Gli insegnanti danno lezione di democrazia e di cooperazione ai palestinesi

L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta ancora di trattare con i rappresentanti eletti degli insegnanti mentre 700.000 studenti stanno perdendo le lezioni.

di Amira Hass

Haaretz

6 marzo , 2016

Hasib, di Ramallah, è stato insegnante per 27 anni. Il suo stipendio base è di 2.400 shekel [560.19 euro, ndt] che, insieme agli scatti di anzianità, arriva a 3.600 shekel al mese [837.35 euro, ndt].

Il suo fratello più giovane, che lavora nelle forze di sicurezza preventiva palestinesi, è pagato 4.700 shekel al mese [1.095 euro, ndt]. Diversamente da Hasib non possiede una laurea. Hasib, come altre migliaia di insegnanti, sfidando un divieto ufficiale, ha un secondo impiego, e lavora ogni pomeriggio in un ufficio. Altri insegnanti integrano il loro stipendio lavorando in panetterie, vendendo falafel o come tassisti.

La protesta dei docenti palestinesi la settimana scorsa ha raggiunto la quarta settimana [di lotta] e la domanda di una rappresentanza democratica sta diventando sempre più forte. L’Autorità Nazionale Palestinese si rifiuta di trattare con i delegati eletti dagli insegnanti. Circa 700.000 studenti, dei quali 87.000 si stanno preparando agli esami, sono le principali vittime dello sciopero.

Alla fine della settimana scorsa, il comitato che rappresenta gli insegnanti in sciopero ha accettato una soluzione proposta da una commissione unitaria dei vari gruppi parlamentari e da varie ONG. Secondo questa proposta, gli insegnanti dovrebbero riprendere immediatamente il lavoro, mentre il governo entro tre mesi pagherà gli arretrati e aumenterà lo stipendio base del 70% nell’arco di tre anni.

Finora l’ANP ha insistito che gli insegnanti riprendano il lavoro prima di discutere le loro rivendicazioni. Tuttavia gli insegnanti sono stanchi delle promesse del governo, delle dilazioni, delle scuse e non si sono fatti scoraggiare neppure dalle numerose morti palestinesi provocate dalle forze israeliane, dagli arresti e dalle incursioni militari nei paesi e nei villaggi.

Gli insegnanti chiedono un aumento del loro stipendio base, degli scatti di anzianità e una [possibilità di] carriera come per gli altri lavoratori del pubblico impiego, oltre che uguale trattamento per le donne ed elezioni democratiche nel sindacato degli insegnanti.

Alcuni dicono che l’annuncio di alcuni mesi fa secondo cui il governo aveva promosso 180 alti funzionari civili e aumentato gli stipendi delle scorte dei palestinesi importanti di 400-600 shekel [100-120 euro circa, ndt]] ha scatenato la nuova protesta.

A giudicare dalla reazione dell’ANP fino ad ora, sembra che lo sciopero minacci le regole del suo sistema di governo. L’assemblea legislativa è paralizzata dal 2007 e non esiste nessun controllo dell’operato dell’ esecutivo. Fatah domina in tutte le istituzioni governative (compresi i sindacati); nonostante lo sgretolamento del suo movimento, un solo uomo prende le decisioni e stabilisce la linea politica: il presidente Mahmoud Abbas.

Lo sciopero ha prodotto fermenti di democratizzazione e di collaborazione tra i gruppi politici e della società civile di opposizione e ha rinnovato la critica dell’opinione pubblica sul bilancio [dell’ANP] e sulle eccessive dimensioni delle forze di sicurezza.

Il ministro dell’Educazione Sabri Saidam ha detto questa settimana che circa il 70% degli insegnanti è tornato al lavoro. I rappresentanti degli insegnanti negano che sia vero, affermando che la maggior parte degli insegnanti sta ancora scioperando. Un sondaggio reso noto giovedì scorso evidenzia che la maggioranza dell’opinione pubblica (l’84%) pensa che lo sciopero sia giustificato.

La scorsa settimana circolavano molte voci sulle intenzioni delle forze di sicurezza di stroncare la protesta e le manifestazioni degli insegnanti. Finora la polizia palestinese non è riuscita a prevenire le manifestazioni degli insegnanti nelle varie città della Cisgiordania, neppure [quelle] non autorizzate. La gente è troppo favorevole agli insegnanti per provarci ed impedire la protesta. Tuttavia, nel campo profughi di Balata vicino a Nablus è stato recapitato un minaccioso messaggio agli insegnanti. Un gruppo di uomini mascherati che si sono autodefiniti “Shuhada al-Aqsa” e “i falchi di Fatah” hanno tenuto una conferenza stampa martedì. Hanno parlato “ di un complotto ordito dai nemici del popolo palestinese” e hanno avvertito che, come in passato hanno colpito i traditori e i collaborazionisti, attaccheranno chiunque voglia danneggiare Abbas e l’ANP. Il collegamento tra i “traditori” e gli scioperanti era evidente.

Si pensa che dietro questo minaccioso comunicato ci siano i funzionari del sistema di sicurezza, molti dei quali s’identificano con il dispotismo di Abbas

Tuttavia molti esponenti di Fatah appoggiano gli scioperanti. Due, che hanno osato manifestare apertamente il loro appoggio, sono stati convocati per essere interrogati dalla polizia. Bassam Zakarneh, membro del Consiglio rivoluzionario di Fatah, che è stato anche presidente del sindacato dei dipendenti pubblici fino al suo scioglimento, è entrato “in clandestinità” dopo che le forze di sicurezza lo hanno cercato a casa sua. E Najat Abu Baker, un’esponente di Fatah all’Assemblea legislativa, è stata convocata due settimane fa dall’ufficio del Procuratore Generale per essere interrogata dopo che in un’intervista televisiva ha affermato di avere delle prove di [episodi di] corruzione.

Ha sostenuto che un ministro ha preteso soldi dalle persone che attingevano l’acqua da un pozzo ristrutturato. “L’acqua è una risorsa nazionale” ha detto alla stampa. Il ministro ha detto che il pozzo è situato su un terreno privato della sua famiglia e l’ha accusata di diffamazione. Lei è convinta che la convocazione sia una violazione della sua immunità parlamentare. “Con la paralisi dell’assemblea legislativa non abbiamo altra scelta se non rivolgerci ai media” ha detto.

Invece di andare all’ufficio del Procuratore Generale, si è insediata nella sede dell’Assemblea Legislativa a Ramallah ed è rimasta [lì] per quasi due settimane. Una fiumana di persone è andata a solidarizzare con lei e tutte le fazioni, compresa Hamas, hanno manifestato nel cortile in sua difesa.

Abu Baker e altri sono convinti che l’ordinanza per interrogarla e arrestarla dipenda da due ragioni complementari, una il sostegno agli insegnanti l’altra il fatto di essere stata fotografata al Cairo alcuni mesi fa insieme a Mohammed Dahlan, l’ex leader di Fatah a Gaza caduto in disgrazia presso Abbas.

Lo scorso martedì, Hasib era tra le centinaia di insegnanti che protestavano vicino all’edificio dove Abu Baker è barricata. Ingenti forze anti sommossa sono state schierate su entrambi i lati di via Khalil al-Wazir, impedendo agli insegnanti di avvicinarsi al Ministero dell’Educazione o alla via degli uffici governativi. Così i dimostranti hanno marciato verso piazza Manara nel centro di Ramallah. Anziani e giovani, donne e uomini, religiosi e laici, esponenti di sinistra e conservatori, militanti di Fatah e di Hamas hanno marciato insieme rappresentando tutto lo spettro della società palestinese.

Gli studenti delle scuole superiori si sono uniti al corteo cantando il motivo di Piazza Tahrir, “Alzate la testa, siete insegnanti”.

Analoghe proteste, organizzate dal movimento Unitario degli Insegnanti, un comitato provvisorio di coordinamento degli insegnanti in sciopero, sono avvenute contemporaneamente in altre città della Cisgiordania.

Il comitato è stato eletto recentemente da tutti gli insegnanti dopo che la loro dirigenza ufficiale, affiliata all’OLP, cioé il sindacato generale degli insegnanti, si è dimessa in seguito alle critiche da parte degli insegnanti all’accordo firmato con il ministro dell’educazione.

Finora il governo si è rifiutato di incontrare i rappresentanti eletti, insistendo che il sindacato degli insegnanti è il loro legittimo rappresentante.

Sabato il ministro dell’educazione ha annunciato che gli aumenti di stipendio attesi da lungo tempo saranno gradualmente pagati agli insegnanti, ma solamente a quelli che ritorneranno al lavoro.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Abusi e torture nel centro per gli interrogatori di Shikma

Rapporto congiunto di HaMoked e B’Tselem, dicembre 2015

Privazione del sonno, a volte per più giorni di seguito; rimanere legati mani e piedi ad una sedia con limitazione dei movimenti per ore ed ore; essere sottoposti a grida, insulti, minacce, sputi e umiliazioni; esposizione a freddo o caldo estremi; cibo scarso e di cattiva qualità; negazione della possibilità di farsi una doccia o cambiarsi i vestiti per giorni e persino per settimane; detenzione in celle piccole e puzzolenti, di solito in isolamento, per molti giorni.

