Germania: attivista del BDS espulso dagli eventi pro-Palestina

24 giugno 2019 – Middle East Monitor

La Germania ha proibito allo scrittore e giornalista palestinese Khalid Barakat e a sua moglie Charlotte Keats di partecipare agli eventi pro-Palestina a causa del loro supporto al movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) contro Israele.

Barakat vive a Berlino da 18 mesi e lavora come libero professionista, mentre sua moglie è coordinatrice internazionale per Samidoon, una agenzia di comunicazione palestinese che si occupa di difendere i prigionieri palestinesi. Entrambi sono stati accusati di sostenere il BDS, come riferito da Arab 48 il 23 giugno.

La polizia tedesca ha arrestato Barakat lo scorso sabato mentre si stava recando a un evento sulla Palestina, organizzato da una serie di comunità arabe residenti nella capitale tedesca.

Secondo quanto riportato da Arab 48, la polizia tedesca ha informato Barakat che da quel momento in poi non potrà più prendere parte ad alcun evento politico o culturale e neanche a riunioni familiari composte da più di dieci persone. Infrangere queste restrizioni gli costerà la detenzione per un anno e il pagamento di una multa.

L’ordinanza specifica che tale decisione è basata su informazioni raccolte dai servizi di intelligence tedesca “su un lungo periodo di tempo”. Dichiara anche che Barakat è stato coinvolto in una serie di incontri e attività che “provano” il suo essere “un antisemita e anti-israeliano”.

Idris ha anche dichiarato che la disposizione accusa Barakat di essere una minaccia alla sicurezza interna, di istigare all’odio contro gli ebrei e di essere membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP).

Lo scorso mese il parlamento tedesco ha approvato una legge per definire il BDS un movimento antisemita. La mozione affermava che “gli argomenti, atteggiamenti e metodi del movimento BDS hanno i caratteri dell’antisemitismo”, contestando ad esempio il fatto che gli adesivi “non comprare”, utilizzati dal BDS per identificare l’origine israeliana di un prodotto in modo che il consumatore possa scegliere di non comprarlo, “rievocano una associazione mentale con lo slogan nazista ‘non comprate dagli ebrei’”, cose che “ricordano alcuni dei momenti più terrificanti della storia tedesca”.

L’iniziativa è stata criticata sin da subito: l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha criticato duramente la decisione definendola “pericolosa”, mentre le ONG palestinesi obiettano che azioni del genere possono delegittimare le forme di resistenza pacifica.

( Traduzione di Maria Monno)




Israele dipende dall’antisemitismo

Asa Winstanley

1 giugno, 2019 – Middle East Monitor

Mentre scrivo, l’ultimo episodio della “crisi laburista legata all’antisemitismo” sta innestando un prevedibile effetto negativo sui social e sui mezzi di informazione.

Pete Willsman, un membro dell’ala sinistra dell’Esecutivo nazionale per la gestione corrente del Partito Laburista, secondo alcune testimonianze, si è visto sospendere l’iscrizione al partito dopo che una registrazione audio segreta -apparentemente della sua voce- era stata realizzata da radio LBC [radio commerciale con sede a Londra, ndtr.].

Nella registrazione, Willsman sembra affermare la verità banale e ovvia che l’ambasciata di Israele sia stata coinvolta nel diffondere la favola dell’”antisemitismo laburista” come un’arma contro Jeremy Corbyn e più in generale contro il partito laburista.

L’ultima testimonianza del triste stato della “sinistra moderata” del Partito Laburista è il fatto che alcune delle sue più influenti giovani voci abbiano ripetutamente messo in pericolo veterani come Willsman per placare la lobby israeliana e la destra interna. Ma naturalmente tentativi del genere sono destinati a fallire.

Ogni volta che questo succede, io lo condanno su Twitter. Una delle reazioni che leggo da qualcuno nelle risposte, in tempi come questi, è che le bugie e le esagerazioni di Israele e dei filoisraeliani relativamente all’antisemitismo siano un gridare al lupo e che un giorno, quando il vero “lupo dell’antisemitismo” busserà alla porta, nessuno ci baderà.

C’è molta verità in questa affermazione. Credo che la campagna di calunnie, lanciata da tempo, relativamente a un’inesistente “crisi” di antisemitismo nel Partito Laburista abbia condotto a qualche effettivo caso di antisemitismo, come ha ripetutamente denunciato il gruppo Voce ebraica [gruppo di ebrei iscritti al partito e contrari alla criminalizzazione della solidarietà con i palestinesi, ndtr.], ala sinistra del Partito.

D’altronde, secondo me, questa reazione fraintende fondamentalmente una cosa – suppone che le preoccupazioni espresse dal governo israeliano per l’antisemitismo siano reali e sincere. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità.

Israele, infatti, così come sull’inganno dell’anti-semitismo dove esso non c’è, fa sempre di più affidamento su casi reali di antisemitismo e dipende da ciò per consolidare il sostegno politico internazionale. Questa dinamica, apparentemente un controsenso, riguarda più lo scorso decennio che prima, ma ha una lunga storia.

Come ha spiegato Joseph Massad, un importante intellettuale e accademico palestinese, il sionismo – l’ideologia ufficiale di colonialismo d’insediamento dello Stato di Israele- è, per sua stessa definizione, un’ideologia fondamentalmente anti-semita: “Se ci fosse una definizione di anti-semitismo da adottare da parte del Partito Laburista (o di qualche altro partito o istituzione) nel Regno Unito oggi, essa dovrebbe includere la condanna di espressioni anti-semite e colonialiste come: ‘Israele è uno Stato ebraico’ o ‘Israele è lo Stato del popolo ebraico’ o ‘Israele parla per gli ebrei’ o colonizzare la terra dei palestinesi è un ‘valore ebraico’.”

Come Massad ha anche precisato, il sionismo ha una lunga e vergognosa storia di collaborazione e di contatto con ideologie tra le più anti-semite e violentemente razziste del mondo, includendo anche il governo nazista di Hitler nel caso di una milizia sionista di destra (uno dei cui leader divenne un primo ministro israeliano) [si riferisce all’Irgun e al suo capo, Menachem Begin, ndtr.].

Ciò risale allo stesso fondatore del pensiero sionista, Theodor Herzl, che scrisse in modo preveggente che “i governi di tutti i Paesi flagellati dall’antisemitismo saranno fortemente interessati a sostenerci per farci ottenere la sovranità che vogliamo” nel nostro progetto coloniale. Analogamente nei suoi diari prevedeva che “gli antisemiti diventeranno gli amici più affidabili e i Paesi antisemiti i nostri alleati.”

Come Massad spiega: “Questi non sono lapsus o errori, ma piuttosto una strategia a lungo termine che il sionismo e Israele continuano a mettere in campo a questo fine ogni giorno.”

E così la previsione di Herzl si è avverata. Oggi i partiti politici fascisti e anche neo-nazisti che hanno una rinascita elettorale in tutta Europa sono forti sostenitori di Israele.

Yair, il figlio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha recentemente posato per una foto postata su Twitter di lui sorridente che stringe la mano a Viktor Orban, il primo ministro antisemita ungherese che una volta ha lodato il collaboratore ungherese dell’Olocausto hitleriano come un “eccezionale statista”.

Rafi Eitan, un ex importante ufficiale del Mossad, pur essendo lui stesso stato responsabile della cattura del leader nazista Adolf Eichmann nel 1961, lo scorso anno ha lodato il risorgente movimento neonazista tedesco “Alternativa per la Germania” (AfD). “Vi auguro con tutto il mio cuore di essere abbastanza forti da far finire la politica di apertura delle frontiere” ha detto Eitan nel video con grande entusiasmo, invitando AfD a “fermare l’ulteriore islamizzazione del Paese e a proteggere i cittadini dal terrorismo e dal crimine. In Israele, in Germania, in Europa. Facciamolo insieme!”

Oggi Israele sta fornendo all’antisemitismo di gruppi politici storicamente fascisti e nazisti in tutta Europa un servizio di riabilitazione, come fosse una lavanderia. Tutto ciò di cui i gruppi in questione hanno bisogno di fare è dichiarare il proprio amore per Israele e assicurarsi il sostegno di Netanyahu.

Molto recentemente in Germania il parlamento ha ingiustamente dichiarato antisemita il movimento per Boicottaggio, Disvestimento e Sanzioni (BDS) con un voto non vincolante sostenuto da tutti i principali partiti politici.

L’AfD non ha sostenuto la mozione – ma solo perché ha ritenuto che essa sia stata troppo indulgente con la campagna per i diritti umani in Palestina. Ha portato avanti la sua mozione che avrebbe completamente bandito il movimento BDS.

Nelle loro perverse ideologie parallele, sia antisemiti che sionisti sono d’accordo che gli ebrei sono “alieni” e non dovrebbero effettivamente stare in Europa. Devono, piuttosto, essere spinti a diventare coloni negli insediamenti israeliani che attualmente occupano la Palestina storica.

Il movimento BDS, invece, è un movimento dichiaratamente anti-razzista, che rigetta ogni fanatismo, compreso l’antisemitismo. Da che parte state voi?

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Laura Forcella)




Perché la Germania ha condannato il BDS

Nada Elia

Giovedì 23 maggio 2019 – Middle East Eye

La risoluzione tedesca non è la prima: si aggiunge nella stessa linea di precedenti risoluzioni simili adottate dalla Francia e dal Regno Unito

Il 17 maggio il Bundestag, il parlamento tedesco, ha adottato una mozione che condanna il BDS, definendolo “antisemita”.

Questa risoluzione non vincolante, proposta dai cristiano-democratici e dai socialdemocratici di centro sinistra, che fanno parte della coalizione al potere, ha raccolto l’appoggio di diversi partiti tedeschi, tra cui il partito liberal-democratico e i Verdi.

