In migliaia manifestano a Gaza mentre continuano le proteste contro i tagli ai salari da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese

9 aprile 2017 Middle East Monitor

I lavoratori del pubblico impiego di Gaza [pagati] dall’ANP hanno ricevuto il loro stipendio di marzo decurtato del 30%, fatto che ha provocato proteste

Migliaia di dipendenti dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno manifestato sabato a Gaza City sull’onda di continue proteste contro la decisione dell’ANP di imporre drastici tagli agli stipendi dei suoi lavoratori di Gaza. I manifestanti si sono radunati nella piazza al-Saraya, hanno urlato slogan contro il provvedimento e hanno chiesto le dimissioni dei dirigenti del governo palestinese, in particolare del primo ministro Rami Hamdallah e di quello delle finanze Shukri Bushara

Dimettiti, dimettiti, Hamdallah! Dimettiti, dimettiti, Bishara!

Alcuni manifestanti hanno giudicato la decisione di ridurre i loro stipendi come “una discriminazione contro Gaza” e hanno respinto “le scuse e le giustificazioni false e futili” addotte dal governo riguardo al provvedimento.

L’ANP ha affermato che i tagli sono un tentativo di affrontare una profonda crisi finanziaria, che secondo loro è stata aggravata da Hamas – l’autorità de facto della Striscia di Gaza – che avrebbe continuato a riscuotere le entrate governative senza inviarle lle casse dell’ANP.

Tuttavia quanti criticano il provvedimento hanno ribattuto che se la decisione fosse stata semplicemente una risposta alla crisi finanziaria, allora i tagli avrebbero dovuto riguardare tutti i dipendenti del pubblico impiego dell’ANP – compresi quelli nella Cisgiordania occupata – e hanno inoltre espresso la preoccupazione che i tagli avrebbero solo isolato ulteriormente i gazawi dal resto del territorio palestinese.

I dipendenti presenti alla manifestazione hanno chiesto al presidente Mahmoud Abbas di formare un governo di unità nazionale e di considerare Gaza e i suoi abitanti come sua assoluta priorità.

Nel frattempo Abu Eita, e vice-segretario generale del consiglio rivoluzionario di Fatah a Gaza , ha affermato in un comunicato che migliaia di dipendenti e sostenitori di Fatah si sono radunati nella piazza e hanno chiesto che Abbas “intervenga immediatamente e assicuri giustizia ai dipendenti di Gaza, esattamente come al resto dei dipendenti del governo dell’ANP”.

Abu Eita also added that the people blamed Hamdallah for the salary cuts, which he said would “take food from their children.”

“Questa folla a Gaza è venuta per confermare il proprio totale sostegno al presidente Abbas e a chiedergli di cancellare l’ingiusta decisione”

Abu Eita ha anche aggiunto che il popolo ha criticato Hamdallah per avere tagliato i salari, che, ha detto, avrebbe “ tolto il cibo di bocca ai loro bambini”

Il capo del sindacato dei giornalisti della Striscia di Gaza Tahson al Astal ha dichiarato all’agenzia Ma’an News che indignazione della gente evidenzia la natura “dittatoriale” della decisione di decurtare i salari, che, a suo parere, colpirà decine di famiglie nella poverissima enclave,dove si riscontra il più alto tasso di disoccupazione, aggiungendo quanto segue:

“Questo è un altro assedio che si aggiunge a quello già imposto dall’occupazione israeliana”.

Mercoledì i dipendenti pubblici dell’ANP hanno ricevuto il salario con una decurtazione di almeno il 30%, provocando proteste tra i dipendenti già in agitazione. Il primo ministro Hamdallah ha evidenziato che i tagli sono stati fatti solamente sulle indennità mensili senza alcuna decurtazione del salario base. Chi è critico ha fatto notare che dopo la presa del potere da parte di Hamas nella Striscia di Gaza, l’ANP diretta da Fatah ha incoraggiato i suoi dipendenti residenti a Gaza a non continuare a lavorare per protesta contro il nuovo governo guidato da Hamas.

Di conseguenza circa 50 mila dipendenti che hanno deciso di continuare a lavorare sotto Hamas hanno affrontato pagamenti irregolari e parziali da parte dell’ANP e qualche volta non hanno ricevuto niente. Nel frattempo, decine di migliaia di lavoratori che hanno rifiutato di lavorare con Hamas, hanno continuato a percepire il pagamento di un regolare salario dall’ANP. Secondo quanto riferito, i nuovi tagli salariali hanno colpito tutti i dipendenti pubblici dell’ANP a Gaza.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




Esperti israeliani e palestinesi redigono una ‘road map’ per salvare l’economia palestinese

Amira Hass, 25 marzo 2017, Haaretz

Circa 2 milioni di palestinesi sono ammassati nei 365 chilometri quadrati della Striscia di Gaza. Nella Valle del Giordano, che conta 1.600 chilometri quadrati, ci sono 65.000 palestinesi (e altri circa 10.000 coloni israeliani). Teoricamente gli accordi di Oslo avrebbero dovuto consentire a molti abitanti di Gaza di spostarsi nella Valle del Giordano – per lavorare nelle infrastrutture e in agricoltura (anche se solo per attività stagionali), nell’edilizia, nel turismo e nell’industria.

Ma in realtà queste due aree palestinesi “contribuiscono” al deterioramento dell’economia palestinese nel suo complesso. In entrambe, la principale ragione del declino sta nelle draconiane restrizioni alla libertà di movimento, di accesso alle risorse e alle possibilità di commercio, costruzione, agricoltura e sviluppo imposte da Israele.

Queste affermazioni non sono affatto nuove, già la scorsa settimana un gruppo di 11 economisti palestinesi ed israeliani ha pubblicato due studi a questo riguardo. Gli studiosi delineano un piano per espandere l’attività economica palestinese nella Valle del Giordano e salvare l’economia di Gaza (prima del 2020, data entro la quale, se nulla cambia, questa enclave isolata sarà inabitabile, come hanno avvertito due anni fa le Nazioni Unite).

Per ragioni di cortesia, e forse perché gli studi sono stati elaborati in collaborazione con la Banca Mondiale, gli autori si occupano di sincere affermazioni di politici israeliani circa il desiderio di vedere un miglioramento nell’economia palestinese. In effetti, i due autori – Saeb Bamya e il professor Arie Arnon che, insieme al dottor Shanta Devarajan, capo economista al MENA (Medio Oriente e Nord Africa, ndtr.) della Banca Mondiale, hanno presentato i documenti mercoledì all’Istituto Truman di Gerusalemme – sono perfettamente coscienti che l’attuale situazione non è solamente il risultato di una casuale serie di errori umani.

Ma è stato il moderatore di una tavola rotonda, l’ex ambasciatore di Israele in Sudafrica Ilan Baruch, a non moderare i termini. “Vi è stata una deliberata politica israeliana tesa a creare deficit”, ha detto. “La comunità internazionale deve essere coinvolta – non come donatore, ma per esercitare pressioni [su Israele].”

Il giorno prima, gli studi sono stati presentati per la prima volta negli uffici della Banca Mondiale nel quartiere Dahiyat al-Barid di Gerusalemme, all’ombra del muro di separazione. Alcuni relatori hanno detto ai funzionari presenti: sono state elargite grosse somme di denaro per determinare un cambiamento, non per perpetuare lo status quo. Ma sembra che il denaro dei contribuenti dei vostri Paesi in realtà rafforzi la situazione di deterioramento. E questo deve cambiare.

A coloro che sono arrivati a pensare al blocco di Gaza come a un dato di fatto e che sono abituati a pensare che la Valle del Giordano appartenga ad Israele, le misure di semplice ricostruzione proposte dagli economisti sembreranno surreali. Permettere il regolare movimento di persone e camion direttamente tra Gaza e la Cisgiordania? Riaprire l’aeroporto di Gaza? Fornire acqua e maggiore elettricità alla Striscia? Ricostruire la flotta di pescatori e costruire un porto? Permettere ai palestinesi di coltivare altri 40.000 dunams ( 24,7 km²) nella Valle del Giordano? Lasciare che vi creino e sviluppino il turismo?

Un approccio differente da Oslo

Sembra inconcepibile. Ma secondo Arnon le raccomandazioni degli studi sono in realtà molto vicine all’approccio prospettato da alti dirigenti militari e della sicurezza israeliani, che comprendono i rischi per la sicurezza contenuti in un’economia palestinese in difficoltà. Quindi queste raccomandazioni sono un ulteriore tentativo di trovare persone responsabili in Israele che possano fare dei passi per scongiurare le disastrose previsioni.

Il Gruppo di Aix, che prende il nome dall’università francese in cui fu fondato nel 2002 (Università Paul Cézanne Aix-Marseille III), è stato creato per delineare scenari socioeconomici per la fase di status finale dei due Stati. Questo approccio è l’opposto di quello degli Accordi di Oslo, in cui sono state indicate in modo molto dettagliato fasi intermedie come percorso per realizzare un’ipotesi che non era definita.

Perciò, per il Gruppo di Aix, i due studi sono un nuovo lavoro che propone passi concreti per salvare e rivitalizzare l’economia a breve e medio termine, indipendentemente dalla situazione dei negoziati sullo status finale e con la consapevolezza della scarsa probabilità che tali colloqui possano ricominciare presto.

Ogni studio utilizza cifre e grafici per illustrare le tendenze economiche. Per esempio, nei 20 anni trascorsi dalla creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel 1994, il prodotto interno lordo pro capite a Gaza è stato in media di 1.200 dollari (calcolati a prezzi del 2004). Negli anni migliori, 1998 e 1999, è stato di 1.450 dollari. Il livello più basso è stato nel 2007 e 2008 con solo 900 dollari. Per fare un confronto, a quel tempo il dato è stato di 4.200 dollari in Giordania e di 20.000 dollari in Israele.

Il PIL per lavoratore illustra ulteriormente il peggioramento – da 24.000 dollari nel 2005 a 10.000 dollari oggi. Questo è anche il modo per calcolare la produttività nell’economia.

Secondo gli autori, che citano uno studio della Banca di Israele che ha rilevato che dal 2006 al 2009 l’occupazione nel settore manifatturiero è crollata del 33%, rispetto ad un aumento del 24% nel settore dei servizi, questo drastico peggioramento è dovuto soprattutto al blocco di Gaza. Intanto nel 2015 la disoccupazione giovanile a Gaza è arrivata al 57.6%; il tasso complessivo di disoccupazione è stato del 41%.

Un altro modo per osservare il deterioramento è considerare il valore delle importazioni pro capite. Nel 1997 questo dato era di 800 dollari a Gaza e 1.000 dollari in Cisgiordania. Nel 2015 era di 400 dollari a Gaza e 1.400 in Cisgiordania.

E le esportazioni pro capite? Queste sono sempre state basse. Ma anche questo valore ridotto è diminuito. Nel 2000 le esportazioni erano il 10% del PIL, con 15.255 camion che uscivano da Gaza. Questo dato è sceso al 6.8% nel 2005 (9.319 camion) e a 0 tra il 2008 e il 2010. E’ stato registrato un lieve incremento nel 2015 e 2016, con 1.400 camion in uscita da Gaza ogni anno (grazie all’Olanda, che ha fatto pressioni perché si permettesse a Gaza di esportare all’estero alcune delle sue produzioni agricole).

Scarso sostegno a Gaza da parte dell’ANP

Il blocco israeliano impedisce all’economia di Gaza di beneficiare del movimento di merci e di persone. I costi crescenti abbassano la produttività e scoraggiano gli investitori, oltre alle fatiscenti infrastrutture di Gaza. Gli investitori sono spaventati anche dai rischi militari e politici, sostengono gli autori, che non ignorano un fattore interno: i due distinti governi palestinesi e la rivalità tra Hamas e l’ANP.

