simile visione sembrerebbe richiedere la creazione di uno stato unificato laico, magari con due bandiere e due nomi. Vi sono molte varianti, purché sia ​​rispettata l’uguaglianza dei due popoli nelle strutture costituzionali e istituzionali del governo.

Se l’approccio liberista sionista sembra impraticabile e inaccettabile, questa sarà  l’alternativa favorita, “una inutile utopia” o al massimo una fonte di false speranze?

Se i palestinesi dovessero proporre una tale soluzione nell’attuale atmosfera politica, Israele senza dubbio o la ignorerebbe o reagirebbe in modo sprezzante, e gran parte del resto della comunità internazionale li deriderebbe. Forse, ma ciò che viene proposto è un’utopia utile e l’unico percorso realistico verso una pace sostenibile e giusta.

Non v’è dubbio che l’attuale panorama di forze è tale che è prevedibile un rigetto iniziale. Anche se  l’Autorità palestinese dovesse presentare una visione del genere sotto forma di una proposta elaborata con molta attenzione, costituirebbe nuovo terreno per un dibattito più corrispondente alle effettive circostanze affrontate dagli israeliani e dai palestinesi.

Un movimento di solidarietà globale

La principale questione politica ed etica è come creare una spinta politica per uno Stato laico condiviso ugualmente da israeliani e palestinesi. Ritengo che ciò possa avvenire solo in questo contesto se il movimento di solidarietà mondiale che attualmente sostiene la lotta nazionale palestinese eserciterà pressioni sufficienti su Israele in modo che la leadership israeliana riveda i suoi interessi. Il precedente caso sudafricano, pur differendo in molti aspetti, è tuttora istruttivo.

Pochi immaginavano che in Sudafrica una transizione pacifica dall’apartheid a una democrazia costituzionale basata sull’eguaglianza razziale fosse lontanamente possibile, fino a quando non è successo.

Prevedo una potenziale analogia riguardo Israele/Palestina, anche se indubbiamente sarebbero presenti  una serie di fattori che dimostrano l’originalità di quest’ultima fase di sviluppo. In politica, se la volontà politica e le capacità necessarie sono presenti e mobilitate, l’impossibile può verificarsi e realizzarsi, come in Sudafrica e nelle lotte contro i regimi coloniali europei nella seconda metà del XX secolo.

Inoltre, senza una tale politica di impossibilità, persisterà una sofferenza enorme. La strada per una vera pace e giustizia sia per i palestinesi che per gli israeliani deve basarsi sulla loro convivenza sulla base del rispetto reciproco in una versione matura e democratica dello Stato di diritto, sostenuta da pesi e contrappesi e diritti fondamentali costituzionalmente forti.

Chi è Richard Falk

Richard Falk è professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton. È autore o coautore di 20 libri e redattore o co-editore di altri 20 volumi. Nel 2008, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha nominato Falk per un mandato di sei anni come relatore speciale delle Nazioni Unite sulla “situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.”

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina

 




La sorgente del conflitto

Ben Ehrenreich, The Way to the Spring: Life and Death in Palestine, Penguin Press, 2016.

Amedeo Rossi

Sono ottimista perché persino nella loro disperazione, senza nessun motivo di speranza, le persone continuano a resistere. Non posso pensare a molte altre ragioni per essere orgoglioso come essere umano, ma questa è sufficiente.”

 Così Ben Ehrenreich, figlio della famosa sociologa americana Barbara Ehrenreich e a cui il libro è dedicato, conclude il prologo a questo libro, che raccoglie le sue esperienze nei molteplici viaggi in Palestina dal 2011 al 2014 per alcune riviste statunitensi. Nei suoi racconti in effetti i motivi di speranza sono pochi, tante sono le ingiustizie ed i soprusi a cui ha assistito e che racconta. E sono molte le persone, i luoghi, le vicende, tanto che l’autore ha inserito all’inizio del volume un elenco di “personaggi ed interpreti” e una loro sintetica scheda per ognuno dei principali luoghi visitati, anche più volte nel corso degli anni. Per ragioni di spazio mi limiterò a citare solo quelli più presenti.

La sorgente del titolo è sia una vera e propria fonte d’acqua che una metafora della situazione nei territori palestinesi occupati. Si tratta di Ein al-Qaws, una fonte del villaggio palestinese di Nabi Saleh, di cui si è impossessata una colonia israeliana dei dintorni. Ma il riferimento alla sorgente del titolo è anche un richiamo più generale all’occupazione israeliana dei territori palestinesi ed alla conseguente appropriazione di terre e risorse.