Il partito di estrema destra AfD (Alternativa per la Germania) ha presentato una propria mozione che chiedeva la messa al bando totale del movimento BDS, mentre il partito di estrema sinistra tedesca, Die Linke, non ha appoggiato la mozione del governo, ma ne ha presentato una propria che chiedeva una condanna di tutte le dichiarazioni antisemite del BDS.

Una spiegazione convincente

Poco dopo hanno iniziato a circolare articoli allarmisti, alcuni dei quali affermavano che la Germania era “il primo Paese al mondo a rendere illegale il BDS.”

Per esempio, un’intervista con l’economista politico che vive a Berlino Shir Hever [studioso israeliano degli aspetti economici dell’occupazione dei territori palestinesi, ndtr.] inizia così: “Il parlamento tedesco, il Bunderstag, ha appena adottato un testo legislativo senza precedenti che condanna il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele], noto con l’acronimo BDS. Ha considerato il BDS antisemita e illegale. Ciò fa della Germania il primo e unico Paese al mondo a rendere illegale il movimento BDS.”

Hever offre una spiegazione molto interessante (per non dire molto convincente) del perché la Germania abbia condannato il BDS. Ricordando che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato per due volte che era stato Hadj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme, e non Adolf Hitler, ad aver avuto per primo l’idea dello sterminio degli ebrei, Hever suggerisce che Netanyahu offra ai tedeschi una via d’uscita dal loro senso di colpa relativo all’Olocausto.

“Invece di sentirvi colpevoli dell’Olocausto, di dovervi scusare e prendervi la responsabilità dei crimini che sono stati commessi tanti anni fa, in realtà potete attribuire la colpa ai palestinesi,” spiega Hever.

“Ed è un messaggio in codice rivolto alla destra tedesca,” prosegue, aggiungendo: “A quanto pare alcuni partiti di sinistra hanno manifestato il desiderio di liberarsi del proprio senso di colpa per l’Olocausto equiparando il movimento BDS, promosso dai palestinesi, all’antisemitismo. Ovviamente non è un movimento antisemita.

Ma così facendo dicono: «Oh, noi lottiamo contro l’antisemitismo scegliendo di sostenere Israele, lo Stato d’Israele, piuttosto che sentirci responsabili della protezione del popolo ebraico.»

La sinistra tedesca

Un altro militante che vive a Berlino, Ronnie Barkan, dissidente israeliano e sostenitore del BDS, offre una spiegazione più convincente della ragione per cui certi partiti della sinistra tedesca abbiano sostenuto la legge anti-BDS: essa [la sinistra tedesca, ndtr.] è razzista.

Dobbiamo capire che, come il movimento ha recentemente ricordato alla gente, «il BDS prende di mira la complicità e non l’identità.»

Barkan paragona la risoluzione tedesca contro il BDS alla legge israeliana sullo Stato-Nazione. Mentre la legge sullo Stato-Nazione non ha fatto altro che codificare il razzismo latente nel Paese, scrive Barkan, senza cambiare niente, il fatto che sia stata finalmente formulata in termini semplici, spogliata del suo «linguaggio sionista-liberal orwelliano», ha risvegliato tutti gli spettatori in delirio che avevano fino ad allora creduto alla «democrazia israeliana».

Allo stesso modo, sostiene Barkan, la mozione tedesca anti-BDS non fa che evidenziare la vera natura del popolo tedesco, che resta profondamente razzista. La collera di Barkan è però rivolta soprattutto contro la sinistra tedesca, che secondo lui si rende gravemente complice delle azioni intese a far tacere la dissidenza e la militanza a favore dei diritti dei palestinesi.

In effetti l’abbandono del sostegno alla Palestina da parte di un gruppo di sinistra europeo era stato segnalato qualche anno fa in un articolo della rivista “Jacobin” [periodico della sinistra radical americana, ndtr.] intitolato “Il problema palestinese della sinistra tedesca”, che sottolineava, tra i principali tradimenti, come il presidente di “Die Linke” a Berlino, Klaus Lederer, fosse intervenuto ad un raduno filo-israeliano durante la guerra contro Gaza [l’operazione “Piombo Fuso”, ndtr.] del 2008-2009.

Non si era trattato di un caso isolato. In quanto “senatore per la cultura”, Lederer ha anche cercato di annullare altre manifestazioni filo-palestinesi, come ad esempio la “conversazione con Manal Tamimi [zia di Ahed, la ragazza palestinese condannata da Israele per aver schiaffeggiato due soldati, ndtr.]” dell’anno scorso, organizzata dal gruppo “Donne sotto occupazione”.

Con Stavit Sinai e Majed Abusalama, Barkan è membro di “Humboldt 3” [i tre attivisti denunciati per aver manifestato contro un incontro all’università Humboldt, ndtr.], che di recente è stato imputato per aver interrotto la conferenza di un membro della Knesset [parlamento, ndtr.] israeliano che aveva appoggiato l’attacco israeliano contro Gaza nel 2014 [operazione “Margine protettivo”] all’università Humboldt. Nella sua dichiarazione al tribunale, Abusalama ha spiegato: «Migliaia di musulmani e di palestinesi in Germania non si sentono liberi di esprimersi senza rischi. Hanno la sensazione che potrebbero essere perseguitati in qualunque momento semplicemente per aver gridato ‘Liberate la Palestina’, o per sognare di tornare liberamente nel proprio Paese, in base al diritto al ritorno imposto dall’ONU. Temono le persecuzioni per aver chiesto l’uguaglianza, la dignità, la libertà e la giustizia a Gaza.»

Combattere le menzogne

Qualunque siano le ragioni complesse che spiegano l’abbandono da parte della sinistra tedesca del sostegno popolare ai diritti dei palestinesi, è necessario contrastare alcune menzogne contenute in quest’ultima risoluzione. In primo luogo, come sottolinea Middle East Eye, questa iniziativa non è vincolante, è assolutamente simbolica.

In altri termini la Germania non ha “reso illegale” il BDS, ha adottato una risoluzione che lo condanna (a torto) come antisemita. In secondo luogo, la risoluzione tedesca non è la prima, si iscrive nella linea tracciata da precedenti risoluzioni simili prese dalla Francia e dall’Inghilterra.

Nel 2015 la Francia aveva condannato un collettivo di attivisti del BDS a una ammenda di 14.000 euro, più le spese legali, per aver promosso il BDS in un supermercato, affermando che è un reato promuovere il boicottaggio in quanto esso è intrinsecamente «discriminatorio» in base alla Nazione di provenienza.

E nel 2016 la Gran Bretagna ha emanato una legge per vietare a enti pubblici di boicottare i prodotti israeliani. Così finora solo la Francia ha «reso illegale» il BDS, infliggendo un’ammenda a dei militanti.

Tuttavia, nonostante la dichiarazione del sistema giuridico francese secondo cui il BDS è intrinsecamente discriminatorio, bisogna capire che, come ha ricordato di recente il movimento BDS, «esso prende di mira la complicità e non l’identità».

In effetti numerose industrie boicottate, come Caterpillar, Hewlett-Packard e G4S, non sono israeliane.

Negli Stati Uniti ogni tentativo di applicazione di risoluzioni statali che vietano il BDS è stato contestato con sentenze favorevoli nei tribunali, come dimostra un recente articolo del “Washington Post “ intitolato giustamente: «Le leggi contro il BDS sono popolari. Ciò non vuol dire che siano costituzionali».

La più recente causa vinta contro un divieto imposto dallo Stato contro il BDS ha avuto luogo a Pflugerville, in Texas, dove un’insegnante, Bahia Amawi, ha denunciato il distretto scolastico per non aver voluto rinnovare il suo contratto quando lei ha rifiutato di firmare una clausola in cui dichiarava di non si sarebbe impegnata nel movimento BDS.

Nell’aprile 2019 Amawi ha ottenuto un’importante vittoria quando il giudice ha emesso un’ordinanza contro la legge anti-BDS che la priverebbe dei suoi diritti civili e del suo lavoro.

Obiettivi del BDS

Tuttavia, siccome ci si può aspettare che delle leggi contro il BDS vengano discusse e votate in diversi Paesi d’Europa e nord America (anche il governo canadese ha condannato il BDS), certi punti meritano di essere ripetuti e chiariti.

Più precisamente, gli obiettivi del movimento BDS sono i seguenti: mettere fine all’occupazione illegale della terra palestinese e smantellare il muro illegale dell’apartheid, concedere ai cittadini palestinesi di Israele l’uguaglianza dei diritti e riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Ne consegue che affermare che il movimento BDS sia “antisemita” equivale ad affermare che il “semitismo” (famiglia linguistica condivisa tecnicamente da numerosi gruppi nazionali ed etnici, ma a tutti gli effetti, in questo caso, un’etnia) sia di per sé un sotto-gruppo razziale colonialista suprematista che viola il diritto internazionale.

Chiaramente la logica stessa di una tale rivendicazione è sbagliata a diversi livelli. In secondo luogo, trattandosi dell’affermazione secondo cui il BDS cerca di “delegittimare” Israele, mentre non fa altro che esercitare una pressione su di esso perché rispetti il diritto internazionale, bisogna chiedersi perché un Paese si senta minacciato quando gli si chiede di rispettare i diritti dell’uomo. La giustizia è una minaccia solo nei confronti dell’ingiustizia. Se Israele, in quanto Paese, è minacciato, si sente “delegittimato” dalle richieste che si adegui alle leggi internazionali – quello che il BDS cerca di ottenere –, allora chiaramente questo Paese rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale. In fin dei conti, che il boicottaggio di Israele sia illegale o meno, la “legalità” di un movimento, di un’ideologia, di una politica o di una prassi non è un indicatore della sua integrità morale. Fino alla sua abolizione l’apartheid era legge.