Gli autori respingono la ricorrente affermazione dell’ANP che il 40% del suo budget viene investito a Gaza. In base ai loro calcoli, solo il 15% del budget non coperto da entrate doganali e da imposte sul valore aggiunto viene trasferito alla Striscia. Non è un grande aiuto, dicono gli autori, aggiungendo che generalmente le zone ricche sovvenzionano quelle più povere.

Quanto alla paura di Israele del rischio per la sicurezza che comporterebbe allentare il blocco, le argomentazioni degli autori poggiano su una logica elementare: il blocco draconiano non ha impedito ad Hamas di armarsi e non ha impedito i conflitti. La situazione socioeconomica in peggioramento non fa che aumentare il malessere e la rabbia, che alimentano gruppi e idee estremiste. Secondo gli autori un allentamento del blocco in ultima istanza ridurrà il sostegno ad Hamas.

Inoltre scrivono: “Il blocco di Gaza potrebbe non essere solo una punizione per Hamas, ma anche un modo per rafforzare il suo controllo su Gaza. E’ più facile controllare un territorio chiuso che uno aperto, dove le persone possono entrare ed uscire.”

La valle del Giordano non è separata dal resto della Cisgiordania, ma, in base al secondo studio, per 50 anni, e soprattutto negli ultimi 20 anni, Israele ha vietato ai palestinesi l’accesso, la costruzione e lo sviluppo in circa il 75% dell’area, con diversi pretesti: zone di esercitazione militare, riserve naturali, zone di sicurezza, terreni dello Stato. Circa il 90% della terra nella Valle del Giordano rientra sotto l’autorità di 24 colonie. Circa l’80% del territorio è in Area C, sotto l’esclusivo controllo israeliano.

Dei 160.000 dunams (16.000 ha., ndt.) nella Valle del Giordano, i palestinesi ne coltivano solo 42.000 (4.200, ndt). I coloni coltivano tra i 30.000 (3.000 ha, ndt) e i 50.000 dunams (5.000 ha, ndt), ed il resto è vietato ai palestinesi. Riguardo all’accesso all’acqua, questo dato da solo illustra adeguatamente la situazione: la quantità media di acqua usata da un colono è quasi 10 volte maggiore della quantità usata da un palestinese.

Ecco il risultato, secondo lo studio: “Questo sottosviluppo si manifesta in sviluppo rurale limitato e scarsa crescita economica, che produce un aumento della povertà, inadeguate condizioni sanitarie ed igieniche, deterioramento materiale ed ambientale. E’ la conseguenza di tante difficoltà ed ostacoli, compresa l’iniqua distribuzione delle risorse idriche, la distruzione di vitali infrastrutture idriche, mancanza di fognature e notevoli perdite di acqua.”

C’è un altro dato molto eloquente: l’aspettativa media di vita per i palestinesi nella Valle del Giordano è di 65 anni, a fronte di 71.8 nell’intera Cisgiordania.

Gli autori affrontano la questione della sicurezza e le restrizioni di movimento ad essa dovute. Affermano che la sicurezza si ottiene non solo con strumenti militari, ma riducendo la motivazione della parte avversa a lottare contro di te. La situazione di povertà crescente e di qualità della vita in continuo peggioramento crea un focolaio di rabbia e disperazione che potrebbe portare, prima o poi, ad ulteriori cicli di violenza.

Gli autori non trattano della mancanza di sicurezza per i palestinesi, che sono spesso attaccati da esercito e polizia, o dai coloni.

Infatti, proprio in questi giorni, gli abitanti di nuovi avamposti non autorizzati eppure prosperi nel nord della Valle del Giordano stanno facendo uso di intimidazioni e violenze per scacciare pastori e contadini palestinesi da un’ampia zona di territorio. Perciò gli autori farebbero bene ad aggiungere una raccomandazione: adottare metodi per sventare attacchi dei coloni, che probabilmente aumenteranno se le persone responsabili consentiranno ai palestinesi maggiore accesso alle loro terre.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Come Israele utilizza il gas per rafforzare la dipendenza palestinese e promuovere la normalizzazione

Di Tareq Baconi – 12 marzo 2017, Al-Shabaka

Sintesi

L’occupazione israeliana dei territori palestinesi non esiste solo sul territorio. Dal 1967 Israele ha sistematicamente colonizzato le risorse naturali dei palestinesi e, nel campo degli idrocarburi, ha impedito ai palestinesi l’accesso alle loro riserve di petrolio e di gas.

Queste restrizioni hanno garantito la continua dipendenza dei palestinesi da Israele per le loro esigenze energetiche. I tentativi degli stessi palestinesi di sviluppare un proprio settore energetico non riescono a far fronte alla complessiva egemonia di Israele sulle risorse palestinesi. Al contrario, perseguono la crescita e la costruzione dello Stato all’interno della situazione dell’occupazione, rafforzando ulteriormente – anche se in modo involontario – l’equilibrio asimmetrico tra occupato ed occupante.

Il commentatore politico di Al-Shabaka Tareq Baconi inizia prendendo in considerazione il contesto dei recenti accordi sul gas. Continua discutendo come i tentativi di sviluppare il settore dell’energia palestinese non riesca a far fronte a questa situazione e si basi principalmente su pratiche che cercano di eludere l’occupazione e che intendono migliorare la qualità della vita nel contesto dell’occupazione. Come sostiene Baconi, in ultima istanza questi tentativi rafforzano il ruolo dei territori palestinesi come mercato vincolato a favore delle esportazioni di energia israeliane e getta le basi per una normalizzazione a livello regionale sotto la definizione di “pace economica”. Egli sottolinea che una pace durevole e la stabilità si otterranno solo se i fattori fondamentali che tengono i palestinesi soggetti al dominio di Israele vengono affrontati e propone una serie di raccomandazioni politiche su come farlo.

L’impatto politico dell’abbondanza di gas israeliana

Fino a pochi anni fa sia Israele che la Giordania facevano notevole affidamento sulle importazioni di gas egiziano. Nel 2011-2012 e soprattutto dopo la caduta del regime del presidente Hosni Mubarak, le esportazioni di gas dall’Egitto sono diventate intermittenti. Ciò era dovuto sia a problemi interni nel settore energetico egiziano che alla crescente instabilità nella penisola del Sinai, che ospita il principale percorso del gasdotto che rifornisce Israele e Giordania. Con la caduta delle importazioni dall’Egitto, Israele e Giordania hanno iniziato a cercare fonti alternative di rifornimento. Nel 2009 un consorzio israelo-americano di imprese dell’energia ha scoperto “Tamar”, un giacimento a circa 80 km al largo della costa di Haifa, che contiene circa 300 miliardi di m3 di gas. Con la sicurezza energetica israeliana a rischio, il consorzio si è mosso rapidamente verso la produzione ed il gas ha iniziato a scorrere nel 2013. Un anno dopo la scoperta di “Tamar” lo stesso consorzio ha identificato il giacimento di gas “Leviatano”, molto più grande, stimato per circa 450 miliardi di m3 di gas.

Nel giro di qualche anno Israele è passato dall’essere un importatore di gas dalla regione ad aver acquisito le potenzialità per diventare un esportatore. Ha guardato sia ai mercati locali che a Paesi confinanti e ad altri più lontani per identificare potenziali destinatari delle esportazioni. Nelle sue immediate vicinanze le implicazioni per procedere verso la normalizzazione economica sono state evidenti: come ha recentemente dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu, produrre gas da “Leviatano” “fornirà gas a Israele e promuoverà la cooperazione con Paesi della regione.”

La Giordania è diventato il primo Paese che si è impegnato a comprare gas israeliano. Poco dopo la scoperta di “Leviatano” sono iniziati negoziati tra Giordania e Israele, e nel 2014 è stato firmato un Memorandum l’Intesa (MdI). Quello stesso anno accordi per la vendita di gas sono stati conclusi anche tra i gestori di “Tamar” e due operatori industriali giordani, la “Jordan Bromine” e le compagnie “Arab Potash”. Il MdI firmato con il governo giordano ha comportato l’impegno per la Giordania a comprare gas israeliano per un periodo di 15 anni. Questo è stato accolto con violente proteste in Giordania: molti militanti hanno rifiutato l’accordo con Israele, sopratutto a causa del massacro a Gaza di quell’anno, ed i parlamentari giordani hanno votato contro l’accordo. All’inizio del 2017 il gas ha iniziato a scorrere da Israele alla “Jordan Bromine” e alle “Arab Potash”, benché gli operatori abbiano mantenuto un basso profilo per evitare di riaccendere proteste.

La rabbia perché la Giordania stava finanziando il settore del gas israeliano è stata aggravata dal fatto che aveva altre prospettive per procurarsi il gas. In seguito alla riduzione del gas egiziano, la Giordania ha costruito un terminal per l’importazione di gas liquido ad Aqaba, sulle coste del Mar Rosso, che ha iniziato a funzionare nel 2015. Oltretutto la scoperta da parte dell’Egitto dell’enorme giacimento di gas “Zohr” nel 2016 ha ridato vita alla prospettiva del ritorno dell’Egitto al ruolo di fornitore regionale di gas. Ciononostante, ed indubbiamente in seguito a influenze esterne, la Giordania ha formalizzato il suo MdI con Israele nel settembre 2016, ignorando le obiezioni del parlamento e le proteste popolari.

Da quando Israele è diventato ricco di gas, la penosa situazione della Striscia di Gaza è divenuta più che mai dura. La Striscia di Gaza è stata sottoposta a blocco dal 2007. La “Gaza Power Generation Company” (GPGC), l’unica compagnia del suo genere in territorio palestinese, attualmente funziona con combustibile liquido comprato e trasportato nella Striscia di Gaza dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), in Cisgiordania. Per integrare l’energia fornita dalla GPGC, Gaza acquista elettricità dalla compagnia elettrica israeliana, così come dalla rete elettrica egiziana (1). Anche così il combustibile acquistato per generatori di energia a Gaza è insufficiente per soddisfare la domanda locale e, da quando Israele ha imposto il blocco, la Striscia ha sofferto di una cronica carenza di elettricità.

All’inizio del 2017 sono scoppiate proteste a Gaza, in quanto i suoi abitanti sulla costa si sono lamentati di avere elettricità solo per tre o quattro ore al giorno. Oltre alle terribili restrizioni che queste carenze comportano per aspetti della vita quotidiana, le interruzioni di elettricità hanno un impatto devastante sulle attività economiche del settore privato, dei servizi sanitari, dell’educazione e su servizi vitali come gli impianti di depurazione delle acque. Attività intermittenti in questi settori hanno conseguenze che sono sia immediate che durature, colpendo le nuove generazioni.

Le lamentele per la crisi energetica a Gaza sono dirette in ogni direzione. I manifestanti che si sono riversati nelle strade quest’inverno hanno incolpato il governo di Hamas, l’ANP e Israele. La rabbia era rivolta contro il governo di Hamas perché si sostiene che sposta fondi dall’acquisto del combustibile necessario per far funzionare l’unico impianto di energia di Gaza verso altre attività, compresa la costruzione di tunnel. I manifestanti esasperati hanno accusato l’ANP di appoggiare il blocco, controllando le forniture di combustibile e i trasferimenti a Gaza. La stessa compagnia dell’energia, un operatore di proprietà di un privato, è ripetutamente criticata perché trarrebbe profitti a spese dei normali cittadini di Gaza che soffrono per queste carenze. Per mitigare i mesi invernali particolarmente duri di fine 2016 e inizio 2017, interventi nel settore dell’energia di Gaza sono arrivati dalla Turchia e dal Qatar nella forma di forniture di combustibile che hanno consentito la ripresa della produzione di energia da parte della GPGC. Queste misure rappresentano al massimo un palliativo a breve termine, che porterà i gazawi verso un altro capitolo di una crisi cronica.

In quest’ondata di rabbia e di recriminazioni della popolazione, l’impatto del blocco israeliano sulla Striscia di Gaza e della più complessiva colonizzazione e del controllo delle risorse palestinesi da parte di Israele è poco presente, se non spinto in secondo piano.