Proprio le vicende di Nabi Saleh e della famiglia Tamimi, che l’ha spesso ospitato, occupano una parte rilevante del libro. Tutti i venerdì ci sono manifestazioni di protesta degli abitanti del villaggio, che si dirigono verso la sorgente, finché non vengono respinti dai soldati israeliani. Gli scontri hanno spesso avuto esiti drammatici, con vari morti, molti feriti, molti arresti.

La famiglia Tamimi è tra le più attive nella resistenza non armata. Alla fine del 2017 è divenuta suo malgrado ancora più famosa a causa dell’incarcerazione, insieme alla madre e ad una cugina, di una delle figlie, la sedicenne Ahed, per aver schiaffeggiato due soldati dopo che suo cugino era stato gravemente ferito alla testa da un proiettile di gomma. Ahed rischia una condanna a 10 anni. A proposito del protagonismo dei minorenni, Ehrenreich racconta che, quando qualche straniero chiede conto agli abitanti del villaggio della presenza dei figli alle manifestazioni, la risposta degli adulti è tragicamente realistica: L’esperienza ha dimostrato che non ci sono luoghi sicuri in cui nascondere i figli, e partecipando alle manifestazioni i bambini hanno imparato a superare la loro paura e a vedere se stessi come qualcosa di diverso da vittime passive.

La famiglia Tamimi è spesso presente nel libro sia per il rapporto di amicizia che si è instaurato con l’autore, sia per il protagonismo della resistenza popolare di Nabi Saleh contro l’occupazione e i molti episodi drammatici che l’hanno segnata. Ma ci sono anche le descrizioni della tragica situazione di Hebron, che l’autore presenta con una lista di cose che i palestinesi del luogo considerano normali, tra cui: “Venire presi di mira da armi da fuoco, da lanci di pietre e di bottiglie molotov contro la propria casa; soldati che sparano lacrimogeni contro gli scolari per segnare l’inizio e la fine delle lezioni; essere arrestati, interrogati per ore e rilasciati senza imputazioni né scuse; avere un soldato con un fucile automatico piazzato tutto il tempo proprio dietro o davanti a casa; ecc.” La presenza di qualche centinaio di coloni fondamentalisti nazional-religiosi che hanno occupato alcune case nel centro storico della città condiziona la vita dei 200.000 abitanti palestinesi anche nei minimi dettagli della vita quotidiana. L’autore vi incontra un altro dei dirigenti più noti della resistenza popolare all’occupazione, Issa Amro, il leader dello YAS (Giovani contro l’Occupazione), e si trova ad affrontare insieme a questo gruppo di palestinesi le provocazioni dei coloni e la repressione dei soldati.Altrettanto difficile è la vita dei beduini di Umm al-Kheir, un villaggio più volte distrutto e sempre tenacemente ricostruito dai pastori che vi abitano, accampati in tende e costruzioni precarie, sempre minacciati dagli interventi dell’esercito e dagli abitanti della colonia di Carmel che vogliono impossessarsi delle loro terre. Due di questi hanno presentato una richiesta di danni (più di 20.000 €!!) e di demolizione contro il rudimentale forno utilizzato dai beduini per cuocere il pane, sostenendo che il suo fumo danneggia la loro salute e quella dei loro figli: “Lo chiamiamo il forno di Chernobyl”, racconta uno dei palestinesi a Ehrenreich, che commenta: “Principalmente il fumo del forno puzzava di altre persone, altri che i coloni non potevano capire e neanche lo volevano, e che semplicemente si rifiutavano – cocciutamente e con una testardaggine che doveva risultare esasperante – di morire o di andarsene.” Un’altra vicenda emblematica che evidenzia l’approccio che i coloni, e gli ebrei israeliani in generale, hanno nei confronti della presenza dei palestinesi.

Quando Ehrenreich dopo qualche tempo è tornato nel villaggio, sempre più misero, l’esercito israeliano aveva distrutto per tre volte il forno e gli abitanti l’avevano sempre ricostruito. Camminando con il giornalista, Eid, uno dei beduini, “ha detto qualcosa a proposito dell’importanza di non perdere la speranza. Gli ho chiesto come farlo. ‘Abbiamo solo quest’unica vita’ ha detto Eid. “Ed è sacra [] non dobbiamo sprecarla.” Una riflessione che segna ancor più la distanza dai coloni, che dedicano la propria vita a rendere invivibile quella degli altri. Al contempo questa riflessione ben rappresenta un’altra forma di resistenza dei palestinesi, il sumud, la sopportazione e la resistenza passiva, perché non andarsene nonostante tutto è la principale forma di protesta contro la pulizia etnica che è il principale obiettivo dell’occupazione.

Insieme agli avvenimenti a cui ha assistito personalmente, l’autore cita il contesto politico e diplomatico in cui essi si inseriscono: i viaggi del segretario di Stato John Kerry e i tentativi falliti di riannodare i cosiddetti “colloqui di pace, le vicende della politica interna israeliana e di quella palestinese, la situazione in Medio Oriente.