Come la schiavitù. E per tornare al contesto tedesco, è stato lo stesso per l’Olocausto. Anche se il BDS diventasse illegale, un reato, non sarebbe immorale. Quando la legge si schiera dalla parte dell’oppressore, quelli che vi resistono e cercano di cambiarla hanno la morale dalla loro parte.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Nada Elia

Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica della diaspora palestinese che attualmente lavora sul suo secondo libro “Who You Callin’ “Demographic Threat?” [Chi definisci ‘minaccia demografica’? Note dall’intifada globale]. Docente di Studi di Genere e Globali (in pensione), fa parte del gruppo dirigente della campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (USACBI).

(traduzione di Amedeo Rossi)




La Germania ha votato per definire antisemita il BDS

Middle East Monitor

17 maggio 2019

Oggi la Germania ha votato per definire antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), diventando il primo importante parlamento europeo a farlo.

Questo pomeriggio il parlamento tedesco – noto come Bundestag – ha votato per accettare una mozione che definisce antisemita il BDS. Questa mozione, “Resistere al movimento BDS – lottare contro l’antisemitismo”, è stata promossa dai due maggiori partiti del Bundestag – l’Unione Cristiano Democratica della cancelliera Angela Merkel e il Partito Socialdemocratico – così come dal Partito Verde e dal Partito Liberal-Democratico.

Il testo della mozione afferma che “il Bundestag tedesco è risoluto nel suo impegno a condannare e combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme,” sottolineando che si opporrà “a chiunque diffami le persone per la loro identità ebraica (…) [e] metta in discussione il diritto dello Stato ebraico e democratico di Israele ad esistere o il diritto di Israele a difendersi.”

In particolare, sul movimento BDS la mozione sostiene che “gli argomenti, le caratteristiche e i metodi del movimento BDS sono antisemiti.” Come prova di ciò la mozione sostiene che gli adesivi “non comprare” del BDS – che intendono identificare prodotti di origine israeliana in modo che i consumatori possano evitare di comprarli – “risvegliano reminiscenze dello slogan nazista “non comprare dagli ebrei” e “ricordano il periodo più orribile della storia tedesca.”

Benché la mozione non sia vincolante, la sua importanza sia all’interno della Germania che in tutta Europa sarà probabilmente notevole.

In termini concreti, il giornale tedesco “Algemeiner” [giornale tedesco filoisraeliano on line, ndtr.] spiega che l’odierna approvazione della mozione “impedirà a ‘organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto all’esistenza di Israele’ l’uso di ‘locali e strutture che dipendono dall’amministrazione del Bunderstag’”. Imporrà anche al Bundestag di “non finanziare organizzazioni che non rispettino il diritto di Israele ad esistere.”

A livello europeo la mozione potrebbe rappresentare un precedente perché altri parlamenti definiscano antisemita il BDS. Negli scorsi anni parecchi Paesi europei hanno cercato di reprimere il movimento, in particolare la Spagna che, su richiesta di Israele, ha trascinato in tribunale una serie di consigli comunali perché avevano annunciato che avrebbero appoggiato un boicottaggio.

L’iniziativa potrebbe anche aprire la strada al fatto che altri gruppi vengano etichettati come antisemiti per le loro critiche contro Israele. Sostenendo che “lo Stato di Israele può anche essere inteso come una collettività ebraica,” l’approvazione della mozione restringerà ulteriormente lo spazio di critica al governo israeliano e alle sue politiche confondendolo con la retorica antisemita.

Oggi il Bundestag ha anche votato su altre due risoluzioni contro il BDS: la prima che è stata presentata dal [partito di] estrema destra “Alternativa per la Germania” (AfD), in cui si chiede che il governo tedesco metta fuorilegge il BDS nel suo complesso, mentre la seconda, proposta dal partito di sinistra “Die Linke” [La Sinistra], chiede al governo di condannare “l’antisemitismo all’interno del” movimento BDS.

Quella dell’AfD [Alternative fur Deutchland, ndtr.], chiede che il governo tedesco “proibisca” il BDS e “riconosca l’ingiustizia commessa contro i coloni ebrei in Palestina dall’appello arabo per il boicottaggio, in cooperazione e coordinamento con il regime nazista.”

Denuncia la distinzione tra Israele e le sue colonie illegali, compresa l’etichettatura da parte dell’Unione Europea (UE) dei prodotti israeliani delle colonie in Cisgiordania. Sostiene che, con l’etichettatura dei prodotti come tali, l’UE ha creato un “riconoscimento economico di fatto” di uno Stato palestinese indipendente “senza che questo sia stato in alcun modo legittimato.”

Al momento della stesura di questo articolo il risultato del voto sulla risoluzione proposta dall’AfD non è ancora stato reso noto [non è stata approvata, ndtr.]. La mozione della Linke, comunque, è stata respinta.

La Germania ha condotto a lungo una campagna contro il BDS. “Algemeiner” ha informato che, lo scorso mese, membri del Bundestag hanno chiesto che “la banca tedesca GLS – la banca di investimenti etici più antica del Paese – chiuda i conti di un gruppo a favore del BDS che si chiama ‘Voce Ebraica’”.

In marzo tre attivisti BDS sono stati processati per accuse inventate di violazione di domicilio e aggressione dopo che avevano protestato contro la politica israeliana Aliza Lavie [del partito di centro Yesh Atid, ndtr.], che nel 2017 aveva parlato all’università Humboldt di Berlino. Gli Humboldt3, come sono stati definiti – l’attivista palestinese Majid Abusalama e gli attivisti israeliani Ronnie Barkan e Stavit Sinai – hanno affermato che “lanciare accuse penali contro attivisti è una pratica comune e costante in Germania.”

Hanno aggiunto: “Tuttavia noi siamo determinati a utilizzare il nostro relativo privilegio per capovolgere la situazione e denunciare Israele in tribunale. Non ci preoccupiamo delle conseguenze per noi, ma dell’opportunità di sfidare Israele e la complicità della Germania in crimini contro l’umanità.”

La maggior parte di questa repressione avviene su richiesta di Israele, con cui la Germania ha storicamente mantenuto stretti rapporti. A ottobre il ministro israeliano per Gerusalemme, Ze’ev Elkin, ha partecipato a una conferenza nella capitale belga Bruxelles nel tentativo di convincere i partiti politici europei a definire antisemita il BDS. L’iniziativa è stata vista come un’escalation della guerra di Israele contro il BDS, per cui avrebbe stanziato un fondo di guerra di 72 milioni di dollari e che ha visto numerose campagne di calunnia lanciate contro attivisti affiliati al movimento.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Editoriale di un autore esterno: la campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni e il dibattito pubblico

Mark Ayyash

14 maggio 2019 – Middle East Monitor

In Canada buona parte del dibattito pubblico sulla campagna per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) è superficiale, vuoto e assolutamente strategico. Quando, nel febbraio 2016, i parlamentari canadesi hanno dibattuto una mozione sul BDS, la discussione non è stata altro che una ripetizione pappagallesca di argomenti rivolti contro la campagna fin da quando è nata nei Territori Palestinesi Occupati. Questi argomenti sono ben noti a chiunque abbia dato anche solo un rapido sguardo al dibattito pubblico su BDS: per citare le affermazioni principali, sarebbe antisemita, danneggia i palestinesi e prende di mira in modo scorretto Israele. In questo articolo affronterò brevemente alcune di queste questioni, ma è sufficiente dire che sono state tutte prese in considerazione e criticate in modo esaustivo da accademici di fama mondiale e da importanti intellettuali (si veda per esempio “The Case for Sanctions Against Israel” [La questione delle sanzioni contro Israele], raccolta pubblicata da Lim nel 2012). Questi argomenti non hanno molto, se non alcun fondamento sostanziale, invece dovrebbero essere visti per quello che sono: se considerate insieme, queste posizioni costituiscono uno strategico attacco verbale al BDS.

Il famoso filosofo tedesco del XX° secolo Hans-Georg Gadamer ci ha spiegato che ci sono due tipi di dialogo. In primo luogo c’è quello che definisce un dialogo “autentico”, in cui i partecipanti si impegnano in una discussione onesta e aperta su un argomento, lasciando perdere i propri desideri e interessi, nel tentativo collettivo di comprendere l’oggetto in questione approfondendone le varie dimensioni, esplorandolo in profondità e illustrando le implicazioni della nostra comprensione dell’argomento.

Poi c’è quello che chiama dialogo “inautentico”, in cui i partecipanti non sono interessati a seguire l’argomento in sé, ma solo a vincere la discussione in modo da favorire i propri desideri ed interessi.

Sfortunatamente il discorso sul BDS è stato prevalentemente inautentico. Non fraintendetemi. Certamente non condanno quelli che intendono vincere la discussione e affermare i propri interessi nel panorama politico. I difensori e i sostenitori di Israele sicuramente hanno il diritto di farlo. E, per essere chiaro, lo Stato canadese è strategicamente allineato con Israele sul piano politico ed economico, il che spiega perché i parlamentari canadesi stiano sostenendo argomenti che sono in linea con gli interessi strategici di Israele e rafforzino i tentativi di Israele di sconfiggere il BDS. Di nuovo, è un diritto dei canadesi e dei loro rappresentanti, i cui interessi politici ed economici sono schierati con quelli dello Stato di Israele, dichiararsi tali.

Tuttavia quello che io chiedo è onestà. Cerchiamo di non fingere che questa discussione si interessi dei diritti umani, della libertà e della liberazione dei palestinesi. Non è così. Il parlamento canadese ha approvato senza problemi la mozione di condanna del BDS e dei suoi sostenitori con un voto di 229 a 51. La mozione non introduce alcuna sanzione legale per chi partecipa ai gruppi e alle attività BDS, ma non dovremmo qui essere tentati di pensare che si tratti di una reazione “leggera”, tipica della “moderazione” canadese in politica estera. La condanna del BDS manda un chiaro segnale, non solo ai sostenitori canadesi del BDS ma anche alla società civile palestinese: il governo canadese non è interessato a impegnarsi con quello che la società civile palestinese ha da dire sul dramma del popolo palestinese e, soprattutto, sulle sue aspirazioni.