Ho passato 20 giorni in isolamento totale. Psicologicamente essere solo è come vivere in un gabinetto. Se ti succede qualcosa non lo saprà nessuno. Potresti morire e lo scoprirebbero dopo qualche giorno. Potresti morire in un gabinetto e nessuno lo saprebbe. Sei gettato in un angolo e dimenticato, puoi picchiare alla porta e per quanto baccano tu possa fare non riceverai nessun aiuto. Nessuno ti parla e nessuno ti vede, salvo quando ti portano il cibo. E anche allora non ti parlano. Mettono giù il cibo e se ne vanno. A volte una guardia nerboruta arriva e picchia forte con un bastone, forse per verificare se sei ancora vivo, senza dire niente. […] Perdi persino la voglia di stare in piedi. Al lavoro ero abituato a muovermi, mi risulta difficile stare fermo. Là dentro non hai spazio per muoverti e ti passa la voglia di fare qualunque cosa.

Brano tratto dalla testimonianza di Mazen Abu ‘Arish, un geometra ventiduenne di Beit Ula.

Queste sono alcune delle caratteristiche standard degli interrogatori nel centro per gli interrogatori gestito dall’Agenzia Israeliana per la Sicurezza (ISA) presso la prigione Shikma di Ashkelon, nel sud di Israele. Questo rapporto, basato su deposizioni scritte e testimonianze fornite da 116 palestinesi arrestati per ragioni di sicurezza e interrogati a Shikma dall’agosto 2013 al marzo 2014, descrive le condizioni in cui i detenuti sono tenuti ed interrogati. Praticamente ogni detenuto è stato sottoposto a qualcuna o a tutte queste misure; circa un terzo di loro è stato picchiato o maltrattato da soldati o poliziotti nel corso dell’arresto; almeno 14 di loro sono stati torturati durante l’interrogatorio dall’Autorità Nazionale Palestinese poco prima di essere arrestati dalle forze di sicurezza israeliane.

Le condizioni nella struttura di Shikma sono parte integrante degli interrogatori che vi si svolgono: servono ad indebolire la mente ed il corpo, accompagnando l’effettivo interrogatorio nella stanza degli interrogatori. La combinazione delle condizioni sia dentro che fuori questa stanza costituiscono abusi e trattamenti inumani e degradanti, a volte rappresentano persino delle torture. Sono stati utilizzati sistematicamente contro i palestinesi interrogati a Shikma, una pratica che viola le leggi internazionali, le sentenze dell’Alta Corte di Giustizia Israeliana (HCJ) e i basilari standard morali.

La sedia è piccola e bassa, con una spalliera corta. Tre gambe sono alte uguali e la quarta è più corta. E’ difficile, perché se tu ti addormenti o ti stanchi e cadi sul lato corto, le manette che ti legano alla sedia dietro la schiena ti tirano e fanno terribilmente male alle braccia e alle mani. C’era un’altra sedia, della stessa misura ed altezza ma con le due gambe posteriori più corte. Quando ci stai seduto ti fa stare all’indietro ma chi ti interroga ti grida di stare dritto. Per farlo devi piegarti in avanti. Ti fanno male le mani e la schiena. Il dolore delle braccia e delle mani, e soprattutto del braccio sinistro, è diventato insopportabile.

Brano tratto dalla testimonianza di L.H., fiorista di vent’anni di Hebron, interrogato giorno e notte per 22 giorni.

Nel 1999 l’HCJ israeliana ha proibito l’uso della tortura, di abusi o pratiche degradanti da parte dell’ISA. Nei sedici anni da quella sentenza migliaia di palestinesi sono stati interrogati, molti dei quali con metodi assolutamente proibiti. Questo rapporto prende in esame la situazione in uno specifico centro di interrogatorio durante un ridotto periodo di tempo. Mostra che i sistemi di interrogatori violenti da parte dell’ISA persistono – appoggiati dalle autorità statali, dall’HCJ all’ufficio della Procura Generale a quella militare e al Servizio Penitenziario israeliano (IPS). Il contenuto di ogni memoria scritta, una dopo l’altra e di ogni testimonianza, una dopo l’altra dipingono un quadro estremamente sinistro di quanto succede lungo il percorso verso il centro Shikma e nel braccio destinato agli interrogatori.

Mi sono sentito completamente e assolutamente umiliato. Mi gridavano che sono un asino, una bestia. Dicevano: “Sei spazzatura, un tipo da poco, non vali niente.” Dicevano parolacce riferite alla mia sorellina, che ha una paresi cerebrale, ed hanno ferito il suo onore. Sapevano che mia sorella è paralizzata. L’hanno insultata. Dicevano che fa schifo. Questo è durato per tutti i nove giorni di interrogatorio.

Brano tratto dalla testimonianza di Imad Abu Khalaf, 21 anni, commesso in una panetteria di Hebron.

I detenuti intervistati descrivono ripetutamente il comportamento illecito delle autorità. Le descrizioni assomigliano in modo impressionante a testimonianze rese in precedenza da detenuti in altri centri per gli interrogatori. Prese insieme, sembra che questo comportamento costituisca una prassi ufficiale per gli interrogatori. Messa in atto in modo sistematico, questa politica include violenze e umiliazioni durante l’arresto e l’interrogatorio; condizioni inumane di detenzione che obbligano i detenuti a sopportare sovraffollamento e sporcizia; l’isolamento dei detenuti, sottoposti a deprivazioni sensoriali, motorie e sociali estreme; cibo scarso e di cattiva qualità; esposizione a caldo e freddo estremi; rimanere a lungo legati ad una sedia durante l’interrogatorio, a volte in posizioni eccessivamente penose; prolungate privazioni del sonno; minacce, insulti, grida e derisioni – e in qualche caso persino violenza diretta da parte di chi interrogava.

Sono stato interrogato senza sosta per tre o quattro giorni incessantemente e senza neanche essere messo in una cella. Per tutto il tempo le mie mani erano legate dietro la schiena salvo quando mangiavo o andavo al bagno. La cosa peggiore era che non potevo dormire. Appena mi assopivo, chi mi interrogava gridava forte nelle mie orecchie e mi svegliava. Quelli che mi interrogavano si davano i turni. Questo è durato a lungo. Dopo quattro giorni mi hanno lasciato riposare per due ore al giorno e mi interrogavano il resto del tempo. E’ continuato per dieci giorni. Ricordo di essere rimasto quasi incosciente durante i lunghi interrogatori. E’ stato terribile. Ero praticamente svenuto per la mancanza di sonno e loro continuavano ad interrogarmi.

Brano tratto dalla testimonianza di Husni Najar, ventiquattrenne di Hebron.

Ognuna di queste misure è crudele, inumana e degradante, un effetto aggravato quando viene messo in atto congiuntamente o per prolungati periodi di tempo. In qualche caso l’uso di questi metodi rappresenta una forma di tortura – in violazione delle leggi internazionali, delle sentenze dell’HCJ e delle leggi israeliane.

Oltre ad utilizzare direttamente metodi crudeli, inumani e degradanti, le autorità investigative israeliane partecipano indirettamente alle torture utilizzando consciamente informazioni ottenute attraverso l’uso della tortura – di solito molto grave – da parte di coloro che conducono gli interrogatori per l’Autorità Nazionale Palestinese a danno degli stessi detenuti.

Il sistema degli interrogatori basato su questi metodi, sia per l’interrogatorio in sé che per le condizioni in cui le persone arrestate sono tenute in custodia, è deciso dallo Stato e non si tratta del risultato dell’iniziativa di un singolo investigatore o guardia carceraria. Queste azioni non sono messe in atto da cosiddette “mele marce”, né si tratta di eccezioni che devono essere portate davanti alla giustizia. Il trattamento crudele, inumano e degradante dei detenuti palestinesi è insito nelle prassi di interrogatorio messe in atto dall’ISA, che sono imposte dall’alto e non da chi interroga in concreto.

Mentre il sistema è gestito dall’ISA, una vasta rete di partner collabora per facilitarlo. L’IPS crea le condizioni carcerarie adeguate al piano di interrogatorio destinato a piegare lo spirito del detenuto; i professionisti della salute fisica e psichica dell’IPS approvano l’interrogatorio dei palestinesi che arrivano alla struttura – anche nei casi di problemi di salute – e riconsegnano persino i detenuti a chi li deve interrogare dopo che li hanno curati per i danni fisici e psicologici che hanno subito durante gli interrogatori; soldati e poliziotti commettono abusi sui detenuti mentre li trasportano all’ISA, con i loro comandanti che fanno finta di niente e il procuratore generale militare o civile che non li processa né li rende responsabili delle loro azioni; i giudici militari, in modo praticamente automatico, firmano le istanze di detenzione provvisoria e di fatto avvallano i continui abusi e le condizioni inumane; l’ufficio della procura e il procuratore generale hanno quindi fornito agli interrogatori dell’ISA un’immunità totale; i giudici dell’HCJ respingono sistematicamente le richieste che intendono contrastare la negazione dei diritti dei detenuti ad incontrarsi con i loro difensori. Sono tutti parte, in un modo o nell’altro, sotto vari aspetti del trattamento crudele, inumano, degradante e violento a cui sono sottoposti i detenuti palestinesi nel centro Shikma ed altrove. Le autorità superiori israeliane che permettono l’esistenza di questo sistema illegale di interrogatori sono responsabili delle gravi violazioni dei diritti umani delle persone che vengono interrogate e dei danni fisici e mentali inflitti a questi individui.