Eppure i palestinesi hanno scoperto le riserve di gas circa un decennio prima dell’abbondanza di gas di Israele. Nel 1999 al largo delle coste di Gaza fu scoperto il giacimento “Gaza Marine” e la licenza di sfruttamento e produzione venne concessa al “BG Group”, la maggiore impresa britannica di petrolio e gas, finché non è stata acquisita dalla Shell. Nei primi giorni dalla scoperta questa ricchezza nazionale è stata salutata come un passo avanti che avrebbe potuto offrire ai palestinesi una ricchezza inaspettata. Quando gli accordi di Oslo, firmati nel 1993, sembravano ancora credibili, la scoperta di questa risorsa fu vista come qualcosa che avrebbe potuto fornire ai palestinesi una fondamentale risorsa verso l’autodeterminazione.

Con una stima di 30 miliardi di m3 di gas, il “Gaza Marine” non è sufficientemente grande per permettere l’esportazione. Ma i volumi di gas che contiene sono sufficienti per rendere il settore palestinese dell’energia interamente autosufficiente. Non solo i palestinesi non avrebbero dovuto importare il gas o l’elettricità israeliani o egiziani, ma la Striscia di Gaza non avrebbe sofferto di nessuna carenza di elettricità. Oltretutto l’economia palestinese avrebbe goduto di una significativa fonte di entrate.

Questo passo verso la piena sovranità non doveva avvenire. Nonostante continui tentativi dei possessori del giacimento e degli investitori di sviluppare il “Gaza Marine”, Israele pose rigide restrizioni che impedirono la messa in pratica di qualunque intervento. Ciò nonostante il fatto che l’esplorazione e la produzione dal “Gaza Marine” sarebbero state relativamente semplici grazie alla scarsa profondità del giacimento e alla sua collocazione nei pressi delle coste palestinesi (2). Secondo documenti scoperti da Al-Shabaka, Israele all’inizio impedì lo sviluppo di questo giacimento in quanto cercava di ottenere condizioni commercialmente favorevoli per il gas prodotto. Dopo che Israele scoprì risorse energetiche proprie iniziò a far riferimento a “questioni di sicurezza” che furono accentuate quando Hamas prese il controllo della Striscia di Gaza. Benché Netanyahu abbia preso in considerazione la concessione ai palestinesi per lo sviluppo del “Gaza Marine” nel 2012 come parte di una più complessiva strategia per stabilizzare la Striscia di Gaza, questi tentativi devono ancora concretizzarsi. In seguito alla recente acquisizione del BG Group da parte di Shell e al programma di cessione di investimenti globale di quest’ultima, è probabile che il “Gaza Marine” sarà svenduto.

Finché Israele non porrà fine al proprio dominio sull’economia palestinese, questa risorsa palestinese probabilmente rimarrà bloccata. In effetti, il modo in cui le scoperte di gas israeliano e palestinese hanno plasmato lo sviluppo economico in Israele e nei territori palestinesi illustra la disparità di potere tra le due parti. A differenza di Israele, che rapidamente si è garantito l’indipendenza energetica dopo la scoperta dei suoi giacimenti di gas, i palestinesi sono stati incapaci di accedere ad una risorsa che hanno scoperto quasi due decenni prima. Invece di affrontare le cause profonde del blocco e del regime di occupazione che ha impedito il loro controllo su risorse come il “Gaza Marine”, i palestinesi sono obbligati a cercare soluzioni immediate per ridurre la pressante penuria che devono affrontare. Benché ciò sia comprensibile nel contesto di una brutale occupazione, i tentativi di migliorare la qualità della vita sotto occupazione trascurano l’obiettivo strategico a lungo termine di garantire l’indipendenza energetica all’interno del più complessivo obiettivo di liberazione dall’occupazione e del raggiungimento dei diritti dei palestinesi.

Pace economica e normalizzazione

Le scoperte di gas di Israele sono spesso sbandierate come potenziali catalizzatori di una trasformazione regionale. Il posizionamento dello Stato di Israele come fornitore di energia ai vicini con scarse risorse è considerato un mezzo sicuro per facilitare l’integrazione economica tra Paesi come Giordania ed Egitto, così come con i palestinesi. I benefici economici che gasdotti a buon mercato possono offrire a questi Paesi sono visti come soluzione per ogni preoccupazione sociale e politica tra i loro cittadini riguardo alle relazioni con Israele. Questo modo di pensare parte dal presupposto che attraverso l’integrazione economica la stabilità che ne deriva diminuirebbe le prospettive di instabilità in una regione esplosiva, in quanto Israele ed i suoi vicini incominciano ad integrarsi in una interdipendenza.

La nozione di “pace economica” ha una lunga storia nella regione e si è manifestata in varie forme, comprese le recenti proposte di sviluppo economico del segretario di Stato John Kerry. Questa visione sembra favorita anche dall’ambasciatore dell’amministrazione Trump in Israele, David Friedman. Invece di affrontare direttamente l’impasse politico provocato dalla prolungata occupazione e da altre violazioni israeliane, queste proposte affrontano questioni relative alla qualità della vita, al commercio o alla crescita economica, presumibilmente come un passo avanti verso la pace. Con un punto di vista di questo genere, dopo le scoperte di gas israeliane, l’amministrazione Obama ha iniziato a verificare modi per posizionare Israele come fulcro energetico regionale.

Sostenitori di questo approccio, che separa i diritti nazionali e politici dagli incentivi economici, affermeranno che c’è un ovvio vantaggio economico perché il gas israeliano sia usato all’interno del territorio palestinese e in Giordania. Ora Israele ha un’eccedenza di gas e queste regioni sono ancora dipendenti dalle importazioni di energia. Nel caso dei territori palestinesi, esiste già una dipendenza da Israele, e non solo a Gaza: quasi l’80% del consumo dei palestinesi è fornito da Israele, con la Cisgiordania che importa quasi tutta la sua energia elettrica da Israele. Chi propugna la pace economica crede che le prospettive di instabilità si riducano quando si rafforza questa dipendenza reciproca.

Il dipartimento di Stato USA, guidato da una tale convinzione, ha facilitato molti negoziati per il gas tra Israele, Giordania e i palestinesi. L’inviato e coordinatore speciale per le Questioni Energetiche Internazionali, recentemente nominato, un incarico attraverso il quale gli USA hanno rafforzato il proprio settore della diplomazia energetica in tutto il mondo sotto l’amministrazione Obama, ha incoraggiato discussioni per permettere l’esportazione di gas israeliano alla Giordania ed ai palestinesi, con evidente successo.

In prospettiva la Giordania non è l’unico destinatario del gas israeliano. Nel 2010, l’ANP ha approvato piani per la creazione della “Compagnia Palestinese per la Generazione di Energia” (PPGC), la prima impresa di questo genere in Cisgiordania e la seconda nei territori palestinesi dopo la GPGC a Gaza. Situato a Jenin, questo impianto della potenza di 200 megawatt è gestito da investitori privati (compresi PADICO e CCC [società palestinesi. Ndtr.]), che stanno lavorando per rafforzare il settore palestinese dell’energia, garantendo la produzione di energia elettrica in Cisgiordania e riducendo l’alto costo delle importazioni di elettricità da Israele. PPGC ha iniziato negoziati con Israele per comprare gas dal giacimento “Leviatano” per produrre elettricità. I palestinesi hanno protestato contro questa decisione, invocando sforzi per sviluppare il “Gaza Marine” invece di basarsi sul gas israeliano. I colloqui sono falliti nel 2015, ma non è chiaro se si sia trattato di una sospensione solo temporanea.

I pericoli di una sovranità monca

C’è una serie di pericoli nazionali e regionali derivanti dalla spinta a una più stretta integrazione attraverso accordi sul gas in mancanza di azioni concomitanti sul piano politico.

Il primo pericolo è che la sicurezza energetica palestinese sia legata alla buona volontà di Israele. Israele può, ed in passato l’ha fatto, utilizzare il proprio potere per interrompere di fatto le forniture ai consumatori palestinesi. La più evidente (e violenta) manifestazione della volontà israeliana di negare l’energia ai palestinesi è stata la sua decisione di distruggere senza esitazione l’unica impresa di produzione di energia nella Striscia di Gaza durante i bombardamenti dell’enclave costiera nel 2006 e di nuovo nel 2014.

In secondo luogo questo approccio legittima l’occupazione israeliana, che presto entrerà nel suo cinquantesimo anno. Non solo non ci sono costi per il fatto che Israele impedisce la costruzione di uno Stato palestinese, ma c’è piuttosto un profitto diretto sotto forma di ricavi dalla vendita di gas a territori mantenuti per un tempo indefinito sotto il controllo territoriale israeliano.

Terzo punto, e forse il più importante, questo scambio e commercio di energia nel perseguimento della pace economica in assenza di ogni prospettiva politica rafforza semplicemente lo squilibrio di potere tra le due parti – l’occupante e l’occupato. Una simile integrazione trasmette una finzione di relazioni giuridiche sovrane tra una potenza occupante e un’economia imprigionata in Cisgiordania e a Gaza.

Si deve ripensare a simili iniziative per il miglioramento delle condizioni di vita che sono state attuate negli anni ’80, con il diretto incoraggiamento della Casa Bianca di Reagan, come a un’alternativa mancata all’impegno politico con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Gli sforzi costanti per eludere le richieste politiche dei palestinesi attraverso queste misure hanno consentito ad Israele di gestire, piuttosto che risolvere, il conflitto.

Il caso del gas dimostra nel modo più evidente come i tentativi di costruire lo Stato palestinese attraverso lo sviluppo di risorse nazionali siano stati tolti di mezzo in favore della riduzione delle crisi energetiche all’interno del quadro di una sovranità monca. Invece di affrontare l’incapacità palestinese di sfruttare le proprie risorse naturali, i diplomatici americani stanno attivamente lavorando con Israele per facilitare negoziati che migliorino la “qualità della vita” dei palestinesi, che alla fine li lasciano per sempre nelle mani di Israele.

Questo approccio porta con sé anche pericoli su scala regionale. La Giordania è attualmente dipendente da Israele per circa il 40% delle sue importazioni di energia. La volontà della Giordania di entrare in questo tipo di dipendenza, nonostante notevoli svantaggi geo-strategici, fa progredire la normalizzazione dei rapporti di Israele nella regione anche se mantiene la sua occupazione dei territori palestinesi. Questa disponibilità preannuncia parecchie minacce in un momento in cui l’amministrazione Trump sta proponendo il perseguimento di misure diplomatiche “dall’esterno all’interno” che potrebbero ignorare completamente i palestinesi.

Strategie di rifiuto

In condizioni normali la dipendenza mutua e lo sviluppo economico sono effettivamente garanzie contro l’instabilità e portano il vantaggio di migliorare la qualità della vita degli abitanti della regione. Tuttavia non devono essere visti come un fine in sé, e sicuramente non come un sostituto della realizzazione dei diritti dei palestinesi. Una simile de-politicizzazione può solo arrivare fino a un certo punto. Concentrarsi esclusivamente sulla pace economica ha conseguenze disastrose proprio perché ciò ignora il contesto storico più complessivo che ha portato alla dipendenza dei palestinesi, e forse della regione.

La crescita economica non eliminerà mai le richieste dei palestinesi per la sovranità e i diritti o la domanda di autodeterminazione. Questa è una lezione che è stata pienamente articolata con lo scoppio della prima Intifada quasi 30 anni fa, dopo decenni di relazioni economiche normalizzate tra Israele ed i territori sottoposti alla sua occupazione militare. Mentre la “pace economica” può fornire un diversivo a breve termine, ciò preparerà il terreno verso una maggiore stabilità solo se costruito sulle fondamenta dell’uguaglianza e della giustizia.

Il diritto dei palestinesi alle loro risorse è soggetto ai negoziati per lo status finale con gli israeliani. Gli attuali accordi condotti sul gas creeranno una infrastruttura di dipendenza che sarà difficile da districare nel caso di un accordo negoziato. Cosa più importante, dato che sono svanite le speranze di una soluzione negoziata per due Stati, questi accordi concretizzano semplicemente lo status quo.

