Sulle “Vittime delle vittime”

Ussama Makdisi

17 gennaio 2025 – JewishCurrents

Rivisitare l’umanesimo etico di Edward Said nel contesto del genocidio di Gaza

Durante i 15 mesi trascorsi dal 7 ottobre 2023 ho riflettuto sull’affermazione di Edward Said secondo cui i palestinesi sono le “vittime delle vittime”. Il celebre teorico della letteratura ha riassunto concisamente questa “complessa ironia” nell’edizione del 1992 del suo fondamentale libro “La questione della Palestina”. Ha scritto che “le vittime classiche di anni di persecuzione antisemita e dell’Olocausto sono diventate, nella loro nuova nazione, i carnefici di un altro popolo”.

Come disse al romanziere Salman Rushdie nel 1986, “Qualsiasi tipo di critica a Israele viene trattata come antisemitismo per fare da paravento … Soprattutto negli Stati Uniti se dici qualcosa in quanto arabo di cultura musulmana sei visto come un membro del classico antisemitismo europeo o occidentale”.

Eppure, Said si era distinto come uno dei primi intellettuali ad attraversare il profondo abisso che caratterizzava i discorsi antagonisti sul trauma storico plasmato rispettivamente dalla Nakba e dall’Olocausto; persisteva nella convinzione che una comprensione anche sentimentale dell’esperienza ebraica moderna della persecuzione antisemita in Europa fosse legata a un riconoscimento positivo della storia e dei diritti nazionali palestinesi.

Per Said empatizzare con “il disastroso problema dell’antisemitismo”, come lo definì in “La questione della Palestina” (pubblicato originariamente nel 1979), offriva una via d’uscita dal pantano del vittimismo concorrente. Questo intreccio di empatia rifletteva la sua convinzione che il destino e il futuro di palestinesi e israeliani fossero inevitabilmente legati dalla questione palestinese.

Oggi dopo 76 anni di pignola crudeltà che tocca ogni aspetto della vita palestinese in tutta la Palestina storica e mentre Israele porta avanti una campagna genocida a Gaza che, al momento in cui scrivo, ha ucciso circa 64.260 palestinesi e ne ha feriti decine di migliaia, sono turbato dalla domanda: l’espressione “vittime delle vittime” ha ancora senso come formulazione etico-storica? Said morì due decenni prima del genocidio di Gaza e, come molti di noi, non avrebbe potuto immaginare l’intero orrore della sua depravazione trasmessa in diretta streaming; “È come se stessimo guardando Auschwitz su TikTok”, ha detto il sopravvissuto all’Olocausto Gabor Maté.

Inoltre, Said non poteva prevedere fino a che punto le istituzioni, i leader e le principali personalità pubbliche occidentali avrebbero sostenuto con tanta bellicosità tali atrocità. Né la proliferazione di immagini e video del genocidio, né i mandati di arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale contro i leader israeliani per i loro programmi di sterminio e carestia di massa (l’evidenza della brutalità ha finalmente, tardivamente, raggiunto una soglia comprensibile a quest’organismo), né l’accusa del Sudafrica post-apartheid alla Corte Internazionale di Giustizia secondo cui lo Stato israeliano sta perpetrando un genocidio hanno smosso l’ostentato filosionismo della maggior parte dei governi occidentali. Al contrario, questi hanno totalmente ignorato l’umanità palestinese in nome del lutto e della difesa delle vittime ebree israeliane della violenza. Contrariamente all’empatia invocata da Said, l’Occidente liberale si è categoricamente rifiutato di considerare i palestinesi come vittime di qualsiasi rilevanza morale o storica.

Ma mentre i palestinesi vengono spietatamente massacrati in nome della sicurezza di Israele, gli israeliani sono davvero vittime in senso nazionale collettivo? Non c’è forse una distinzione essenziale da fare tra essere ebrei ed essere israeliani, quindi tra una lunga storia di vittime ebraiche per mano di persecutori antisemiti nell’Occidente cristiano e le più recenti sofferenze israeliane nel contesto della violenza anticoloniale provocata dalla loro stessa colonizzazione della Palestina?

Ha senso pensare al politico israeliano razzista Itamar Ben-Gvir, capo di un partito anti-arabo chiamato Otzma Yehudit (Potere Ebraico), come a una vittima? In che senso i soldati israeliani sono vittime nel 2025? In che senso sono vittime quando sono armati fino ai denti, dotati di miliardi di dollari di armi statunitensi e di una copertura diplomatica statunitense apparentemente illimitata per sfidare l’indignazione internazionale per il genocidio di Gaza?

In che senso sono vittime quando diffondono con gioia fotografie di sé stessi sullo sfondo del paesaggio di Gaza che hanno spianato – fotografie che li mostrano sorridenti mentre indossano la lingerie rubata di donne palestinesi apolidi e ancora una volta espropriate, di cui hanno distrutto le vite, demolito le case e massacrato i bambini? In che senso sono vittime quando trasmettono video di loro stessi che ridono mentre distruggono università e biblioteche palestinesi? In che senso sono vittime i coloni ebrei israeliani quando si radunano per impedire che il cibo raggiunga i bambini che muoiono di fame?

Che dire degli israeliani che hanno assistito al bombardamento di Gaza del 2014, seduti con nonchalance come se stessero assistendo a uno spettacolo teatrale e non a una catastrofe umana? Che dire di coloro che, nel 2006, durante il bombardamento israeliano del Libano, sono rimasti a guardare mentre i loro figli autografavano i proiettili di artiglieria? O di coloro che hanno partecipato o insabbiato il massacro di Tantura durante la Nakba del 1948? [Nel corso della conquista del villaggio le forze ebraiche massacrarono da 70 a 250 civili inermi, essenzialmente giovani, presi come prigionieri di guerra, mentre la quasi totalità degli abitanti (1.490 persone) fu espulsa o fuggì, ndt.]. A un certo punto, è assurdo continuare a pensare a questi israeliani come a vittime se non nel senso che potrebbero davvero credere di stare combattendo per sconfiggere i mostri “barbari” delle loro menti. Di certo non è a questo che si riferiva Edward Said quando descriveva i palestinesi come le “vittime delle vittime”.

In effetti, mentre Said cercava di tracciare una strada attraverso cui ebrei israeliani e palestinesi potessero riconoscere reciprocamente il trauma collettivo, era chiaro che ciò che cercava non era una facile equivalenza che offuscasse lo straordinario potere che i primi esercitano sui secondi e nascondesse il danno epistemico, politico, economico, sociale e umano derivante da questo continuo dominio. Mentre gli ebrei in Europa furono vittime dell’antisemitismo occidentale culminato nell’Olocausto, i palestinesi rimangono vittime dei sionisti ebrei israeliani e dei loro sostenitori, complici e alleati in Occidente, compresi i sionisti cristiani.

Mentre i palestinesi non hanno avuto alcun ruolo nel razzismo antiebraico nazista, fondamentale per la caratterizzazione dell’antisemitismo moderno, gli ebrei israeliani hanno svolto un ruolo chiave nella disumanizzazione dei palestinesi e nella cancellazione della società, della storia e della vita palestinese dal 1948 a oggi. Ci sono enormi differenze nella cronologia, nella posizione e nelle relazioni tra azione, causa ed effetto.

Anche se la sua formulazione “vittime delle vittime” racchiude in un’unica cornice la brutalizzazione subita da entrambe le popolazioni, Said è attento a sottolineare che essa nomina anche, in modo cruciale, la particolare difficoltà affrontata dai palestinesi, i quali, scrive in The Question of Palestine, “hanno avuto la straordinaria sfortuna di avere… gli oppositori moralmente più complessi di tutti, gli ebrei, con una lunga storia di vittimizzazione e terrore alle spalle. L’assoluto torto del colonialismo di insediamento è molto diluito e forse persino dissipato quando è in nome della sopravvivenza ebraica, in cui si crede fermamente, che si usa il colonialismo di insediamento per raddrizzare il proprio destino”.

I leader israeliani invocano abitualmente la storia dell’Olocausto e l’esperienza ebraica dell’antisemitismo come un randello con cui colpire i loro critici per distogliere l’attenzione dall’orrore della loro disumanizzazione dei palestinesi e per giustificare l’estrema violenza del sionismo coloniale. Israele viola continuamente il diritto internazionale espropriando terre palestinesi e istituendo quello che l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem definisce un “regime di supremazia ebraica e apartheid dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”. Ma quando rifiutiamo il mito di un vittimismo senza tempo, sottolinea Said, emerge un quadro molto più chiaro: “Le vittime in Africa e in Palestina sono ferite e segnate più o meno allo stesso modo”.

Sebbene la famosa frase di Said rimanga una critica tagliente, che identifica questo offuscamento dei rapporti di potere, il suo tentativo di tracciare una strada verso il futuro attraverso la compassione reciproca sembra appartenere a un’altra epoca. Forse è giunto il momento di unire l’umanesimo etico di Said a quello del grande poeta palestinese Mahmoud Darwish. Nella sua poesia “Assassinato e sconosciuto”, Darwish scrive, nella traduzione di Fady Joudah:

“Io sono la vittima”. “No, io solo sono

la vittima”. Non hanno detto all’autore: “Nessuna

vittima ne uccide un’altra. C’è nella

storia una vittima e un assassino”.

Darwish cristallizza ciò che Said ha solo accennato: per quanto siano stati vittime in passato, e per quanto portino con sé l’impronta di questo passato, gli ebrei israeliani sono stati, attraverso le loro azioni, trasformati in un nuovo tipo di soggetto.

Con importanti eccezioni come lo storico Ilan Pappé, che ci ricorda che l’affiliazione laica al potere è una scelta fatta e disfatta, gli ebrei israeliani sono ora nella posizione di oppressori. Sono costantemente all’opera per rendere vittime i palestinesi. Sia gli ebrei israeliani che i palestinesi sono ovviamente umani, entrambi meritano uguaglianza e libertà, e le due cose sono legate tra loro. Ma al momento solo uno è l’oppressore; l’altro è l’oppresso. Se non riusciamo a mantenere questa fondamentale, ovvia distinzione etica tra oppressore e oppresso, colonizzatore e colonizzato, allora la storia diventa un idolo dell’anacronismo piuttosto che uno strumento per spezzare il narcisismo del vittimismo perpetuo.

Come ha scritto Said in La questione della Palestina, “Non può esserci modo di condurre in maniera soddisfacente una vita la cui la preoccupazione principale è impedire che il passato si ripeta. Per il sionismo i palestinesi sono ormai diventati l’equivalente di un’esperienza passata reincarnata sotto forma di minaccia presente. Il risultato è che il futuro dei palestinesi come popolo è ipotecato da quella paura, il che è un disastro per loro e per gli ebrei”. Darwish sintetizza questa formulazione, istruendoci a guardare direttamente quali persone stanno effettivamente soffrendo per mano di chi e perché. Said e Darwish ci ricordano insieme che non dobbiamo essere prigionieri del passato, altrimenti siamo tutti vittime e, in nome della nostra stessa vittimizzazione, possiamo e faremo agli altri le cose terribili che un tempo sono state fatte a noi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Opinioni: Il progetto “Esther” e il sionismo come arma

Belén Fernández

19 maggio 2025-Al Jazeera

Un progetto conservatore in teoria per contrastare l’antisemitismo, in pratica porta avanti una posizione filo-israeliana per mascherare gli obiettivi dei nazionalisti bianchi.