Dobbiamo ancora una volta ripetere la richiesta di quello che dovrebbe essere scontato: Israele deve immediatamente interrompere l’uso di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, così come gli abusi e le torture ai detenuti, sia durante gli interrogatori che a causa delle condizioni in cui sono tenuti in custodia. Inoltre Israele deve attenersi al divieto di tortura e abusi anche nell’ambito della sua collaborazione in materia di sicurezza con l’Autorità Nazionale Palestinese.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’ANP tratta il proprio popolo come se fosse il nemico

di Amira Hass,

Haaretz

La politica israeliana produce l’impoverimento e la disoccupazione in Cisgiordania, ma affrontarli ricade sulle spalle dell’ANP, cuscinetto tra il principale responsabile ed il popolo.

“Dove vivi? Non sai che cosa sta succedendo?”

“ Mi sto occupando delle demolizioni.”

“Lascia perdere le demolizioni; i checkpoints circondano tutte le città.”

“Vuoi dire che l’esercito pensa ancora che questo sia un deterrente?”

“ Non si tratta degli ebrei; stamattina tutti i servizi dell’Autorità Nazionale Palestinese hanno installato dei checkpoints alle uscite dalle città e all’ingresso di Ramallah/El Bireh, per impedire agli insegnanti di partecipare ad una manifestazione contro il mancato rispetto degli accordi salariali firmati con loro nel 2013. Dove siamo arrivati? Dove siamo arrivati?”

Ieri i servizi di sicurezza dell’ANP hanno installato cordoni di posti di blocco nelle enclaves dell’area A, dove Israele consente alla polizia palestinese di portare armi. Hanno fatto scendere gli insegnanti dagli autobus e li hanno minacciati di confiscare le loro carte di identità. Gli autobus affittati per il trasporto degli insegnanti sono stati fatti tornare indietro. Ai tassisti è stato detto che avrebbero perso le loro licenze se avessero trasportato i dimostranti.

Chi è riuscito a raggiungere l’enclave di Ramallah e El Bireh è incappato in ulteriori checkpoints ed è rimasto bloccato in lunghe file di auto che non si muovevano. Nella stessa Ramallah il personale di sicurezza ha bloccato le vie tra il palazzo del Consiglio Legislativo Palestinese e l’ufficio del Primo Ministro.

Alle 11 di ieri mattina circa 1000 insegnanti si erano già radunati nella piazza Mahmoud Darwish, di fronte all’ufficio del Primo Ministro. Altre centinaia stavano arrivando a piedi dalle strade vicine in un flusso senza fine. Lentamente la piazza si è riempita.

“Noi, che riusciamo a superare i checkpoints israeliani, non possiamo superare quelli dell’ANP?” hanno detto gli insegnanti che arrivavano dalla zona di Hebron. “Non li abbiamo visti mettere dei checkpoints per impedire all’occupante (l’esercito israeliano) di invadere i nostri villaggi e le nostre case,” ha detto un ascoltatore irato ad una stazione radio locale.

Le proteste e gli scioperi parziali sono ricominciati circa due settimane fa. Fin dalla metà degli anni ’90 gli insegnanti del settore pubblico hanno cercato di spiegare all’ANP che i loro salari e sussidi umilianti offendono gli studenti ed il futuro dell’intera società palestinese. Martedì scorso circa 20.000 persone hanno preso parte ad una manifestazione di insegnanti a Ramallah. I servizi di sicurezza dell’ANP hanno arrestato circa 20 insegnanti e due dirigenti e li hanno rilasciati dopo due giorni. L’accusa dell’ANP che la manifestazione fosse organizzata da Hamas è stata accolta con sdegno dagli insegnanti.

Giovedì è stato raggiunto un accordo con i rappresentanti dei sindacati degli insegnanti, che è affiliato all’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ndt.) e dipende da Fatah, il partito principale dell’ANP [e di Abu Mazen,ndt]. Ma gli insegnanti hanno respinto l’accordo, che non era retroattivo. Sabato e domenica gli altoparlanti della moschea hanno diffuso ordini di rientrare a scuola, ma lo sciopero è continuato.

La protesta degli insegnanti ha portato in piazza più gente di qualunque protesta contro l’occupazione israeliana negli ultimi cinque mesi, da quando è iniziata la sollevazione dei singoli individui [la cosiddetta “Intifada dei coltelli”, ndt]. Nella situazione permanentemente provvisoria instaurata dagli Accordi di Oslo, Israele continua a determinare le condizioni di non sviluppo nel territorio palestinese, attraverso il controllo dei confini, della vasta area della Cisgiordania nota come Area C e della libertà di movimento dei palestinesi. Ma la responsabilità di affrontare l’impoverimento e la mancanza di lavoro ricade sulle spalle dell’ANP, il cuscinetto tra il principale colpevole ed il popolo.

I manifestanti lo sanno bene, ma conoscono anche l’iniqua distribuzione del reddito nazionale, indipendentemente da quanto ciò sia dovuto alle restrizioni israeliane. Vedono le eccessive risorse destinate ai servizi di sicurezza, gli sprechi e la corruzione, il clientelismo e gli esorbitanti stipendi dei principali dirigenti. Non si aspettano niente dall’occupante. Ma certo hanno qualcosa da chiedere al subappaltante che si autodefinisce governo, autorità nazionale e movimento di liberazione.

“L’ANP è impazzita,” ha detto al telefono un insegnante di Nablus che non è riuscito a superare i checkpoints. “Lei ed i suoi servizi di sicurezza si comportano come se il popolo fosse il nemico.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Che cosa spinge i funzionari della sicurezza palestinese a ribellarsi contro gli israeliani?

La situazione in Cisgiordania ha spinto alcuni palestinesi a perpetrare un’occupazione contro il loro stesso popolo

di Edo Konrad

+972 Magazine

Domenica mattina il 34enne Amjed Sakari, membro dei servizi di sicurezza palestinesi, ha guidato la macchina fino ad un checkpoint israeliano riservato esclusivamente al personale dell’Autorità Nazionale Palestinese. Alla richiesta di esibire il suo documento di identità, è saltato fuori dalla macchina ed ha aperto il fuoco, ferendo tre soldati israeliani. Come reazione, l’esercito israeliano ha posto Ramallah, la capitale politica e finanziaria della Cisgiordania, sotto assedio quasi totale.

Sakari, guardia del corpo del procuratore capo palestinese, è solo il secondo membro delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese ad aver compiuto un attacco da quando, lo scorso ottobre, è scoppiata l’ultima ondata di violenze. Il primo è stato Mazan Hasan Ariva, un funzionario dell’intelligence dell’ANP, che ha aperto il fuoco contro un civile israeliano ed un soldato al checkpoint di Hizma, vicino a Ramallah, nel dicembre dell’anno scorso.

Come ha sottolineato Amos Harel (uno dei più importanti commentatori israeliani in materia di difesa, ndt), è troppo presto per dire se le azioni di Sakari e Ariva preannunciano ciò che sta per accadere, e per ora l’attuale momento politico dovrebbe concedere una pausa.

Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 fino al 1993, Israele ha costituito l’unico potere sovrano in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Gli Accordi di Oslo hanno prodotto una serie di accordi politici ed economici tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il più importante dei quali è stato la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – un’entità provvisoria di autogoverno insediata per gestire le questioni di sicurezza e civili in alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

L’ANP, mentre non è stata autorizzata ad avere un esercito, ha potuto creare le proprie forze di sicurezza, comprese polizia e servizi segreti. Queste forze agiscono in collaborazione con lo Shin Bet (servizi di sicurezza israeliani, ndt.) e con l’esercito israeliano per sventare attacchi contro civili e militari israeliani, ed anche per impedire rivolte contro l’ANP nelle aree A e B.

Sulla carta, Oslo ha delineato un processo di anni per garantire un’autonomia graduale ai palestinesi nei territori occupati. In realtà, i successivi governi israeliani hanno usato l’ANP per affidare i compiti di sicurezza dell’esercito israeliano alla nascente polizia palestinese, addestrata dagli americani.

Intanto, la colonizzazione israeliana ha continuato ad erodere la già minacciata contiguità territoriale in Cisgiordania. Oggi si contano più di mezzo milione di coloni israeliani oltre la Linea Verde (linea di demarcazione stabilita con l’armistizio del 1949 tra Israele e i paesi arabi, ndt.), appoggiati da uno dei governi maggiormente favorevoli alle colonie della storia di Israele.

pa-policeLa polizia dell’Autorità palestinese cerca di impedire ai giovani del campo profughi Aida di scontrarsi con le forze israeliane, Betlemme, Cisgiordania , 27 settembre 2013.(Ryan Rodrick Beiler/Activestills.org)

I palestinesi della Cisgiordania hanno incominciato a provare rancore verso il proprio governo tanto quanto verso il potere israeliano. Secondo un sondaggio pubblicato a dicembre dal Centro Palestinese per la Politica e la Ricerca, due terzi dei palestinesi chiedono che il presidente Mahmoud Abbas si dimetta. Inoltre, il sondaggio rivela che se si tenessero oggi le elezioni presidenziali, un candidato di Hamas, la fazione avversa, otterrebbe una netta vittoria su Abbas.