Non mancano i riferimenti critici nei confronti dei dirigenti palestinesi, di Hamas e soprattutto dell’ANP. È particolarmente significativo il capitolo dedicato a Rawabi, una città di cinquemila appartamenti e con i relativi servizi in via di costruzione nei pressi di Ramallah. Bassem Tamini la descrive come “Una nuova città palestinese. Come una colonia.” Ma, spiega Ehrenreich, la parentela non è solo estetica. La mega-speculazione edilizia, destinata ad ospitare la nuova classe media fiorita all’ombra dell’ANP, coinvolge l’ex-primo ministro palestinese Fayyad, un tecnocrate molto amato a Washington, una società finanziaria pubblica, AMAL, come garante degli investimenti, una società privata statunitense nel cui consiglio di amministrazione siedono molti ex-politici di amministrazioni sia repubblicane che democratiche, il governo del Qatar e personalità israeliane legate all’esercito e all’occupazione. L’autore spiega: “Quando inizi a mettere insieme le varie istituzioni coinvolte in Rawabi, o con qualunque altro importante progetto di sviluppo in Cisgiordania, cominciano a saltar fuori gli stessi gruppi o individui, la seducente opacità di società tra presunti nemici.

Al di là delle esperienze di vita raccontate, questo libro è ricco di spunti e suscita nel lettore indignazione, ma anche molte riflessioni su come e perché tutto ciò sia possibile senza che la comunità internazionale intervenga. In ex ergo al prologo l’autore cita una frase dello scrittore ed intellettuale libanese Elias Khoury: “Sono spaventato da una storia che ha un’unica versione. La storia ha decine di versioni, e perciò cristallizzarla in una sola non può che portare alla morte.” Le vicende che Ehrenreich racconta sono molte e diverse tra loro, alcune seguite dall’autore nel corso degli anni. Ma la visione complessiva che se ne ricava non può che essere una durissima critica delle politiche israeliane di occupazione e di colonizzazione. La “storia con un’unica versione” è quella continuamente ripetuta dalla propaganda israeliana e dai mezzi di comunicazione che se ne fanno portavoce. Una narrazione che questo libro contribuisce a smentire.




Politica, bugie e registrazioni audio

Omar Karmi

20 gennaio 2018, Electronic Intifada

Le ripercussioni del caotico lavoro di demolizione della soluzione dei due Stati da parte del presidente USA Donald Trump continuano.

Vi è invischiata una regione già in preda a caos e confusione. Vecchie certezze sono state sradicate e tradizionali alleati ed alleanze, alle quali il processo di pace forniva una copertura di comodo per non fare niente, sono stati sconvolti.

Il 14 gennaio persino Mahmoud Abbas, il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese, finora così fiducioso in un processo della cui creazione e salvaguardia è stato determinante, è stato spinto a dichiarare che “oggi è il giorno in cui gli accordi di Oslo sono finiti.”

In un rabbioso discorso di due ore e mezza da Ramallah, egli ha annunciato poche conseguenze concrete e gli uomini del suo apparato inviati in seguito a spiegarle sono stati altrettanto vaghi (cosa mai può significare “congelare il riconoscimento di Israele”?).

Tuttavia la frustrazione era reale, e la sua descrizione dello stato delle cose – benché ovvia e in ritardo – esatta.

L’ANP è in effetti un’”autorità senza potere”; a Israele è sicuramente consentita – con la complicità dell’ANP, avrebbe dovuto aggiungere, ma non l’ha fatto – un’“occupazione senza nessun costo”; l’ambasciatore USA in Israele David Friedman è, in effetti, “un colono che si oppone al termine ‘occupazione’” e indubbiamente “un essere umano prepotente.”

Abbas ha avuto anche parole dure per i governi arabi, sostenendo che, se non offriranno ai palestinesi un “aiuto concreto”, possono “andare tutti all’inferno.”

Un problema si muove in Arabia

Non è un segreto che i Paesi arabi, soprattutto, ma non solo, quelli detti “moderati” che includono l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e la Giordania – che sono definiti tali dai circoli occidentali, soprattutto per la loro posizione verso Israele – sono stati per lo più tutto fumo e niente arrosto quando si tratta di Palestina.

Tuttavia essi hanno anche e pubblicamente da tempo tenuto (per lo più) drastiche linee rosse: a parte i Paesi confinanti come Giordania ed Egitto, non ci saranno relazioni diplomatiche complete con Israele finché la “questione” palestinese non sarà risolta. E le ricette per questa soluzione devono includere una (vagamente definita) “soluzione giusta” del problema dei rifugiati, così come (precisata più chiaramente) la costituzione di uno Stato e l’indipendenza per i palestinesi su tutta la Cisgiordania e la Striscia di Gaza con capitale a Gerusalemme est.

