Gli attacchi contro Roger Waters mettono in ridicolo la lotta contro l’antisemitismo

Yves Engler

29 maggio 2023 – Mondoweiss

I recenti attacchi contro Roger Waters sono l’ultimo esempio di false accuse di antisemitismo utilizzate come arma per difendere l’apartheid israeliano.

Di recente alcuni politici del fascistoide e apertamente suprematista ebraico governo israeliano hanno attaccato l’esibizione a Berlino del famoso musicista rock Roger Waters. In molti Paesi agenti antipalestinesi di Israele hanno amplificato l’imbarazzante delirio secondo cui Waters sarebbe un antisemita per aver inserito il nome di Anna Frank su un grande schermo vicino alla giornalista palestinese assassinata Shireen Abu Akleh. Lo spettacolo di Waters ha semplicemente messo a confronto i due nomi e questo non sarebbe stato improprio, ma di fatto i nomi di circa una decina di persone uccise da forze di sicurezza, come George Floyd negli USA, hanno lampeggiato sullo schermo durante l’esibizione. Il secondo elemento della loro cinica follia è stato lamentare che Waters abbia indossato un’uniforme fascista, modello SS. Ma Waters ha esibito per decenni delle varianti di questa parodia antifascista e antinazista.

Infine qualcuno ha sostenuto che lo spettacolo ha incluso un maiale con una stella di David, il che è assolutamente falso. In un comunicato Waters ha risposto:

“La mia recente esibizione a Berlino ha attirato attacchi in malafede da quanti vogliono calunniarmi e mettermi a tacere perché dissentono dalle mie opinioni politiche e dai miei principi morali. Gli elementi del mio spettacolo che sono stati messi in discussione sono molto chiaramente una presa di posizione contro il fascismo, l’ingiustizia e il fanatismo in ogni loro manifestazione. Il tentativo di ritrarli come qualcos’altro sono ipocriti e motivati politicamente. La rappresentazione di un folle demagogo fascista è stata una caratteristica dei miei spettacoli fin da The Wall dei Pink Floyd nel 1980.

Ho passato tutta la mia vita a denunciare l’autoritarismo e l’oppressione ovunque li abbia visti. Quando ero un bambino dopo la guerra il nome di Anna Frank veniva spesso citato in casa nostra, divenne un ricordo permanente di ciò che accade quando viene consentito al fascismo di scatenarsi. I miei genitori lottarono contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale, e ciò costò la vita a mio padre. Indipendentemente dalle conseguenze degli attacchi contro di me, continuerò a condannare l’ingiustizia e tutti quelli che la perpetrano.”

Facendo seguito ai politici israeliani, i lobbysti canadesi a favore dell’apartheid hanno amplificato gli allarmi sull’antisemitismo. Su Twitter l’inviato speciale di Justin Trudeau [primo ministro canadese, ndt.] per la lotta contro l’antisemitismo Irwin Cotler, la parlamentare liberale Ya’ra Saks, l’ex presidente del Congresso Ebraico Canadese Bernie Farber e l’ex deputato Michael Leavitt hanno gridato all’antisemitismo. Così hanno fatto gli Amici del Centro Simon Wiesenthal, Honest Reporting Canada [ong che monitora i media alla ricerca di pregiudizi contro Israele, ndt.] e il Centro per gli Affari di Israele ed Ebraici, che ha twittato: “Siamo disgustati dalle azioni di Roger Waters nel concerto di ieri a Berlino. È già abbastanza grave tracciare paralleli scorretti con Anna Frank (soprattutto a Berlino), ma comparire sul palco vestito come un soldato nazista delle SS? E’ palese antisemitismo.”

Il finto scandalo è poco più che una cinica calunnia contro un personaggio importante che si rifiuta di ritirare il proprio appoggio ai palestinesi. Non sono riusciti a far annullare il recente concerto di Waters a Francoforte che nonostante i costanti attacchi continua ad organizzare concerti molto politicizzati in strutture di grandi dimensioni in tutto il mondo. Ora c’è un tentativo di annullare i suoi prossimi concerti e la polizia tedesca ha avviato un’indagine contro Waters per l’uniforme in stile nazista che ha indossato durante il concerto di Berlino.