Il 7 ottobre 2024 – esattamente a un anno dall’inizio del genocidio israeliano appoggiato dagli Stati Uniti nella Striscia di Gaza che finora ha ucciso più di 53.000 palestinesi – la Heritage Foundation con sede a Washington ha lanciato un documento politico intitolato Project Esther: una strategia nazionale per combattere l’antisemitismo

Il think tank conservatore è la stessa forza dietro il Progetto 2025, un piano per il consolidamento del potere esecutivo negli Stati Uniti e forgiare la più estrema distopia di destra di sempre. La “strategia nazionale” proposta dal Progetto Esther, che prende il nome dalla regina biblica alla quale si attribuisce il merito di aver salvato gli ebrei dallo sterminio nell’antica Persia, sostanzialmente consiste nella criminalizzazione dell’opposizione all’attuale genocidio di Israele e nell’annientamento della libertà di parola e di pensiero insieme a un sacco di altri diritti.

Il primo passaggio chiave elencato nel rapporto è che “il movimento pro-palestinese in America è virulentemente anti-israeliano, anti-sionista e anti-americano e fa parte di una Rete Globale di Supporto ad Hamas (HSN)”. Non importa che, in realtà, non esista una “Rete Globale di Supporto ad Hamas “, così come non esistono presunte “Organizzazioni di Appoggio affiliate ad Hamas HASSA Affiliated Hamas Organizations (HSO)” che la Fondazione Heritage si è anche presa la libertà di inventare.

Tra queste presunte HSO ci sono importanti organizzazioni ebraiche americane come “Jewish Voice for Peace” [Voce ebraica per la pace, organizzazione ebraica USA antisionista e contro l’occupazione, ndt.]. Un altro passaggio chiave del rapporto è che la cosiddetta HSN sarebbe “sostenuta da attivisti e finanziatori impegnati a distruggere il capitalismo e la democrazia”, una curiosa scelta di termini, senza dubbio, da parte un think tank che, proprio in questo momento, sta facendo del suo meglio per sradicare ciò che resta della democrazia dagli Stati Uniti.

La frase “capitalismo e democrazia” appare non meno di cinque volte nel rapporto, sebbene non sia del tutto chiaro cosa Hamas abbia a che fare con il capitalismo, a parte il governo di un territorio palestinese che ha ricevuto per più di 19 mesi miliardi e miliardi di dollari di distruzione militare finanziata dagli Stati Uniti. Dal punto di vista dell’industria delle armi, almeno, il genocidio è il capitalismo al suo meglio.

E secondo la logica genocida di Progetto Esther, protestare contro il massacro di massa dei palestinesi è fondamentalmente antisemita – da qui la necessità di perseguire la strategia nazionale prescritta di “estirpare l’influenza dell’HSN dalla nostra società”.

La pubblicazione ad ottobre del rapporto della Heritage Foundation si è verificata durante l’amministrazione del presidente Joe Biden, che il think tank ha individuato come “decisamente anti-israeliano” nonostante la sua completa e totale complicità nel genocidio di Gaza. Il rapporto includeva molti suggerimenti su come “combattere il flagello dell’antisemitismo negli Stati Uniti … quando un’amministrazione benintenzionata occupa la Casa Bianca”.

Sono passati rapidamente sette mesi e una recente analisi del New York Times indica che, dall’inaugurazione della presidenza degli Stati Uniti Donald Trump a gennaio, “la Casa Bianca e altri repubblicani hanno chiesto azioni che sembrano rispecchiare più della metà delle proposte di Progetto Esther”. Questi vanno dalle minacce di trattenere notevoli somme di finanziamenti federali per le università statunitensi che si rifiutano di mettere a tacere la resistenza al massacro sistematico, agli sforzi per espellere residenti legalmente presenti negli USA per il crimine di aver espresso solidarietà con i palestinesi.

Oltre a una presunta infiltrazione nel mondo accademico degli Stati Uniti e la diffusione di “narrazioni anti-sioniste in università, scuole superiori e scuole elementari, spesso sotto l’ombrello o all’interno della categoria della diversità, dell’equità e dell’inclusione (DEI) e di una simile ideologia marxista”, gli autori del Progetto Esther sostengono che “l’HSN e gli HSO hanno imparato ad usare l’ambiente mediatico progressista americano [e] sono pronti a attirare l’attenzione su ogni dimostrazione, non importa quanto grande o piccola, a ogni rete in tutto il Paese”.

E non è tutto: “L’HSN e gli HSO hanno fatto un uso esteso e incontrollato di piattaforme di social media, come Tiktok, attraverso l’intero ecosistema digitale per diffondere propaganda antisemita”.

Per tutti questi fini il documento politico offre una intera serie di raccomandazioni su come eliminare il movimento interno filo-palestinese, nonché gli atteggiamenti umani ed etici in generale: dall’epurazione dei “membri di facoltà e del personale che sostengono le HSO” dalle  istituzioni educative, a rendere i “potenziali dimostranti timorosi di affiliarsi alle HSO” sino a bloccare i “contenuti antisemiti” dai social media, che nel linguaggio della Heritage Foundation significa naturalmente i contenuti contro il genocidio.

Eppure, nonostante tutto il chiasso del Progetto Esther sulla apparentemente apocalittica minaccia antisemita posta dall’HSN, si scopre che, secondo un articolo di dicembre pubblicato da Forward, da quando è stato reso pubblico “nessuna grande organizzazione ebraica sembra aver partecipato alla stesura del piano o lo ha approvato pubblicamente”.

Forward, un periodico che si rivolge agli ebrei americani, ha riferito che la Fondazione Heritage aveva “lottato per attirare sostenitori ebrei per il suo piano contro l’antisemitismo, che sembra essere stato assemblato da diversi gruppi cristiani evangelici” e che il Progetto Esther “si concentra esclusivamente sui critici di sinistra di Israele, ignorando i problemi di antisemitismo dei gruppi suprematisti bianchi”.

Nel frattempo, in una lettera aperta pubblicata questo mese, influenti leader ebrei americani hanno avvertito che attualmente una “serie di attori” negli Stati Uniti sta “usando una presunta preoccupazione per la sicurezza ebraica come un manganello per indebolire l’istruzione superiore, il giusto processo, il sistema istituzionale di pesi e contrappesi, la libertà di parola e la stampa”.

Ora, se l’amministrazione Trump sembra fare suo il Progetto Esther e seguirlo, ciò è sommamente inquietante a causa della diffusione di un’agenda nazionalista cristiana bianca che utilizza il sionismo e accuse di antisemitismo ai suoi fini estremisti. E questo, sfortunatamente, è solo l’inizio di un progetto molto più elaborato.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele non si preoccupa veramente del destino dei Drusi in Syria

Gideon Levy

4 maggio 2025 –  Haaretz

A volte è difficile credere a ciò che si legge: il Ministro degli Esteri Gideon Sa’ar chiede alla comunità internazionale di “adempiere al suo compito di proteggere le minoranze in Siria, in particolare la comunità drusa, dal regime e dalle sue formazioni terroriste e a non chiudere gli occhi sui gravi incidenti che là avvengono.”

Israele da molto tempo si è guadagnato una reputazione di sfrontatezza, tuttavia sembra che questa volta abbia superato sè stesso. Il Ministro degli Esteri chiede al mondo di intervenire in aiuto di una minoranza oppressa da un governo in un altro Paese, mentre altri leader politici stanno già agendo in questo senso.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dato istruzioni, Eyal Zamir delle Forze di Difesa di Israele ha ordinato all’esercito di colpire specifici obbiettivi e il Ministro della Difesa Israel Katz ha già minacciato che Israele risponderà “duramente”; l’esercito israeliano ha già bombardato. Un vero esercito della salvezza che sta difendendo i drusi oppressi.

Il Ministro degli Esteri israeliano non ha il diritto morale di aprire la bocca e proferire una sola parola sull’oppressione di una nazione o di una minoranza e certo non di chiedere al mondo di intervenire in loro difesa. Israele, che chiude gli occhi sull’Ucraina dopo aver fatto la stessa cosa durante la guerra civile in Siria, non ha nemmeno il diritto di chiedere al mondo di aprire gli occhi su ciò che avviene in Siria.

La mancanza di autoconsapevolezza della leadership israeliana supera ogni limite. Quando Gideon Sa’ar parla di un regime oppressivo e di squadre di terroristi dovrebbe prima di tutto parlare del proprio Paese. Non ci sono molti Paesi al mondo in cui un regime oppressivo e criminali terroristi prosperano come in Israele, straziando i membri di un’altra nazione. E come reagisce Israele agli appelli al mondo di intervenire in difesa della nazione oppressa che vive qui? Con urla e grida all’ antisemitismo.

E come risponderebbe Israele ad un intervento militare di un altro Stato o attore che venga in aiuto degli oppressi? Questo è esattamente ciò che hanno detto in passato i Paesi arabi e ciò che dicono adesso Hezbollah e Houthi – intervengono contro Israele per proteggere i palestinesi.

Proprio come i drusi chiedono che Israele intervenga in aiuto dei loro fratelli in Siria, allo stesso modo i popoli nei Paesi arabi chiedono che i loro governi intervengano in favore dei propri fratelli sotto occupazione israeliana.

E che dire dei fratelli di sangue arabi israeliani, che sono stati massacrati a Gaza, in Siria e in Libano? Israele ha mai preso in considerazione di intervenire il loro aiuto?

In Libano Israele ha messo i falangisti contro i palestinesi. Quando il pittore palestinese di Haifa Abed Abadi nel 2014 ha tentato di far uscire sua sorella, che era nata in questo Paese, dal campo profughi assediato di Yarmouk in Siria, Israele ha rifiutato. Ma per “salvare i drusi” Israele è pronto a bombardare.

Provate a immaginare la Francia che bombarda le colonie israeliane nei territori occupati perché le considera “basi terroriste” da cui escono terroristi per danneggiare i palestinesi. Che scalpore si scatenerebbe qui!

La domanda è piena di cinismo. Dopotutto Israele non si preoccupa realmente del destino dei drusi in Siria, esattamente come non si è realmente preoccupato delle vittime del precedente regime siriano. Dopo l’approvazione della legge dello Stato-Nazione è ovvio che il governo non si preoccupa nemmeno dei diritti della popolazione drusa di Israele.