L’attuale compromesso è utile sia al governo israeliano che alle elite palestinesi a Ramallah: Abbas può utilizzare le sue forze di sicurezza per reprimere la violenza e il dissenso, da parte di singoli individui e di Hamas. Per Israele, Abbas è un capro espiatorio – colui che può essere biasimato per le mosse unilaterali per ottenere il riconoscimento internazionale o ogni volta che la violenza esplode in Cisgiordania. Nonostante ciò che Netanyahu possa far credere, comunque il governo di Abbas è la chiave del futuro dell’occupazione israeliana.

Allora che cosa fanno quei palestinesi che sono inseriti nell’apparato di sicurezza quando si rendono conto che la partita è truccata – che loro stessi stanno svolgendo il compito dei soldati occupanti contro il proprio popolo? Che cosa fanno quando capiscono che, di fatto, non c’è via d’uscita?

Un’occhiata alla pagina Facebook di Sakari getta una luce sul suo dilemma. Nelle prime ore di domenica mattina, Sakari ha pubblicato su Facebook una sua dichiarazione in cui afferma che non ha senso vivere “finché l’occupazione opprime le nostre anime ed uccide i nostri fratelli e sorelle.” La notte precedente, Sakari ha pubblicato un’affermazione, secondo cui “Ogni giorno abbiamo notizie di morti….Perdonatemi, forse io sarò il prossimo.”

Gli israeliani sono giustamente spaventati dalla prospettiva di ulteriori attacchi proprio da parte delle persone impegnate a proteggerli. Il collasso dell’ANP non è impossibile; un crescente numero di membri del servizio di sicurezza palestinese che si rivoltano contro i loro padroni israeliani, sostenuti da un’indomabile popolazione civile ormai sull’orlo di un’autentica rivolta popolare, potrebbe mettere fine al “coordinamento sulla sicurezza” su cui si basa Israele per mantenere lo status quo. Il problema è se la leadership israeliana possa offrire un progetto alternativo che garantisca reale potere ed autorità al popolo palestinese, non solo ai suoi subappaltatori.

 

Edo Konrad è uno scrittore, blogger e traduttore, che vive a Tel Aviv. Ha precedentemente lavorato come redattore di Haaretz, ed è attualmente vicedirettore di +972 Magazine.

( Traduzione di Cristiana Cavagna)

Riferimento Twitter: @edokonrad




L’alfabeto di Oslo, linguaggio della colonizzazione

Professor Kamel Hawwash –Middle East Monitor

Sabato 23 gennaio 2016

Le prime tre lettere dell’alfabeto, A, B e C, sono diventate il marchio dell’occupazione e della strisciante colonizzazione della Palestina da parte di Israele. Le linee che delimitano queste aree sono state tracciate negli accordi di Oslo II firmati a Taba nel 1995. Dividono la Cisgiordania in tre zone, con Israele e la Palestina che beneficiano di differenti livelli di diritti amministrativi e relativi alla sicurezza in ognuna di queste.

L’area che copre tutte le città della Cisgiordania e la maggior parte della popolazione palestinese è stata etichettata come A, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che gode del controllo “integrale”, sia amministrativo che per quanto riguarda la sicurezza. L’area B include vaste zone rurali con l’ANP che ha diritto solo al controllo amministrativo. Il rimanente 60% è stato denominato area C e ricade sotto il totale controllo israeliano, tranne per quello che riguarda i servizi educativi e quelli medici. Significativamente, Israele controlla tutte le questioni relative alla terra, comprese l’assegnazione e le pratiche per la costruzione sia di strutture private che di infrastrutture.

Per completare il quadro del controllo coloniale che Israele esercita sulla Cisgiordania, bisogna aggiungere l’impatto del Muro o Barriera, che Israele ha costruito dopo gli accordi di Oslo e le strade che servono alle colonie, molte delle quali possono solo essere utilizzate dai coloni, nella versione israeliana dell’apartheid.

E’ importante capire che le aree A, B e C non sono tre zone geografiche separate che sono facilmente identificabili, ma piuttosto una divisione amministrativa definita in pratica da Israele per perseguire i propri progetti espansionistici e coloniali. Basta fare un passo fuori dalle città palestinesi e ci si trova quasi sicuramente nell’area C e quindi sotto il totale controllo israeliano. L’area C è abitata da un numero stimato di 300.000 palestinesi, che vivono per lo più in piccoli villaggi e comunità, e di 350.000 coloni israeliani, che vivono in 135 insediamenti e 100 avamposti. Una parte delle terre palestinesi più fertili si trova nella valle del Giordano, che rientra nell’area C.

I 22 anni da Oslo e gli inutili negoziati per raggiungere un accordo finale sono passati con Israele che non ha rispettato neppure questa vergognosa divisione della Cisgiordania. Ogni pretesa di una zona palestinese libera dalle ingerenze israeliane è un mito.

Questa è la terza Intifada?

Le crescenti tensioni nei Territori Occupati hanno portato a dozzine di morti e a centinaia di scontri. Stiamo assistendo ad una terza Intifada?

Prendiamo l’area A, che include tutte le città palestinesi. L’ANP è responsabile della sicurezza e pertanto si potrebbe presumere che le forze di occupazione israeliane non possano entrarvi in nessun caso. Tuttavia si tratta di un mito. Le forze [di sicurezza] israeliane entrano regolarmente a Ramallah, Nablus, Hebron e Jenin per arrestare, ferire e mutilare. Hanno rapito membri del parlamento [palestinese], compreso la sua presidentessa e deputata del FPLP [Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, gruppo politico palestinese di sinistra. Ndtr.] Khalida Jarrar. Più di recente, il primo ministro israeliano Netanyahu ha detto di aver chiamato il presidente dell’ANP Abbas per scusarsi perché le forze di occupazione israeliane hanno condotto attività nei pressi della sua casa e si sono scontrate con la sua guardia presidenziale. Al tempo stesso, le forze di sicurezza palestinesi non possono arrestare nessun colono israeliano che abbia commesso violenze in qualunque parte della Cisgiordania e ogni colono che si sia casualmente avventurato nell’area A è stato rapidamente messo al sicuro e consegnato alle forze di occupazione.

Nell’area C le attività di colonizzazione di Israele abbondano, in quanto gode del controllo sia amministrativo che per la sicurezza. Qui la messa in pratica di alcune norme per i palestinesi e di altre per le colonie illegali è più evidente. I palestinesi non possono costruire, ampliare o migliorare le proprie case o le proprie attività senza l’interferenza da parte di Israele, che è spesso violenta. Il rifiuto praticamente certo da parte di Israele della concessione di autorizzazioni per la costruzione di case, scuole, strutture commerciali e agricole non lascia ai palestinesi altra possibilità che costruire senza permessi. Il risultato quasi inevitabile è la demolizione. L’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha descritto come 5.000 palestinesi dell’area C vivono nelle denominate “zone di fuoco” e si prevede che lascino le loro case per ore o giorni durante le esercitazioni militari israeliane. L’OCHA inoltre descrive la terribile situazione dei beduini, continuamente soggetti alla minaccia di deportazione dalle loro terre contro la loro volontà.

Anche altre comunità, oltre ai beduini, hanno ripetutamente subito la minaccia di ricollocamento. Un esempio particolarmente chiaro è stato quello della comunità di Susyia, sulle colline di Hebron, i cui membri hanno affrontato tre deportazioni in tre decenni per permettere che una colonia, che ha praticamente lo stesso nome, si installasse e poi che si espandesse.

In anni recenti, un certo numero di politici israeliani che si oppongono radicalmente all’esistenza di uno Stato palestinese hanno invocato l’annessione di ampie zone, se non di tutta l’area C. L’attuale ministro dell’Educazione, Naftali Bennet, ha persino chiesto che ai 300.000 palestinesi che vi vivono venga concessa la nazionalità israeliana. Pensa che il fatto che i rimanenti palestinesi della Cisgiordania potrebbero gestire i propri affari e una piena indipendenza sarebbe impossibile. Altri politici israeliani non sono magari stati altrettanto espliciti come Bennet nel chiedere l’annessione di aree della Cisgiordania, tuttavia è ora difficile trovarne uno che sostenga una onesta soluzione dei due Stati che porti ai palestinesi una qualche speranza della fine dell’occupazione.

Più di recente, il Coordinatore Israeliano delle Attività di Governo nei Territori (COGAT) ha annunciato che intende confiscare 370 acri [149 ettari. Ndtr.] di terra nel distretto di Gerico, dichiarandoli “terra dello Stato”. Questo tipo di iniziative rende la designazione di un lotto di terreno come A, B o C totalmente insensato. Israele agisce con totale impunità. Se decide di dichiarare la sede dell’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah zona militare chiusa o zona di fuoco, chi lo più impedire?