Perciò, mentre le relazioni economiche devono essere perseguite per alleviare le sofferenze umane, come nel caso dell’incremento di forniture di combustibile e di elettricità a Gaza, l’OLP e l’ANP, come anche la società civile palestinese ed il movimento di solidarietà con la Palestina, devono continuare ad utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione per operare a favore della giustizia e dei diritti per i palestinesi.

Nell’immediato futuro, se gli accordi per il gas continuano nonostante l’opposizione popolare, i negoziatori palestinesi coinvolti in una prospettiva di accordi per il gas con Israele devono quanto meno insistere su clausole che non escludano le prospettive di un futuro gas proveniente dal “Gaza Marine”. Ciò può essere fatto creando meccanismi legali che permettano l’introduzione dell’accesso di parti terze negli accordi di fornitura. Benché sia difficile negoziare simili condizioni, ciò è di vitale importanza, in quanto lascia spazio alla flessibilità riguardo a future forniture dal “Gaza Marine” e a una limitata dipendenza da Israele. I contratti per la fornitura di gas dovrebbero anche includere norme per la revisione dei termini dell’accordo nel caso di importanti sviluppi sul piano politico.

I negoziatori palestinesi dovrebbero anche guardare alla resistenza della società civile per rafforzare i suoi tentativi piuttosto che tentare di rifiutarli o schiacciarli. Ci sono modelli che possono essere emulati secondo cui negoziatori sono in grado di sfruttare il potere dei movimenti popolari contro alcuni di questi accordi. Quando si tratta di diritti all’acqua, per esempio, c’è un’unità operativa dedicata (EWASH [l’impresa palestinese delle acque. Ndtr.]) che coordina il lavoro di gruppi locali ed internazionali. EWASH ha portato avanti una campagna che ha messo in luce il furto di acqua da parte dei coloni israeliani a danno dei palestinesi ed ha sollevato la questione al Parlamento Europeo. Forse una coalizione simile potrebbe essere formata per mobilitarsi a favore della sovranità energetica.

Al contempo l’OLP/ANP deve usare questi negoziati economici come un mezzo per garantire che Israele sia chiamato a risponderne piuttosto che come un modo di accettare una dipendenza ancora maggiore. In particolare, lo status di Stato osservatore non membro che la Palestina si è garantito all’ONU deve essere utilizzato per fare pressione nelle sedi legali internazionali, come la Corte Penale Internazionale, per spingere Israele a rispettare le sue responsabilità come potenza occupante in base alle leggi internazionali. Ciò significa che gli compete la responsabilità di garantire il livello di vita degli abitanti sotto il suo controllo, compresa la fornitura di elettricità e combustibile, e che deve rendere conto delle decisioni di “chiudere i rubinetti”che potrebbe prendere.

Alcuni elementi di pace economica posso essere utili ai palestinesi nel breve termine a sostegno della crescita e dello sviluppo economico. Ma questi non possono arrivare al prezzo di uno stato di dipendenza indefinito e di sovranità monca. I palestinesi devono lavorare su due fronti: spingere per rendere l’occupazione israeliana responsabile nei consessi internazionali; devono assicurarsi che le prospettive di integrazione economica obbligata ed ogni tentativo da parte di Israele di imporre una realtà di Stato unico dell’apartheid siano accompagnati da un appello ai diritti ed all’uguaglianza. Qualunque sia la visione politica perseguita per Israele e per i palestinesi, la dirigenza palestinese deve formulare una strategia riguardo a questi accordi per il gas e contestualizzare la nozione di sviluppo economico all’interno della più complessiva lotta per la liberazione della Palestina.

Note

(1) Queste misure per la fornitura ed il trasporto di combustibile sono in linea con il Protocollo delle Relazioni Economiche, noto anche come “Protocollo di Parigi”, sancito tra Israele e l’OLP come parte degli accordi di Oslo.

(2) “Gaza Marine” non è l’unico giacimento che i palestinesi non sono stati in grado di sfruttare. Anche i campi di petrolio in Cisgiordania hanno affrontato problemi di accesso a causa di restrizioni da parte di Israele.

Tareq G. Baconi è esperto di politica di Al-Shabaka con sede negli USA. Il suo ultimo libro “Hamas: le politiche della resistenza, consolidamento a Gaza” è stato pubblicato dalla Stanford University Press. Tareq ha conseguito un dottorato di ricerca in Relazioni Internazionali presso il King College di Londra, che ha completato durante una carriera come consulente per l’energia. Ha anche titoli di studio dell’università di Cambridge (Relazioni Internazionali) e dell’Imperial College di Londra (ingegneria chimica). Tareq è un ricercatore associato presso il Progetto USA per il Medio Oriente. Suoi scritti sono stati pubblicati su “Foreing Affairs”, “Sada: Carnegie Endowment for International Peace”, sul “Guardian”, l’”Huffington Post”, il “Daily Star”, Al Ghad e “Open Democracy”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La morte di un palestinese accende le proteste contro la cooperazione dei dirigenti della Cisgiordania con Israele.

Amira Hass, 15 marzo 2017,Haaretz

Basil al-Araj, di 33 anni, è stato ucciso vicino a Ramallah da soldati israeliani, che affermano che lui fosse ricercato dalle forze di sicurezza. Le fonti palestinesi sostengono tutt’altro.

Basil al-Araj, trentatreenne di Betlemme, è stato ucciso da soldati israeliani e poliziotti di frontiera lunedì scorso, nell’appartamento in cui si nascondeva ad Al-Bireh, vicino a Ramallah. L’esercito asserisce che era ricercato dalle forze di sicurezza ed è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco con i soldati arrivati ad arrestarlo. Fonti palestinesi sostengono che l’esercito ha sparato una granata nell’appartamento.

La sua morte ha riacceso il dibattito tra i palestinesi sulla cooperazione per la sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese ed Israele ed ha scatenato proteste, come al solito represse dai servizi di sicurezza dell’ANP. E questo, ancora una volta, ha innescato ulteriori proteste.

La repressione della ridotta protesta di domenica davanti al tribunale di Al-Bireh, a cui ha partecipato anche il padre di Al-Araj, non era insolita. I servizi di sicurezza dell’ANP hanno represso molte proteste.

Tuttavia sono state le circostanze ad essere inconsuete: dentro al tribunale sei giovani avrebbero dovuto affrontare un processo con l’accusa di detenere illegalmente armi e di aver messo in pericolo delle vite. Ma solo uno era presente. Altri quattro sono stati arrestati da Israele alcuni mesi fa. Il sesto era Al-Araj.

L’anno scorso tutti e sei sono stati detenuti in un carcere palestinese per circa sei mesi e rilasciati in seguito ad uno sciopero della fame. Poi quattro sono stati arrestati da Israele e Al-Araj è ha fatto perdere le sue tracce. Secondo quanto riportato dai palestinesi, nonostante avesse le prove che quei quattro si trovavano in prigioni israeliane, il giudice ha semplicemente rinviato il loro processo al 30 aprile, adducendo che si trattava di detenuti amministrativi che potrebbero essere rilasciati per quella data. Ha annullato l’incriminazione di Al-Araj solo dopo aver ricevuto il suo certificato di morte.

All’esterno, qualche dozzina di manifestanti, tra cui giovani donne e vecchi militanti contro l’occupazione israeliana, dimostravano contro la cooperazione per la sicurezza con Israele. I servizi di sicurezza dell’ANP hanno cercato di impedire all’emittente Falastin Al-Youm, legata alla Jihad islamica, di trasmettere la manifestazione in diretta.

Poi, nonostante la presenza di donne, i servizi di sicurezza hanno disperso i dimostranti con spintoni, brutali percosse, granate stordenti e gas lacrimogeni. Il gas si è diffuso nella strada dove si trovano anche una scuola ed un asilo.

Tra i feriti trasportati in ospedale c’era il padre del ragazzo morto. Uno dei quattro dimostranti arrestati per parecchie ore era Khader Adnan, famoso per il lungo sciopero della fame contro la sua detenzione senza processo in Israele. La polizia dell’ANP ha detto che i dimostranti sono stati dispersi perché bloccavano una strada importante.

Fotografie della repressione della protesta sono state diffuse nei social media, insieme ad appelli a tornare nelle strade, invece di limitarsi a denunce su Facebook. E’ stata indetta un’altra manifestazione per la giornata di ieri a Ramallah e sono stati sollecitati a parteciparvi giornalisti ed avvocati.

Anche una precedente manifestazione, svoltasi nel campo profughi di Deheishe per commemorare Al-Araj e protestare contro la cooperazione per la sicurezza con Israele, è stata dispersa con la forza. Questo ha spinto il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ad annunciare un boicottaggio delle elezioni amministrative previste in Cisgiordania a maggio.

Come al solito, le opinioni su Facebook erano divergenti. Alcuni avanzavano il sospetto che i servizi di sicurezza dell’ANP avessero aiutato Israele a rintracciare Al-Araj e sostenevano che anche la sua incriminazione costituisse cooperazione con l’occupazione. Altri denunciavano la dispersione della protesta, ma mettevano in guardia dalle accuse di tradimento e dal paragonare la polizia palestinese ai soldati israeliani. Gli attivisti di Fatah non si sono assunti la responsabilità per le azioni della polizia, tralasciando il fatto che la loro organizzazione è il partito al governo e che i suoi membri ricoprono ruoli chiave nei servizi di sicurezza.

Al-Araj, che era farmacista, faceva parte della sinistra palestinese. Ha partecipato a proteste popolari pacifiche contro il progetto di Israele di costruire un muro attraverso Al-Walaja, un villaggio ad ovest di Betlemme, ed espropriare i suoi terreni per costruire un parco pubblico per gli israeliani. Ha partecipato anche alle proteste popolari contro le colonie e la normalizzazione con Israele.

La lotta popolare pacifica è stata sconfitta: il muro è stato costruito, la popolazione ha perso le sue terre o ne è stata scacciata, le colonie si stanno espandendo e la cooperazione per la sicurezza dell’ANP con Israele continua. Gli amici di Al-Araj dicono che questa sconfitta lo ha spinto ad abbracciare i metodi della lotta palestinese del 1936 – armarsi, entrare in clandestinità, salire sulle colline, rischiare l’arresto e la morte. La strada tragica che lui ha intrapreso e che, nonostante tutto, la grande maggioranza non prende, è la prova del vicolo cieco in cui si trova la politica palestinese.

Come sempre, le ultime proteste e i tentativi di reprimerle hanno risvegliato la speranza che si potrà spezzare l’impasse nella politica palestinese, che il monopolio che Mahmuod Abbas detiene sulla politica all’interno dell’OLP, di Fatah e dell’ANP potrà essere indebolito. L’esperienza insegna che, dopo un’iniziale repressione delle proteste, l’ANP trova il modo di disperderle. Ma c’è un accumulo costante di amarezza, disgusto, disperazione e rabbia. Non c’è modo di sapere come, o per quanto tempo, i servizi di sicurezza dell’ANP saranno in grado di arginare questi sentimenti o di reprimere l’attività politica da essi generata.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Netanyahu ha offerto al leader dell’opposizione di insistere insieme per un’iniziativa di pace regionale – e poi ha fatto marcia indietro

Barak Ravid – 5 marzo 2017 Haaretz

Netanyahu ed Herzog avevano raggiunto una sensazionale intesa sei mesi fa; una dichiarazione congiunta al Cairo, compresa la disponibilità per un compromesso territoriale e una riduzione della costruzione di colonie, era pronta ad essere seguita dall’annuncio di un governo di unità. Ma la crisi di Amona ha interrotto le trattative.

Sei mesi fa il primo ministro Benjamin Netanyahu ha inviato al leader dell’opposizione Isaac Herzog un documento contenente una dichiarazione congiunta per sollecitare un’iniziativa di pace regionale e stringere un governo israeliano di unità – prima di fare marcia indietro qualche settimana dopo.