Quest’ultima non è mai stata vista come una questione solamente palestinese, ma come più generalmente araba e musulmana. Di conseguenza, la risposta ufficiale alla dichiarazione di Trump a dicembre che Gerusalemme è la capitale di Israele è stata unanime e priva di ambiguità.

Il 13 dicembre l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, composta da 57 membri, che include i Paesi arabi e musulmani del mondo, ha inequivocabilmente respinto come illegale la posizione del presidente americano su Gerusalemme e ha dichiarato capitale della Palestina Gerusalemme est.

Poi il 6 gennaio la Lega Araba ha annunciato che gli Stati arabi avrebbero intrapreso un’iniziativa diplomatica alle Nazioni Unite per chiedere il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese entro i confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale.

Fin qui, come molte altre volte. Stavolta, tuttavia, per almeno alcuni di questi Paesi, pare che questa non sia solo vuota retorica: è una totale menzogna.

Il nuovo ordine del mondo (arabo)

Prendete l’Egitto. Mentre l’incontro d’emergenza dell’OIC [Organizzazione della Cooperazione Islamica, ndt.] a Istanbul ha visto la partecipazione di alcuni importanti capi di Stato della regione, compreso il presidente turco che l’ospitava, Recep Tayyip Erdogan, così come del re di Giordania Abdullah e del presidente iraniano Hassan Rouhani, erano significative anche le assenze. Non erano presenti né il re dell’Arabia Saudita Salman (o il suo principe ereditario Mohammad bin Salman) né il presidente egiziano Abdulfattah al-Sisi.

Infatti, anche se il Cairo ha condannato la nuova posizione USA su Gerusalemme, un ufficiale dell’intelligence egiziana sarebbe stato registrato in audio mentre cercava di persuadere importanti personaggi della televisione egiziana a convincere i loro telespettatori ad accettarla, sostenendo in pratica che Ramallah è un posto altrettanto valido di Gerusalemme per stabilirvi la capitale.

Il Cairo ha negato l’informazione, il procuratore di Stato egiziano ha annunciato un’inchiesta sull’articolo del New York Times che ha fatto la denuncia e le personalità della televisione di cui sopra hanno da allora ritrattato alcuni dei commenti fatti in precedenza.

Ma il Times ha confermato le proprie informazioni e, nell’attuale clima politico, non suonano per niente false. E non ci dovrebbe essere alcun dubbio che quello che alcuni governi arabi stanno sostenendo in merito al destino di Gerusalemme evidenzi fino a che punto i dirigenti e governi arabi siano diventati vulnerabili alle pressioni esterne.

La debolezza degli Stati arabi corrisponde in generale ad una caratteristica in tutta la regione: scarsa capacità di governo come risultato di sistemi statali autocratici e clientelari che resistono alle idee che vengono da fuori ma dipendono dai finanziamenti e dalla protezione esteri o economie basate su una sola risorsa. Ne conseguono logicamente corruzione, nepotismo, servilismo e stagnazione, con – per parafrasare – il settarismo, l’ultima risorsa delle canaglie.

Gli ultimi anni di rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili, guerre e invasioni nelle regioni arabe hanno anche visto la questione palestinese scivolare in fondo alla lista delle priorità e perdere il suo ruolo come sfogo sicuro per la rabbia popolare. E poi c’è l’Arabia Saudita.

Rivoluzione a Ryadh

L’assunzione di una posizione di rilievo del principe ereditario Mohammad bin Salman, spesso indicato come MBS, ha sconvolto la tradizionale politica regionale e scosso le antiche alleanze e certezze. Decisa a quanto pare a rivolgersi a viso aperto verso uno scontro con l’Iran, la posizione di Riad su altre questioni regionali è improvvisamente diventata imprevedibile.

Yemen, Libano, Siria ed Egitto hanno risentito a vari livelli dei freddi venti del cambiamento in quanto il nuovo potere a Riad sonda il terreno e persegue quelli che ha identificato come gli interessi sauditi, giusti o sbagliati, con energia incontenibile e in modi senza precedenti per l’Arabia Saudita. Sono presunte informazioni saudite sulla prospettiva finale dell’amministrazione Trump per un accordo di pace – qualcosa meno di uno Stato per i palestinesi, non basato sulle frontiere del 1967 e senza Gerusalemme – che questa settimana hanno spinto davvero Abbas a perdere il controllo e gli hanno fatto venire un colpo apoplettico.

Oltretutto fonti vicine ad Abbas hanno fatto sapere che, durante una recente visita, MBS ha fatto pressione sul leader dell’ANP perché accetti il piano di Trump, indicando che Riad ora attribuisce molta più importanza al potenziale aiuto di Israele contro l’Iran rispetto ad ogni pressione per i diritti dei palestinesi.