Mobilitarsi in difesa dei drusi della Siria non è altro che un cinico espediente, un nuovo pretesto per attaccare la Siria nella sua debolezza, forse anche un segnale per gli elettori drusi del Likud. Invece di concedere un’opportunità al nuovo regime, Israele si mostra guerrafondaio. Questo è l’unico linguaggio che ha usato negli ultimi anni: colpire, bombardare, sparare, uccidere, demolire il più possibile e ovunque.

Se Israele vuole promuovere la giustizia dovunque, che inizi da casa propria, dove vengono sempre più perpetrati misfatti e crimini contro l’umanità.

Persino la richiesta di Israele al mondo la settimana scorsa di inviare mezzi antincendio per aiutare a domare gli incendi vicino a Gerusalemme, mentre impedisce da oltre due mesi l’ingresso a Gaza di cibo e aiuti umanitari, è una richiesta impudente che avrebbe dovuto essere respinta. Un Paese che mette alla fame due milioni di persone non ha titolo per ricevere aiuto dalla comunità internazionale – sì, anche quando le fiamme minacciano le sue comunità.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Critiche e festeggiamenti in Israele dopo la morte di Papa Francesco

 Nadav Rapaport

21 aprile 2025 Middle East Eye

Molti israeliani hanno criticato il pontefice per le sue parole di appoggio ai palestinesi e hanno celebrato la sua morte sui social media

L’annuncio del Vaticano della morte di Papa Francesco lunedì mattina è stato accolto con un misto di festeggiamenti e critiche in Israele, dove politici, opinionisti e fruitori di social media si sono focalizzati sulla condanna pontificia di Israele per la sua guerra nella Striscia di Gaza.

Il Papa è morto a 88 anni dopo aver denunciato nel suo ultimo discorso nella domenica di Pasqua la “deplorevole situazione umanitaria” provocata dall’aggressione di Israele a Gaza ed aver espresso la sua “vicinanza alle sofferenze…di tutto il popolo israeliano e del popolo palestinese”.

Faccio appello alle parti in guerra: dichiarate un cessate il fuoco, rilasciate gli ostaggi e venite in soccorso di una popolazione alla fame, che aspira ad un futuro di pace”, ha detto.

Rafi Schutz, ex ambasciatore di Israele in Vaticano, ha scritto che è stato “il Papa che ha portato il mondo più vicino a lui e ha contrariato Israele”.

La posizione del Papa su Israele dopo l’inizio della guerra ha attirato “aspre critiche”, ha continuato Schutz, aggiungendo che ha rappresentato un “colpo significativo” alle relazioni tra Israele e il Vaticano.

Il giornale di destra Israel Hayom ha detto che il pontefice verrà ricordato in Israele “soprattutto per le sue dure dichiarazioni contro la guerra a Gaza.”

Analogamente, il Canale 14 di estrema destra lo ha definito “il più accanito critico” di Israele.

Zvika Klein, caporedattore del Jerusalem Post, ha definito le critiche di Papa Francesco ad Israele e il suo appoggio ai palestinesi sotto attacco come “incondizionato sostegno a Hamas.”

Vi fu un certo ottimismo nel mondo ebraico quando venne nominato”, ha detto Klein. “C’è stata una fortissima delusione da parte israeliana ed ebrea a causa delle sue aspre dichiarazioni soprattutto negli ultimi mesi.”

Il Papa ha più volte criticato la guerra di Israele alla Striscia di Gaza, soprattutto l’uccisione di bambini palestinesi, attirandosi le ire dei politici israeliani.

Durante la guerra ha scambiato telefonate quasi ogni notte con la comunità cristiana di Gaza, cosa che loro hanno detto essere stata una fonte di sollievo e conforto.

Nel suo libro ‘La speranza non delude mai: pellegrini verso un mondo migliore’, pubblicato alla fine del 2024, ha suggerito che l’aggressione di Israele alla Striscia di Gaza potrebbe configurarsi come genocidio e ed ha chiesto un’indagine sulle affermazioni degli “esperti”.

A dicembre il Ministero degli Esteri di Israele ha convocato il più alto diplomatico del Vaticano dopo i commenti di Papa Francesco che accusavano Israele di “crudeltà” a Gaza.

Meglio senza di lui’

Molti israeliani comuni hanno usato i social media per esprimere la loro soddisfazione per la morte del Papa, a causa della sua posizione sulla guerra di Israele.

Commentando l’articolo di Canale 14, un utente lo ha chiamato “farabutto” e ha detto: “è un bene che sia morto”.

Un altro ha concordato: “Grazie a Dio il Papa è morto”.

Su Facebook utenti del social media lo hanno definito “odiatore del giudaismo”.

Sotto un post di Canale 11 sulla morte del Papa un utente ha scritto: “Non mi interessa questo vecchio psicotico, che odia Israele”.

Sotto un rapporto di Ynet un altro ha scritto: “Papa Francesco sarà ricordato come quello che ha sistematicamente appoggiato il moderno antisemitismo”, aggiungendo che il mondo “è migliore senza di lui”.

Un altro utente ha detto che il Papa era “il padre dell’impurità. Un altro pedofilo”, ed ha aggiunto: “grazie a Dio ci siamo sbarazzati di lui”. Un altro ha detto: “finalmente una buona notizia”.

Sull’account di Walla News un utente lo ha definito “un eretico che ha sostenuto i nazisti di Hamas”. Ed un altro ha domandato: “Perché annunciate sui media ebraici che un odiatore di Israele è morto?”

Un altro utente ha scritto che “dopo le dichiarazioni piene di odio contro Israele, è fortunato ad aver vissuto qualche mese in più invece di morire subito”, riferendosi alla salute del Papa che è peggiorata negli ultimi mesi.

Qualcuno in Israele ha anche pianto la morte del Papa.

Il Presidente Isaac Herzog ha scritto su X che mandava le sue “più profonde condoglianze al mondo cristiano e specialmente alle comunità cristiane in Israele – la Terra Santa – per la perdita del loro grande padre spirituale, sua Santità Papa Francesco”.

Herzog ha aggiunto: “Spero sinceramente che le sue preghiere per la pace in Medio Oriente e per il ritorno sicuro degli ostaggi saranno presto esaudite. Possa la sua memoria continuare ad ispirare atti di gentilezza, unità e speranza.”

Mentre un utente ha risposto: “Non parlare in mio nome. Il Papa era un diavolo antisemita”, ci sono stati anche molti israeliani che hanno espresso indignazione rispetto a questo tipo di post.

Che razzisti. Incredibile”, ha scritto una persona. “Non avete rispetto nemmeno per la religione.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Mahmoud Khalil e la necropolitica del regime trumpiano di deportazione È in questione la morte.

Natasha Lennard 

11 aprile 2025 – The Intercept

Questa settimana l’amministrazione di Donald Trump si è attivata per decretare la morte di migliaia di immigrati.

Le oltre 6.000 persone vive e vegete, per lo più immigrati latinoamericani senza documenti, continuano a mangiare, dormire, respirare e lavorare sul territorio statunitense. Ciononostante i loro nomi sono stati inseriti nell’“archivio principale dei defunti” della Previdenza Sociale, la banca dati utilizzata per elencare le persone morte che non dovrebbero più riceverne le prestazioni.

Il New York Times, il primo a informare sulla perversa riconversione dell’archivio principale dei defunti, ha rilevato con inusuale chiarezza che l’amministrazione stava includendo “i nomi di persone vive che il governo crede dovrebbero essere trattate come se fossero morte.”

Inserire gli immigrati nella lista dei defunti è uno sporco espediente per impedire rapidamente l’accesso alla sopravvivenza in questo Paese, tagliandoli fuori in modo permanente dall’accesso a prestazioni, conti bancari e dalla possibilità di lavorare legalmente. È solo l’ultima mossa per rendere invivibile l’esistenza agli immigrati, in modo che siano obbligati a scegliere di andarsene, se non sono stati prima rastrellati e deportati dall’Immigration and Customs Enforcement [ICE, l’agenzia federale USA per l’immigrazione e le frontiere, ndt.].

È qualcosa di più di un espediente crudele. È in questione la morte.

L’amministrazione Trump sta esprimendo apertamente la sua volontà di condannare milioni di persone alla morte civile e sociale su molteplici fronti, dagli immigrati catalogati come morti dalla Sicurezza Sociale al diniego del rilascio del passaporto ai trans, a una corretta documentazione o a ogni forma di esistenza in base alla documentazione governativa.

Non si tratta solo di un’uccisione metaforica: l’espulsione dalla vita pubblica ufficiale può essere realmente mortale. L’escalation del dominio necropolitico —il concetto dello storico Achille Mbembe del governo organizzato per esporre certe categorie di persone a una morte prematura e all’eliminazione — da parte di Trump sta determinando una situazione fascista, che minaccia di revocare i diritti giuridici di interi settori della popolazione.

In fin dei conti i morti non possono rivendicare alcun diritto.

Queste violazioni necropolitiche non sono visibili solo nei registri della Sicurezza Sociale. Sono anche una parte implicita di molti dei casi relativi all’immigrazione che ci troviamo davanti. Si prenda per esempio quello di Mahmoud Khalil, uno studente universitario della Columbia University, dove ha partecipato alle proteste contro il genocidio, residente permanente la cui moglie, cittadina statunitense, sta aspettando il primo figlio.

Chi ha diritto ad avere diritti?” ha chiesto Khalil in una lettera del marzo scorso da un centro di detenzione dell’ICE in Louisiana. “Non sono certo gli esseri umani ammassati in queste celle. Non è il senegalese che ho incontrato, il quale da un anno è stato privato della sua libertà, la sua situazione legale è in un limbo e la sua famiglia a distanza di un oceano. Non è il detenuto ventunenne che ho incontrato, che mise piede in questo Paese all’età di nove anni solo per essere deportato senza neanche un processo.”

Venerdì un giudice per l’immigrazione della Louisiana ha sentenziato che Khalil può essere deportato in base alle affermazioni senza fondamento dell’amministrazione Trump secondo cui rappresenta una minaccia per la politica estera statunitense.

Questa è esattamente la ragione per cui l’amministrazione Trump mi ha spedito in questo tribunale, a 1.000 miglia di distanza dalla mia famiglia,” ha detto Khalil alla giudice dopo che lei lo ha informato della sentenza. “Spero solo che l’urgenza che avete ritenuto opportuna nel mio caso sia garantita alle centinaia di altre persone che sono qui senza processo da mesi.”

Gli avvocati di Khalil presenteranno appello contro questa decisione e stanno promuovendo un ricorso di habeas corpus in un tribunale federale del New Jersey. Come il rapimento e la detenzione di Rümeysa Öztürk,  studentessa di dottorato alla Tufts University, perché ha scritto un editoriale e la revoca del visto a centinaia di studenti a quanto pare per aver partecipato a proteste contro un genocidio, la difficile situazione di Khalil si fa beffe delle garanzie costituzionali.

La lotta di Khalil contro la deportazione sulla base di accuse infondate di “antisemitismo” e minaccia alla “sicurezza nazionale” è in effetti un banco di prova dei limiti di fondamentali diritti costituzionali e umani sotto Trump.