Netanyahu ha mandato il documento ad Herzog sette mesi dopo un incontro di pace segreto ad Aqaba, Giordania, riportato due settimane fa da Haaretz.

Il documento rifletteva la volontà di Netanyahu di arrivare ad un compromesso territoriale in una soluzione dei due Stati con i palestinesi e un freno alla costruzione delle colonie.

Tre settimane dopo aver inviato la proposta e dopo aver concluso un accordo di massima, Netanyahu ha iniziato a tirarsi indietro durante la crisi politica in merito all’avamposto non autorizzato di Amona, in Cisgiordania. In ottobre i contatti tra le due parti si sono interrotti e alla fine sono falliti.

Il documento, consegnato da Netanyahu a Herzog il 13 settembre dopo due giorni di colloqui, era una bozza che avrebbero dovuto sottoporre ad un summit al Cairo o a Sharm el-Sheikh insieme al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e forse al re di Giordania Abdullah II. Quell’incontro avrebbe dovuto aver luogo all’inizio di ottobre.

Era previsto che il summit avrebbe lanciato l’iniziativa di pace regionale e poco dopo che Netanyahu ed Herzog fossero tornati in Israele, avrebbero dovuto annunciare l’inizio di una maratona negoziale per un governo di unità.

Una serie di leader internazionali sarebbero stati coinvolti nel processo; figure di spicco in Giordania e in Egitto, così come l’ex primo ministro britannico Tony Blair – che era direttamente coinvolto nei contatti – e l’ex- segretario di Stato USA John Kerry ed alcuni dei suoi consiglieri, sarebbero state informate del documento.

Ben Caspit, del quotidiano “Maariv”, ha riportato qualche mese fa alcuni dettagli della proposta, ma questa è la prima volta che il documento viene interamente pubblicato.

In risposta a questo articolo, l’ufficio del primo ministro ha affermato: “La descrizione relativa ad un possibile processo regionale che non è stato realizzato è totalmente falsa. L’argomento non ha niente a che fare con Amona. Il primo ministro Netanyahu è interessato a procedere in un’iniziativa regionale. Chiunque le abbia fornito questa informazione non è a conoscenza dei dettagli, o li sta falsificando.”

L’ufficio di Herzog ha rifiutato di commentare il documento, che viene riportato integralmente qui di seguito:

“Desideriamo ringraziare il presidente al-Sisi per la sua volontà di svolgere un ruolo attivo per far progredire la pace la sicurezza nella regione e rilanciare il processo di pace.

“Riaffermiamo il nostro impegno per la soluzione dei due Stati per due popoli e il nostro desiderio di perseguire questa soluzione.

“Israele desidera la fine del conflitto e di ogni rivendicazione, il riconoscimento mutuo tra due Stati nazionali, il rafforzamento della sicurezza e una soluzione territoriale condivisa che, tra le altre cose, riconosca i centri abitati esistenti.

“Nella ricerca della pace, Israele tende la mano ai palestinesi per iniziare negoziati diretti e bilaterali senza condizioni.

“Israele vede in modo positivo lo spirito generale dell’ iniziativa di pace araba e gli elementi positivi in essa contenuti. Israele apprezza il dialogo con gli Stati arabi riguardo a questa iniziativa, in modo da riflettere sui drammatici cambiamenti degli ultimi anni nella regione e lavorare insieme per procedere verso la soluzione dei due Stati e una pace più complessiva nella regione.

“Nel contesto dei rinnovati tentativi di pace, le attività di colonizzazione di Israele in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) saranno messe in atto in modo da facilitare il dialogo per la pace e l’obiettivo dei due Stati per due popoli.

“Israele lavorerà con l’Autorità Nazionale Palestinese per migliorare in modo significativo le condizioni economiche e la cooperazione economica, anche nell’Area C [sotto totale controllo di Israele in base agli accordi di Oslo. Ndtr.] e per potenziare il coordinamento per la sicurezza.

“Israele auspica una stabilità a lungo termine a Gaza, compresa la ricostruzione umanitaria e concreti accordi per la sicurezza.”

Kerry, Sisi e [il re della Giordania] Abdullah nel febbraio 2016 sono stati presenti al summit di Aqaba, che è stato la base dei contatti tra Netanyahu ed Herzog per formare un governo di unità tra marzo e maggio. I loro contatti sono naufragati alla fine di agosto prima di essere ripresi.

Netanyahu e Kerry si sono incontrati il 26 giugno per una cena di sei ore nel ristorante “Pierluigi” di Roma. Hanno mangiato e bevuto, e si dice che Netanyahu abbia fumato in continuazione sigari cubani. Un ex-funzionario di alto livello USA, parlando in incognito, ha fornito qualche dettaglio della conversazione.

“Qual è il tuo piano per i palestinesi, cosa vuoi che succeda ora?” ha riferito che Kerry ha chiesto a Netanyahu.

Il primo ministro ha detto di auspicare di procedere insieme ai Paesi arabi con un’iniziativa regionale, basata sul piano in cinque punti che aveva presentato ad Aqaba quattro mesi prima.

Kerry ha detto a Netanyahu che i passi che egli aveva intenzione di intraprendere non erano sufficienti per far unire al piano di pace regionale Paesi arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

“Una dichiarazione positiva ma vaga sull’iniziativa di pace araba e passi simbolici sul terreno non ti aiuteranno a portare gli arabi al tavolo delle trattative. Lo so perché gliel’ho chiesto,” ha detto Kerry secondo quanto citato dal funzionario USA. “Non hai un percorso per tornare a colloqui diretti con i palestinesi o un canale di dialogo con i Paesi arabi. Sei arrivato al limite. Qual è il tuo piano?”

Kerry ha presentato a Netanyahu una versione aggiornata dell’iniziativa regionale che ha presentato ad Aqaba. All’inizio di giugno, trenta ministri degli Esteri si sono incontrati a Parigi per partecipare all’iniziativa di pace francese, ma Netanyahu ha snobbato la mossa francese. Kerry ha detto a Netanyahu che il piano aggiornato che suggeriva avrebbe sostituito l’iniziativa francese e incluso l’elemento regionale a cui il primo ministro teneva tanto.

La proposta di Kerry includeva una conferenza di pace regionale comprendente Israele, i palestinesi, i Paesi arabi sunniti come Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, con cui Israele non ha relazioni diplomatiche, la Russia, la Cina e l’Unione Europea. Kerry ha suggerito che la conferenza fosse tenuta sulla base degli stessi sei principi di accordo permanente che aveva presentato al summit di Aqaba e che includevano il riconoscimento di Israele come Stato ebraico.

Kerry ha detto a Netanyahu che Israele ed i palestinesi non avrebbero dovuto adottare i principi e avrebbero anche potuto esprimere pubblicamente riserve su di essi. Ma il summit avrebbe rilanciato i colloqui diretti [tra Israele ed i palestinesi. Ndtr.] e stabilito un canale di negoziato con i Paesi arabi. Ciò avrebbe incluso discussioni su un accordo di sicurezza regionale che Israele desidera e il riconoscimento da parte degli arabi e di molti Paesi occidentali di Israele come Stato ebraico.

Visita a sorpresa di un ministro egiziano

Un ex- funzionario di alto livello americano ha notato che Netanyahu non ha accettato né rifiutato la proposta di Kerry; ha semplicemente detto che ci avrebbe pensato. Ma due giorni dopo l’incontro con Netanyahu a Roma, Kerry ha chiamato Herzog e l’altra leader dell’alleanza “Unione Sionista”, Tzipi Livni. Kerry li ha informati delle sue conversazioni con Netanyahu e dell’iniziativa che aveva proposto, e ha chiesto loro con discrezione se per loro fosse possibile unirsi alla coalizione di governo.

L’iniziativa francese, insieme alla revisione di Kerry della sua proposta, ha intensificato la pressione su Netanyahu e lo ha portato a riprendere i suoi contatti con Sisi e Blair. Ancora una volta egli ha anche proposto un processo di pace regionale che aggirasse l’amministrazione Obama e non richiedesse ad Israele di impegnarsi sui sei principi di Kerry.

Il 10 luglio, due settimane dopo l’incontro con Kerry a Roma, il Ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry si è recato a sorpresa in visita a Gerusalemme. E’ stata la prima visita in Israele di un ministro degli Esteri egiziano in un decennio, ed è stata preceduta da visite al Cairo dell’inviato di Netanyahu per il processo di pace, Isaac Molho. Durante la visita Shoukri ha incontrato Herzog così come Netanyahu.

Un importante funzionario israeliano informato dei contatti ha affermato che Shoukry è arrivato per verificare se Netanyahu avrebbe confermato quello che aveva detto a Sisi dopo il loro colloquio di metà maggio – che voleva che l’Egitto cercasse di instaurare un dialogo tra Israele ed i palestinesi, con l’appoggio degli Stati arabi. Shoukry ha detto a Netanyahu che l’Egitto voleva sapere quali passi il primo ministro avesse intenzione di compiere per far progredire l’iniziativa di pace, sottolineando che Sisi pensava ancora che portare l’Unione Sionista nella coalizione avrebbe dimostrato la serietà di Netanyahu. Shoukry ha esposto lo stesso messaggio a Herzog.

I contatti internazionali si sono ridotti d’intensità nelle settimane seguenti, nel mezzo dell’estate. Ma Kerry ha continuato a tenere conversazioni settimanali con Netanyahu e con molti altri leader regionali. Un ex alto funzionario diplomatico USA ha detto che Kerry si è rifiutato di arrendersi, nonostante i suoi consiglieri e la Casa Bianca gli dicessero che Netanyahu non era serio e che Kerry stava facendo un errore.

“La Casa Bianca ha detto a Kerry che il presidente Obama voleva lasciare Netanyahu e (il presidente Mahmoud) Abbas cuocere nel loro brodo, ma Kerry ha insistito perché la questione era molto importante per lui,” ha detto l’ ex alto funzionario diplomatico USA.

Il 21 agosto Kerry ha chiamato Herzog e Livni ancora una volta. Ha detto loro che intendeva visitare Egitto e Arabia Saudita entro poche settimane in un ultimo tentativo di fare pressione per una conferenza di pace regionale basata sui principi che aveva presentato a Netanyahu ad Aqaba e a Roma. I principi sarebbero stati sottoposti alla conferenza a nome di tutti i partecipanti, ma Israele ed i palestinesi avrebbero potuto sollevare obiezioni.

Secondo l’ex alto funzionario diplomatico USA e una fonte israeliana al corrente dei contatti, Kerry ha detto ad Herzog e Livni di credere di poter portare Netanyahu, Abbas e gli Stati arabi, compresa l’Arabia Saudita, a una simile conferenza, che avrebbe segnato un cambiamento storico per la regione.

Allora Kerry è arrivato al punto principale della sua telefonata: “Non voglio interferire nella politica israeliana,” ha detto. “Ma alla luce di queste circostanze, prendereste in considerazione la possibilità di unirvi alla coalizione [di governo in Israele. Ndtr.]? Anche questo sarebbe un cambiamento molto importante.”

L’ ex alto funzionario diplomatico USA e la fonte israeliana hanno rilevato che Livni non ha rifiutato le notazioni di Kerry, ma è sembrata molto scettica sulle intenzioni di Netanyahu. Anche Herzog, che era rimasto scottato da Netanyahu pochi mesi prima, era molto scettico, ma ha espresso la volontà di esaminare la proposta se avesse ricevuto da Paesi della regione indicazioni che la conferenza sarebbe stata un’iniziativa seria.

Quella settimana Herzog ha parlato con importanti funzionari di Egitto, Giordania e Stati arabi che non hanno rapporti diplomatici con Israele, in un tentativo di stabilire se un processo di pace regionale avesse una possibilità. In alcune conversazioni ha sentito che i leader arabi avevano intenzione di cooperare con l’iniziativa di Kerry, ma in altre l’approccio era piuttosto “sì, ma..”