A Oslo i negoziatori palestinesi non solo hanno accettato di riconoscere Israele senza un concomitante riconoscimento della Palestina, hanno anche concordato l’ulteriore spartizione in queste tre aree del 22% di quella che hanno accettato come “Palestina”. La realtà è stata che palestinesi e coloni hanno vissuto in tutte e tre le aree e che Israele ha utilizzato questa designazione perché si adattasse ai propri piani. Gli accordi di Oslo sono stati pensati come temporanei, dovevano portare a un accordo negoziale entro cinque anni. A fronte di ciò, i negoziatori palestinesi devono aver pensato che tutte e tre le aree sarebbero state restituite alla fine dei cinque anni, libere di coloni, per far parte dello Stato funzionante e con continuità territoriale che loro avevano sognato. Tuttavia, 22 anni dopo, non è stato raggiunto nessun accordo e in pratica Israele ha quotidianamente violato l’accordo provvisorio indistintamente nelle aree A, B e C. Questa denominazione è diventata un ulteriore ostacolo per la pace e non cambierà rapidamente senza una pressione esterna. Perché si ottenga la pace in terra santa, devono essere esercitate su Israele chiare e non ambigue pressioni per porre fine all’occupazione, spedendo l’alfabeto della colonizzazione nella pattumiera della storia.

Il professor Kamel Hawwash è un docente universitario anglo-palestinese in ingegneria presso l’università di Birmingham. E’ un commentatore di questioni mediorientali e vice presidente della campagna di solidarietà con la Palestina. Qui ha scritto a titolo personale.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 8

di Alaa Tartir

Al-Shabaka Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è l’ottava parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

La parte è stata scritta da Alaa Tartir, il direttore di Al-Shabaka e anche ricercatore post dottorato al Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra

Chi proteggerà e amplierà l’ondata palestinese di collera attualmente in corso nei territori occupati e come? Dovremmo tutti essere interessati a rispondere in modo approfondito a questa domanda. Il continuo sacrificio del popolo palestinese non deve essere sfruttato, ancora una volta, dalla tradizionale elite politica palestinese come carta [da giocare] in qualche nuova tornata di negoziati destinati a fallire. Non deve nemmeno diventare semplicemente un modo per le autorità di far sfogare la rabbia dei giovani.

L’incapacità prolungata della dirigenza tradizionale palestinese di realizzare le aspirazioni dei palestinesi ha fornito un’opportunità alle nuove avanguardie, quali gli attivisti della società civile palestinese e gli oppositori dell’ANP. Peraltro costoro devono ancora sfruttare appieno quest’occasione. C’è bisogno di un completo cambiamento della classe dirigente palestinese. Ci vorranno tempo, risorse e una determinazione politica nonché una mobilitazione di massa nei momenti cruciali. Gli obiettivi politici e le forme di lotta sono le questioni fondamentali a cui dare una risposta. L’alternativa sta prendendo forma, ma è ancora giovane come i ragazzi che si stanno ribellando. È importante occuparsi di tali questioni subito: senza il sostegno necessario e gli strumenti per coordinare i tentativi e le iniziative , il movimento rapidamente morirà.

Le nuove avanguardie palestinesi devono agire ora per mettere insieme i loro sforzi per creare una strategia di lotta che faccia crescere piuttosto che prosciugare le potenzialità e le energie dell’ondata [di collera]. È un compito arduo, ma è l’unico modo per evitare un’altra delusione che aumenterebbe l’attuale frustrazione e il disorientamento. I momenti di trasformazione storica non sono mai facili.

Quest’impostazione coinvolgerà su diversi fronti momenti di scontro. In altre parole, ciò non dovrebbe essere limitato a una presenza fisica davanti ai checkpoint, ma [occorre] estenderlo all’ambito politico, economico, a quello dei media e ad altri. Indubbiamente lo scontro in una situazione di colonizzazione è l’unico modo per cambiare lo squilibrio di potere, affrontando la situazione sul terreno e costruendo un percorso per il futuro.

Gli attuali movimenti [organizzati] dai giovani e dalle nuove avanguardie della società civile incarnano le politiche dello scontro: stanno agendo collettivamente per sfidare le autorità e la loro pretesa di essere rappresentativi [della volontà del popolo palestinese]. Tuttavia abbiamo bisogno di passare da una situazione odierna di rabbia a un movimento che rappresenti la società palestinese nella sua interezza, trasformandola in una società fondata sui movimenti sociali e sulle reti trasversali che si occupano di questioni politiche, economiche e sociali. Ciò può essere fatto basandosi sulle reti sociali esistenti e su altre per proporre obiettivi di interesse generale, lavorando per la liberazione dalla colonizzazione e sfidando le autorità repressive e le elite. Ciò può trasformare l’attuale ondata di collera in una situazione permanente di scontro con il colonizzatore così come in un movimento sociale che avvicini il colonizzato alla libertà e all’autodeterminazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 5

da Al-Shabaka Ma’an News

di Jabel Suleiman

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la quinta parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Jabel Suleiman, un ricercatore ed esperto palestinese indipendente, attualmente consulente del programma palestinese dell’UNICEF nei campi di rifugiati palestinesi in Libano.

l movimento dei giovani in atto in Palestina solleva una serie di domande relative ai suoi motivi, alle sue cause ed alla sua natura. Si tratta dell’espressione di disperazione e frustrazione o di un rinnovato spirito nazionale? E’ stato scatenato dalla divisione tra i palestinesi, la penosa condizione dell’ANP, il fallimento del processo di Oslo e della soluzione dei due Stati, l’espansione aggressiva delle colonie israeliane, la profanazione dei luoghi santi o dal declino dell’interesse dei Paesi arabi e dall’indifferenza della comunità internazionale per la causa palestinese? Si trasformerà in una rivolta popolare come la prima Intifada o rimarrà un’espressione di collera che presto svanirà? Quali condizioni si devono verificare perché questo movimento si trasformi in una ribellione guidata da una dirigenza nazionale unificata e da un programma complessivo? Quale ruolo dovrebbero giocare le fazioni dell’OLP e la più vasta leadership palestinese per consolidare e proteggere la rivolta e sviluppare una leadership nazionale unificata, data l’istituzionalizzazione delle divisioni palestinesi? E come?

Questo movimento di giovani senza precedenti, che è portato avanti da palestinesi nati nel periodo della firma degli accordi di Oslo, è diretto contro l’occupazione. Ma include anche la collera e la protesta contro l’ANP e i suoi risultati politici, responsabile dell’attuale situazione della causa palestinese in generale e in particolare delle condizioni nei TPO [Territori Palestinesi Occupati]. Questo è il paradosso a cui ci troviamo davanti: come possono le fazioni palestinesi, dentro e fuori dall’OLP, che hanno contribuito a creare l’attuale stato di cose, aiutare a sviluppare un movimento e formare una dirigenza unificata? Di fatto, le fazioni non possono essere escluse né esentate dalle responsabilità, soprattutto a causa della mancanza di un movimento nazionale alternativo o di un blocco popolare e non di fazione (un blocco storico in senso gramsciano) in grado di elaborare una struttura nazionale complessiva che comprenda tutti i palestinesi.

L’importanza del coordinamento quotidiano tra i dirigenti politici e i giovani che stanno affrontando l’occupazione non può essere sopravvalutata. Ciò non significa che le fazioni siano libere di sviare e sfruttare il movimento per ottenere risultati diversi, non in linea con la lotta contro l’occupazione, ponendo fine alle divisioni e trovando un’uscita dall’attuale situazione palestinese di stallo, specialmente mentre il popolo palestinese continua a pagare il prezzo del modo in cui la prima Intifada è stata sfruttata per firmare gli accordi di Oslo.

Ci sono urgenti compiti nazionali da svolgere per tutti. Le fazioni non dovrebbero pesare sul movimento dei giovani o spingerlo alla militarizzazione o all’ottenimento di risultati in breve tempo come un’ immediata fine dell’occupazione, che nessuna di loro è stata in grado di ottenere. Di conseguenza, è necessario un accordo su obiettivi modesti e tattici. Le fazioni dovrebbero trattare questa ondata di proteste come un passo sul lungo e spinoso cammino della lotta, e devono contribuirvi e appoggiarlo su quelle basi. Le fazioni dovrebbero ascoltare le giovani generazioni e includerle nella leadership della lotta e nei comitati locali che dovrebbero essere creati.

I partiti dovrebbero concentrarsi nel formare una dirigenza politica unificata che rappresenti tutte le fazioni, anche prima di porre fine alle divisioni, in modo da appoggiare la tenacia del popolo palestinese e prepararsi per una lunga battaglia contro l’occupazione. Ciò è indispensabile l’evoluzione dell’attuale movimento dei giovani in una rivolta popolare e in un’ampia disobbedienza civile sul modello dello sciopero del 1936 [contro il Mandato inglese e i sionisti. Ndtr.], insieme a una battaglia diplomatica e legale sul fronte internazionale contro l’occupazione israeliana. Per ottenere risultati da questi sforzi il coordinamento sulla sicurezza con Israele deve cessare immediatamente, come passo fondamentale verso lo smantellamento della struttura amministrativa e legale di Oslo. Le funzioni dell’ANP devono essere riconsiderate e la divisione tra Hamas e Fatah dovrebbe essere superata in modo che l’OLP possa essere ricostruita su fondamenta nazionali inclusive.