Il diritto di avere diritti”, menzionato per la prima volta dalla filosofa Hannah Arendt, una rifugiata dalla Germania nazista, evidenzia che una persona non è intrinsecamente titolare di diritti ma perché le venga concesso ogni altro diritto deve essere riconosciuta come parte di una comunità politica. Si potrebbe parlare di diritti universali, ma essi devono essere riconosciuti ed hanno una forza materiale solo quando sono riconosciuti dai poteri di uno Stato.

È precisamente l’eliminazione del diritto di avere diritti, il diritto di essere riconosciuti come esseri umani per legge, a cui mira Trump.

Non è un caso che i palestinesi e i loro sostenitori siano tra i primi ad essere presi di mira. Israele, gli Stati Uniti e il cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole hanno dichiarato i palestinesi fuori dai confini del riconoscimento legittimo, vale a dire espellibili, arrestabili e potenzialmente vittime di uccisione, per 76 anni.

Vedo nella mia situazione delle somiglianze con l’uso da parte di Israele della detenzione amministrativa, l’incarcerazione senza processo o imputazione, per togliere ai palestinesi i loro diritti,” ha scritto Khalil nella sua lettera.

Gli avvocati di Khalil ritengono che sia stato preso di mira dall’amministrazione solo per aver espresso un’opinione che dovrebbe essere protetta dal Primo Emendamento. C’è persino una specifica misura nella legge su Immigrazione e Nazionalità del 1990 che dovrebbe impedire al governo di deportare persone in quanto minacce alla “politica estera” solo per aver espresso la propria opinione.

Eppure far valere questa protezione si è dimostrato inutile. Dove sono i diritti di Khalil?

Necropolitica alla luce del sole

Quando Trump ha invocato l’Alien Enemies Act [Legge sui Nemici Stranieri, ndt.] del 1798 per rastrellare immigrati venezuelani, anche quello è stato un attacco contro il diritto di avere diritti. E si è dimostrato un successo: la maggioranza degli oltre 200 uomini rastrellati sulla base di accuse assolutamente infondate di appartenenza a una gang non aveva precedenti penali. Ciò non ha impedito che venissero spediti, senza un regolare processo, in un brutale campo di prigionia nel Salvador.

Questa politica di consegna straordinaria come deportazione è diventata solo ancora più oscura con ogni nuovo dettaglio. La catalogazione come criminale da parte degli USA è stata a lungo utilizzata per togliere alla gente diritti fondamentali. La deportazione potenzialmente permanente verso un campo di prigionia totalitario non sarebbe giustificata neppure se ogni detenuto fosse stato condannato per gravi reati.

Si prenda il caso di un uomo che l’amministrazione Trump ammette sia stato erroneamente inviato nel Salvador. Nonostante questa ammissione il governo sta lottando per non dover riprendere questo uomo, arrivando venerdì perfino a sfidare un ordine del tribunale. Ciò riflette l’impegno a escludere persone ben definite dalla comunità che detiene diritti.

Il partito Repubblicano di Trump è stato definito come un “culto della morte” fin dal suo primo mandato, quando il negazionismo del COVID da parte dei MAGA [seguaci di Trump, ndt.] ha assunto forme omicide e suicide. Il rifiuto della scienza medica, l’accoglienza positiva a una decimazione ambientale, un vero e proprio attacco contro le fondamentali disposizioni del welfare, uno straordinario sfruttamento dei lavoratori, i veti all’assistenza sanitaria riproduttiva, un’inesauribile dedizione al potere delle armi sono tipiche ossessioni per la morte della reazione del capitalismo americano, imbevute sotto Trump di una carica messianica.

Come molti dei progetti trumpiani, questa volta l’amministrazione ha una modalità mortale più raffinata, violenta ed esplicitamente fascista.

Le politiche di Trump possono rendere l’intera popolazione, compresa la sua base devota, più vulnerabile a una morte e a una fragilità premature; le politiche trumpiane di dominio, tuttavia, si basano su cosiddetti nemici chiaramente definiti e minacciati come già morti, espellibili o potenzialmente vittime di uccisione.

Tuttavia c’è almeno un modo in cui il “culto della morte” di Trump fa ricadere la necropolitica sulla sua testa. Il governo necropolitico, l’ordinamento di vita e morte letale e razzista da parte delle democrazie liberali occidentali, ha tradizionalmente cercato di amministrare la morte dietro porte chiuse o lontano dalla patria.

Si supponeva che l’opinione pubblica non venisse a sapere delle torture nella prigione di Abu Ghraib in Iraq o degli abusi a Guantanamo, delle uccisioni da parte della polizia, della brutalità razzista nelle prigioni, dell’inquinamento e della distribuzione grossolanamente diseguale della devastazione ambientale, e molto altro. La mossa trumpiana è indossare la testa da morto [simbolo utilizzato anche dalle SS naziste, ndt.], adottare e potenziare questo mostruoso e palesemente diseguale quadro di morte.

Tuttavia Khalil continua a dimostrarci cosa significhi lottare per la vita. “Dopo l’udienza Khalil si è girato a guardare in faccia i 22 osservatori e giornalisti fuori dall’aula di tribunale e ha formato un cuore con le sue mani,” ha riportato l’NPR [rete di radio indipendenti USA, ndt.]. “Ha sorriso.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le Real Housewives della Hasbara: quando la guerra di Gaza fa bene agli affari

Rachel Fink

6 aprile 2025 – Haaretz

Una schiera di donne influencer si è trasformata in megafoni della propaganda filo-israeliana dopo il 7 ottobre. Le “hasbariste” mescolano con disinvoltura contenuti lifestyle e attivismo sionista privo di sfumature. Ma questa strategia è davvero utile alla causa? E la hasbara ha mai giovato a Israele?

Lizzy Savetsky sta vivendo un anno fantastico.

Ha partecipato alle celebrazioni per l’insediamento del presidente Donald Trump, si è assicurata un posto nella lista tutta influencer per il Congresso Sionista Mondiale, ha lanciato una linea di costumi da bagno per bambini – indossati dai suoi tre figli – e ha persino trovato il tempo per una vacanza a Miami, documentando ogni momento per i suoi 412.000 follower su Instagram.

E tutto questo mentre respingeva i jihadisti mascherati che si infiltravano alla Columbia University, sosteneva la battaglia esistenziale di Israele su sette fronti e affrontava i peggiori nemici del popolo ebraico: il senatore democratico Chuck Schumer e i rabbini contrari alla pulizia etnica di Gaza. Hashtag benedetta.

Questa ex cheerleader nata a Dallas e diventata fashion designer e mamma-influencer a Manhattan si è avvicinata all’ebraismo ortodosso dopo aver incontrato il chirurgo plastico Ira Savetsky. Nel 2022 Lizzy era stata scelta per la quattordicesima stagione di The Real Housewives of New York City – il reality show che segue le vite glamour e piene di drammi di donne ricche – ma poco dopo l’annuncio e prima dell’inizio delle riprese aveva dichiarato di aver deciso di lasciare il programma. Aveva anche detto che la scelta era dovuta a un’ondata di insulti antisemiti ricevuti dopo la notizia della sua partecipazione.

Ma altre fonti, tra cui Page Six [sito americano di notizie su celebrità e mondo dello spettacolo, ndt.], hanno invece riportato che la tensione era nata quando un’altra concorrente aveva chiesto a Savetsky – nota per la sua abilità nel combinare incontri – di presentarle un uomo ebreo. Lizzy avrebbe rifiutato, spiegando di combinare solo coppie ebree per preservare la continuità ebraica. La discussione si era scaldata, portando il marito a usare un insulto razzista in una telefonata con i produttori. Nonostante le scuse, la situazione aveva decretato l’addio di Lizzy al programma.

Tornata a postare video della sua famiglia che celebravano l’ebraismo e Israele, dopo l’attacco del 7 ottobre Lizzy si è lanciata in quella che può essere definita solo come vera e propria hasbara– un termine ebraico che può essere inteso come diplomazia pubblica o propaganda, a seconda dei punti di vista.

Come la stessa hasbara, Savetsky è una figura polarizzante. I fan la hanno osannata come una “leonessa ebraica” e una “moderna Regina Ester”, come ha scritto entusiasta un sito web. Ma ha anche una schiera di detrattori che la accusano di aver distorto i fatti, aver difeso azioni militari israeliane considerate da alcuni crimini di guerra e persino aver strumentalizzato i figli per suscitare reazioni emotive.

Poi ci sono i suoi veri sostenitori: quelli che generalmente la appoggiano ma che non esitano a criticarla quando le sue posizioni si fanno troppo estreme, come quando a febbraio ha condiviso un video del rabbino estremista Meir Kahane, elogiandolo per aver detto che la forza è «l’unica lingua che gli arabi capiscono».

Savetsky non è sola. Dal 7 ottobre, è esploso il numero di influencer donne (e in misura minore uomini) che hanno trasformato i loro account in macchine da propaganda filo-israeliana. Raffinate e benestanti, queste donne hanno mescolato con naturalezza contenuti lifestyle [moda, benessere, viaggi, alimentazione, ndt.] e attivismo sionista.

Il loro messaggio è sorprendentemente uniforme e si articola in tre categorie: sostegno incondizionato a Israele nella guerra contro Hamas, appelli urgenti per il ritorno degli ostaggi e un’ossessione per l’antisemitismo globale, dipinto come una minaccia pervasiva ed esistenziale. I loro post spesso riducono questioni complessissime a netti scontri tra bene e male: un approccio che ha funzionato sui social, ma che nel mondo reale non ha lasciato spazio alle sfumature. Eppure, la loro portata [il numero di utenti singoli raggiunti da un contenuto pubblicato via social, ndt.] è innegabile.

Ma in un dibattito globale sempre più polarizzato questa strategia giova davvero agli interessi di Israele nel lungo termine? O ridurre il conflitto a uno scontro morale assoluto non ha semplificato il compito dei critici e rischia di alienare potenziali alleati?

Ecco a voi le Real Housewives della Hasbara.

“Attiviste per caso”

Le frasi che queste “hasbariste” usano per descriversi sono spesso ripetitive: “imprenditrice”, “creatrice di contenuti digitali”, “ebrea orgogliosa”. Ma una spicca su tutte: “attivista per caso”.

Molte dicono di “aver trovato la propria voce” dopo l’attacco di Hamas. Il fatto di avere già un seguito sui social grazie alle loro attività nel campo della moda, del wellness o degli affari aiuta. Ma è innegabile che l’antico adagio “la guerra fa bene agli affari” si applichi anche qui. O meglio, la guerra fa bene agli affari degli influencer. Queste donne hanno visto i loro follower schizzare alle stelle, con i contenuti filo-israeliani che trainano un engagement [numero di interazioni attive come “mi piace”, commenti e condivisioni, ndt.] senza precedenti.