Per quanto audaci, simili pressioni, su Abbas e su altri, probabilmente falliranno, così come finora sono fallite le recenti avventure saudite in politica estera in altre parti della regione.

In parte, un simile clamoroso scostamento è un cambiamento decisamente troppo rapido da assorbire per i pigri sistemi dello Stato arabo, soprattutto di fronte alla disapprovazione profonda e generalizzata dell’opinione pubblica. E in parte, mentre ciò potrebbe funzionare solo nei Paesi del Golfo, isolati dal denaro, né Egitto né Giordania sono probabilmente in grado di collaborare, anche se i loro dirigenti lo volessero.

Quello che i soldi non possono comprare

Al momento l’Egitto è semplicemente troppo instabile per assorbire troppi sconvolgimenti del sistema. Ancora scosso dalla rivoluzione del 2011 e dalla controrivoluzione del 2013, il Cairo se la deve vedere anche con la contagiosa guerra civile nella vicina Libia, con tensioni in Sudan, con una disputa con l’Etiopia per una diga sul Nilo che potrebbe avere effetti drammatici in Egitto e con una sempre più sanguinosa rivolta nel Sinai.

Al-Sisi potrebbe voler tentare di adeguarsi alla pressione di USA e Arabia Saudita. Le umilianti registrazioni del capitano Ashraf al-Kholi che implora i suoi interlocutori di spiegare la differenza tra Gerusalemme e Ramallah suggeriscono che il Cairo ci ha provato. Semplicemente non può.

L’ultima cosa di cui Al-Sisi ha bisogno, con tutto il resto, è di essere accusato di abbandonare Gerusalemme e i palestinesi. E solo mercoledì il presidente egiziano si è sentito obbligato a ribadire la politica egiziana di lunga data a favore dei due Stati, che rivendica Gerusalemme est come capitale palestinese.

La Giordania ha a lungo dovuto conciliare gli interessi palestinesi e giordani – o sponda ovest ed est del Giordano – e lo ha fatto in gran parte con successo. Ma la destinazione favorita da ogni rifugiato nella regione è satura, impoverita e non disposta a patteggiare la propria custodia di Al-Aqsa [la Spianata delle Moschee a Gerusalemme, ndt.] e dei luoghi sacri cristiani di Gerusalemme per avere la responsabilità di più di due milioni di palestinesi scontenti e riottosi in aree non contigue della Cisgiordania, come prospettato da qualcuno nell’amministrazione Trump.

Infatti Amman ha già messo in chiaro il proprio malcontento, e si dice che avrebbe cacciato tre principi per essere stati troppo vicini a Riad.

I soldi non possono comprarti l’amore, ma ti possono comprare un sacco di dispiaceri. E il dispiacere è ciò che attende Abbas, Abdullah e al-Sisi se dovessero stare al gioco del piano di Trump, che è un buco nell’acqua.

Probabilmente MBS lo capirà presto. Ma a quel punto il gioco sarà completamente cambiato.

Omar Karmi è un ex corrispondente da Gerusalemme e da Washington, DC, per il giornale The National [“Il Nazionale”, giornale degli Emirati Arabi Uniti, ndt.].

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Il carceriere della prigione di Gaza e la crescente soglia del collasso della Striscia

Amira Hass

16 gennaio 2018, Haaretz

L’isolamento della Striscia di Gaza e dei suoi abitanti, come progetto politico piuttosto che di sicurezza, è iniziato molto prima dei razzi Qassam

Il carceriere avverte che il campo di internamento è sull’orlo del collasso. È un bene che lo faccia, ed è un bene che il suo avvertimento sia diventato il titolo di testa su Haaretz. Ma è difficile ignorare a chi è indirizzato tale avvertimento: al governo e soprattutto al ministro della Difesa Avigdor Lieberman.

La preoccupazione del carceriere – cioè i dirigenti di alto livello dell’apparato di sicurezza – sembra sincera. Non vi è motivo di sospettare che stiano semplicemente preparando la propria difesa presso il Tribunale Penale Internazionale, per il giorno in cui vengano ricercati i sospettati per il continuo disastro noto come prigione della Striscia di Gaza.

Il livello del collasso di Gaza sale ogni anno, a causa dell’intollerabile capacità di resistenza dei palestinesi. Il sogno politico di Israele della Striscia di Gaza come entità separata geograficamente e politicamente può essere realizzato solo distruggendo la sua economia e le sue infrastrutture e la salute mentale e fisica dei suoi abitanti. Niente lo illustra meglio della questione dell’acqua.