Le forze contro l’occupazione, che includono le istituzioni della società civile, organizzazioni di base, sindacati, associazioni professionali, università e la campagna BDS, si devono impegnare in modo più attivo nel movimento dei giovani. Devono utilizzare i loro legami internazionali con i gruppi di solidarietà, contrari alla discriminazione e all’occupazione in tutto il mondo per appoggiare i giovani e la loro spinta volta a porre fine all’occupazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 4

di Khalil Shaheen

da Al-Shabaka, Maannews

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare la discussione pubblica sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la quarta parte di una pubblicazione in otto parti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Khalil Shaheen, giornalista palestinese, esperto di media, ricercatore e noto analista politico e dei media. È attualmente direttore di ricerca e politiche e membro del consiglio di amministrazione di Masarat – The Palestine Center for Policy Research and Strategic studies (Il centro palestinese per la ricerca di politiche e studi strategici, un istituto indipendente specializzato nell’individuazione di politiche strategiche. Ndtr.) a Ramallah.

Il sistema politico palestinese è vicino al collasso dopo che ha abbandonato la propria identità di movimento di liberazione nazionale con il riconoscimento, negli Accordi di Oslo, della legittimità di un sistema razzista di insediamenti coloniali. L’attuale ondata di collera è una ribellione contro questa relazione e l’ideologia su cui si basa. Quest’ondata è anche una prosecuzione in forma più ampia di forme di espressione e di azione politica che sono andate oltre il tradizionale sistema politico e organizzativo stabilito negli anni 1960, che ha subito a sua volta un lento e inesorabile declino.

Tuttavia bisogna prendere atto della “coesistenza” tra la tradizionale politica dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) e delle fazioni palestinesi da un lato, e le nuove forme di azione politica dall’altro, dovuta al carattere di transizione dell’attuale fase. In particolare, il movimento nazionale tradizionale continua ad avere un ruolo politico nonostante la sua incapacità di raggiungere il suo storico obbiettivo di ottenere i diritti nazionali del popolo palestinese.

La realizzazione di questo obbiettivo dovrebbe spingere i palestinesi a porsi domande strategiche riguardo alle ripercussioni di un’ideologia e di una serie di prassi fallimentari e a cosa sia necessario per rinnovare il progetto nazionale palestinese ed un’istituzione nazionale in grado di raggiungere i propri obbiettivi.

Negli ultimi anni, alcuni hanno sostenuto che non ci sia bisogno di ricostruire il movimento nazionale come prerequisito per adottare una strategia d’azione. Ritengono semmai che il reclutamento di un gran numero di soggetti in programmi di azione partecipativi sia la via giusta per ricostruire il movimento nazionale. Questo approccio è incentrato sulla creazione di un nuovo percorso basato sull’unificazione dei palestinesi in patria e nella diaspora. Il movimento globale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), il movimento per il diritto al ritorno e i comitati di resistenza popolare contro il muro di separazione sono tutte espressioni di nuove forme d’azione al di fuori dello schema tradizionale dell’azione politica di partito.

Analogamente, l’attuale ondata di rabbia è una nuova forma di azione popolare condotta dai giovani. Il tradizionale sistema dei partiti politici non ha previsto le conseguenze di questa azione in un periodo di forti divisioni e conflitti interni su potere ed influenza. Questa ondata può indebolirsi o intensificarsi, ma sembra essere parte di una serie di ondate che continueranno a verificarsi fino a quando diventeranno uno tsunami che esprimerà il riconoscimento unanime della causa palestinese come liberazione nazionale e la necessità di ricostruire le strutture nazionali ed istituzionali in grado di creare un nuovo percorso di lotta.

L’attuale ondata di collera dimostra che c’è una nuova generazione che ridefinisce il rapporto del popolo con l’occupazione israeliana come basato sul conflitto e non sulla “comprensione”. Lo fa sfidando il monopolio della politica condotta all’interno dei bantustans dall’ANP, che l’occupazione israeliana sta trasformando in un agente amministrativo, economico e di sicurezza interno di un sistema di dominazione coloniale.

Tuttavia questo non significa la fine del ruolo politico delle fazioni, nonostante la loro condizione di divisione interna e di mancanza di legittimazione popolare. Le fazioni dirigono ancora le prassi politiche e le forme di resistenza armata, soprattutto nella Striscia di Gaza. Dominano l’OLP, l’ANP, i sindacati, le associazioni professionali e le organizzazioni studentesche.

Gli attuali segnali di nascita di nuove forme di azione politica e di lotta possono sembrare simili a quelli degli ultimi anni ’50 e primi anni ’60, quando una giovane generazione ha sfruttato le favorevoli condizioni nei paesi arabi e a livello internazionale per impostare un nuovo percorso di lotta che ha rovesciato in breve tempo la leadership precedente e successiva alla Nakba (l’espulsione dei palestinesi dai territori del neonato Stato di Israele nel 1948, ndt.). Quella generazione ha sviluppato strutture politiche e gruppi armati che derivavano la propria legittimazione dal popolo, che proclamò la propria fedeltà alla nuova leadership senza una legittimazione elettorale.

Tuttavia oggi le condizioni sono diverse ed ancora mancano gli elementi chiave di questo processo. C’è ancora spazio per i soggetti tradizionali per giocare un ruolo. Non sarà possibile reimpostare una politica e un’attività organizzata con un ampio coinvolgimento popolare se non cambieranno gli obbiettivi, i metodi e le regole. Ad un certo punto, i partiti tradizionali devono confrontarsi con le nuove forme di attivismo politico che va ridisegnando il rapporto con il colonizzatore.

Questo comporterà lavorare con la generazione più giovane per stabilire gli obbiettivi e le richieste dell’attuale rivolta, invece di cercare di monopolizzarla o frenarla. Ciò aiuterebbe a trasformare le forme di azione politica dei partiti tradizionali in una lotta attiva guidata dalla generazione dei giovani e ad accelerare lo sviluppo di una vasta rivolta, capace di creare un percorso nuovo nella lotta di liberazione.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. L’intera versione è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La rivolta dei giovani palestinesi – Quale ruolo per i partiti politici?

Parte 1

Maannews

di Jamal Juma

Al-Shabaka è un’organizzazione indipendente no profit che ha come obiettivo informare e stimolare il dibattito pubblico sui diritti umani e sull’autodeterminazione dei palestinesi nel contesto delle leggi internazionali.

Questa è la prima parte di una pubblicazione divisa in otto segmenti sull’attuale assenza di un’autentica dirigenza nazionale palestinese e sulla rivolta dei giovani contro la prolungata occupazione militare da parte di Israele e la negazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Questa parte è stata scritta da Jamal Juma’, un membro fondatore dei Comitati di Soccorso Agricolo Palestinese, dell’Associazione Palestinese per gli Scambi Culturali e della Rete delle ONG Ambientaliste Palestinesi.

Per circa due mesi, i palestinesi hanno atteso che i partiti politici si facessero carico del loro ruolo di direzione e guida della rivolta. Evidentemente, costoro non sono in grado né vogliono farlo. Ci sono una serie di ragioni della loro inazione. Per un verso, i leader dei partiti sono riluttanti a pagare il prezzo di dirigere e strutturare la resistenza popolare, se questo prezzo è fatto pagare da Israele nella forma di arresti, persecuzioni e prendendo di mira le organizzazioni, soprattutto in quanto i partiti agiscono alla luce del sole e le loro strutture organizzative sono deboli. E non vogliono neppure perdere i privilegi di cui godono in quanto membri dell’OLP, sia in termini di vantaggi economici che di status politico.

Oltretutto i vari partiti non possono agire senza il consenso dell’apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e di quello della sua fazione maggioritaria, Fatah: sono al momento troppo deboli per cambiare lo status quo. Il presidente Mahmoud Abbas, che detiene tutto il potere, crede che la rivolta abbia il compito di attirare l’attenzione sulla causa palestinese e di risvegliare la comunità internazionale, e sta scommettendo su nuove iniziative per riprendere i negoziati con Israele. Di conseguenza Abbas ha dichiarato in termini inequivocabili che non vuole una rivolta.

A causa della debolezza della loro attuale composizione e delle loro strutture organizzative, i partiti politici non possono fornire una cornice politica, organizzativa ed economica in grado di dirigere una rivolta di lungo termine che sia in grado di prosciugare le risorse e le energie dell’occupazione israeliana. Una ribellione vittoriosa richiederebbe una visione complessiva per raggiungere obiettivi chiari e perseguibili mobilitando opportunità e relazioni locali, regionali e internazionali.

Riguardo alle forze islamiche, Hamas e Jihad Islamica, hanno preso anche loro la stessa posizione di inattività. Neanche loro vogliono pagare il prezzo e fornire a Israele un’opportunità di lanciare un’offensiva contro la Striscia di Gaza. Essi temono anche che la ribellione possa essere sfruttata per migliorare i termini dei negoziati per l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e l’ANP.

Ci sono una serie di fattori a favore della creazione di uno spazio per una nuova dirigenza nazionale o locale. Anche se si dovesse placare, l’attuale rivolta ha sollevato la questione dell’idoneità dell’attuale leadership e ha legittimato la ricerca di alternative. Ha inoltre unito il popolo palestinese all’interno della Linea Verde [in Israele. Ndtr.], in Cisgiordania, a Gerusalemme e a Gaza.