Herzog si è reso conto che c’erano fondamentalmente due percorsi in competizione: quello di Kerry, che includeva principi per raggiungere un accordo permanente e tenere una conferenza importante, e un secondo guidato da Blair e dall’Egitto, che riguardava misure più limitate e un summit più ridotto e modesto.

Nell’ultima settimana di agosto, quando i contatti internazionali erano al loro massimo, Herzog ha ricevuto una telefonata da Netanyahu. Il primo ministro ha detto di voler cercare ancora una volta di progredire in un processo regionale con Sisi, e di voler sapere se Herzog avrebbe ancora una volta preso in considerazione di partecipare a un governo di coalizione. Herzog, molto scettico e prudente, ha fatto due richieste: sentire direttamente Egitto e Giordania sull’argomento e ricevere le proposte di pace di Netanyahu per iscritto.

Nei giorni seguenti entrambe le richieste di Herzog sono state esaudite. Primo, un inviato egiziano che si è recato in Israele gli ha detto che Sisi era davvero interessato a un processo di pace regionale e importanti funzionari giordani gli hanno inviato lo stesso messaggio per telefono. Secondo, il 13 settembre Netanyahu ha spedito ad Herzog il documento dell’iniziativa di pace, con una bozza della dichiarazione congiunta.

Nelle due settimane successive Netanyahu ed Herzog hanno tenuto intensi contatti, segnati da frequenti discussioni. Secondo un collega di Herzog, il leader dell’opposizione ha chiesto una serie di modifiche del documento. Primo, Herzog ha rifiutato la richiesta di Netanyahu che il termine “costruzione governativa” fosse utilizzato nella dichiarazione in riferimento alle colonie e ha chiesto che ogni riferimento includesse ogni tipo di costruzioni.

In più, Herzog ha chiesto che la sospensione delle costruzioni nelle colonie isolate al di fuori dei blocchi delle colonie non dipendesse dal fatto che ci fossero in corso colloqui con i palestinesi. Piuttosto le politiche a questo proposito sarebbero state stabilite da lui e da Netanyahu come politiche del governo, anche se questo non è stato detto apertamente. Netanyahu ha accettato tutti i punti, e la dichiarazione è stata riscritta per riflettere questo accordo.

Il secondo punto riguardava un significativo cambiamento nella politica israeliana rispetto al territorio della Cisgiordania classificato come Area C in base agli accordi di Oslo, in cui Israele detiene il controllo esclusivo, sia militare che civile, per consentire un maggiore sviluppo edilizio ed economico palestinese. Netanyahu ha accettato di chiarire questa questione nella dichiarazione.

Inoltre Herzog ha chiesto l’aggiunta al documento della dizione “Stato palestinese con continuità territoriale.” Netanyahu non era d’accordo, e le parti hanno continuato i negoziati sulla questione.

Progetti per una conferenza stampa sensazionale

Poco prima che Netanyahu lasciasse il Paese per andare all’assemblea generale dell’ONU alla fine di settembre, era stato raggiunto un accordo quasi totale sul linguaggio della dichiarazione. Per Molho l’obiettivo era di andare al Cairo per siglare l’accordo con l’Egitto appena Netanyahu fosse tornato da New York.

Al contempo Netanyahu ed Herzog si sarebbero recati segretamente all’inizio di ottobre al Cairo, dove si sarebbe tenuta una conferenza stampa sensazionale con Sisi e possibilmente anche con re Abdullah. Avrebbero letto la dichiarazione congiunta che avrebbe stabilito un’iniziativa di pace regionale guidata da Egitto e Giordania, con la partecipazione di altri Stati arabi.

Secondo il piano, subito dopo il loro ritorno dal Cairo, Netanyahu ed Herzog avrebbero tenuto una conferenza stampa all’aeroporto Ben Gurion a cui sarebbero stati presenti il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman [del partito di estrema destra “Israele casa nostra”. Ndtr.] e il Ministro delle Finanze Moshe Kahlon [del partito di centro Kulanu. Ndtr.]. Sarebbe stato annunciato un governo di unità, e la presenza di Kahlon e Lieberman avrebbe dimostrato il loro appoggio alla dichiarazione del Cairo.

Il 20 settembre Netanyahu è arrivato a New York per l’assemblea generale dell’ONU. Nel suo discorso ha accennato all’iniziativa di pace regionale che era stata discussa dietro le quinte.

“Non ho rinunciato alla pace. Rimango impegnato in una visione di pace basata sui due Stati per due popoli. Credo come mai prima d’ora che i cambiamenti che stanno avendo luogo adesso nel mondo arabo offrano un’opportunità unica per promuovere questa pace,” ha affermato Netanyahu.

“Mi congratulo con il Presidente egiziano al-Sisi per i suoi tentativi di far progredire la pace e la stabilità nella nostra regione. Israele accoglie favorevolmente lo spirito dell’iniziativa di pace araba e un dialogo con gli Stati arabi per raggiungere una pace complessiva. Credo che, affinché questa pace complessiva sia pienamente raggiunta, i palestinesi ne debbano fare parte. Sono pronto ad iniziare negoziati per ottenerla oggi – non domani, non la prossima settimana, oggi.”

Due giorni dopo Netanyahu si è incontrato con Kerry a New York. Kerry lo ha informato dell’incontro dei Ministri degli Esteri del Quartetto [composto da ONU, UE, Russia, USA e Regno Unito. ndtr.] di pochi giorni prima, a cui aveva partecipato anche il Ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir. Secondo un ex diplomatico di alto livello USA, Kerry ha detto a Netanyahu che Jubeir aveva chiarito che, se israeliani e palestinesi si fossero accordati sui principi dei negoziati e fossero stati fatti progressi, l’Arabia Saudita e altri Stati arabi sunniti avrebbero iniziato a fare passi per normalizzare i rapporti con Israele.

“Jubeir ha chiarito che i sauditi non lo avrebbero fatto solo in cambio di qualche permesso di lavoro israeliano concesso ai palestinesi,” come avrebbe detto Kerry, citato dall’ex diplomatico USA, a Netanyahu. Kerry ha nuovamente sollecitato Netanyahu ad accettare la sua proposta di una conferenza internazionale per raggiungere un accordo permanente e ha detto che i sauditi vi avrebbero partecipato.

“Abbiamo spostato il consenso internazionale nella tua direzione,” ha detto Kerry. “Perché non sei disposto ad accettare la mia proposta?”

Un ex diplomatico USA di alto livello ha affermato che Netanyahu ha detto a Kerry che era più propenso al processo con l’Egitto e con Herzog. “Sarebbe più facile per me andare avanti con Herzog all’interno della coalizione,” ha detto Netanyahu.

L’ex-diplomatico ha detto che Kerry a quel punto era disperato. “Capisco quello che stai facendo,” avrebbe detto Kerry a Netanyahu. “Stai cercando di prendere tempo fino a quando sarà insediata la nuova amministrazione.”

Netanyahu non lo ha negato. Il diplomatico ha detto che Netanyahu ha preferito il canale separato che stava gestendo con Herzog e l’Egitto.

“Netanyahu voleva controllare il processo,” ha affermato il diplomatico. “Voleva allargare la coalizione, voleva una piccola conferenza senza un eccessivo coinvolgimento internazionale, e, cosa più importante, non voleva i principi stabiliti da Kerry per un accordo finale. Quindi ha annacquato la proposta in tutti i modi possibili.”

Netanyahu ha telefonato ad Herzog alcune volte da New York e si sono accordati per incontrarsi subito dopo il ritorno di Netanyahu per stendere una dichiarazione congiunta e i dettagli per la costituzione di un governo di unità. Pochi minuti prima della partenza da New York i collaboratori di Netanyahu hanno contattato quelli di Herzog. Netanyahu è in genere cauto con le sue conversazioni telefoniche, teme intercettazioni, ma sembra che in questo caso volesse e persino sperasse che gli americani lo ascoltassero.

I consiglieri del primo ministro hanno chiarito ai collaboratori di Herzog che volevano mandare Molho al Cairo, e hanno chiesto un accordo finale sulla formulazione della dichiarazione. Benché rimanessero alcuni punti critici, Herzog ha ritenuto che quei problemi non fossero fondamentali e ha detto a Netanyahu che non avrebbero bloccato un accordo. Netanyahu è partito per Israele e la sensazione era che entro pochi giorni lui ed Herzog sarebbero andati al Cairo e avrebbero pronunciato una dichiarazione sensazionale.

Ma 12 ore dopo, una volta che Netanyahu è atterrato, non ha dato istruzioni a Molho di andare al Cairo.

Due giorni dopo l’ex-presidente Shimon Peres è morto, e per parecchi giorni non ci sono stati contatti tra Netanyahu ed Herzog sulla questione. Dopo Rosh Hashanah [il capodanno ebraico. Ndtr.] sono stati ripresi i contatti ma da parte di Netanyahu si è iniziato a cambiare approccio.

Molho, il capo di gabinetto di Netanyahu e Netanyahu hanno detto ad Herzog di voler aspettare di fare il passo fino alla soluzione della crisi di Amona, la cui evacuazione all’epoca era prevista per la fine di dicembre.

Da allora è risultato chiaro ad Herzog e ai suoi consiglieri che Netanyahu aveva cambiato idea e che l’occasione per un’iniziativa regionale e un governo di unità stava sfumando.

“Netanyahu ha iniziato a ritirarsi progressivamente dalla sua dichiarazione politica,” ha detto una fonte del partito Laburista coinvolta nei colloqui. “Un po’ alla volta ha cercato di fare marcia indietro da quello che era già stato concordato e ha cercato di posticiparlo a causa di Amona e delle pressioni di ” Habayit Hayehudi” [“Casa Ebraica”, partito di estrema destra dei coloni. Ndtr.]- suo alleato di destra nella coalizione.

I colloqui sono continuati per qualche giorno, compreso un difficile incontro fallito tra Netanyahu ed Herzog la mattina prima dello Yom Kippur [festività ebraica. Ndtr.]. Passata l’urgenza, non è restato altro ad entrambe le parti che dichiarare finiti i negoziati.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Nonostante le dichiarazioni di Trump durante l’incontro con Netanyahu, Abbas e i palestinesi tirano un sospiro di sollievo.

Amira Hass, 16 febbraio 2017 Haaretz

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dalla dominazione israeliana, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid.

La dirigenza palestinese non ha nascosto la sua preoccupazione circa le notizie che gli americani hanno rinunciato ad appoggiare la creazione di uno Stato palestinese. Di fatto questo non è stato il messaggio inequivocabile che le dichiarazioni di Donald Trump hanno trasmesso nella conferenza stampa di mercoledì. Ognuna delle parti potrebbe rintracciarvi elementi per rafforzare la propria posizione.

Anche se gli Stati Uniti rinunciassero effettivamente a sostenere uno Stato palestinese, che cosa cambierebbe in realtà? Le amministrazioni USA precedenti a Trump hanno parlato di qualche soluzione dei due Stati e non hanno fatto niente per portarla avanti. Cioè, non hanno fatto niente per impedire ad Israele di bloccarla. Però le loro dichiarazioni e le loro promesse hanno indotto la dirigenza palestinese di Ramallah a mentire a sé stessa ed al suo popolo facendo credere che questa fosse la soluzione che la grande potenza appoggiava.

Questa costante menzogna – accompagnata da una massiccia assistenza finanziaria americana – è stata uno degli strumenti con cui la dirigenza dell’OLP, Fatah e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno continuato a dar ragione della propria esistenza. Quella menzogna ha aiutato a giustificare il mantenimento degli accordi con Israele, compreso il coordinamento per la sicurezza. Non stupisce che gli USA eroghino considerevoli contributi finanziari alle forze di sicurezza palestinesi.