Ne è un esempio perfetto Shai Albrecht (centoseimila follower), personal trainer ortodossa moderna [l’ebraismo ortodosso moderno promuove una sintesi fra i principi di fede ebraici e la società moderna e attribuisce un significato religioso allo Stato di Israele, ndt.]. In un’intervista recente, ha ammesso di aver guadagnato decine di migliaia di follower dopo aver spostato i suoi contenuti dal fitness alla propaganda filo-israeliana. Prima del 7 ottobre, Albrecht – che non corrisponde allo stereotipo della donna ortodossa tradizionalmente vestita – postava soprattutto video che la ritraevano mentre ballava in tenuta da palestra, sfidando l’idea che tutte le donne religiose debbano vestirsi con modestia. Le sezioni commenti dei suoi post su Instagram erano spesso animate discussioni, un ottimo allenamento per il veleno che ora riceve ogni giorno.

La sua indifferenza per le norme ortodosse sull’abbigliamento la accomuna a Savetsky, ma le somiglianze non finiscono qui. Entrambe, pur vivendo in America, si trovavano in Israele il 7 ottobre 2023, giorno di una festa ebraica. I loro post emotivi di quel giorno sono incredibilmente simili ed entrambe lo descrivono come un punto di svolta nel loro attivismo. Da donne focalizzate sul personal branding sono ora totalmente immerse nella propaganda filo-israeliana. E sono diventate sostenitrici dichiarate di Trump.

Come molte hasbariste, Savetsky e Albrecht sono persuasive quando parlano degli ostaggi, dei soldati caduti e della causa israeliana. Ma dimostrano anche che queste donne facoltose possono essere, beh, cattive.

Dopo lo sfogo emotivo iniziale Albrecht ha attraversato una sorta di rebranding social. Ora gran parte dei suoi contenuti consiste nello stitch – una funzione di TikTok che permette di rispondere a un video altrui – di clip filo-palestinesi per confutarle, spesso con toni sarcastici.

Albrecht è fermamente convinta che non ci sia alcuna sofferenza tra i gazawi (tutti sostenitori di Hamas a suo dire), che l’esercito israeliano sia il più morale al mondo e che le accuse di abusi sui prigionieri palestinesi – confermate dall’esercito israeliano – siano false.

Anche se Albrecht ha messo in pausa il suo business del fitness, ogni tanto pubblica ancora qualche annuncio a pagamento (o spon-con, come si dice sui social). Ma molte “attiviste per caso” scelgono di integrare le loro attività commerciali con la propaganda filo-israeliana.

L’accostamento a volte è stridente: un video straziante di Yarden Bibas che pronuncia l’elogio funebre per la moglie e i due figli piccoli, uccisi mentre erano prigionieri di Hamas, seguito subito da un post outfit of the day [come mi vesto oggi, ndt.]. Altre volte, i due mondi si fondono: come quando Savetsky ha postato una serie di foto in cui posa indossando costumi da bagno di designer israeliani, con la didascalia “thirst trap sionista” [con “thirst trap” si intende la condivisione sui social media di foto o video in abiti succinti e/o pose provocanti con lo scopo di richiamare l’attenzione, ndt.].

L’effetto Tishby

Se l’alveare della Hasbara avesse un’ape regina, sarebbe Noa Tishby (ottocentotrentaseimila follower su Instagram). Nata e cresciuta in Israele, si è trasferita negli USA nei primi anni 2000, ottenendo una certa fama dapprima come attrice e produttrice. Nel 2022 è stata nominata primo inviato speciale israeliano per la lotta all’antisemitismo, ma è stata licenziata l’anno dopo per aver criticato la riforma giudiziaria di Netanyahu.

Da allora, è diventata una delle voci più influenti a sostegno di Israele, usando la sua piattaforma per contrastare la disinformazione, promuovere la narrazione israeliana e denunciare l’antisemitismo. Benché non sia una giornalista, i suoi video esplicativi ben curati, i reportage sul campo e le interviste a soggetti di alto profilo le danno un’aura da professionista.

E le hasbariste hanno preso nota. Ispirate da Tishby, molte sono passate da video casuali e improvvisati – spesso su musiche di tendenza – a uno stile più professionale. Il microfono portatile usato dai giornalisti indipendenti è diventato un accessorio onnipresente, così come i monologhi scritti su immagini di repertorio, che danno ai loro contenuti un’aria autorevole. Ma nonostante l’upgrade estetico le fonti sono raramente citate, le affermazioni non sono verificate e l’accuratezza passa spesso in secondo piano rispetto all’engagement [spesso sui social network i contenuti più divisivi sono quelli che ottengono il maggior numero di reazioni dagli utenti, a tutto vantaggio di chi li diffonde, ndt.].

Durante i loro frequenti viaggi in Israele, molte hanno abbracciato il “reportage sul campo”: visitano le rovine dei kibbutz distrutti indossando giubbotti antiproiettile e caschi, filmano al memoriale del festival Nova e imitano Anderson Cooper [giornalista americano celebre per i suoi reportage, ndt.] con interviste in loco. Un camion di aiuti al valico di Kerem Shalom viene presentato come prova definitiva che Gaza riceve tutto l’aiuto umanitario necessario. L’estetica è giornalistica; l’approccio molto meno.

Ma importa davvero? Secondo il comico Matt Lieb, conduttore del podcast Bad Hasbara (che analizza le strategie di pubbliche relazioni israeliane), nonostante non sia mai stato così facile smascherare le falsità, non è neanche mai stato così irrilevante.

“Non contano i fatti, ma le emozioni”, sostiene. “Si tratta di rafforzare una visione del mondo preesistente. Se l’obiettivo fosse convincere chi è fermamente anti-Israele allora sì, le prove sarebbero importanti. Ma la propaganda israeliana è sempre stata rivolta agli ebrei del mondo occidentale – quelli che vogliono vedere Israele come un baluardo di democrazia, femminismo, anti-razzismo e altri valori liberali. Ecco perché tanta hasbara ha sempre enfatizzato i pride di Tel Aviv o il fatto che, in un mondo di donne arabe in burqa, solo Israele permette di indossare il bikini”.

Tutto è cambiato dopo il 7 ottobre, quando è emerso un nuovo pubblico, più infervorato.

“Conosco molte persone che da 17 mesi vivono in un costante stato di allerta, consumando solo media che dicono loro che gli ebrei sono sotto attacco”, dice Lieb. In molti di questi contenuti, suggerisce, c’è un sottotesto inquietante: che Israele sia giustificato qualsiasi cosa faccia ai palestinesi – perché, se le cose peggiorassero, gli ebrei potrebbero aver bisogno di un piano B.

Ironia della sorte, aggiunge, queste influencer potrebbero ottenere un effetto opposto a quello desiderato. “La gente guarda I Kardashian per odiarli. Ora per alcuni l’unica esposizione all’ebraismo è un’influencer ricca di Beverly Hills che fa la vittima”. Nella migliore delle ipotesi è imbarazzante. Nella peggiore, alimenta un’ostilità che altrimenti non esisterebbe.

Ma forse è proprio questo il punto. Un’analisi approfondita dell’ecosistema dell’indignazione performativa rivela uno schema ricorrente: un post provocatorio scatena un’ondata di odio, in parte chiaramente antisemita. L’influencer inserisce schermate dei commenti peggiori, li riposta come prova dell’odio crescente, e l’indignazione genera più engagement, più follower, più validazione. E il ciclo continua.

“Tutto questo è nettamente dannoso”, si lamenta Lieb.

#Riportateliacasa

Una delle cause principali delle hasbariste è la lotta per la liberazione dei 251 ostaggi presi il 7 ottobre (59 sono ancora a Gaza). Addobbate con piastrine di riconoscimento militari e nastri gialli [usati già in occasione della guerra in Vietnam come simbolo di sostegno ai soldati al fronte e speranzosa attesa del loro ritorno, ndt.], inondano i social di simboli, partecipano a ogni possibile evento e raduno. Quelle con un seguito ampio ottengono persino interviste con le famiglie degli ostaggi. Denunciano online Hamas e il silenzio del mondo. Ma quasi mai riconoscono il ruolo del governo israeliano nei falliti negoziati.

Come Lieb, anche Alana Zeitchik è preoccupata per la faziosità del discorso – ma da una prospettiva completamente diversa. Il 7 ottobre sei suoi parenti sono stati rapiti da Hamas, incluso un cugino di primo grado. Ora divide il tempo tra il suo lavoro di consulente media freelance e un’instancabile campagna a favore della loro liberazione per conto della famiglia e di tutti gli ostaggi ancora a Gaza. In questa veste, ha interagito con queste influencer sia online che di persona.

Benché apprezzi i loro sforzi per sensibilizzare l’opinione pubblica e creda che siano sinceramente coinvolte nella causa, Zeitchik è frustrata dalla mancanza di sfumature nei loro messaggi.

“Penso che sia una questione di confine tra il loro ruolo e il nostro”, dice. “Alcune non parlano ebraico. Alcune non seguono da vicino gli eventi in Israele. Altre potrebbero semplicemente non voler criticare il governo”. Ma per Zeitchik e altre famiglie di ostaggi la focalizzazione esclusiva sulla brutalità di Hamas – ignorando i fallimenti israeliani – non sembra essere d’aiuto nel tentativo di spingere il governo a rispondere delle sue azioni.

In alcuni casi la narrazione va oltre, anteponendo agende politiche al ritorno degli ostaggi. “Credo di essere molto aperta a opinioni diverse”, dice Zeitchik. “Ma traccio un confine quando qualcuno costruisce un’agenda politica sulla nostra sofferenza. Quando lo vedo, parlo”.

Cita la famiglia Bibas come esempio. Dopo la liberazione di Yarden Bibas a febbraio, lui e il mondo hanno ricevuto la terribile conferma di ciò che si temeva da tempo: sua moglie e i due figli erano stati uccisi durante la prigionia.

La tragedia ha sconvolto Israele e la comunità ebraica, ma alcuni hanno colto l’occasione per invocare vendetta. “Mai perdonare, mai dimenticare” è diventato un mantra – nonostante la richiesta esplicita della famiglia di non usare il loro nome per incitare alla violenza. In un post durissimo Zeitchik ha denunciato chi ignorava le loro parole: “A chi invoca vendetta e violenza infinita nel nome dei Bibas: non pronunciate più il loro nome, non ne siete degni”.

Zeitchik è chiara: non ha bisogno che queste donne parlino per lei, né si aspetta che condividano le sue opinioni. “Vorrei solo che seguissero il nostro esempio nel tenere insieme diverse verità”, dice. “Usate le vostre piattaforme per amplificare le voci delle famiglie degli ostaggi. Ripostate le nostre storie, non solo i frammenti che vi fanno comodo”.

La cultura della Hasbara

Se un’intelligenza artificiale analizzasse le decine di migliaia di post prodotti dalle hasbariste, parole come Israele, Hamas, ostaggi, 7 ottobre e sionismo dominerebbero. Ma una le eclisserebbe tutte: antisemitismo.