Quando i dirigenti israeliani avvertono ipocritamente che il 95% dell’acqua di Gaza non è potabile, evitano [di citare] l’assurdità originaria: Israele costringe Gaza a procurarsi l’acqua dalla falda acquifera situata all’interno dei suoi confini. Questa falda acquifera, che nel 1950 forniva acqua a circa 300.000 persone, dovrebbe oggi fornirne la stessa quantità a due milioni di persone. Non c’è da meravigliarsi che vi siano eccesso di estrazione e contaminazione con acque di scarico e acqua di mare.

Il sogno israeliano della Striscia di Gaza come territorio separato geograficamente e politicamente ha provocato e continua a provocare una serie di danni la cui entità è difficile da calcolare. Le autorità, i Paesi donatori e le singole famiglie hanno speso e continuano a spendere enormi quantità di denaro per purificare l’acqua potabile. Come per i tunnel, questo avviene a spese dei finanziamenti per la sanità, l’educazione, le infrastrutture e le strutture per i bambini.

Lo dirò per l’ennesima volta: l’unica soluzione a breve termine è convogliare l’acqua a Gaza da Israele e dalla Cisgiordania, senza mercanteggiare sul prezzo o attendere la riconciliazione palestinese tra Fatah e Hamas. Da sette a dieci milioni di metri cubi all’anno [la quantità variabile di acqua fornita a Gaza da Israele, ndt.] è come versare un bicchier d’acqua in una piscina.

La desalinizzazione è impossibile quando le acque di scarico fluiscono in mare. E gli scarichi continueranno a fluire in mare finché Israele non ridurrà le rigide restrizioni all’entrata di materiali grezzi e pompe a Gaza ed alla libertà di movimento di ingegneri, imprenditori e consulenti. Ogni restrizione comporta perdite di tempo e di energia, pagamenti agli avvocati, inutili spese per stabilire il danno che è già stato causato, spese mediche per malattie che avrebbero potuto essere prevenute se si fosse permesso per tempo l’ingresso di una pompa, sottoutilizzo di manodopera e di competenze e fuga di cervelli.

Lo stesso vale per ogni altro aspetto della vita. I professionisti israeliani della sicurezza eseguono fedelmente i loro ordini di vietare la pesca, sparare ai contadini e costringere la gente ad aspettare ore per un interrogatorio di due minuti da parte del servizio di sicurezza dello Shin Bet, e poi si lamentano della diminuzione del numero di camion da carico che entrano a Gaza a causa della caduta del potere d’acquisto.

L’isolamento di Gaza e dei suoi abitanti, come progetto politico piuttosto che di sicurezza, è iniziato molto prima dei razzi Qassam. L’isolamento dei giovani di Gaza dal resto del mondo ha favorito il messaggio illusorio di Hamas. E la propaganda israeliana è riuscita ad attribuire la colpa all’accumulo di armi di Hamas, sempre un efficace strumento nella lotta interna per la leadership palestinese.

Israele esagera deliberatamente il rischio strategico costituito dalle armi di Hamas, rafforzando così l’immagine dell’organizzazione come salvatrice agli occhi dei disperati. La propaganda di Hamas è riuscita a dare la colpa ai tagli di fondi da parte dell’Autorità palestinese e a mettere a tacere le critiche alle sue pretese militari. L’ANP ha accettato l’isolamento della popolazione di Gaza, anche prima che Hamas prendesse il potere.

Gaza non è un’isola. Trattate i suoi residenti come esseri umani. Lasciateli partire per andare a studiare o a divertirsi a Nablus e a Betlemme ed anche a Haifa [in territorio israeliano, ndt.]; lasciateli andare a lavorare e a visitare amici e famigliari. Lasciateli produrre e coltivare ed esportare. Lasciate che israeliani, cisgiordani e turisti visitino Gaza. Gaza eviterà il collasso ed Israele eviterà un processo al Tribunale dell’Aia.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Abbas dichiara morti gli accordi di Oslo: “Il piano di pace di Trump è uno schiaffo e noi glielo restituiremo.”

Jack Khoury

15 gennaio 2018, Haaretz

Abbas: “Israele ha ucciso gli accordi di Oslo. Futuri negoziati avranno luogo nel contesto della comunità internazionale” Il vice capo di Fatah: “Congelare il riconoscimento di Israele è un’opzione”

Domenica il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha detto che Israele ha ucciso gli accordi di Oslo e durante una drammatica riunione a Ramallah ha definito il piano di pace per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump “uno schiaffo in faccia”, aggiungendo che “glielo restituiremo”.

Abbas ha aggiunto che “oggi è il giorno in cui sono finiti gli accordi di Oslo. Israele li ha uccisi. Siamo un’autorità senza potere, e un’occupazione senza alcun costo. Trump minaccia di tagliare i finanziamenti all’Autorità [Nazionale Palestinese] perché i negoziati sono falliti. Ma quando mai le trattative sono iniziate?!”