Dal punto di vista del parlamento canadese, i palestinesi hanno diritto solo all’educazione, al lavoro e alla salute. Per la maggioranza dei parlamentari canadesi – per lo più deputati liberali e conservatori – queste necessità di base costituiscono il modo in cui intendono i diritti umani dei palestinesi, e da qui il loro appoggio alla soluzione dei due Stati, che creerebbe non uno Stato palestinese nel pieno senso di uno Stato-Nazione indipendente, ma piuttosto una struttura amministrativa il cui compito sarebbe di provvedere a queste necessità fondamentali, oltre a reprimere la resistenza palestinese contro Israele. Qualunque campagna palestinese che esprima l’aspirazione del popolo palestinese a una vita sociale e politica libera ed emancipata è considerata nel dibattito politico canadese come pericolosa e al di fuori dell’ambito di quella che viene accettata come una “legittima” rivendicazione dei diritti dei palestinesi.

Il BDS non vuol solo dire la richiesta di servizi fondamentali come l’educazione e il lavoro. Opera su una duplice base: diritti per tutti i palestinesi indipendentemente da dove si trovino nel mondo e la necessità di prendere di mira lo Stato israeliano precisamente perché impedisce la realizzazione dei diritti dei palestinesi alla libertà.

Questi principi base sono stati stabiliti dal gruppo dirigente palestinese, il Comitato Nazionale del BDS (BNC), che è stato creato nel 2007. Ogni gruppo BDS è tenuto a seguire quei principi base.

Tuttavia il BDS è anche una campagna transnazionale che incoraggia le proprie propaggini transnazionali ad agire autonomamente una volta che abbiano aderito alle sue basi costitutive. Qui il ragionamento è semplice: ogni gruppo conosce meglio il contesto in cui opera e potrebbe di conseguenza sviluppare meglio le proprie tattiche e strategie per promuovere gli obiettivi fondativi del BDS.

L’insistenza della campagna BDS nell’affrontare la questione palestinese in modo complessivo, prendendo in considerazione i rifugiati palestinesi e la questione del loro ritorno, è ciò che ha attirato la reazione ostile contro di sé, la prevalenza di un dialogo inautentico e la questione dei diritti dei palestinesi.

Ci sono due argomenti interconnessi che sono più comunemente utilizzati per contrastare il BDS in un dialogo inautentico: l’accusa di antisemitismo e il fatto di prendere di mira in modo scorretto Israele.

La tesi è più o meno questa: ci sono molti regimi oppressivi e violenti al mondo, per cui perché il BDS sta prendendo di mira Israele più degli altri? La risposta sostenuta in un dialogo inautentico è che il BDS attacca Israele solo perché è uno Stato ebraico, ed è quindi presentata come una prova dell’“antisemitismo” della campagna BDS. In effetti questa è stata una tecnica discorsiva piuttosto efficace, che molti della destra e del centro, così come alcuni della sinistra, trovano convincente. Ma se dobbiamo impegnarci in un dialogo autentico possiamo averne una comprensione diversa. La campagna BDS è nata nei Territori Palestinesi Occupati, è stata progettata, sviluppata e lanciata dalla società civile palestinese. Quindi, perché i palestinesi che vivono sotto occupazione israeliana avrebbero dovuto lanciare una campagna contro l’oppressione in altre parti del mondo quando sono a malapena in grado di sopravvivere alle strutture oppressive sotto le quali vivono? Solo quando il BDS viene visto come una questione “occidentale”, in seno al contesto “occidentale”, la domanda “perché Israele’” diventa sconcertante e persino convincente. I palestinesi non hanno scelto Israele semplicemente perché è uno Stato ebraico, ma prendono di mira Israele perché è lo Stato che prende continuamente di mira loro. Non è così complicato.

È certamente possibile che il BDS sia coinvolto in un dialogo inautentico con i sostenitori di Israele quando viene attaccato. Ma penso che sia più fruttuoso collocare invece il BDS in un dialogo autentico. Questa potrebbe benissimo essere una posizione ingenua, ma non riesco a vedere un altro modo per andare oltre un semplice scambio di insulti. Come dovrebbe essere un dialogo autentico? Uno dei principi fondamentali del BDS è l’antirazzismo. Di conseguenza il BDS in Canada (e credo che ciò valga anche per gli USA e per la Gran Bretagna) dovrebbe affrontare la questione dell’antisemitismo come parte integrante dello spazio in cui la campagna dovrebbe agire. L’antisemitismo è ancora reale, concreto, molto pericoloso e persino in crescita e in espansione. È possibile che alcune delle persone che appoggiano il BDS in Canada (e in qualunque altra parte), soprattutto in rete, abbiano opinioni antisemite? Sicuramente è possibile. I militanti e i gruppi BDS dovrebbero quindi essere attenti e cercare di espellere questa gente dai loro gruppi, che siano sostenitori digitali o siano fisicamente presenti agli eventi BDS. Possiamo e dobbiamo avere più discussioni approfondite sull’antisemitismo, così come sulla natura della resistenza palestinese contro Israele, radicata nell’espulsione e nelle sofferenze dei palestinesi per mano dello Stato di Israele.

Non so cosa riservi il futuro alla campagna BDS, ma so che non è che l’ultima manifestazione di un tipo di resistenza palestinese che non cesserà mai. Se il BDS viene sconfitto, allora la storia suggerisce che un’altra campagna o attività prenderà il suo posto. Indipendentemente da quello che Israele, gli USA, la Gran Bretagna, il Canada o il resto del mondo desiderano, una resistenza palestinese che intenda affrontare le sofferenze del popolo palestinese in modo complessivo non finirà nella pattumiera della storia. Continuerà a comparire e riapparire finché non verrà fatta giustizia. Prima ognuno si renderà conto di ciò e lo accetterà, prima potremo intavolare un dialogo autentico sui diritti dei palestinesi ed affrontare in modo corretto le aspirazioni di tutto il popolo in Palestina/Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’appoggio ai leader di estrema destra di Netanyahu espone gli ebrei al rischio di antisemitismo

Rachel Shenhav-Goldberg

1 maggio 2019, +972 Magazine

Allineandosi ai leader nazionalisti che promuovono il suprematismo bianco, Netanyahu ha abbandonato la comunità ebraica mondiale con l’intento di rafforzare le sue manovre nazionaliste.

Da alcuni anni ormai, il primo ministro Benjamin Netanyahu sta stringendo relazioni diplomatiche forti con i leader nazionalisti di estrema destra del mondo. Tale allineamento potrebbe favorire il piano di Netanyahu di rafforzare il nazionalismo ebraico in Israele, ma allo stesso tempo esso indebolisce gli ebrei della diaspora e li rende più vulnerabili ai crimini di odio antisemita nei loro paesi.

Negli ultimi cinquant’anni l’antisemitismo è stato un fenomeno in declino, specialmente negli Stati Uniti. Oggi gli ebrei negli Stati Uniti occupano posizioni politiche di rilievo, svolgono ruoli chiave nel mondo degli affari e dell’intrattenimento e sono ben integrati nella società americana: sono americani in tutto e per tutto. Ciononostante, come dimostra amaramente l’orrendo atto terroristico in una sinagoga di San Diego la scorsa settimana, i suprematisti e nazionalisti bianchi non hanno mai accettato gli ebrei come loro pari o nemmeno come bianchi.

Il suprematismo bianco di certo esiste ancora: distruggere 500 anni di strutture istituzionalizzate e l’interiorizzazione dello status di privilegiati non è facile. Addirittura l’elezione del presidente Obama è stato sotto molti aspetti solo un progressivismo di facciata, una falsa speranza. Studi hanno dimostrato che il razzismo verso gli afroamericani era di fatto aumentato durante la presidenza Obama. Inoltre, la promessa del presidente Trump di “rendere l’America di nuovo grande” ha dato ai nazionalisti e suprematisti bianchi un segnale di assenso ad alzare la testa e agire.

La Anti Defamation League ha registrato nello scorso anno un totale di 1.879 atti di molestie, vandalismo e aggressione fisica commessi contro gli ebrei negli Stati Uniti. Questo rappresenta il terzo numero più alto di crimini registrati dagli anni 70 a oggi.

Le politiche di Netanyahu e la sua visione di Israele, unite al suo narcisismo e all’ambizione a rimanere al potere per sempre, hanno creato delle divisioni non solo all’interno della società israeliana, ma anche tra Israele e gli ebrei americani. L’idea di Israele che ha Netanyahu non è quella di una nazione ebraica con uguali diritti per tutti, bensì di una nazione israelo-ebraica, lasciando soli quindi sia gli israeliani non ebrei sia gli ebrei non israeliani.
Inoltre, la filosofia di Netanyahu del “si fa come dico io altrimenti quella è la porta” trasforma in traditori tutti quegli ebrei americani che si oppongono all’occupazione o che non supportano a pieno le politiche di Israele. Per rimpiazzare il mancato supporto, previsto o reale, Netanyahu si è cercato alleati altrove, in coloro che si sentono a proprio agio con le sue stesse idee nazionaliste.

Il comun denominatore tra tutti questi leader (Viktor Orban in Ungheria, Jair Bolsonaro in Brasile e Donald Trump) è il supporto, spesso solo accennato ma a tratti anche esplicito, al suprematismo bianco. Essi appoggiano e impiegano retoriche dell’odio, usano termini razzisti, minano i diritti LGBTQ e delle donne. Il loro vero scopo è la promozione dell’ “ancien régime” discriminando e svilendo la posizione delle minoranze, categoria in cui inevitabilmente e ripetutamente rientrano anche gli ebrei.

La supremazia nazionale che questi leader promuovono nei rispettivi paesi è sotto molti aspetti indistinguibile dalle politiche di Netanyahu in Israele. Netanyahu è un uomo intelligente, qualsiasi sua mossa è perfettamente e strategicamente studiata. Allineandosi con i nazionalisti dell’estrema destra che promuovono il suprematismo bianco, l’antisemitismo e la conseguente violenza da essi provocata, ha deciso di abbandonare gli ebrei di tutto il mondo in cambio del supporto diplomatico e della legittimazione delle sue manovre nazionaliste.