Oltre a difendere il diritto di Israele a esistere, si considerano in missione per sradicare dal mondo l’odio per gli ebrei. E sebbene le due cause siano intrecciate nulla ha la priorità rispetto alla salvezza del popolo ebraico da quella che considerano una forza inarrestabile di odio cieco – che, a loro dire, ha permeato ogni istituzione, movimento e spazio pubblico.

Il giornalista Yakov Hirsch, che da anni analizza le campagne di hasbara globale (e i cui lavori sono apparsi su Mondoweiss e Tablet), sostiene: “La hasbara è una tattica, ma la cultura della hasbara è un’identità”.

Per lui, questa identità include la convinzione incrollabile che esista uno specifico tipo di odio, unicamente per gli ebrei ma completamente scollegato da qualsiasi azione compiuta da ebrei (o israeliani). Un odio visto come inevitabile, eterno e immutabile.

Ma le hasbariste non si sono svegliate un giorno convinte che l’antisemitismo sia una forza inarrestabile della natura, sostiene Hirsch. Questa visione è un’eredità: plasmata da leader israeliani come Menachem Begin e, soprattutto, Netanyahu, rafforzata da giornalisti come Bari Weiss (un milione e centomila follower) e Yair Rosenberg (millecentonovanta follower), e infine distillata in slogan social da influencer come Rach Moon (centoquattromila follower) e una donna che si fa chiamare Barbie Sionista (ventimila follower).

“Le loro argomentazioni sono diventate una realtà alternativa”, dice Hirsch. “Non è più solo retorica. È la lente attraverso cui loro e molti altri vedono il mondo. E cercano conferme”.

Questo spiegherebbe perché il 7 ottobre sia stato un punto di svolta per tanti attivisti online: “È stata la prova che cercavano”, sostiene. “Vedete? Loro santificano la morte, noi la vita. Loro la crudeltà, noi la compassione”.

E aggiunge: “Molti si sono convinti che questa guerra sia un’eccezione, che il diritto internazionale valga per le guerre normali, ma che questo scontro tra israeliani e palestinesi – che loro vedono davvero come uno scontro tra ebrei e i loro nemici, tra bene e male – sia unico. E quindi valgono regole uniche”.

Per Hirsch il 7 ottobre ha creato una frattura profonda nel mondo ebraico, che va oltre le divisioni tradizionali. “C’è una spaccatura tra gli ebrei oggi”, dice. “E non è sionisti contro anti-sionisti, liberali contro conservatori o religiosi contro laici.

È qualcosa di più profondo: la divisione tra chi riconosce – e userò una parola sporca – il contesto dietro l’attacco di Hamas, cioè che l’occupazione e il trattamento dei palestinesi sono parte della storia, e chi crede che non ci sia alcun collegamento”.

Per i cultori della hasbara, che rientrano chiaramente nel secondo gruppo, Hamas è solo l’ultima incarnazione di un nemico eterno – nessuna differenza con Amàn, Adriano, Hitler o Hussein.

Per loro, ogni manifestante universitario è un potenziale pogromista; ogni kefiyyah una divisa terroristica; ogni bullo scolastico un presagio di rovina ebraica. Basta scorrere velocemente i feed di queste influencer per rendersene conto. L’antisemitismo non è un problema tra tanti: è il problema, il centro gravitazionale attorno a cui ruota tutto. E che scherma Israele da qualsiasi critica, perché la critica stessa è antisemita.

La “vibe” di Israele

A fine gennaio, circa 25 influencer e creatori di contenuti sono arrivati in Israele per un viaggio sponsorizzato dal Ministero degli Esteri, progettato per generare contenuti filo-israeliani. Tra loro c’erano diverse note hasbariste, che hanno visitato le rovine di Nir Oz [kibbutz attaccato dalle brigate Al Qassam il 7 ottobre e oggi disabitato, ndt.], visitato il centro riabilitativo del Soroka Medical Center [situato a Beersheba, vicino al confine con la Striscia di Gaza, è l’ospedale dove vengono curati i soldati feriti e i sopravvissuti agli attacchi di Hamas, ndt.], filmato camion di aiuti al valico di Kerem Shalom e incontrato Michal Herzog, moglie del presidente Isaac Herzog.

Questo viaggio è solo uno dei tanti progetti simili, con nomi come “Vibe Israel” e “Project Upload”, pensati per sfruttare la portata degli influencer e modellare la percezione internazionale di Israele, mescolando attivismo e contenuti lifestyle.

E il governo sta investendo molto in questa strategia. A dicembre Israele ha approvato un aumento di 550 milioni di shekel (150 milioni di dollari) al budget della hasbara – oltre 20 volte le allocazioni precedenti – come parte di un accordo politico tra Netanyahu e il neo-nominato ministro degli Esteri Gideon Sa’ar. All’epoca, Sa’ar aveva dichiarato che i fondi sarebbero stati usati per “campagne mediatiche all’estero, sulla stampa estera, sui social e altro”.

Questa enfasi sul ruolo attivo dell’hasbara nel plasmare la percezione pubblica è uno sviluppo relativamente recente. Secondo Nimrod Goren, presidente e fondatore di Mitvim, l’Istituto Israeliano per le Politiche Estere Regionali, nei primi anni di Israele le preoccupazioni sulla sicurezza avevano la priorità rispetto alla comunicazione.

“Negli anni ’50 la hasbara serviva soprattutto a rompere l’isolamento diplomatico e assicurarsi sostegno militare e politico”, racconta Goren. “Solo dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele passò dall’essere percepito come sfavorito a potenza occupante, l’opinione pubblica divenne un campo di battaglia primario”.

Per decenni, dice Goren, Israele ha operato sulla base di un semplice postulato: se solo il mondo capisse meglio le nostre azioni, le accetterebbe.

Ma nel 2019 la hasbara israeliana ha subìto una svolta, allontanandosi dalla diplomazia governativa tradizionale verso un approccio digitale, decentralizzato e sempre più politicizzato.

“Era l’epoca d’oro del Ministero degli Affari Strategici, poi chiuso, quando i portavoce ufficiali hanno cominciato a essere rimpiazzati da gruppi di pressione privati e campagne social”, spiega Goren. “Ma è stato anche il momento in cui la narrazione si è allineata alla politica di destra sotto Netanyahu e i suoi alleati”.

Paradossalmente, aggiunge, nel 2023 Israele ha avuto un colpo di fortuna con le proteste contro la riforma giudiziaria, sebbene il governo non l’abbia visto così. “Anche se la coalizione di Netanyahu si opponeva alle manifestazioni, esse sono diventate una delle campagne di hasbara più efficaci – mostrando al mondo che la società israeliana resisteva a mosse anti-democratiche”.

Ora, dopo il 7 ottobre, con l’indignazione globale per la campagna militare israeliana e i suoi leader che corteggiano estremisti di destra all’estero, Goren avverte che la hasbara deve liberarsi dalla politica, abbracciare le sfumature e ammettere gli errori del governo. Altrimenti, Israele rischia di diventare uno Stato paria.

Se le Real Housewives della Hasbara vogliono davvero aiutare il Paese che dicono di amare, farebbero bene ad ascoltare.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




Una vittoria contro la macchina della disinformazione: come Albanese ha sconfitto la lobby israeliana

Robert Inlakesh

6 aprile 2025 – The Palestine Chronicle

Francesca Albanese, forse la funzionaria delle Nazioni Unite più attaccata, è diventata uno delle più strenui difensori dei diritti umani nella Palestina occupata. Nonostante le innumerevoli accuse rivoltele, i divieti d’ingresso in diversi Paesi e persino le minacce di morte, è riuscita a ottenere il rinnovo del suo incarico alle Nazioni Unite.

Dopo aver ricevuto la nomina a Relatrice Speciale per i Territori Palestinesi Occupati nel maggio 2022, la studiosa e avvocata di diritto internazionale italiana, Francesca Albanese, ha rischiato di essere eventualmente estromessa dal suo incarico.

A seguito di notizie secondo cui una sessione del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (UNHRC) avrebbe deciso se la nota Relatrice Speciale avrebbe mantenuto il suo incarico, è emersa l’ennesima campagna diffamatoria.

L’UNHRC ha ufficialmente ribadito che Albanese manterrà il suo incarico fino al 2028, dissipando diverse voci su una sua possibile estromissione. Sebbene accuse infondate di “antisemitismo”, “sostegno ad Hamas” e “terrorismo” siano state a lungo rivolte al Relatore Speciale delle Nazioni Unite (UNSR), di recente i gruppi di pressione filo-israeliani hanno ovviamente intensificato le loro campagne.

Mentre la rappresentanza degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite ha recentemente tentato di esercitare pressioni per far licenziare Albanese, sostenendo che avesse sposato un “antisemitismo virulento, che demonizza Israele e sostiene Hamas”, l’amministrazione Trump si è ritirata dall’UNHRC in buona misura a causa delle sue critiche a Israele.

Questo fatto indebolisce la posizione del governo statunitense, fermamente filo-israeliano e anti-palestinese. Lo stesso Donald Trump usa persino il termine “palestinese” come insulto contro i suoi oppositori politici.

Albanese è stata oggetto di critiche fin dal suo ingresso alle Nazioni Unite nel 2022, il che ha spinto circa 65 studiosi ebrei a difenderla firmando una dichiarazione in cui si legge: “È evidente che la campagna contro (Albanese) non mira a combattere l’antisemitismo dei nostri giorni. Si tratta essenzialmente di tentativi di metterla a tacere e di indebolire il suo mandato di alto funzionario delle Nazioni Unite che denuncia le violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale da parte di Israele”.

Dopo il 7 ottobre 2023, con l’inizio della guerra a Gaza, le accuse contro Albanese hanno raggiunto livelli senza precedenti.

Si è rifiutata di moderare la sua opposizione ai crimini di guerra ed è stata una delle prime funzionarie delle Nazioni Unite a opporsi ai governi occidentali che cercavano di affermare che la storia fosse iniziata il 7 ottobre.

La rappresentante speciale dell’ONU ha ricevuto persino un divieto di ingresso in Francia dopo aver dichiarato che le affermazioni secondo cui l’attacco di Hamas sarebbe stato motivato da “antisemitismo” erano errate. Fin dall’inizio del conflitto ha lanciato l’allarme sui piani israeliani di pulizia etnica a Gaza, venendo etichettata come “sostenitrice di Hamas”, “antisemita” e “di parte”. Mentre il governo israeliano e i suoi difensori hanno sostenuto che tale politica non esistesse, definendo tali accuse “antisemite”, Israele ora persegue apertamente la pulizia etnica.

Nel marzo 2024 Albanese ha anche pubblicato un rapporto delle Nazioni Unite intitolato “Anatomia di un genocidio”, che ha ricevuto un’enorme quantità di reazioni negative. I gruppi filo-israeliani sono stati implacabili nei loro attacchi alla Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite (UNSR). UN Watch, un sito web filo-israeliano che perseguita le figure di spicco che criticano le politiche di Tel Aviv, ha persino pubblicato un rapporto di 60 pagine in cui si afferma che la Relatrice Speciale promuove la propaganda di Hamas, alimentando “l’antisemitismo e il terrorismo jihadista”.