Ha aggiunto che “ogni futuro negoziato avrà luogo solo nel contesto della comunità internazionale, da parte di una commissione internazionale creata nell’ambito di una conferenza internazionale. Permettetemi di essere chiaro: non accetteremo la leadership dell’America in un processo politico che riguardi i negoziati.

L’ambasciatore USA in Israele David Friedman è un colono che si oppone alla fine dell’occupazione. È un essere umano aggressivo e non accetterò di incontrarmi con lui da nessuna parte. Hanno chiesto che mi incontrassi con lui e mi sono rifiutato, non a Gerusalemme, non ad Amman, non a Washington. Anche l’ambasciatrice USA all’ONU, Nikki Haley, minaccia di colpire le persone che nuocciono ad Israele con il tacco della sua scarpa, e noi risponderemo nello stesso modo.”

Il consiglio centrale palestinese si è riunito nel contesto dell’annuncio del presidente USA Donald Trump il 6 dicembre, in cui ha dichiarato che Gerusalemme è la capitale di Israele, e del contrasto senza precedenti che ciò ha provocato tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Washington. Abbas ha detto: “Il ministro degli Esteri della Lega Araba ha accusato i palestinesi di non protestare abbastanza contro la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele.”

Noi siamo un popolo che si è messo a fare proteste non-violente in seguito al riconoscimento di Trump (di Gerusalemme come capitale di Israele), e il risultato è stato 20 morti, più di 5.000 feriti e oltre 1000 arresti, e loro hanno la faccia tosta di dire che il popolo palestinese non è sceso nelle strade,” ha continuato, aggiungendo che “l’ho detto al ministro, che se egli vuole davvero aiutare il popolo palestinese ci appoggi e ci dia concretamente una mano. Sennò potete andare tutti quanti all’inferno.”

Poi Abbas si è rivolto al Regno Unito, affermando che “continuiamo a chiedere delle scuse dalla Gran Bretagna per la dichiarazione Balfour [in cui nel 1917 la GB si impegnava a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina, ndt.], e continueremo a chiedere che riconosca lo Stato palestinese.” Ha osservato che “la frase di Herzl ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ era un’invenzione. Venne qui e vide un popolo, e per questa ragione parlò della necessità di sbarazzarsi dei palestinesi.”

Abbas ha parlato per circa due ore e mezza di come gli ebrei sono stati portati in Israele. Ha sottolineato che Inghilterra e Stati Uniti hanno partecipato al processo di trasferimento degli ebrei in Palestina dopo l’Olocausto, cercando di risolvere il problema di avere gli ebrei senza patirne le conseguenze.

Abbas ha continuato: “A Camp David hanno tentato un’operazione insensata. Hanno detto agli americani che eravamo pronti a rinunciare al diritto al ritorno, al 13% della Cisgiordania e a fornire agli ebrei uno spazio per pregare nella moschea di Al-Aqsa.

La nostra posizione è uno Stato palestinese all’interno dei confini del ’67 con capitale a Gerusalemme est e la messa in pratica delle decisioni della comunità internazionale, così come una soluzione giusta per i rifugiati.

Siamo a favore della lotta nazionale, che è più efficace perché non c’è nessun altro su cui possiamo contare.

Gli americani ci hanno chiesto di non entrare a far parte di 22 organizzazioni, compresa la Corte Penale Internazionale. Gli abbiamo detto che non l’avremmo fatto finché non avessero chiuso gli uffici dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che riunisce i principali gruppi palestinesi ed è dominata da Fatah, ndt.], non avessero spostato la loro ambasciata a Gerusalemme ed avessero congelato l’edificazione negli insediamenti. Non hanno accettato, e di conseguenza non siamo vincolati da nessun accordo. Aderiremo a quelle organizzazioni.

Abbiamo accettato 86 decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per i palestinesi, e nessuna di esse è stata messa in pratica. Ad altre 46 gli americani hanno posto il veto.

Israele ha importato impressionanti quantità di droga per distruggere la nostra generazione più giovane. Dobbiamo stare attenti, e per questa ragione abbiamo creato un’autorità per combattere le droghe e stiamo investendo molto nello sport, soprattutto nel calcio. Abbiamo già denunciato Israele alla FIFA.

Pubblicheremo una lista nera di 150 imprese che lavorano con le colonie e renderemo pubblici all’Interpol i nomi di decine di persone sospettate di corruzione.

I prigionieri e i membri delle loro famiglie sono nostri figli e continueremo a fornire loro un sussidio.

Le famiglie dei palestinesi uccisi hanno il diritto di rivolgersi alla Corte Penale Internazionale e di chiedere giustizia dalla comunità internazionale.