Israele è diventato uno Stato ebraico a cui interessano solo i cittadini israeliani ebrei, infrangendo così la sua promessa di proteggere gli ebrei della diaspora, senza contare i suoi obblighi verso tutti i non-ebrei che vivono sotto il governo israeliano.

Rachel Shenhav-Goldberg è una cittadina israeliana residente in Nord America. Ha conseguito un dottorato in lavoro sociale all’università di Tel Aviv e un post-dottorato all’Università di Toronto. La sua attività di ricerca si concentra prevalentemente sull’antirazzismo in Israele e l’antisemitismo nel Nord America. È anche una mediatrice, fa lavoro sociale e volontariato per il New Israeli Fund (Nuovo Fondo Israeliano) in Canada.

(Traduzione di Maria Monno)




I problemi dei sionisti con l’intersezionalità

Denijal Jegic

24 aprile 2019, Palestine Chronicle

La lotta dei palestinesi per i diritti umani e per la liberazione fa parte di un conflitto globale contro le strutture razziste. Le attuali proteste inclusive, come il movimento “Black Lives Matter” [“Le vite dei neri importano”, movimento USA contro le uccisioni di persone di colore, ndt.] o l’iniziativa per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro Israele hanno spesso utilizzato approcci transnazionali e intersezionali, sottolineando la molteplicità di esempi di oppressione che un individuo può sperimentare.

Il riconoscimento dei legami tra l’oppressione israeliana dei palestinesi e altre manifestazioni di razzismo è stato individuato come una minaccia strategica da Israele, il cui governo si è basato sull’esclusione dei palestinesi dall’umanità e sulla divulgazione di un’opposizione binaria tra civiltà. Come dimostrano la continua denigrazione della deputata del Congresso Ilhan Omar e i recenti attacchi a studiosi come Michelle Alexander, Marc Lamont Hill e Angela Davis, i sionisti stanno cercando di arginare le analisi degli afroamericani che protestano riguardo alle sofferenze dei palestinesi.

Cos’è l’intersezionalità?

La teoria dell’intersezionalità è sorta dalla frustrazione riguardo alla riproposizione del patriarcato etero normato da parte delle femministe bianche. Kimberlé Crenshaw ha coniato il termine quando ha teorizzato che le donne di colore sono oppresse in quanto donne e in quanto persone di colore. Gli approcci intersezionali sottolineano la pluralità di fattori di identità che sono presi di mira da politiche oppressive, come la marginalizzazione di fattori razziali, etnici, religiosi, di genere, sessuali ed altri dell’identità di un individuo.

Quindi non c’è da sorprendersi che, nel discorso sionista, l’intersezionalità sia stata recentemente demonizzata in quanto “ipocrisia”, “strumento politico”, “l’ultima strategia degli odiatori di Israele,” o, secondo Alan Dershowitz [docente statunitense di diritto internazionale e accanito difensore di Israele, ndt.], “una parola in codice per antisemitismo”.

La fandonia della “fine di Israele”

In un articolo per “The Observer” [quotidiano inglese indipendente, ndt.] Ziva Dahi ha chiesto: “Gli odiatori di Israele prima o poi si sveglieranno dalla fantasia dell’intersezionalità, dalla loro ossessione per la vittimizzazione, dall’adorazione dei palestinesi e dalla demonizzazione degli israeliani?”

Bret Stephens sul New York Times si è lamentato di un presunto attacco progressista contro Israele. I sionisti hanno impiegato tentativi retorici per sminuire l’intersezionalità al fine di proteggere Israele dalle critiche. Tuttavia ogni punto proposto dai sostenitori di Israele sfrutta tradizionali miti colonialisti e un palese razzismo antipalestinese.

La libertà per i palestinesi è semplicemente incompatibile con l’espansione del sionismo che – in quanto movimento basato sull’esclusione dei palestinesi – è l’opposto dei diritti umani universali. Di conseguenza, i sostenitori del sionismo continuano a descrivere i palestinesi come una peste e una bomba demografica a orologeria, la cui sopravvivenza minaccia l’esistenza di Israele.

Stephens identifica lo slogan di protesta “dal fiume al mare” [dal Giordano al Mediterraneo, ossia il territorio della Palestina storica, ndt.] come una “richiesta noiosamente malevola per la fine di Israele come Stato ebraico.” Come ha correttamente capito, Israele, in quanto “Stato ebraico”, può esistere solo finché esclude i palestinesi.

Allo stesso modo in un attacco contro l’intersezionalità, la collaboratrice dell’ADL [Anti Difamation League, organizzazione della lobby filoisraeliana USA, ndt.] Sharon Nazarian su “The Forward” [storico giornale della comunità ebraica USA, ndt.] ha chiesto la spoliazione dei palestinesi. Ha demonizzato il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, concesso dall’ONU, in quanto “la fine di fatto dello Stato ebraico”.

La fine apocalittica di Israele è un luogo comune sionista che rivela i fondamenti razzisti del sionismo, ossia che i palestinesi non debbono tornare alla loro patria semplicemente perché non sono ebrei, e che la messa in pratica dei diritti umani e delle leggi internazionali significherebbe la fine di Israele.

La fandonia de “gli ebrei sono sionisti”

Il sionismo è nato nel XIX° secolo, non dall’ebraismo ma da un movimento europeo di colonialismo d’insediamento che soddisfaceva le necessità dell’antisemitismo cristiano dominante all’epoca e ha prosperato sullo sfruttamento delle strutture orientaliste presenti nella cultura occidentale. I sionisti hanno abusato dell’ebraismo come scudo retorico per presentare una critica intersezionale e anticolonialista del sionismo come razzismo antisemita.

Nel suo commento sull’intersezionalità, Stephens dipinge le politiche sioniste come caratteristiche etnico-nazionali dell’ebraismo, liquidando quindi in quanto antisemiti i discorsi sulla colonizzazione, l’apartheid e il genocidio. Paradossalmente lo stesso Stephens attribuisce una connotazione politica ad ogni ebreo come sionista per giustificare il suo appoggio al sionismo e per presentare Israele come vulnerabile in un “Medio Oriente saturato di antisemitismo genocida.”

Nazarian tenta di includere il sionismo nel femminismo, dipingendo quest’ultimo come un movimento ebraico. Sostiene che “escludere le donne ebree dal (femminismo)” è “inquietante”. Tuttavia il sionismo è antitetico al femminismo. Mentre il femminismo svela l’ingiustizia e sostiene l’uguaglianza, il sionismo perpetua l’ingiustizia sulla base dell’ideale di supremazia e si fonda strutturalmente sull’oppressione delle donne palestinesi.

La fandonia del “conflitto complicato e complesso”

I sionisti respingono l’analisi intersezionale, in quanto insistono sul fatto che la situazione in Palestina/Israele è un caso storicamente e geograficamente isolato che non ha niente a che vedere con il resto del mondo e sarebbe troppo complesso da capire per la gente comune o, come afferma Stephens, “molto più complicato del quadro in bianco e nero disegnato dai critici progressisti di Israele.”

Dahi lamenta che i sostenitori dell’intersezionalità riconoscano diverse forme di oppressione come costitutive di un sistema intersezionale “anche se avvengono in contesti geografici, culturali e politici non connessi tra loro.” Tuttavia l’autrice tenta di isolare la lotta palestinese nel tempo e nello spazio.

L’eccezionalità israeliana necessita proprio di questo approccio. I miti sionisti seguono la narrazione secondo cui i palestinesi non meritano la simpatia di nessuno perché sono terroristi, il terrorismo è geneticamente e culturalmente intrinseco alla palestinità, nessuno è pericoloso come i palestinesi e di conseguenza Israele, in quanto ultima e più vulnerabile colonia europea, ha il diritto di “difendersi”. I sionisti temono che i non palestinesi, invece di aderire alla narrazione israeliana, possano al contrario provare empatia per i palestinesi. È quindi semplicemente logico che gli opinionisti sionisti attacchino “Black Lives Matter”, la “National Women’s Studies Association” [Associazione Nazionale per gli Studi sulle Donne], Jewish Voice for Peace [Voce ebraica per la pace, associazione di ebrei contrari all’occupazione e al sionismo] e Students for Justice in Palestine [Studenti per la Giustizia in Palestina].

La fandonia orientalista ed islamofobica

Poi Dahi giustifica l’oppressione dei palestinesi evocando luoghi comuni orientalisti, quando afferma che i palestinesi giustiziano i gay e praticano il delitto d’onore.

Propagandare che i palestinesi meritano di soffrire a causa della loro arretratezza senza pari e che la loro lotta non può essere messa in relazione con nessun’altra lotta è parte integrante dell’ eliminazione del colonizzato da parte del colonizzatore.

La resistenza palestinese è dunque dipinta come fanatismo islamico. Sostenendo che “i nemici di Israele erano impegnati nella sua distruzione molto prima che occupasse un solo centimetro di Gaza o della Cisgiordania,” Stephens presenta Israele come sotto costante minaccia alla sua esistenza e scredita la resistenza palestinese come odio pre-politico. Sottintendere che l’occupazione israeliana del 1967 sia la causa del problema attuale è un errore dei sionisti liberali, mentre in realtà la colonizzazione della Palestina è iniziata alla fine del XIX° secolo.

Dare la colpa alle vittime

Sfruttando questa vera eccezionalità israeliana, i sostenitori del sionismo si affrettano ad accusare i palestinesi per la loro disgrazia, occultando al contempo i diseguali rapporti di potere coloniali.

Nazarian sostiene che i palestinesi “hanno ripetutamente fallito nel dimostrare un impegno per la pace” e respinge la “ben radicata delegittimazione di Israele e del sionismo” da parte della narrazione palestinese.