La litania di attacchi alla sua figura ha spaziato dal definirla “antisemita”, “simpatizzante del terrorismo”, fino a “negazionista dell’Olocausto” il tutto senza prove. Ha anche ricevuto attacchi personali e affermazioni infondate sui suoi finanziamenti.

Nel luglio del 2024 una notizia falsa utilizzata per delegittimare Albanese è stata quella secondo cui avrebbe ricevuto finanziamenti da una serie di gruppi di attivisti filo-palestinesi in Australia. Il sito web UN Watch ha affermato che associazioni australiane erano “filo-Hamas”, un’accusa anch’essa senza prove.

Tuttavia i media israeliani e alcuni settori dei media occidentali hanno diffuso la notizia secondo cui l’UNSR era accusata di ricevere fondi da un “gruppo filo-Hamas”. Queste affermazioni sono rimaste senza fondamento per mancanza di prove, mentre la funzionaria delle Nazioni Unite ha dichiarato pubblicamente che il suo lavoro non è retribuito.

Il 1° ottobre Francesca Albanese ha pubblicato un altro rapporto per le Nazioni Unite intitolato “Genocidio come cancellazione colonialista”. Proseguendo nel suo impegno per la causa dei diritti umani dei palestinesi, Albanese viaggia frequentemente, partecipa a conferenze e rilascia interviste, fornendo informazioni

A marzo, un gruppo estremista sionista chiamato “Betar”, che ha apertamente elogiato e minacciato tattiche descritte dall’ex direttore della CIA, Leon Panetta, come “terrorismo”, ha persino minacciato di consegnare un cercapersone ad Albanese. Questa intimidazione si basa sugli attacchi esplosivi con cercapersone perpetrati indiscriminatamente in tutto il Libano da Israele, che hanno ucciso e ferito civili e membri di Hezbollah.

Il fatto che la Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati rimanga al suo posto è una vittoria contro una montagna di organizzazioni filo-israeliane e funzionari governativi occidentali finanziati da gruppi della lobby filo-israeliana. È anche una prova del fatto che le accuse mosse contro Albanese sono infondate.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Una conferenza israeliana sull’antisemitismo sta fallendo … perché ha invitato troppi antisemiti

Jonathan Ofir

26 marzo 2025- Mondoweiss

Una conferenza israeliana sull’antisemitismo è finita sotto accusa a causa della partecipazione di politici europei di estrema destra, molti dei quali con una storia di razzismo antiebraico. Sebbene questa lista di invitati sia offensiva, non dovrebbe sorprendere data la storia del sionismo.

Oggi il governo israeliano inizierà a ospitare una conferenza di due giorni sull’antisemitismo. Ironicamente l’iniziativa ha cominciato a sgretolarsi a causa delle accuse secondo cui troppe persone che vi partecipano sarebbero antisemite.

La conferenza di questa settimana è presieduta dal Ministero della Diaspora di Israele, che è guidato da Amichai Chikli (Likud). La conferenza intitolata “Conferenza internazionale sulla lotta all’antisemitismo” è il culmine della “settimana della Diaspora” di Israele, ma in realtà è pensata per raccogliere ulteriore sostegno alle politiche razziste di Israele. Chikli ha difeso Elon Musk l’anno scorso quando quest’ultimo ha attaccato George Soros come “odiatore dell’umanità” e paragonandolo al cattivo dei fumetti X-Men Magneto, che come Soros è un sopravvissuto all’Olocausto. Ora, la lista degli invitati alla sua conferenza sull’antisemitismo sta generando così tante polemiche che persino i sionisti reazionari non possono sostenerla. Secondo il Times of Israel, questi ospiti includono:

“L’elenco degli ospiti della conferenza include i controversi politici europei di destra Jordan Bardella, presidente del partito di estrema destra francese Rassemblement National fondato dal noto antisemita e negazionista dell’Olocausto Jean-Marie Le Pen; Marion Marechal, membro francese di estrema destra del Parlamento europeo e nipote di Le Pen; Hermann Tertsch, membro spagnolo di estrema destra del Parlamento europeo; Charlie Weimers del partito di estrema destra Sweden Democrats; e Kinga Gál, del partito ungherese Fidesz”.

Questo Who’s Who [almanacco, n.d.t.] dell’estrema destra europea ha portato alcuni dei più noti difensori di Israele, come il CEO dell’Anti-Defamation League Jonathan Greenblatt, il rabbino capo britannico Ephraim Mirvis e altri, a ritirarsi dall’evento.

Ma uno sguardo alla storia del sionismo mostra che tali alleanze non sono insolite. Infatti i leader sionisti e lo stato israeliano hanno a lungo avuto rapporti con fascisti e antisemiti con l’obiettivo di colonizzare la Palestina.

La lunga storia di collaborazione tra sionisti e antisemiti

Sebbene possa sorprendere qualcuno, la conferenza e la sua lista di ospiti indecenti non sono fuori luogo nella storia del sionismo. Infatti, proprio agli albori del sionismo, il fondatore Theodor Herzl scrisse nel suo diario che “gli antisemiti diventeranno i nostri amici più affidabili, i paesi antisemiti i nostri alleati”. Ed è proprio così che si è svolta la storia.

Tali alleanze hanno avuto luogo in varie occasioni nel corso della storia del sionismo, per vari obiettivi specifici. Tali obiettivi includevano l'”Accordo di trasferimento”, progettato dello Yishuv sionista (la comunità politica ebraica in Palestina) negli anni 1933-39, in vista del quale ebbe luogo l’incontro di Berlino del 1937 tra Adolf Eichmann e l’ebreo sionista e agente dell’Haganah Feivel Polkes. L’incontro includeva una discussione sulla possibilità che i nazisti potessero fornire armi per la lotta sionista contro il Mandato britannico in Palestina. Lo stesso anno Eichmann visitò la Palestina, ospitato da Polkes.

Un altro esempio fu quando la banda Stern (o LEHI, una propaggine dell’Irgun, guidata da Yaakov Stern) tentò di stringere un’alleanza con la Germania nazista nel 1940-41. Le loro proposte a Hitler offrivano “una partecipazione attiva alla guerra dalla parte della Germania”, menzionavano una “partnership di interessi” tra “la visione del mondo tedesca e le vere aspirazioni nazionali del popolo ebraico”. Sostenevano che “l’istituzione dello storico stato ebraico su una base nazionale totalitaria, in un rapporto di alleanza con il Reich tedesco, è compatibile con la conservazione del potere della Germania”. L’Irgun e la banda Stern erano entrambi discendenti ideologici di Vladimir Jabotinsky e del suo “Muro di ferro”, che è anche l’ideologia fondante del partito Likud. I leader di questi gruppi paramilitari, Menachem Begin e Yitzhak Shamir, divennero poi primi ministri di Israele. Naturalmente anche l’attuale primo ministro, Benjamin Netanyahu, è un erede di questa ideologia.

Negli anni ’30 i seguaci di Jabotinsky si formarono in Italia sotto Mussolini, il cui governo fascista annotò:

“In accordo con tutte le autorità competenti è stato confermato che le opinioni e le inclinazioni politiche e sociali dei revisionisti sono note e che sono assolutamente in accordo con la dottrina fascista. Pertanto, come nostri studenti, porteranno la cultura italiana e fascista in Palestina”.

Anni dopo Netanyahu non ha fatto che rafforzare le alleanze con i governi di estrema destra e ha gettato a mare gli ebrei e la storia della persecuzione ebraica. Lo ha fatto quando ha “assolto” il presidente ungherese Victor Orban proprio mentre Orban elogiava i collaboratori nazisti e attaccava George Soros con una campagna antisemita, e quando ha aiutato la Polonia nel suo tentativo ultranazionalista e revisionista di occultare [gli episodi di collaborazionismo e attiva partecipazione n.d.t.] della propria storia durante l’Olocausto.

Questa storia evidenzia come sionisti e antisemiti abbiano spesso trovato un terreno politico comune, esattamente come aveva previsto Herzl. Per gli antisemiti l’idea dello “Stato ebraico” rappresenta qualcosa con cui possono identificarsi: il potere brutale e ultra-nazionalista contro una popolazione oppressa non bianca (che si sposa con le loro politiche anti-immigrazione ultra-nazionaliste).

L’approvazione sionista è stata anche usata per ripulire i propri precedenti: se lo Stato ebraico li “certifica”, non possono essere razzisti.

L’obiettivo di Israele: legittimare il genocidio

Ciò che l’intera vicenda ha chiarito è che niente di tutto questo riguarda realmente l’antisemitismo. L’obiettivo di Chikli è combattere coloro che criticano Israele.

Nella sua lettera aperta a Papa Francesco lo scorso dicembre, Chikli ha criticato il suggerimento fin troppo blando del Papa di studiare se Israele stesse effettivamente commettendo un genocidio. Chikli ha tirato fuori la carta dell’Olocausto e ha suggerito che il Papa stesso si stesse impegnando nella negazione dell’Olocausto attraverso la “banalizzazione”:

“Come popolo che ha perso sei milioni di figli e figlie nell’Olocausto, siamo particolarmente sensibili alla banalizzazione del termine “genocidio”, una banalizzazione che si avvicina pericolosamente alla negazione dell’Olocausto“.

Quando stabilisci il tuo “stato ebraico” attraverso l’espropriazione dei palestinesi il tuo sionismo alla fine porterà l’antisemitismo al punto di partenza rafforzando le stesse forze che hanno portato avanti la tua persecuzione storica.

Non esiste un “nuovo antisemitismo”. Israele sta solo cercando di costruire un sostegno per il suo razzismo anti-palestinese sfruttando la storia di oppressione del popolo ebraico.

Forse riusciranno ancora a spararsi sui piedi.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Rafforzando l’“internazionale dell’estrema destra”, il Likud si unisce ai Patrioti per l’Europa

Farid Hafez

15 marzo 2025 – Middle East Eye

Gli appelli di personalità dell’estrema destra a ‘ripulire’ l’Europa e a commettere una ‘Srebrenica 2.0’ ora sono simbolicamente rafforzati dallo scenario della guerra di Israele contro Gaza.

Negli anni ’90, sulla base del loro antisemitismo, i partiti politici europei post-fascisti e post-nazisti rifiutarono esplicitamente Israele.

Considerandolo in generale come un’estensione del neocolonialismo degli Stati Uniti, questi partiti si mobilitarono contro gli USA in quanto guida dell’ordine mondiale liberale.

Allo stesso modo Israele ha respinto i leader dell’estrema destra. Si prenda in considerazione Jorg Haider, uno dei primi dirigenti europei di estrema destra ad avere successo, a cui fu vietato l’ingresso in Israele.