Ironicamente, sono le forze politiche a rimanere divise. Pur se in modo limitato, anche i palestinesi della Diaspora si sono mossi e hanno aiutato ad organizzare manifestazioni. Le azioni sul terreno stanno gettando i semi di una dirigenza emergente che può essere coltivata, anche se è dispersa e circoscritta in ambito locale.

Dal punto di vista negativo, tuttavia, è chiaro che l’ANP non permetterà che emerga una nuova leadership e non risparmierà gli sforzi per contrastarla, anche se ciò dovesse richiedere il coordinamento con l’occupazione israeliana, con cui in ogni caso collabora. Oltretutto gli attuali movimenti di base sono deboli, in quanto gli intellettuali giocano uno scarso ruolo nella vita politica palestinese e sono incapaci di appoggiare le forze popolari. Come per la Diaspora palestinese, hanno una ridotta influenza nei processi decisionali.

La sfida consiste nel costruire sui fattori positivi e minimizzare quelli negativi: da notare che per creare una dirigenza alternativa qualunque serio movimento dovrebbe lavorare in certa misura clandestinamente.

Per cominciare, è importante crearsi uno spazio protetto dalla dominazione politica, nel quale sia possibile appoggiare quelle forze popolari che hanno una visione politica e una capacità di mobilitazione, come i sindacati, le organizzazioni degli agricoltori, le federazioni delle donne e naturalmente i gruppi giovanili, in modo che possano agire a fianco della rivolta.

E’ anche importante sfruttare il potenziale della Diaspora palestinese, soprattutto tra i giovani, e organizzare gruppi di lavoro che possano comunicare e coordinarsi con figure nazionali di rilievo che credano nel ruolo importante che la Diaspora deve giocare sia nel processo decisionale che nell’appoggio alla resistenza del popolo palestinese.

Quindi è vitale investire nell’importante coordinamento tra la madre patria e la Diaspora. Dobbiamo ricostruire la fiducia tra noi e rinnovare la sicurezza in noi stessi e nella nostra capacità di provocare dei cambiamenti. In ultima analisi, dobbiamo avere una fede assoluta nel nostro popolo e nella sua capacità di sacrificio e di sviluppo [della lotta] e credere, al di là di ogni dubbio, che vinceremo.

Questo pezzo è parte della pubblicazione di una tavola rotonda di Al-Shabaka. La versione completa è stata originariamente pubblicata sul sito di Al-Shabaka il 23 novembre 2015.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono agli autori e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

(Traduzione di Amedeo Rossi)




La Lista Unitaria nelle elezioni israeliane: i palestinesi sono di nuovo in gioco?

Di Diana ButtuAs’ad GhanemNijmeh AliAl-Shabaka

11 marzo 2015

Sintesi

La Lista Unitaria lanciata il 14 febbraio 2015 da quattro partiti politici largamente rappresentativi dei cittadini palestinesi di Israele dovrebbe ottenere un numero di seggi sufficiente a rappresentare il terzo maggiore partito della Knesset [il parlamento israeliano]. Ma ciò potrà mettere in discussione lo status di cittadini di serie B dei palestinesi- israeliani?

Potrà impedire la rapida erosione dei diritti che ancora gli rimangono, se il razzismo apertamente dichiarato dall’attuale coalizione di destra al potere continuerà ad essere stabilito per legge? Ciò rappresenta la rinascita di un senso collettivo d’identità e d’azione? E’ tutto da valutare. Gli analisti di Al-Shabaka Diana Buttu, As’ad Ghanem e Nijmeh Ali, essi stessi cittadini palestinesi di Israele, sostengono diverse prospettive analizzando le sottostanti linee di faglia così come i problemi e le potenzialità della Lista Unitaria, indipendentemente da quelli che saranno i suoi risultati.

Diana Buttu: i partiti palestinesi si disintegreranno?

I palestinesi in Israele hanno a lungo parlato della necessità di una Lista Unitaria per rivendicare i loro diritti. Nonostante le differenze politiche tra i partiti socialista, nazionalista e islamico, essi non presentano divergenze riguardo ai diritti dei palestinesi in Israele: vogliono porre fine alle leggi razziste e all’occupazione militare dei territori palestinesi, e storicamente hanno votato allo stesso modo alla Knesset.

Tuttavia la coalizione non è stata formata per rispondere a una visione condivisa riguardo ai problemi che i palestinesi devono affrontare o alle richieste dell’opinione pubblica [palestinese]. Al contrario, la Lista Unitaria è stata creata come risposta ad altri due fattori. In primo luogo, la Knesset, con una mossa in seguito approvata dalla corte di giustizia, ha alzato la soglia di sbarramento dal 2% al 3,25%. Posti di fronte alla prospettiva di scomparire, era interesse di ogni partito formare una lista unica. In secondo luogo, c’è stato un calo nell’appoggio ai partiti politici palestinesi, non solo nell’affluenza alle urne per le elezioni nazionali: nemmeno uno dei partiti politici palestinesi è riuscito ad ottenere una vittoria nelle elezioni municipali benché a livello locale il tasso di votanti sia ancora alto.

Il calo nell’appoggio alla rappresentanza al parlamento israeliano è probabilmente il risultato della crescente convinzione che la presenza di partiti politici palestinesi legittimi le azioni della Knesset. Oltretutto si avanza la critica secondo cui i partiti politici non stanno promuovendo i diritti dei palestinesi in Israele né lottando contro il crescente razzismo nel Paese.

Anche se la Lista Unitaria dovesse imporsi come terzo o quarto partito alla Knesset, in base ai sondaggi, l’efficacia della lista rimarrebbe in dubbio. E’ opinione diffusa che avere più seggi alla Knesset implichi un maggior potere politico, sia partecipando ad una coalizione di governo che facendo parte di un’opposizione efficace. Tuttavia né il Campo Sionista [alleanza tra il Partito Laburista ed il partito centrista di Tzipi Livni, ex ministro di Netanyahu. N.d.tr.] – che ha appoggiato la revoca dei privilegi parlamentari [ Libertà di spostamento dal paese, passaporto diplomatico, sostegno finanziario per spese giudiziarie.  N.d.tr.] della dirigente politica palestinese Haneen Zoabi [parlamentare arabo-israeliana che ha partecipato alla Freeedom Flottilla. N.d.tr.]- né il Likud hanno alcun interesse nel formare una coalizione con la Lista Unitaria.

Allo stesso tempo non è nell’interesse della Lista Unitaria entrare a far parte di una coalizione con qualunque partito sionista, in quanto sostenitore della supremazia del sionismo e dei diritti degli ebrei al di là della nozione di uguaglianza e democrazia. Certo sarebbe impossibile per la lista far parte di una coalizione con partiti che appoggino leggi razziste, la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio e gli attacchi a Gaza, mentre dovrebbero supportare queste politiche come ministri di un governo o come alleati in una coalizione. Quindi i partiti che hanno formato la Lista Unitaria rischiano di rimanere quello che sono stati prima di unirsi: piccoli partiti che lottano contro il razzismo nel ventre della balena.

Inoltre i partiti politici palestinesi dovranno continuare a respingere l’ondata di disillusione nei confronti del sistema politico israeliano e la sensazione che esso serva semplicemente a legittimare il razzismo di Israele. Anche se la Lista Unitaria riuscisse ad portare ad un aumento dell’affluenza [dei cittadini arabo-israeliani] al voto in queste elezioni, dovrebbe anche lottare contro l’eventuale disintegrazione dei partiti che la compongono, se non potessero soddisfare le aspettative dei loro elettori nello sfidare le politiche dell’apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi che vivono in Israele e sotto l’occupazione militare [in Cisgiordania].

As’ad Ghanem: un’uscita dalla marginalità?

L’attivismo politico dei cittadini palestinesi in Israele è sempre stato inteso come sinonimo di soluzione del conflitto israelo-palestinese, di fine dell’occupazione dei territori palestinesi e di risoluzione della questione dei rifugiati. Questa convinzione è stata rafforzata dopo che sono stati firmati gli accordi di Oslo nel 1993 e l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata fondata come nucleo politico per la transizione dall’occupazione alla creazione di uno Stato palestinese indipendente.

Da allora gli sviluppi – compresa la frattura all’interno del movimento nazionale palestinese, la fine di fatto della soluzione dei due Stati e il crescere dell’estremismo israeliano – sono stati accolti passivamente dagli gruppi politici palestinesi in Israele, che rimangono legati all’illusione di una soluzione politica per alleviare le loro difficoltà in quanto vittime del conflitto. In breve, accettano lo status subordinato di “giocatori di riserva” – nella migliore delle ipotesi – nel movimento nazionale palestinese.

Infatti la maggioranza dei dirigenti politici crede che le loro questioni interne [in Israele] siano secondarie nel contesto di una più ampia lotta palestinese. Accettano le palesi interferenze dei leader del movimento nazionale palestinese – persino su come utilizzare i loro voti in quanto cittadini israeliani per influire sui governanti israeliani. Un altro esempio della loro subordinazione riguarda l’accettazione dei finanziamenti dagli Stati arabi del Golfo. Cosa ancora più importante, accogliendo la soluzione dei due Stati – uno ebreo e l’altro arabo – come stabilito nel 1947 dal piano di ripartizione delle Nazioni Unite, hanno accettato di essere cittadini di serie B nello Stato ebraico.