Gli attacchi contro Waters sono l’ultimo esempio della continua utilizzazione dell’antisemitismo come arma da parte dei nazionalisti israeliani. Nel caso più nefasto, è stato messo in crisi il segretario di sinistra del partito Laburista Britannico Jeremy Corbyn, come ha accuratamente spiegato Asa Winstanley in un suo recente libro [2022, Weaponising Anti-Semitism – Usare l’antisemitismo come arma, ndt.]. I nazionalisti israeliani hanno talmente abusato del termine [antisemitismo] nella loro difesa dell’apartheid e delle violazioni del diritto internazionale che ogni accusa di antisemitismo è diventata sospetta persino quando potrebbe essere appropriata.

Nel 2016, prima di questi episodi, scrissi: “In Canada ‘antisemitismo’ è forse il termine più inflazionato. Quasi del tutto separato dalla sua definizione nel dizionario – ‘discriminazione o pregiudizio o ostilità contro gli ebrei’ – ora è invocato principalmente per difendere i privilegi degli ebrei e dei bianchi.” Aggiunsi che, se non ci sarà un intervento di qualche genere, i futuri dizionari potrebbero definire l’“antisemitismo” come “un movimento per la giustizia e l’uguaglianza”.

Sette anni fa, quando lo scrissi, venni violentemente attaccato, ma il recente scandalo costruito ad arte contro Roger Waters suggerisce che oggi questa affermazione è ancora più vera.

Che la lobby antipalestinese si vergogni per questo stato di cose.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In un comunicato inviato a Palestine Chronicle Spotify spiega perché una canzone popolare di Mohammed Assaf è stata censurata

Redazione di Palestine Chronicle

21 maggio 2023 – Palestine Chronicle

In un comunicato inviato a Palestine Chronicle un’agenzia di pubbliche relazioni che rappresenta Spotify MENA [acronimo inglese per Paesi del Medio Oriente e Nord Africa, ndt.] afferma che la ragione della rimozione di una canzone popolare del famoso artista palestinese Mohammed Assaf “non è stata decisa da Spotify ma dal distributore.”

Il comunicato di Spotify, inviato tramite Publicist Inc., sostiene anche che “anticipiamo che nel prossimo futuro verrà reinserita e ci scusiamo per ogni inconveniente provocato.”

Nel breve comunicato si legge:

Spotify intende offrire sulla propria piattaforma un’ampia gamma di musiche, ma la disponibilità può variare nel tempo e a seconda dei Paesi. La rimozione di alcuni contenuti di Mohammed Assaf non è stata decisa da Spotify ma dal distributore. Anticipiamo il suo reinserimento nel prossimo futuro e ci scusiamo per qualunque inconveniente provocato.”

In precedenza Palestine Chronicle e altre fonti avevano dato notizia che Spotify e Apple Music avevano deciso di eliminare la canzone “Ana Dammi Falastini” (Il mio sangue è palestinese) di Assaf accusandolo di antisemitismo.

Secondo Roya News [rete informativa giordana, ndt.], dopo aver scoperto che la sua canzone era stata eliminata da entrambe le piattaforme, il cantante palestinese ha condiviso la sua sorpresa in una intervista con Al-Araby al-Jadeed [Il Nuovo Arabo, sito web di notizie in arabo con sede a Londra, ndt.].

Assaf avrebbe detto di aver ricevuto una mail ufficiale in cui si menzionavano accuse di antisemitismo come ragione per la cancellazione della canzone.

Assaf, nato e cresciuto a Gaza, ha sottolineato su Instagram che la canzone è stampata nel cuore di qualunque persona onesta e libera.

Secondo Doha News [blog di notizie con sede in Qatar, ndt.], “la decisione da parte del gigante dello streaming di eliminare la canzone è arrivata dopo che una petizione organizzata dalla filo-sionista “We Believe in Israel” [Noi crediamo in Israele] (WBII) e dal Consiglio dei Deputati ha raccolto circa 4.000 firme.”