Incolpare i palestinesi è coerente con gli scritti di Stephens. In precedenza aveva appoggiato il colonialismo ed ha parlato di “infermità” della “mente araba”. Stephens ha difeso il massacro di palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno ed ha dato la colpa ai palestinesi.

Nella sua presa di posizione sull’intersezionalità, era scandalizzato che i progressisti non avessero condannato in modo sufficientemente duro i palestinesi. Assolvendo Israele dalle sue responsabilità per le sofferenze dei palestinesi, Stephens si riferisce a loro (disumanizzati con l’uso del termine “Hamas”) come “assassini”, “misogeni” e “omofobi”, che, secondo lui, non hanno futuro a causa della loro “cultura di vittimizzazione, violenza e fatalismo.”

Il mito del sionismo come liberazione

A volte il sionismo è persino presentato come un movimento progressista. In un articolo su “Tablet” [rivista ebraico-americana on line, ndt.], Benjamin Gladstone ha sostenuto l’inclusione degli ebrei nell’intersezionalità. Mentre l’autore sembra comprendere la teoria di Crenshaw, non vede gli ebrei al di fuori della cornice sionista. La sua argomentazione, secondo cui “la questione ebraica fa parte del movimento intersezionale per la giustizia” è ovviamente corretta.

Tuttavia, equiparando antisemitismo e antisionismo, postula entrambi come “gravi problemi intersezionali” e quindi ne deduce che il razzismo antiebraico è una caratteristica dell’intersezionalità. Ancor peggio, l’autore dipinge il sionismo come un “movimento di liberazione” che “ha la potenzialità non solo di coesistere, ma anche di appoggiare e dare forza ad altri movimenti di liberazione, da quello delle donne al nazionalismo palestinese.” Questo tentativo di rendere romantico un movimento colonialista di insediamento genocida cancella la difficile situazione dei palestinesi e marginalizza l’opposizione ebraica al sionismo.

Perchè l’intersezionalità è antisionista

Ci si deve chiedere se i sionisti, come esemplificato da questi autori, siano consapevoli di quello che significa il sionismo – soprattutto per le sue vittime. Nel caso in cui non fosse evidente che il sionismo si basa sulla continua esclusione e cancellazione dei palestinesi, questi testi lo rendono assolutamente chiaro. Gli autori rivelano che il sionismo crea gerarchie razziali e contrapposizione binaria tra civiltà in base a un nucleo eurocentrico. Quindi l’autore dimostra precisamente perché l’intersezionalità è antisionista.

L’analisi intersezionale insisterebbe sulle differenze tra ebrei e sionismo come ideologia politica. In effetti decostruirebbe i molteplici modi in cui gli ebrei sono oppressi all’interno e al di fuori del contesto sionista. Per esempio, il “Jews of Color and Sephardi/Mizrahi Caucus” [Assemblea degli ebrei di colore e dei sefarditi / mizrahi] ha definito come analisi intersezionale un’“organizzazione antirazzista e anticolonialista e una solidarietà per abbattere le barriere che sistemi di dominazione legati tra loro pongono tra comunità oppresse e che intendono dividerci e conquistarci.”

Mentre i sostenitori del sionismo tendono a sostenere che gli attivisti intersezionali prendono di mira esclusivamente Israele, sono gli stessi sionisti che dipendono dall’eccezionalità israeliana, presentando la libertà dei palestinesi come un genocidio per gli ebrei.

Ma, al di là di questi miti, non esiste una base etica né giuridica per difendere il trattamento strutturalmente razzista dei palestinesi da parte di Israele.

Come dimostrano i testi citati, i sionisti hanno difficoltà a proporre un argomento valido senza respingere le leggi internazionali e i diritti umani. In quanto movimento eurocentrico e orientalista, il sionismo si alimenta, retoricamente e letteralmente, di un’opposizione binaria razzista/di civiltà.

L’analisi intersezionale aiuta ad identificare l’emarginazione razziale, socio-economica, classista e sessista degli ebrei neri, dei rifugiati africani, dei palestinesi e di altri gruppi sottoposti al dominio israeliano. Può potenzialmente rafforzare una collaborazione tra le molte vittime di Israele. Ma proprio questo potenziale di decolonizzazione è molto problematico per il sionismo – un’ideologia colonialista d’insediamento che ha adottato gerarchie razziali.

Denijal Jegić è un ricercatore di post-dottorato, attualmente a Beirut, Libano. E’ l’autore di “Trans/Intifada – The Politics and Poetics of Intersectional Resistance.” [“Trans/Intifada – la politica e la poetica della resistenza intersezionale.”] (Heidelberg: Universitätsverlag Winter, 2019). Ha inviato quest’articolo a “ The Palestine Chronicle”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché il sionismo è sempre stato un’ideologia razzista

Asa Winstanley

20 aprile 2019, Middle East Monitor

Questa settimana il ministro ombra laburista della Giustizia Richard Burgon si è rammaricato per aver affermato qualche anno fa in un discorso che il sionismo è il “nemico della pace”. Non avrebbe dovuto scusarsi. Le sue considerazioni del 2014 erano un semplice dato di fatto storico, ed avrebbe dovuto difenderle.

I sionisti liberal e “di sinistra” affermano che il governo sempre più di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è una “degenerazione” del cosiddetto sogno sionista. Ci viene detto che questa progetto rappresenta un paradiso egualitario per i popoli ebraici oppressi del mondo.

Si tratta di una fantasia antistorica.

Il movimento per creare uno “Stato ebraico” in Palestina – un Paese per la stragrande maggioranza non ebreo – fu, fin dalla sua ideazione, un progetto esclusivista e razzista. Dai suoi primi giorni il sionismo è stato permeato degli stessi atteggiamenti razzisti di altri movimenti europei di colonialismo di insediamento. In realtà la concezione progressista sionista di eguaglianza all’interno della Palestina esclude gli arabi palestinesi, il popolo indigeno del territorio. Una simile cecità intenzionale è una caratteristica comune dei movimenti colonialisti. Come l’illustre studioso palestinese Nur Masalha ha spiegato decenni fa nel suo studio magistrale “Espulsione dei palestinesi”, in realtà il movimento sionista ha compreso che effettivamente c’era già una popolazione che viveva in Palestina. Tuttavia scelse di non vedere queste persone come esseri umani a pieno titolo degni degli stessi diritti dei coloni ebrei.

Masalha ha scritto che l’ignobile slogan del sionista dei primordi Israel Zangwill “una terra senza popolo per un popolo senza terra” non era inteso come un giudizio demografico letterale. I sionisti “non intendevano dire che non ci fosse un popolo in Palestina, ma che non c’era un popolo degno di essere preso in considerazione all’interno del quadro di concezioni della supremazia europea che all’epoca dominavano incontrastate.”

Questi concetti di suprematismo bianco, che in quel periodo per le élite europee erano indiscutibili, erano una caratteristica comune dei progetti colonialisti di ogni tipo. Come avrebbe quindi potuto essere diverso per il sionismo?

La risposta è che non lo era, indipendentemente da quanta immagine “di sinistra” i sionisti laburisti abbiano inserito nel loro movimento colonialista. Dopo tutto i movimenti laburisti dell’Europa occidentale nelle metropoli coloniali erano spesso esplicitamente di orientamento favorevole all’impero; probabilmente nessuno più del partito laburista britannico. In realtà la storia dell’appoggio ad alcuni dei fondamentali diritti umani dei palestinesi da parte di Jeremy Corbyn rappresenta una rottura storica con la lunga serie praticamente ininterrotta di virulente politiche anti-palestinesi del partito laburista.

Prendete per esempio Richard Crossman, ministro del governo di Harold Wilson negli anni ’60 e in seguito editorialista del “New Statesman” [rivista politica inglese di sinistra, ndt.]. All’epoca era una figura di spicco della sinistra laburista, eppure in tutto il partito era uno dei più fanatici tra i sionisti. Nel 1959, in una conferenza in Israele, affermò che “nessuno, fino al XX° secolo, aveva seriamente messo in dubbio” il “diritto” o il “dovere” di quello che definì “l’uomo bianco” in Africa e nelle Americhe “di civilizzare questi continenti con la loro occupazione fisica, anche a costo di spazzare via la popolazione nativa.”

In altre parole, il genocidio.

Crossman lamentò inoltre che “i coloni ebrei” in Palestina non avessero “raggiunto la maggioranza prima del 1914,” e che i palestinesi “li vedessero come ‘coloni bianchi’, venuti ad occupare il Medio Oriente.” Si noti che questo decano della sinistra laburista non condannava “i coloni bianchi” che di fatto avevano occupato la Palestina con la forza cacciando la popolazione indigena. Si rammaricava solo che i palestinesi avessero riconosciuto il movimento sionista per quello che realmente era e quindi vi si fossero opposti.

Non c’è quindi da stupirsi che il governo laburista del 1945 avesse, come parte del proprio programma elettorale, un punto che chiedeva esplicitamente la pulizia etnica dei palestinesi dalla Palestina per far posto a uno “Stato ebraico”. Il documento sosteneva che in Palestina “il trasferimento di popolazione è una necessità. Che gli arabi siano incoraggiati ad andarsene, e che vi entrino gli ebrei.”

Il documento andò persino oltre, invocando la futura espansione dei confini del previsto “Stato ebraico” con l’annessione di parti della Transgiordania, dell’Egitto o della Siria “attraverso un accordo”. In realtà, l’Egitto e il futuro Stato di Giordania all’epoca erano regimi fantoccio della Gran Bretagna.

Ben Pimlott, biografo dell’ex-ministro delle Finanze Hugh Dalton, descrisse questa posizione come “ultra sionismo” – moderato rispetto a un progetto ancora più estremista che lo stesso Dalton avrebbe preferito e che chiedeva di “aprire la Libia o l’Eritrea alla colonizzazione ebraica, come satelliti o colonie della Palestina.”