La nuova musica che adesso arriva dalla Casa Bianca pone la domanda se i cambiamenti negli Stati Uniti possano indebolire ancor più lo status della leadership palestinese agli occhi dei palestinesi stessi e se quindi la sua esistenza sia in pericolo.

Trump è arrivato e Trump se ne andrà, mentre i palestinesi insistono con la loro richiesta di essere liberati dal giogo israeliano, che per loro significa occupazione militare, colonialismo, apartheid. Per il popolo palestinese che vive qui [nei Territori Occupati] e per quello della diaspora questi non sono slogan, ma la realtà quotidiana.

Ventiquattro anni fa questa Nazione ha avuto una leadership popolare che ha fatto un generoso regalo ad Israele e agli ebrei – la soluzione dei due Stati. E’ così che i palestinesi hanno interpretato gli accordi di Oslo. Ma Israele ha rifiutato il dono.

La dirigenza palestinese poteva capire anche prima dell’assassinio di Yitzhak Rabin che Israele stava bluffando. Che mentre diceva “due Stati” creava enclaves. L’OLP si è intrappolata nella politica dei negoziati nella speranza che l’Occidente avrebbe fatto pressioni su Israele, che ci sarebbero stati cambiamenti politici positivi in Israele e che gli Stati arabi sarebbero intervenuti. Ma c’è anche un’altra ragione. La dirigenza palestinese ha trasformato la burocrazia di un’organizzazione per la liberazione nazionale in una burocrazia che governa, completa di autoconservazione e aggrappata alla propria posizione.

Il timore del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dei suoi colleghi di una deriva militare che danneggerebbe il loro popolo (come la Seconda Intifada) è reale e giustificato. Ma si confonde con gli interessi personali suoi e del gruppo di potere.

Al tempo stesso, ha preso forma l’illusione di una sovranità limitata all’interno delle enclaves palestinesi. L’ANP in Cisgiordania e Hamas a Gaza forniscono i servizi di base alla popolazione e rendono possibile l’attività pubblica, cosa che non era concessa sotto l’occupazione israeliana diretta.

Pur con tutte le critiche all’ANP per la corruzione, i metodi dittatoriali, l’inefficienza, le carenze nei servizi sociali, ecc., essa continua comunque a provvedere alle necessità fondamentali immediate della popolazione.

La presidenza Trump non è una ragione sufficiente per sciogliere l’ANP e gettare la società palestinese nel caos e nello scompiglio. La leadership palestinese ha ottenuto un’altra pausa.

Mercoledì un ufficiale della sicurezza palestinese ha rivelato ai media palestinesi l’incontro del capo della CIA con Abbas. Il messaggio che sta dietro alla fuga di notizie è chiaro. “Non preoccupatevi, l’esistenza dell’Autorità Palestinese sta a cuore agli Stati Uniti. Le istituzioni di Washington comprendono che il mantenimento del regime di enclaves garantisce una sorta di stabilità della sicurezza.”

Probabilmente stanno dicendo la stessa cosa al nuovo presidente. L’elemento più importante che può compromettere questa precaria stabilità non è Trump, ma un’escalation dell’oppressione israeliana e della sua politica di colonizzazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




‘Un assassinio’: i palestinesi chiedono di agire contro la legge israeliana del furto di terre

di Sheren Khalel, 7 febbraio 2017,Middle East Eye

Le autorità affermano che lo scopo della legge che consente ad Israele di espropriare le proprietà palestinesi è l’annessione della maggior parte della Cisgiordania, e chiedono sanzioni internazionali.

BETLEMME, Cisgiordania occupata – Martedì la Knesset (parlamento) israeliana è stata accusata di “assassinare” le prospettive di un accordo di pace per due Stati, dal momento che i palestinesi, la comunità internazionale e le associazioni israeliane per i diritti umani hanno condannato l’approvazione del disegno di legge volto a legalizzare l’esproprio di terre di proprietà privata palestinese nella Cisgiordania e a Gerusalemme est, illegalmente occupate.

Il voto, che è passato con 60 a favore contro 52, è stato portato in aula pochi giorni dopo che le forze israeliane avevano evacuato l’avamposto israeliano di Amona, in seguito a una sentenza della Corte Suprema israeliana.

La decisione è stata applaudita da membri della destra israeliana, come Shuli Moalem-Refaeli – capo del partito Casa Ebraica (di estrema destra, ndtr.) ed uno dei co-promotori del disegno di legge – che, come riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, ha detto che la legge significa che gli israeliani residenti nelle colonie ‘non saranno più un obbiettivo delle organizzazioni estremiste di sinistra che intendono distruggere e danneggiare le colonie’.

Ma Mustafa Barghouti, leader del movimento ” Iniziativa Nazionale Palestinese”, ha detto a Middle East Eye che la legge ha rappresentato un punto di svolta nei rapporti tra palestinesi e israeliani.

Questa legge è un assassinio della soluzione dei due Stati”, ha detto Barghouti. “E’ un atto che mira all’annessione della maggior parte della terra in Cisgiordania.”

Mentre le autorità israeliane avevano già la possibilità di confiscare terre palestinesi sotto il pretesto della sicurezza, come anche della dichiarazione di utilizzo come terra dello Stato, adesso la nuova legge significa che la terra di proprietà privata palestinese può essere confiscata esclusivamente per la costruzione di colonie, il che è giudicato illegale dal diritto internazionale.

Sono certo che il prossimo passo di Israele sarà l’annessione della colonia di Maale Adumim”, ha detto Barghouti, riferendosi ad una colonia israeliana illegale situata nella zona E1 (a nord est di Gerusalemme, ndtr.) della Cisgiordania occupata.

In altri termini, Israele sta legalizzando le colonie con l’intenzione di annetterle a Israele, che è ciò che avverrà adesso.”

Le previsioni di Barghouti sono in linea con (quanto affermato dal) deputato israeliano Bezalel Smotrich, un altro co-promotore della legge, che l’ha definita “un passo storico verso il completamento di un processo che intendiamo avviare; l’applicazione della piena sovranità israeliana su tutte le città e le comunità in Giudea e Samaria [il termine usato dal governo di Israele per indicare la Cisgiordania].”

L’approvazione della legge segna la prima volta che la Knesset approva una legge che esercita giurisdizione sulla Cisgiordania.

Motivo di sanzioni’

Questa legge è senza dubbio motivo di sanzioni da parte della comunità internazionale”, ha detto Barghouti.

E adesso non vi sono giustificazioni per l’Autorità Nazionale Palestinese per rimandare un deferimento alla Corte Penale Internazionale – davanti a cui Israele dovrebbe comparire –; ogni mancanza di azioni punitive contro Israele dovrebbe ora essere ritenuta un’accettazione delle sue azioni.”

Husam Zumlot, il consigliere per le questioni strategiche del Presidente palestinese Mahmoud Abbas, ha affermato che la prossima mossa a livello politico deve provenire dalla comunità internazionale.

La soluzione dei due Stati è stata sempre un progetto della comunità internazionale che noi abbiamo seguito, ma adesso è necessario che queste questioni, relative a ciò che dovrebbe accadere ora, vengano demandate alla comunità internazionale”, ha detto Zumlot.

La comunità internazionale deve decidere che cosa fare rispetto a questo progetto, perché questa legge è una risposta di Netanyahu alla recente risoluzione delle Nazioni Unite contro le colonie, all’iniziativa della Francia e alla comunità internazionale in generale.”

Zumlot ha aggiunto che l’ Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha in programma di “riunirsi immediatamente” per discutere il da farsi.

Quando si riuniranno prenderanno le iniziative necessarie a salvaguardare gli interessi nazionali del popolo”, ha detto.

Abbas, che era a Parigi per colloqui col presidente francese Francois Hollande, ha definito la legge “un attacco contro il nostro popolo”, che va contro gli auspici della comunità internazionale.

Martedì Hanan Ashrawi, membro del comitato esecutivo dell’OLP, ha espresso opinioni analoghe, chiedendo sanzioni ed azioni punitive.

Pulizia etnica’

E’ indispensabile che la comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti e l’Unione Europea, assuma le proprie responsabilità morali, umane e giuridiche e metta fine all’illegalità di Israele ed al suo sistema di apartheid e di pulizia etnica”, ha detto.

L’assunzione di responsabilità dovrebbe includere misure punitive e sanzioni, prima che sia troppo tardi.”

Issa Amro, attivista palestinese e fondatore di “Giovani Contro gli Insediamenti”, ha detto a MEE che l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe intraprendere ogni strada possibile per ottenere appoggio per azioni punitive contro Israele da parte della comunità internazionale, dalla Corte Penale Internazionale alle Nazioni Unite, ed azioni bilaterali degli Stati.

Ha aggiunto che l’ANP dovrebbe anche incoraggiare i palestinesi a manifestare contro la legge nelle strade.

Abbiamo bisogno di praticare la disubbidienza civile”, ha detto Amro. “L’ANP dovrebbe incoraggiare la disubbidienza civile per dimostrare la nostra opposizione alle azioni di Israele.”

L’associazione israeliana per i diritti “B’Tselem” ha definito la legge una “disgrazia per lo Stato e la sua autorità legislativa.”

L’associazione ha dichiarato: “La legge approvata oggi dalla Knesset prova una volta di più che Israele non intende porre fine al suo controllo sui palestinesi o al furto della loro terra”

Approvare la legge poche settimane dopo la risoluzione 2334del Consiglio di Sicurezza [in cui il Consiglio ha condannato l’attività di colonizzazione israeliana come ‘flagrante violazione’ del diritto internazionale] è uno schiaffo in faccia alla comunità internazionale. Se inserire l’esproprio in una legge costituisce uno sviluppo nuovo, in pratica è un altro aspetto del massiccio furto di terra portato avanti sfacciatamente per decenni dichiarandola ‘terra dello Stato’ ”.

Intanto Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch, ha affermato che la legge “annulla anni di consolidata legislazione israeliana.”

Intervenendo solo alcune settimane dopo l’unanime approvazione della risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza sull’illegalità delle colonie, la legge rispecchia il palese disconoscimento del diritto internazionale”, ha detto Shakir.

La legge consolida ulteriormente l’attuale realtà di permanente occupazione de facto in Cisgiordania, in cui i coloni israeliani ed i palestinesi che vivono sulla stessa terra sono soggetti a sistemi giuridici, norme e servizi ‘separati ed ineguali.’ ”

Shakir ha concluso la sua dichiarazione con una frecciata alla nascente relazione del presidente USA Donald Trump con Israele, affermando che “i dirigenti israeliani che guidano la politica di colonizzazione dovrebbero sapere che l’amministrazione Trump non può proteggerli dal controllo della Corte Penale Internazionale, dove il procuratore continua ad esaminare l’illegale attività di colonizzazione di Israele.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Pesanti pene detentive a membri di Fatah per rapporti con Ramallah’

Amira Hass, 2 febbraio 2017 Haaretz

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani condannano le sentenze come ingiuste e le accuse come vaghe – e le confessioni sono state ottenute sotto tortura.

La settimana scorsa un tribunale militare di Gaza ha comminato pesanti pene detentive ad otto membri di Fatah per “ aver recato danno all’unità rivoluzionaria”, in base alla legge penale rivoluzionaria dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), scritta a Beirut nel 1979. Gli otto uomini sono tutti membri delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Tre di loro sono stati condannati ai lavori forzati a vita e gli altri cinque hanno ricevuto pene tra i 7 e i 15 anni di prigione, anch’essi ai lavori forzati.

Le sentenze per i reati, che si fondavano su “ rapporti con Ramallah”, sono state pronunciate sulla base delle confessioni degli imputati, anche se tutti loro mostravano segni che le confessioni erano state ottenute sotto tortura.

Le pesanti condanne hanno sorpreso non solo gli imputati e le loro famiglie, ma anche le organizzazioni palestinesi per i diritti umani, che le hanno condannate in quanto ingiuste. Hanno definito le accuse fumose e troppo generiche e la legge rivoluzionaria incostituzionale e carente dei benché minimi standard di giustizia internazionale.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani, la più antica organizzazione per i diritti umani nella Striscia di Gaza, mercoledì ha detto che avrebbe rappresentato gli imputati in appello. Fatah ha accusato le sentenze di essere politicamente motivate.