Per Israele cancellare la Palestina ed escludere il popolo palestinese dalla storia della sua stessa terra è sempre stato un comportamento strategico,” ha scritto in un recente articolo il giornalista ed editorialista palestinese di Palestine Chronicle Ramzy Baorud, commentando la decisione israeliana di impedire ad Assaf di tornare in Palestina.

La cultura palestinese è stata molto utile alla lotta del popolo palestinese. Nonostante l’occupazione e l’apartheid israeliane, essa ha dato ai palestinesi un senso di continuità e coesione, legandoli tutti a un senso collettivo di identità che ruota intorno alla Palestina,” aveva scritto Baroud.

Nota di redazione: aggiungiamo all’articolo di Palestine Chronicle il testo della canzone censurata da Spotify in modo che i lettori possano verificare quanto ci sia di antisemita.

Il mio sangue è palestinese

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Siamo rimasti con te, nostra patria

Con il nostro orgoglio e identità araba

La terra di Gerusalemme ci ha chiamati

(Come) il suono della voce di mia madre che mi chiama

Palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

Oh madre, non preoccuparti

La tua patria è un castello fortificato

A cui sacrifico la mia anima

E il mio sangue, e le mie vene.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

 Sono palestinese, figlio di una famiglia libera

Sono valoroso e vado a testa alta

Tengo fede al mio giuramento per la mia patria

Non mi sono mai piegato di fronte a nessuno

Palestinese, palestinese

Il mio sangue è palestinese.

Tenendo fede al mio giuramento, seguendo la mia religione

Mi troverai sulla mia terra

Appartengo al mio popolo, sacrifico la mia anima per lui

Il mio sangue è palestinese, palestinese, palestinese,

il mio sangue è palestinese.

(traduzione dall’inglese dell’articolo e del testo della canzone di Amedeo Rossi)




I media pubblicizzano il rapporto dell’ADL che equipara l’antisionismo all’antisemitismo

Michael Arria

24 marzo 2023 – Mondoweiss

La ricerca annuale dell’ADL sull’antisemitismo negli USA offre una visione distorta del problema perché l’organizzazione conteggia tra le azioni anti-semite le proteste antisioniste contro Israele.

Questa settimana l’Anti-Defamation League [Lega contro la Diffamazione, una delle principali associazioni della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] (ADL) ha reso pubblica la sua ricerca annuale sugli incidenti di antisemitismo negli Stati Uniti. Secondo i dati nel 2022 essi sarebbero aumentati del 36%, con un totale di 3.697 casi. È il numero più alto dal 1979, quanto l’ADL ha iniziato a raccogliere queste informazioni, e un incremento di circa il 500% negli ultimi dieci anni.

Tuttavia un rapido sguardo alla metodologia dell’associazione rivela immediatamente che le sue conclusioni sono discutibili. L’ADL attribuisce esplicitamente azioni e proteste antisioniste contro Israele all’antisemitismo, perché possono mettere a disagio studenti ebrei.

Dichiarazioni pubbliche di opposizione al sionismo, che spesso sono antisemite, sono incluse nella ricerca quando si può stabilire che esse abbiano avuto un impatto negativo su uno o più individui ebrei o associazioni ebraiche identificabili e localizzate,” spiegano gli autori del rapporto. “Ciò è più frequente nei campus dei college, dove alcuni studi hanno mostrato che l’opposizione accesa a Israele e al sionismo può avere un effetto intimidatorio sulla vita di studenti ebrei e aggrava le pressioni percepite da studenti ebrei in aggiunta agli incidenti di cui diamo conto in questa ricerca.”

Come prevedibile le “raccomandazioni” della ricerca includono l’adozione della controversa definizione di antisemitismo dell’IHRA, la promozione degli accordi di Abramo [tra Israele e alcuni Paesi arabi, ndt.] e la mobilitazione contro il movimento nonviolento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni [contro Israele, ndt.] (BDS).