Non intendiamo accettare che gli USA tentino di farci delle imposizioni e non vogliamo accettarli come mediatori.

Non saremo un’autorità senza potere e un’occupazione senza costi. Difenderemo le nostre conquiste nella comunità internazionale e a livello locale, e continueremo a combattere il terrorismo, e a lottare con la non-violenza. Parteciperemo a tutti i processi politici guidati dalla comunità internazionale per la fine dell’occupazione.”

Il capo di “Iniziativa Nazionale Palestinese” [gruppo politico palestinese che sostiene la lotta non violenta contro l’occupazione, ndt.], il dottor Mustafa Barghouti, dopo il discorso di Abbas ha detto ad Haaretz: “Il discorso ha sollevato la questione. È chiaro che gli USA hanno esaurito il loro ruolo come unici sostenitori del processo di pace e i palestinesi hanno sottolineato che non accetteranno più nessuna imposizione di parti terze. Lunedì stileremo le conclusioni e da parte mia chiederò che la bozza includa la posizione secondo cui noi lavoreremo per mettere in pratica una soluzione dello Stato unico con gli stessi diritti civili e nazionali per tutti.”

Hamas ha attaccato Abbas dicendo che le sue dichiarazioni non sono condivise tra i palestinesi.

L’incontro di domenica nella città cisgiordana di Ramallah – sede del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese – si è tenuto con i rappresentanti della maggior parte delle fazioni palestinesi, ma due importanti organizzazioni, Hamas e Jihad Islamica, hanno annunciato che non vi avrebbero partecipato, benché fossero state invitate.

Il portavoce di Hamas Fauzi Barhum ha criticato la decisione di convocare l’incontro a Ramallah, affermando che si sarebbe dovuto tenere in un altro Paese, per garantire la partecipazione dei principali rappresentanti di tutte le fazioni.

Haaretz è venuto a sapere che nelle discussioni che si sono tenute durante il fine settimana, sia nel Comitato Centrale di Fatah che nel Comitato Esecutivo dell’OLP, sono state prese in considerazione una serie di proposte, tra cui l’idea di annullare gli accordi di Oslo e il coordinamento per la sicurezza, sulla base del fatto che Israele ha violato tutti gli accordi per cui i palestinesi non sono più obbligati a continuare a rispettare i patti.

Altri membri di Fatah e dell’OLP hanno appoggiato l’opzione di continuare con i tentativi a livello internazionale, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, l’Unione Europea, la Cina e la Russia, per portare avanti il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese all’interno dei confini del 1967.

Secondo funzionari di Fatah la prossima mossa palestinese sarà la messa in pratica della loro richiesta di rendere il conflitto una questione internazionale e di chiedere che l’ONU istituisca un gruppo per risolverla. I funzionari hanno detto che gli Stati Uniti potrebbero essere membri di questo gruppo, ma non gli unici mediatori del processo politico.

Il vice capo di Fatah Mahmoud Al-Aloul ha detto che molti palestinesi hanno grandi aspettative per la decisione del consiglio centrale. “Dobbiamo rispondere a queste aspettative, perché oggi siamo arrivati ad un punto di svolta della questione nazionale palestinese.” Al-Aloul ha aggiunto che queste decisioni sono difficili e non porteranno ad abbandonare gli amici di Fatah.

Al-Aloul ha detto ad Haaretz che il consiglio centrale di Fatah ha preso le sue decisioni in modo indipendente e che c’è una lista di suggerimenti che devono essere presi in considerazione, compreso il congelamento del riconoscimento di Israele.

Le decisioni prese dal consiglio sono state trasmesse al comitato esecutivo dell’OLP per essere messe in pratica.

Haaretz ha saputo anche che durante gli ultimi giorni Paesi europei ed arabi come l’Arabia Saudita hanno fatto pressioni sull’ANP, e su Abbas in particolare, perché non prendessero iniziative radicali e per consentire un’azione a livello internazionale e diplomatico.

Un altro suggerimento chiederebbe al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di riconoscere lo Stato palestinese all’interno dei confini del ’67, così come la definizione delle terre dell’ANP come un Paese sotto occupazione. Un’ulteriore indicazione è stata di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per iniziare un procedimento legale contro Israele.

Il consiglio centrale palestinese è un ente consultivo che si riunisce quando è impossibile convocare una seduta del Consiglio Nazionale Palestinese (l’organo legislativo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e si prevede che fornisca al comitato esecutivo dell’OLP, che è l’organo esecutivo palestinese di maggior importanza, raccomandazioni relative alle politiche.

Un importante membro del comitato esecutivo dell’OLP ha detto ad Haaretz che, nonostante l’atmosfera drammatica che i collaboratori di Abbas hanno cercato di creare, non ci si aspettano cambiamenti radicali.

(traduzione di Amedeo Rossi)