Il più anziano tra gli imputati, Mohammed Abed al-Khader Ali, di 50 anni, appartenente al servizio di sicurezza preventiva dell’ANP, è stato condannato all’ergastolo in contumacia. Ora si trova in Cisgiordania.

Gli altri sette sono stati arrestati nel novembre 2015, ma solo due di loro sono stati trattenuti in prigione per tutto il periodo. Gli altri, di età compresa tra 30 e 44 anni, sono stati rilasciati in diverse fasi fino alla fine del processo.

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani ha dichiarato in un comunicato stampa che le pene sono state comminate senza la minima equità e in assenza del diritto di quelli incarcerati a difendersi. Il Centro ha affermato che c’erano chiari segni che le confessioni fossero state estorte attraverso gravi torture.

La corte ha nominato degli avvocati difensori per i sette ed un legale ha detto al Centro che i suoi clienti presentavano sul corpo chiari segni di ferite e di suture ed alcuni soffrivano di trauma psichico e delirio come conseguenza dell’arresto.

Secondo quanto riferito dal Centro, i difensori hanno detto che le azioni dei loro assistiti non erano altro che attività politiche e che le confessioni sono state estorte con la forza.

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani e gli avvocati per anni hanno condotto battaglie contro il modo abituale di agire di Hamas a Gaza, e prima dell’ANP a Ramallah, di utilizzare tribunali militari per processare dei civili.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




I palestinesi sostengono che gli USA minacciano “gravi misure” se i [loro] dirigenti denunciano Israele al tribunale internazionale

Jack Khoury 1 febbraio 2017 | Haaretz

I dirigenti palestinesi sono furiosi per i nuovi avvertimenti dell’ amministrazione Trump riguardo alla [possibile] sospensione degli aiuti e persino al reinserimento dell’OLP nella lista dei gruppi terroristici.

Secondo fonti diplomatiche occidentali e arabe, Washington ha ammonito i dirigenti palestinesi che, qualora denunciassero Israele nei tribunali internazionali, andrebbero incontro a gravi misure da parte dell’amministrazione statunitense, quali la chiusura degli uffici dell’OLP nella capitale americana e la cessazione degli aiuti economici all’Autorità palestinese.

Haaretz è venuto a conoscenza che il messaggio dell’amministrazione Trump è stato inoltrato tramite il consolato americano, e non dalla Casa Bianca o dal Dipartimento di Stato, e che si è trattato di una conversazione telefonica con un dirigente palestinese in contatto diretto con il Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas.

Un’alta fonte palestinese ha detto a Haaretz che nella prima settimana da presidente Donald Trump ha firmato un decreto esecutivo di una mozione del Congresso, redatta durante la presidenza Obama, per fare passi contro l’Autorità palestinese e contro Fatah( la maggiore componente dell’OLP) nel caso in cui i palestinesi denuncino Israele.

“Nonostante la risoluzione del Congresso, i dirigenti palestinesi contavano sulla denuncia alla Corte [Penale Internazionale] come mezzo per arrestare la costruzione delle colonie. Ma il messaggio di questi giorni proveniente da Washington ha messo in chiaro che qualunque mossa del genere dei palestinesi provocherebbe una grave reazione americana, talmente forte che qualcuno ha parlato di rimettere l’OLP nella lista delle organizzazioni terroristiche,” ha riferito la fonte palestinese.

Il sabotaggio della strategia palestinese”

Haaretz è venuta a sapere che i dirigenti palestinesi si sono infuriati per i messaggi di Washington, definendoli un tentativo di sabotare tutta la strategia palestinese degli ultimi anni di abbandono della lotta armata e della violenza in favore di [un’attività] diplomatica internazionale collaborando con le istituzioni delle Nazioni Unite e con la comunità internazionale per realizzare la soluzione dei due Stati.

“Ogni decisione presa, dal riconoscimento della Palestina fatta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2011 fino all’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza del dicembre 2016, aveva lo scopo di salvare la soluzione a due Stati” ha detto la fonte palestinese a Haaretz . “La politica di Netanyahu, compresa quella degli ultimi giorni, di accelerare la costruzione di migliaia di unità abitative, complice il silenzio di Washington, significa lo smantellamento di qualunque possibilità di una futura soluzione diplomatica” ha detto la fonte riferendosi al primo ministro israeliano.

Nel frattempo il ministro degli esteri palestinese ha duramente condannato la decisione di costruire migliaia di unità abitative in Cisgiordania, affermando che ciò rende la soluzione a due Stati una chimera.

Alti dirigenti palestinesi , incluso il segretario generale di Fatah Saeb Erekat, si sono appellati alla comunità internazionale perché intervenga senza indugi.

Nel frattempo fonti di Ramallah , quartier generale della Autorità Nazionale Palestinese, ammettono che, a causa della minaccia americana, non è stata presa nessuna decisione di denunciare Israele ai tribunali internazionali.

Haaretz è venuta a sapere che i dirigenti palestinesi discuteranno nei prossimi giorni della questione. “La minaccia americana è seria, ma gli americani e l’amministrazione Trump hanno parlato di volere la soluzione a due Stati e contemporaneamente hanno permesso a Netanyahu di continuare con la sua politica devastante e lo hanno sostenuto, il che è inconcepibile. Da palestinesi continueremo ad agire su ogni fronte internazionale per salvare la soluzione a due Stati e ci aspettiamo che la comunità internazionale faccia lo stesso” ha detto un funzionario palestinese che è a conoscenza nei dettagli dei messaggi trasmessi da Washington a Ramallah.

Per diversi anni l’Autorità Nazionale Palestinese si è mossa per trascinare in giudizio alla Corte Penale Internazionale dell’Aja Israele per presunti crimini di guerra come mezzo per contrastare la legalità delle colonie ebraiche in Cisgiordania.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La Palestina nell’era di Trump

19 gennaio 2017,The New Yorker

 Rashid Khalidi

Con l’avvento a Washington di un’amministrazione con nuove e radicali priorità riguardo ad Israele e disprezzo nei confronti dei diritti dei palestinesi, la Palestina sta affrontando una situazione scoraggiante. Negli scorsi anni avevano già iniziato ad evidenziarsi predominanti indirizzi politici in America e in Israele. Ora abbiamo raggiunto il punto in cui i rappresentanti di un Paese nellaltro potrebbero praticamente essere scambiati: l’ambasciatore di Israele a Washington, Ron Dermer, che è cresciuto in Florida, potrebbe facilmente essere l’ambasciatore USA in Israele, mentre l’ambasciatore designato da Trump in Israele, David Friedman, che ha stretti legami con il movimento dei coloni israeliani, potrebbe benissimo fare l’ambasciatore a Washington per il governo favorevole ai coloni di Benjamin Netanyahu.

Mentre il sollecito interesse dell’America per Israele e il suo disinteresse per i palestinesi erano in precedenza celati dietro all’imparzialità, con Trump stiamo per assistere a una più totale convergenza tra la dirigenza politica americana e il governo più sciovinista, religioso e di destra nella storia di Israele. Saranno questo governo israeliano e le sue nuove anime gemelle americane che prenderanno le decisioni in Palestina almeno per i prossimi anni.

L’intera struttura politica ed economica palestinese costituita dagli accordi di Oslo del 1993 era fondata sull’idea che si sarebbe trasformata in uno Stato palestinese reale, sostenibile e con continuità territoriale. Quella illusione, sostenuta da molti palestinesi, è stata ormai dissolta. Quella struttura imperfetta era anche basata sulla premessa, quanto meno ingenua, che gli Stati Uniti avessero un interesse nazionale nel moderare il comportamento di Israele e nel raggiungere un minimo di giustizia in Medio Oriente. Anche questa premessa è stata distrutta.

Per i palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese, stabilita dagli accordi di Oslo in apparenza come parte di un accordo temporaneo per l’autogoverno palestinese, continuerà a fare più danno che bene. Poche persone capiscono che la colonizzazione della terra palestinese e l’occupazione militare israeliana durata quasi cinquant’anni, – tra le più lunghe della storia contemporanea – oggi non sarebbero sostenibili senza l’appoggio americano ed israeliano all’ANP ed alle sue forze di sicurezza addestrate dagli USA. La criminalizzazione da parte dell’ANP di ogni forma di resistenza alla spoliazione, alla discriminazione ed al permanente controllo militare da parte di Israele ne hanno fatto, in effetti, uno strumento di collaborazione con l’occupazione. Persino bloggers e manifestanti pacifici sono soggetti ad arresti e a soprusi da parte delle forze dell’ANP. Il modo in cui questa istituzione opera contro il proprio stesso popolo fornisce un’anticipazione del futuro che ora i dirigenti sia americani che israeliani prevedono per i palestinesi nei territori occupati: un futuro che è oppresso, controllato e privo di sovranità ed autodeterminazione.

E’ assolutamente chiaro che gli Stati Uniti, nell’era Trump, e Israele, in quella di Netanyahu, non faranno niente per cambiare questo quadro. In un simile contesto, i palestinesi hanno di fronte scelte nette. Possono sottomettersi ai voleri degli USA e di Israele oppure possono ridefinire profondamente e urgentemente il loro movimento nazionale, i loro obiettivi e le modalità della loro resistenza all’oppressione. E’ ora per i palestinesi di abbandonare l’esperimento fallito dell’ANP e forme di violenza che rafforzano solo il dominio della destra sulle politiche israeliane. E’ ora di mobilitare le ampie energie della diaspora palestinese e di smettere di pensare alla Palestina come solo a quei frammenti sotto occupazione israeliana. Ed è tempo di iniziare ad immaginare modi in cui palestinesi ed israeliani saranno finalmente capaci di coesistere in totale uguaglianza nel piccolo Paese che alla fine dovranno condividere, una volta che si sia liberato dalla dominazione di un gruppo sull’altro. Sarà un compito eccezionalmente difficile per i palestinesi, che vengono dall’aver sofferto decenni di guerra, spoliazione ed occupazione.

Ciononostante ci sono segni di speranza, almeno negli Stati Uniti. A dispetto delle posizioni dei dirigenti sia del partito Democratico che Repubblicano, l’opinione pubblica americana si sta allontanando rapidamente da un appoggio acritico ad Israele. Gli americani stanno diventando sempre più solidali con la causa della libertà dei palestinesi. Secondo un sondaggio realizzato dalla Brookings Institution [gruppo di ricerca in scienze sociali di tendenza progressista con sede a Washington. Ndtr.] in dicembre, il 60% dei democratici e il 46% di tutti gli americani appoggia sanzioni o misure più forti contro Israele per la costruzione di colonie ebraiche illegali sulla terra palestinese occupata. Un recente sondaggio del Pew [centro di ricerca statunitense indipendente. Ndtr.] mostra che, per la prima volta, la percentuale di democratici che sono solidali con i palestinesi è praticamente pari a quelli che simpatizzano con Israele, mentre i democratici progressisti sono molto più solidali con i palestinesi (58%) che con Israele (26%).

Con il tempo, questi cambiamenti arriveranno fino ai politici ed ai decisori a Washington. Nel frattempo, ci si aspetta da persone con una coscienza, comprese quelle che stanno resistendo all’ondata di razzismo e di estremismo di estrema destra che si prospetta nellera Trump, che esercitino pressioni sui loro rappresentanti eletti perché siano all’altezza degli ideali di libertà ed uguaglianza che professano e che rendano Israele responsabile delle sue violazioni delle leggi internazionali e del rifiuto dei diritti nazionali ed umani dei palestinesi.

Rashid Khalidi è professore Edward Said di Studi Arabi alla Columbia University e autore, più recentemente, di “Mediatori di menzogna: come gli USA hanno minato la pace in Medio Oriente.”

(traduzione di Amedeo Rossi)