Non dovrebbe quindi sorprendere che Dalton fosse, come molti colonialisti, un razzista esplicito. Utilizzò un linguaggio apertamente segnato dall’odio nei confronti delle persone di colore e degli ebrei, deridendo un deputato del partito Laburista che era ebreo per la sua presunta “ideologia”.

Allora come adesso il sionismo spesso e volentieri è andato mano nella mano con l’antisemitismo. Molti razzisti bianchi che detestano gli ebrei spesso non hanno avuto nessun problema con il concetto di “Stato ebraico” in Palestina – dopotutto esso prospetta la cancellazione degli ebrei dall’Europa.

Come ha scritto, pur negando di essere un antisemita, il presunto autore dei massacri nella moschea di Christchurch nel suo “manifesto”: “Un ebreo che vive in Israele non è un mio nemico, finché non cerca di sovvertire o danneggiare il mio popolo (bianco).”

Per tutte queste ed altre ragioni, il sionismo è sempre stato un movimento razzista – e non lo è stato meno nella sua versione “sionista laburista”.

Oggi il sionismo laburista è morto come forza politica all’interno della Palestina occupata. Il partito Laburista – i cui predecessori politici fondarono lo Stato di Israele e nel 1948 perpetrarono la Nakba, in cui 750.000 palestinesi vennero espulsi con la forza – ora è relegato a una manciata di sei seggi nella Knesset [il parlamento israeliano, ndt.].

La principale utilità del laburismo sionista per il complessivo movimento sionista è in quanto arma ideologica contro la sinistra globale e il movimento di solidarietà con la Palestina in tutto il mondo, come si vede nel ruolo divisivo che gruppi come il “Jewish Labour Movement” [Movimento Ebraico Laburista] (JLM) e i “Labour Friends of Israel” [Amici Laburisti di Israele] hanno giocato nella lunga campagna contro Jeremy Corbyn.

Come ha spiegato un importante leader di JLM lo stesso mese in cui Corbyn è stato eletto per la prima volta segretario del partito Laburista britannico nel 2015: “Abbiamo costruito un forte discorso politico, radicato nella politica della sinistra e utilizzato nel suo stesso cortile di casa.” Questo progetto è stato messo in atto in modo che “la questione di Israele” non fosse “persa per definizione”. La crisi dell’“antisemitismo” nel partito Laburista è, in realtà, una campagna di razzisti per diffamare in quanto “razzisti” gli anti-razzisti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché l’Europa non definisce Israele uno Stato di apartheid?

John Dugard

17 aprile 2019, Al Jazeera

Sia per le politiche adottate sia per il livello di brutalità, l’apartheid in Israele non è così diverso da quello che esisteva in Sudafrica.

L’apartheid esiste ancora ed è vivo, vegeto e prospero nella Palestina occupata.

I palestinesi lo sanno. I sudafricani lo sanno. Molti israeliani lo hanno accettato come parte del loro dibattito politico. Gli americani ci stanno facendo i conti ora con l’emergere di nuove voci nel Congresso e nelle ONG, come “Jewish Voice for Peace” [Voci Ebraiche per la Pace, associazione di ebrei statunitensi contro l’occupazione, ndt.], che non hanno paura di chiamarlo apertamente così.

Soltanto in Europa si osserva un’ostinata negazione dell’apartheid di Israele verso i palestinesi, nonostante le prove a sua conferma siano schiaccianti.

Le restrizioni da parte di Israele della libertà di movimento nel territorio occupato della Palestina sono un revival dei tanto odiati divieti di passaggio in Sudafrica, leggi che proibivano ai sudafricani neri senza permesso di stare in una città “bianca”. Le politiche di Israele sulla rimozione forzata della popolazione e la distruzione dei centri abitati assomiglia molto alla storia della ricollocazione delle persone di colore allontanate dalle aree destinate alla sola occupazione dei bianchi nel Sudafrica dell’apartheid.

Le forze dell’ordine israeliane operano brutalità e torture che vanno anche oltre le peggiori pratiche dell’apparato di sicurezza sudafricano. L’umiliazione delle persone di colore che era il fulcro dell’apartheid sudafricano è replicata fedelmente in Palestina.

La retorica razzista nel dibattito pubblico israeliano offende persino chi conosce bene il tipo di linguaggio dell’apartheid in Sudafrica. La propaganda di crudo razzismo che ha caratterizzato la recente campagna elettorale in Israele non ha precedenti neanche in Sudafrica.

Certo ci sono delle differenze, perché i due territori hanno condizioni storiche, religiose, geografiche e demografiche differenti, ma entrambi i casi rientrano nella definizione universale di apartheid. Nel diritto internazionale, l’apartheid è un tipo di regime di discriminazione razziale istituzionalizzata e legalizzata sancito dallo Stato, nonché di oppressione di un gruppo razziale egemonico sull’altro.

Sotto certi aspetti l’apartheid del Sudafrica era peggiore, mentre sotto altri è peggiore quello israeliano nella Palestina occupata. Per certo, l’applicazione dell’apartheid nella Palestina occupata da parte di Israele ha un carattere più militarista e brutale. L’apartheid in Sudafrica non ha mai imposto un blocco su una comunità nera né ha metodicamente ucciso gli oppositori come sta attualmente facendo Israele lungo la frontiera di Gaza.

Sono fatti ben noti: chiunque legga i giornali non è all’oscuro della repressione inflitta al popolo palestinese da parte dell’esercito d’occupazione israeliano e dei coloni ebrei. È noto a tutti che i differenti sistemi legali per i coloni e per i palestinesi hanno creato un regime di status legali segregati e assolutamente disuguali.

Come mai dunque l’Europa nega ostinatamente l’esistenza dell’apartheid nella Palestina occupata? Perché si continua a fare affari con Israele come se niente fosse? Perché l’Eurovision Song Contest si terrà a Tel Aviv? Perché l’Europa vende armi e intrattiene rapporti commerciali con Israele, persino con le colonie illegali? Perché mantiene rapporti culturali e accademici? Come mai Israele non è soggetta al tipo di ostracismo che fu applicato ai tempi in Sudafrica e alle istituzioni sudafricane bianche conniventi?

Come mai le sanzioni a condanna dell’apartheid in Sudafrica furono adottate dai governi europei mentre si prendono provvedimenti volti a criminalizzare il movimento nonviolento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) che cerca di assicurare pace, giustizia e uguaglianza per i palestinesi?

Ci sono tre spiegazioni per risolvere l’enigma.

Per prima cosa, in molti Stati europei le lobby filoisraeliane sono potenti esattamente quanto negli Stati Uniti, ma senza lo stesso grado di visibilità.

Il secondo fattore è il senso di colpa per l’Olocausto. Le politiche di alcuni Paesi come l’Olanda verso Israele sono ancora condizionate dal senso di colpa per non aver fatto abbastanza per salvare gli ebrei durante la seconda guerra mondiale.

Ultimo, ma il più importante di tutti, esiste la paura di essere classificati come antisemiti. Promosso e manipolato da Israele e dalle sue lobby, il concetto di antisemitismo è stato esteso fino a includere non solo l’odio verso gli ebrei, ma anche la critica verso l’apartheid israeliano.

Nel caso del Sudafrica, il presidente PW Botha era odiato perché applicava l’apartheid, non perché era un afrikaner [comunità bianca sudafricana di origine olandese e protestante, ndt.]. Potrebbe sembrare scontato che allo stesso modo molti possano odiare il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu perché applica l’apartheid, e non in quanto ebreo, ma questa linea di demarcazione è assai sottile in Europa, tanto da diventare pericoloso e poco saggio criticare Israele.

In Europa, criticare l’apartheid in Sudafrica era una causa popolare. Il movimento anti-apartheid, che faceva pressioni per il boicottaggio delle esportazioni sudafricane, degli scambi commerciali, sportivi, artistici e accademici, era incoraggiato e non assoggettato ad alcuna restrizione. I governi imposero svariati tipi di sanzioni, incluso l’embargo. Le proteste pubbliche contro l’apartheid erano prassi comune nelle università.

Le critiche verso le politiche discriminatorie e repressive di Israele invece rischiano di essere bollate come antisemitismo, con serie conseguenze sulla carriera e la vita sociale di una persona. Conseguentemente, si vedono ben poche proteste contro l’apartheid israeliano nei campus europei e un ben più freddo sostegno al movimento BDS. Le personalità pubbliche che criticano Israele vengono attaccate in quanto antisemite, come dimostra la caccia alle streghe fatta contro i membri del partito Laburista in Gran Bretagna.

Finché gli europei non avranno il coraggio fare una distinzione tra le critiche verso Israele per il suo apartheid e il vero e proprio antisemitismo (che, ricordiamo, è l’odio verso gli ebrei), l‘apartheid continuerà a prosperare nella Palestina occupata con la complicità diretta dell’Europa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

(Traduzione di Maria Monno)




A proposito di semiti e antisemiti, sionisti e antisionisti

Shlomo Sand

28 febbraio 2019, Investig’action

Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo.

Sebbene residente in Israele, “Stato del popolo ebraico”, ho seguito da vicino il dibattito in Francia su antisemitismo e antisionismo. Se qualsiasi discorso antiebraico nel mondo continua a preoccuparmi, avverto una certa repulsione contro il diluvio di ipocrisia e manipolazione orchestrata da tutti quelli che ora vogliono incriminare chiunque critichi il sionismo.

Iniziamo con i problemi di definizione. Già da molto tempo mi sento a disagio, non solo per la recente formula in voga: “civiltà giudaico-cristiana”, ma anche davanti all’uso tradizionale del vocabolo “antisemitismo”. Questo termine, come sappiamo, è stato inventato nella seconda metà del 19° secolo da Wilhelm Marr, nazional-populista tedesco che detestava gli ebrei. Nello spirito di quel tempo, coloro che usavano quel termine avevano come presupposto fondamentale l’esistenza di una gerarchia di razze in cima alla quale si trova l’uomo bianco europeo, mentre la razza semita occupa un rango inferiore. Uno dei fondatori della “scienza della razza” fu, come sappiamo, il francese Arthur Gobineau.