Da allora molte cose sono cambiate.

Mentre un leader di estrema destra atipico come Geert Wilders ha abbracciato fin dall’inizio la causa di Israele, presentandosi come difensore della vita ebraica in Olanda, all’estrema destra tradizionale ci è voluto molto di più per venire accettata nei circoli politici israeliani.

Alleanze mutevoli

Nel dicembre 2010 ci fu un viaggio storico, quando il Partito della Libertà austriaco (FPO), il belga Vlaams Belang, il Partito della Libertà tedesco e i Democratici svedesi andarono in Israele e firmarono la cosiddetta “dichiarazione di Gerusalemme”.

Essa affermava il “diritto di Israele a difendersi” contro il terrorismo sostenendo: “Siamo all’avanguardia nella lotta per la comunità occidentale e democratica” contro la “minaccia totalitaria” del “fondamentalismo islamico”.

Accusavano l’Islam di essere il nemico comune sia dell’Europa che di Israele.

Come disse nel 2011 un attivista tedesco di estrema destra, “vi garantisco che la Notte dei Cristalli [l’attacco nazista contro ebrei e i loro beni nella Germania nazista, ndt.] tornerà. Ma questa volta cristiani ed ebrei verranno trascinati in piazza, perseguitati e uccisi da islamisti.”

Secondo questa nuova logica ebrei ed europei saranno vittime di un crescente Islam fascista. Quindi si deve stringere una nuova alleanza tra Israele e l’estrema destra europea per contrastare queste apparenti minacce.

In quel momento solo pochi deputati di ultra-destra del parlamento israeliano, la Knesset, accolsero la delegazione di estrema destra in Israele. Non venne organizzata alcuna visita ufficiale alla Knesset.

La delegazione di estrema destra visitò delle colonie e mise di fatto in dubbio i diritti dei palestinesi sulla terra, riferendosi ad essa come Giudea e Samaria, la denominazione israeliana della Cisgiordania occupata. Ciò rappresentò un passaggio ideologico dalla negazione del diritto di Israele ad esistere a quello della Palestina ad esistere.

Un blocco di estrema destra

Quindici anni dopo l’estrema ha fatto ulteriori passi per normalizzare i suoi rapporti con le forze israeliane. Vari partiti di estrema destra sono arrivati al potere e hanno ottenuto un significativo appoggio elettorale nei propri Paesi e alle elezioni del parlamento europeo del giugno 2024 sono diventati il terzo gruppo per numero di parlamentari, formando i Patrioti per l’Europa (PfE).

Guidati da Jordan Bardella del Rassemblement National [Unità Nazionale] francese, questo blocco include importanti forze politiche come il Fidesz del primo ministro ungherese Victor Orban, la Lega del vice primo ministro italiano Matteo Salvini, il Partito della Libertà di Wilders, l’austriaco FPO e altri.

Anche se alcuni partiti di estrema destra, come Fratelli d’Italia e Alternative für Deutchland [Alternativa per la Germania] (AfD) sono rimasti in altri gruppi politici conservatori, i PfE si sono in seguito uniti ad altre forze politiche conservatrici e di estrema destra in tutto il mondo.

Anche l’AfD potrebbe aggiungersi.

Nel febbraio 2025 nientemeno che il partito di governo israeliano, il Likud guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, è entrato a far parte dei PfE come membro osservatore.

Data la focalizzazione dell’estrema destra su politiche anti-immigrazione, che prendono principalmente di mira i musulmani, questa alleanza non è affatto sorprendente.

Accogliendo un partito politico il cui segretario è accusato di genocidio dopo una guerra brutale che ha distrutto la Striscia di Gaza espellendo più di un milione di persone e uccidendone decine di migliaia, il PfE ha mandato una serie di messaggi.

Esso non ha dimostrato solo la propria prevedibile indifferenza per i mandati di arresto della Corte Penale Internazionale contro Netanyahu, ma ha anche comunicato al suo elettorato che le azioni genocide del primo ministro israeliano sono in linea con le fantasie di estrema destra riguardo a una guerra difensiva genocida per “far tornare di nuovo bianca l’Europa”.

Una nuova era

Vedendo i musulmani come la principale minaccia nella sua teoria cospirativa della “Grande Sostituzione” [della popolazione europea bianca e cristiana con immigrati musulmani, ndt.], il genocidio può essere visto semplicemente come l’ultima linea difensiva, un’idea già messa in pratica da estremisti di destra come Anders Breivik, che uccise 77 persone nel 2011 [in Norvegia].

Gli appelli di membri dell’estrema destra a “ripulire” l’Europa dai musulmani e a commettere una “Srebrenica 2.0” [massacro di musulmani ad opera dei serbi in Bosnia nel 1995, ndt.] sono ora simbolicamente rafforzati dal contesto della guerra israeliana contro Gaza portata avanti dal leader di un partito che adesso detiene lo status di osservatore nei PfE.

È l’utopia di estrema destra di un continente libero dai musulmani cui i PfE aspirano quando imitano il discorso del presidente USA adottando lo slogan “Rendere l’Europa di nuovo grande”.

Con crescenti indizi di un ordine mondiale illiberale che emergono sotto l’attuale amministrazione USA, essi sembrano sentirsi sempre più ringalluzziti.

Quando il direttore del DOGE [Dipartimento per l’Efficienza Governativa] Elon Musk esibisce saluti nazisti e lamenta che ci sia “troppa attenzione su colpe del passato” (cioè sull’Olocausto) rivolgendosi a membri dell’estrema destra dell’AfD, non sorprende che sia stato opportunamente dimenticato il palese antisemitismo di Orban, fondamentale per il suo successo elettorale.

In Europa l’estrema destra, ringalluzzita dalle sue controparti negli Usa e in Israele, sta entrando in una nuova era.

Farid Hafez è Distinguished Visiting Professor [professore ospite illustre] di Studi Internazionali presso il Williams College [prestigiosa università statunitense, ndt.] e ricercatore senior non residente della Bridge Initiative [progetto sull’islamofobia, ndt.] all’università di Georgetown [una delle principali istituzioni accademiche degli USA, con sede a Washington, ndt.].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Mahmoud Khalil, il laureato palestinese arrestato negli Stati Uniti, ha lavorato per “una delle più importanti politiche di soft power” del Regno Unito

Imran Mulla

11 marzo 2025 – Middle East Eye

Un ex diplomatico britannico rivela che Khalil, che Trump ha definito “studente radicale pro-Hamas”, era stato “autorizzato a lavorare su questioni delicate per il governo britannico”

Mahmoud Khalil, il laureato palestinese della Columbia University fermato nel fine settimana dalle autorità per l’immigrazione degli Stati Uniti, ha lavorato per anni per il governo britannico nella sua “principale politica di soft power”, come rivela Middle East Eye.

Khalil, residente permanente negli Stati Uniti, è stato preso in custodia dagli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE) sabato sera.

Un giudice federale ha bloccato temporaneamente la sua deportazione e Khalil è attualmente in attesa di procedimento in una prigione federale della Louisiana.

Lunedì, in un post sulla piattaforma Truth Social di Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti ha definito Khalil “studente straniero radicale pro-Hamas” e ha annunciato che il suo arresto è stato “il primo di molti a venire”.

“Sappiamo che ci sono altri studenti alla Columbia e in altre università in tutto il Paese che hanno intrapreso attività pro-terrorismo, antisemite e anti-americane, e l’amministrazione Trump non lo tollererà”, ha detto Trump.

Lunedì la Casa Bianca ha pubblicato trionfalmente su X la dichiarazione di Trump e un’immagine di Khalil, accompagnata dalle parole “SHALOM, MAHMOUD” con l’accusa di aver “condotto attività allineate ad Hamas”.

A dicembre Khalil si era laureato con un master presso la School of International and Public Affairs della Columbia.

È stato uno dei principali negoziatori degli studenti durante l’occupazione pro-Palestina del campus nella primavera del 2024.

Inoltre MEE ha scoperto che in precedenza, dal 2018 al 2022, aveva lavorato come responsabile di programma presso l’ufficio Siria dell’ambasciata britannica a Beirut.

I registri online esaminati da MEE dimostrano che Khalil vi aveva lavorato come responsabile locale del Programma Chevening per la Siria, un prestigioso programma di borse di studio internazionali del governo britannico, nonché per il Conflict, Stability, and Security Fund.

“Amato dai suoi colleghi”

L’ex diplomatico britannico Andrew Waller, che era consulente politico presso l’ufficio siriano mentre vi lavorava Khalil, ha detto a MEE che la descrizione di Khalil data dal governo degli Stati Uniti è falsa e diffamatoria.

“Ha superato un processo di verifica per ottenere il lavoro ed è stato autorizzato a lavorare per il governo britannico su questioni delicate “, ha detto Waller.

“Quello che Trump ha detto è una vera e propria diffamazione. Mahmoud è una persona estremamente gentile e coscienziosa ed era amato dai suoi colleghi dell’ufficio siriano”, ha aggiunto. “Non c’era nessuno che potesse dire qualcosa di negativo su di lui, era molto bravo nel suo lavoro”.

La borsa di studio Chevening, finanziata dal Foreign, Commonwealth and Development Office (FCDO), ha la missione di “sostenere le priorità della politica estera del Regno Unito e raggiungere gli obiettivi del FCDO creando relazioni positive e durature con futuri leader, influencer e decisori”. Waller l’ha descritta come una “una delle più importanti politiche di soft power britanniche“.

“Porta gli studenti più brillanti di tutto il mondo nelle università del Regno Unito. Mahmoud ha gestito il programma per la Siria e ha intervistato centinaia, se non migliaia, di candidati per conto del governo britannico”.

Waller ha ricordato che Khalil era anche un “funzionario politico locale”, responsabile di fornire “la comprensione del contesto e le competenze linguistiche per le traduzioni nelle riunioni”.

“È davvero interessante. Meno di due settimane fa JD Vance teneva una lezione a Keir Starmer sulla libertà di parola, e poi gli Stati Uniti vanno e rapiscono Mahmoud Khalil per aver organizzato proteste studentesche”.

Tricia McLaughlin, portavoce del Dipartimento per la Sicurezza Interna degli Stati Uniti (DHS), ha detto a MEE lunedì che l’arresto di Khalil era avvenuto “in obbedienza agli ordini esecutivi del presidente Trump che proibiscono l’antisemitismo”.

“Khalil ha guidato attività allineate ad Hamas, un’organizzazione definita terroristica”.

Ore dopo, il Segretario di Stato Marco Rubio ha annunciato che gli Stati Uniti avrebbero “revocato i visti e/o le green card dei sostenitori di Hamas in America così che potessero essere deportati”.

Eppure né Rubio né il DHS hanno fornito dettagli su come l’attivismo di Khalil alla Columbia University, dove aveva apertamente svolto il ruolo di studente negoziatore con l’amministrazione, equivalesse a sostenere Hamas.

MEE ha contattato il Foreign Office del Regno Unito per un commento.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)