L’accettazione della loro condizione di marginalità ha trovato la sua espressione nel programma elettorale della Lista Unitaria. Invece di fare uno sforzo per stilare un vero programma d’azione per lottare contro le attuali sfide che la comunità palestinese in Israele deve affrontare, la lista ha semplicemente fatto un copia-e- incolla delle posizioni dei partiti che ne fanno parte nelle scorse elezioni. In particolare il programma della Lista Unitaria appoggia la fine dell’occupazione e la formazione di uno Stato palestinese. Il preambolo dichiara che la lista “è stata formata per consolidare l’unità contro il razzismo e per potenziare il peso e l’influenza delle masse arabe e di tutte le forze contrarie all’occupazione ed al razzismo.” Non c’è una sola parola a proposito del ruolo dei palestinesi in Israele in quanto palestinesi. Al contrario, ci si focalizza sul loro ruolo in quanto israeliani. Ciò dimostra chiaramente che i partiti politici palestinesi accettano di essere i giocatori di riserva nel movimento nazionale palestinese.

Invece i successivi governi israeliani, soprattutto i due governi del primo ministro Benjamin Netanyahu, hanno aiutato a spingere verso l’unità palestinese ponendo fine all’illusione della soluzione dei due Stati e promovendo l’ebraicità dello Stato. Infatti le posizioni di Netanyahu hanno fatto in modo di ricordarci che la nostra causa è radicata nelle conseguenze della guerra del 1948 che ha creato Israele sulla Palestina e non nell’occupazione iniziata nel 1967 come i dirigenti e l’elite palestinesi hanno voluto farci credere. Infatti il programma colonialista e fondamentalista dei vari governi israeliani evidenzia la necessità di trasformare l’azione nazionale palestinese in modo da affrontare le radici del problema piuttosto che le sue conseguenze, come viene fatto nel programma della Lista Unitaria.

Abbiamo bisogno di un cambiamento reale sia nella nostra comprensione del conflitto che nel ruolo dei palestinesi in Israele nel dare forma alla futura soluzione del conflitto. Un miglioramento delle condizioni dei palestinesi in Israele non sarà ottenuto dall’illusoria soluzione dei due Stati. La soluzione della questione palestinese dipende piuttosto dall’abilità dei palestinesi in Israele nell’articolare il loro progetto come hanno fatto una volta nel 2007 con il Future Vision document [documento della “Visione del Futuro”, un rapporto pubblicato dal Comitato dei Sindaci Arabi in Israele, a cui hanno partecipato 40 noti studiosi ed attivisti e che chiedeva ad Israele di riconoscere i cittadini arabi come gruppo nativo con diritti collettivi, sostenendo che invece Israele discrimina i non ebrei in vario modo. N.d.tr.].

Questo documento ha riscosso un ampio consenso nazionale tra i palestinesi in Israele riguardo ai principali problemi politici che essi stessi devono affrontare, così come il loro ruolo nel forgiare una soluzione complessiva della questione palestinese. Solo facendo così i palestinesi in Israele possono passare da un ruolo politico marginale a uno centrale. Un tale ruolo potrebbe aiutare a portare Israele e il movimento nazionale palestinese ad un giusto accordo che affronti le conseguenze della Nakba (catastrofe) del 1948 invece di quelle dell’occupazione del 1967, senza lasciare eternamente i palestinesi in Israele ai margini dello “Stato ebraico”.

La Lista Unitaria avrebbe potuto essere coinvolta in questo progetto se [i suoi dirigenti] avessero lavorato seriamente come leader piuttosto che come politicanti che competono per un seggio alla Knesset. Ancora una volta abbiamo perso un’occasione per fare la nostra parte non solo come palestinesi, ma come punto di riferimento del popolo palestinese, confliggendo, senza questa assunzione di responsabilità, con il nostro ruolo nelle elezioni israeliane. Forse potremo cogliere questa opportunità nel futuro se saremo in grado di produrre leader che ci vedano come attori principali piuttosto che subordinati a Israele, all’ANP o a qualche altro regime arabo che ci fornisce denaro o avvalla slogan nazionalistici.

 

Nijmeh Ali: gli inizi di una svolta storica

I palestinesi in Israele discutono ancora animatamente sull’utilità di partecipare alle elezioni israeliane. Alcuni chiedono ancora il boicottaggio perché credono che partecipare [alle elezioni] legittimi e rafforzi la colonizzazione e l’occupazione israeliane. Altri hanno semplicemente perso la fiducia nella capacità del sistema politico di portare avanti un qualunque cambiamento: nel 2013 solo circa il 56% dei palestinesi in Israele ha partecipato alle elezioni.

Inoltre, il fatto che i palestinesi in Israele abbiano il diritto di partecipare alle elezioni non significa che riescano ad incidere sulle decisioni politiche israeliane. Il sistema politico israeliano esclude i partiti arabi. In altre parole, sono all’interno del gioco politico ma ancora fuori dal processo politico.

Quelli che sostengono la partecipazione sottolineano l’importanza di difendere i diritti dei palestinesi anche se comprendono la difficoltà di creare un reale cambiamento. Considerano la Knesset un mezzo non solo per ottenere diritti individuali ma anche per cercare il riconoscimento dei diritti collettivi dei palestinesi in quanto minoranza nazionale e popolo indigeno. Oltretutto vogliono sfidare la tendenza israeliana dominante “agitando le acque”.

Allo stesso tempo, molti palestinesi in Israele sono frustrati dalle lotte interne del passato. Sanno che, indipendentemente dalle loro convinzioni ideologiche – socialiste, nazionaliste o religiose – sono discriminati per il fatto di essere palestinesi. Questa sensazione è aumentata durante gli attacchi israeliani contro Gaza dell’estate 2014, quando i cittadini palestinesi di Israele si sono sentiti più minacciati che in qualunque altro momento, persino per strade, sugli autobus, all’università o sul posto di lavoro.

Contro questo contesto la Lista Unitaria è una diretta risposta alla destra israeliana, che intendeva spingere i partiti [palestinesi] fuori dell’arena politica alzanzo il quorum elettorale. Questa manovra può essere vista come un attacco contro un “trasferimento politico”, come effettivamente era, forse come preludio a un’espulsione fisica dei palestinesi. Sostituendo i partiti esistenti con “Arabi Buoni”, che siano membri dei partiti sionisti, la destra israeliana sarebbe stata in grado di presentare la “democrazia” di Israele senza sfidare l’egemonia sionista.

Avendo fallito in questo tentativo, la Destra israeliana sta ora cercando di screditare la Lista Unitaria mettendo in guardia contro la “minaccia araba” in Israele e insistendo nel definirla come una Lista Unitaria “araba”, come fa la maggior parte dei media, presentandola quindi come arabi contro ebrei. E’ importante sottolineare continuamente che la lista è ufficialmente unitaria e non araba e include ebrei non sionisti. Anche se la maggioranza dei votanti per questa lista saranno palestinesi in Israele, la lista vuole anche attirare elettori ebrei: ha lanciato la propria campagna sia in arabo che in ebraico.

La Lista Unitaria non cancellerà le differenze tra i partiti che la compongono né metterà fine all’aspro e incandescente dibattito tra i palestinesi in Israele su come la società palestinese si debba posizionare e presentare. Tuttavia evidenzia la lotta comune contro la discriminazione come contro l’occupazione, comune tra gli arabi palestinesi e le forze democratiche ebraiche. Insieme costituiscono un’alternativa democratica al campo ultranazionalista guidato da Netanyahu e al Campo Sionista di Isaac Herzog e Tzipi Livni.

La fiducia in una lotta collettiva è evidente nel programma politico della lista, che è basata su otto principi: contro l’occupazione e per una pace giusta; per l’uguaglianza nazionale e civile; contro il razzismo e il fascismo e per la democrazia; per la giustizia sociale ed ecologica e per i diritti dei lavoratori; contro l’oppressione delle donne e per il loro diritto a partecipare; per lo sviluppo della cultura, del linguaggio, dell’identità e dell’appartenenza a una nazione; contro il colonialismo; per l’eliminazione delle armi nucleari dal Medio Oriente.

La lista affronta due grandi sfide: l’incremento della percentuale di arabi che votano e avere successo nell’attrarre votanti ebrei. L’imperativo di lavorare insieme implica molti compromessi, ma è una potente tattica politica che ridefinirà il comportamento politico dei palestinesi in Israele, non solo durante queste elezioni ma anche in futuro.

La Lista Unitaria fornirà l’esperienza necessaria per la collaborazione in un ampio spettro di questioni a livello sia interno che esterno alla Knesset. Riporta il termine “collettivo” nel lessico politico dei palestinesi in Israele, una cosa contro cui i governi israeliani, sia di destra che di sinistra, hanno lottato fin dalla Nakba del 1948. In breve, è un avvenimento storico che ha la possibilità di realizzare cambiamenti sia nella politica interna dei palestinesi in Israele che in Israele stesso.

(traduzione di Amedeo Rossi)