Ai nostri giorni, la Storia un pochino più seria non conosce altro che delle lingue semitiche (l’aramaico, l’ebraico e l’arabo, che si sono diffuse nel Vicino Oriente), mentre, al contrario, non conosce nessuna razza semitica. Sapendo che gli ebrei d’Europa non parlavano correntemente l’ebraico, che era utilizzato solo per la preghiera (come i cristiani usavano il latino), è difficile considerarli come semiti.

Bisogna forse ricordare che il moderno odio razziale contro gli ebrei è, soprattutto, un’eredità delle chiese cristiane? Dal quarto secolo, il cristianesimo si è rifiutato considerare l’ebraismo come una religione legittima concorrente, e da lì, ha creato il famoso mito dell’esilio: gli ebrei sono stati esiliati dalla Palestina per avere partecipato all’omicidio del figlio di Dio – pertanto, è opportuno umiliarli per dimostrare la loro inferiorità. Ma occorre sapere che non c’è mai stato un esilio degli ebrei di Palestina, e, fino ad oggi, non troveremo alcun testo di ricerca storica sul tema!

Personalmente, faccio parte di quella scuola di pensiero tradizionale che rifiuta di vedere gli ebrei come un popolo-razza estraneo all’Europa. Già nel 19° secolo, Ernest Renan, dopo essersi liberato del suo razzismo, aveva affermato che: “L’ebreo delle Gallie … era, molto spesso, solo un gallo che professava la religione israelita.” Lo storico Marc Bloch ha specificato che gli ebrei sono: “Un gruppo di credenti reclutati precedentemente in tutto il mondo mediterraneo, turco-cazaro e slavo”. E Raymond Aron aggiunge: “I cosiddetti ebrei, per la maggior parte, non sono biologicamente dei discendenti delle tribù semitiche …”. La giudeofobia, tuttavia, si è sempre ostinata a vedere gli ebrei non come un’importante fede, ma come una nazione straniera.

Il lento declino del cristianesimo come credo egemonico in Europa, purtroppo non è stato accompagnato da un declino della forte tradizione giudeofobica. I nuovi “laici” hanno trasformato l’odio e la paura ancestrale in moderne ideologie “razionaliste”. Possiamo quindi trovare pregiudizi sugli ebrei e sull’ebraismo non solo in Shakespeare o Voltaire, ma anche in Hegel e Marx. Il nodo gordiano tra ebrei, ebraismo e denaro sembrava ovvio tra le élite istruite. Il fatto che la stragrande maggioranza dei milioni di ebrei nell’Europa orientale abbiano sofferto di fame e vissuto in povertà non ha avuto assolutamente alcun effetto su Charles Dickens, Fiodor Dostoevskij, né su una larga parte della sinistra europea. Nella Francia moderna la giudeofobia ha conosciuto bei giorni non solo con Alphonse Toussenel, Maurice Barrès e Edouard Drumont, ma anche con Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon e anche, per un certo tempo, con Jean Jaures e Georges Sorel.

Con il processo di democratizzazione la giudeofobia ha costituito un elemento immanente tra i pregiudizi delle masse europee: l’affair Dreyfus si è dimostrato un evento “emblematico”, in attesa di essere superato, e di gran lunga, dallo sterminio di ebrei durante la seconda guerra mondiale. È tra questi due avvenimenti storici che il sionismo è nato come idea e movimento.

Va ricordato, tuttavia, che fino alla seconda guerra mondiale, la stragrande maggioranza degli ebrei e dei loro discendenti laici erano antisionisti. Non c’era solo l’ortodossia, forte e organizzata, ad indignarsi all’idea di accorciare i tempi della redenzione emigrando in Terra Santa; anche le correnti religiose più moderniste (riformatori o conservatori) erano fortemente contrarie al sionismo. Il Bund, partito laico dell’Impero russo e poi della Polonia indipendente in cui la maggior parte dei socialisti era di madre lingua yddish, considerava i sionisti come alleati naturali dei giudeofobi. I comunisti di origine ebraica non perdevano occasione di condannare il sionismo come complice del colonialismo britannico.

Dopo lo sterminio degli ebrei d’Europa, i sopravvissuti che non erano riusciti a trovare in tempo rifugio nell’America del Nord, o nell’URSS, addolcirono la loro relazione ostile al sionismo, anche perché la maggior parte dei paesi occidentali e del mondo comunista avevano riconosciuto lo stato di Israele. Il fatto che la creazione di questo stato sia stata effettuata nel 1948 a spese della popolazione araba indigena non disturbò granché. L’ondata della decolonizzazione era ancora agli inizi e non era un dato da prendere in considerazione. Israele fu quindi percepito come uno stato-rifugio per gli ebrei erranti, senza ricovero né focolare.

Il fatto che il sionismo non sia riuscito a salvare gli ebrei d’Europa e che i sopravvissuti desiderassero emigrare in America, e nonostante la percezione del sionismo come un’impresa coloniale nel pieno senso del termine, non altera un dato significativo: la diagnosi sionista riguardante il pericolo che incombeva sulla vita degli ebrei nella civiltà europea del ventesimo secolo (non affatto giudeo-cristiana!), si era rivelata corretta. Theodore Herzl, il pensatore dell’idea sionista, aveva, meglio dei liberali e dei marxisti, compreso i giudeofobi del suo tempo.

Ciò non giustifica, tuttavia, la definizione sionista secondo cui gli ebrei formano un popolo-razza. Né giustifica la visione dei sionisti che la Terra Santa è la patria nazionale sulla quale avrebbero diritti storici. I sionisti hanno tuttavia creato un fatto politico compiuto e qualsiasi tentativo di cancellarlo si tradurrebbe in nuove tragedie di cui sarebbero vittime le due popolazioni che ne sono risultate: israeliana e palestinese.

Allo stesso tempo bisogna ricordarsi e ricordarlo: se non tutti i sionisti rivendicano la continuazione del dominio sui territori conquistati nel 1967, e se molti di loro non si sentono a proprio agio con il regime di apartheid che Israele vi esercita da 52 anni, tutti quelli che si definiscono sionisti continuano a vedere in Israele, almeno nei suoi confini del 1967, lo stato degli ebrei del mondo intero e non una Repubblica per tutti gli israeliani, un quarto dei quali non sono considerati ebrei, di cui il 21% sono arabi.

Se una democrazia è fondamentalmente uno stato che aspira al benessere di tutti i suoi cittadini, di tutti i suoi contribuenti, di tutti i bambini che vi nascono, Israele, al di là del pluralismo politico esistente, è, in realtà, una vera e propria etnocrazia come erano la Polonia, l’Ungheria e altri stati dell’Europa orientale, prima della seconda guerra mondiale.

Il tentativo del presidente francese Emmanuel Macron e del suo partito di criminalizzare oggi l’anti-sionismo come una forma di antisemitismo mostra di essere una manovra cinica e manipolatoria. Se l’antisionismo diventa un crimine, mi sento di raccomandare a Emmanuel Macron di far condannare con effetto retroattivo, il bundista Marek Edelman, che fu uno dei leader del ghetto di Varsavia e totalmente anti-sionista. Si potrebbe anche inviare a processo i comunisti anti-sionisti che, piuttosto che emigrare in Palestina, scelsero di combattere, armi in pugno, contro il nazismo, cosa che ha loro conquistato un posto sul “manifesto rosso” [stampato dai nazisti contro gruppi della resistenza antinazista in Francia composti da persone senza cittadinanza francese, ndt.].

Se intende essere coerente nella condanna retroattiva di tutti i critici del sionismo, Emmanuel Macron dovrà aggiungere la mia insegnante Madeleine Rebérioux, che ha presieduto la Lega dei diritti umani, l’altro mio insegnante e amico Pierre Vidal-Naquet e, naturalmente, anche Eric Hobsbawm, Edward Saïd e molte altre eminenti figure, ora scomparse, ma i cui scritti sono ancora autorevoli.

Se Emmanuel Macron desidera attenersi a una legge che reprime gli anti-sionisti ancora viventi, la cosiddetta futura legge dovrà applicarsi anche agli ebrei ortodossi di Parigi e New York che rifiutano il sionismo, a Naomi Klein, Judith Butler, Noam Chomsky e molti altri umanisti universalisti, in Francia e in Europa, che si autoidentificano come ebrei pur dichiarandosi anti-sionisti.

Si troveranno, naturalmente, molti idioti antisionisti e giudeofobi, come non mancano dei pro-sionisti imbecilli, pure giudeofobi, ad augurare che gli ebrei lascino la Francia e emigrino nello Stato di Israele. Li includerà in questa grande impennata giudiziaria? Stia attento, signor Presidente, a non lasciarsi trascinare in questo ciclo infernale, proprio quando la popolarità è in declino!

Per concludere, non penso ci sia un aumento significativo dell’antigiudaismo in Francia. Questo è sempre esistito, e temo, purtroppo, che abbia davanti a sé ancora giorni buoni. Non ho dubbi, tuttavia, che uno dei fattori che gli impedisce di regredire, in particolare in alcuni quartieri in cui vivono persone immigrate, è precisamente la politica praticata da Israele contro dei palestinesi: quelli che vivono come cittadini di seconda classe all’interno dello “stato ebraico” e quelli che, da 52 anni, subiscono un’occupazione militare e una colonizzazione brutali.

Facendo parte di coloro che protestano contro questa tragica situazione, sostengo con tutte le mie forze il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi e sono favorevole alla “desionizzazione” dello Stato di Israele. Dovrò, in questo caso, temere che la mia prossima visita in Francia mi porti davanti a un tribunale?

 

Traduzione: Simonetta Lambertini – invictapalestina.org