Su Twitter la presidentessa della Foundation for Middle East Peace [Fondazione per la Pace in Medio Oriente] Lara Friedman presenta un istruttivo legame che riduce notevolmente i numeri gonfiati: 241 degli incidenti documentati sono relativi a critiche a Israele o al sionismo e di questi l’ADL ne attribuisce 70 a singole persone legate ad associazioni di attivisti antisionisti.

Friedman evidenzia che, anche accettando la distorta visione dell’ antisemitismo da parte dell’ADL, questi incidenti non costituiscono una parte considerevole dei fatti documentati. Ciononostante nel suo rapporto l’ADL dedica più parole a Israele che a qualunque altro argomento e gli concede uno spazio doppio rispetto a quello dedicato dal suprematismo bianco o alle aggressioni antisemite.

Così in sostanza l’ADL continua a utilizzare una definizione politicizzata di antisemitismo che demonizza la libertà di parola che critica Israele o il sionismo, e gonfia questi numeri molto discutibili dedicando uno spazio sproporzionato ad enfatizzare la minaccia rappresentata dalle critiche a Israele e al sionismo,” conclude Friedman.

Il contenuto del rapporto non è affatto sorprendente. Il direttore dell’ADL Jonathan Greenblatt ha ripetutamente dichiarato di considerare antisemita l’antisionismo. “Come ideologia l’antisionismo ha le sue radici nell’odio,” ha detto al pubblico dell’incontro nazionale dei dirigenti dell’ADL nel 2022. “Esso si basa su un concetto: la negazione di un altro popolo, un concetto alieno al discorso contemporaneo quanto il suprematismo bianco. Richiede una negazione deliberata della storia anche superficiale dell’Ebraismo e della lunga storia del popolo ebraico. E, quando un’idea deriva da una tale sconvolgente intolleranza, essa porta ad azioni sconvolgenti.”

L’ho già detto in precedenza e lo ripeto: l’antisionismo è antisemitismo,” ha affermato nel novembre 2021. “Negare il diritto degli ebrei, unico tra tutti i popoli del mondo, ad avere una patria è antisemitismo. Prendere di mira solo lo Stato ebraico per condannarlo ignorandone altri è un pregiudizio.”

I principali media hanno informato del rapporto, ma hanno ampiamente omesso di respingere le sue affermazioni o di fornire il contesto dell’ideologia politica dell’associazione.

Un servizio dell’NPR [principale rete radiofonica pubblica USA, ndt.] sulle conclusioni dell’organizzazione non cita affatto Israele, la Palestina o il sionismo, né lo fa l’informazione della CNN. L’articolo del New York Times sul rapporto menziona semplicemente che “include alcuni incidenti definiti come antisionisti o contro Israele,” ma accetta la (falsa) affermazione dell’ADL secondo cui “non confonde le critiche generali a Israele o l’attivismo anti-israeliano con l’antisemitismo.”

Greenblatt è stato invitato da PBS Newhour [notiziario televisivo serale USA, ndt.] a parlare del rapporto ed ha apertamente calunniato gli antisionisti senza smentite: “Quando vediamo accaniti attivisti antisionisti nei campus dei college intimidire apertamente, aggressivamente e quasi con gioia studenti ebrei, qualcosa di fondamentale si è rotto nella nostra società,” ha detto al conduttore Geoff Bennett.

Poi Bennett ha esplicitamente ripetuto il discorso dell’ADL chiedendo a Greeblatt di spiegare i falsi dati sui campus. “Ha colpito anche me leggere in questo rapporto dell’aumento del 41% di attività antisemite nei campus dei college e delle università,” ha affermato Bennett. “E continuando a leggere sull’argomento quello che ho imparato è che spesso studenti ebrei affermano che gli abusi sono spesso accentuati quando emergono critiche contro Israele. Dimmi qualcosa in più a questo proposito.”

Nella sua risposta Greenblatt è arrivato fino a suggerire che gli antisionisti sono indirettamente responsabili di scritte naziste.

Beh, vedi, non c’è sicuramente niente di sbagliato nel criticare le politiche dello Stato di Israele,” ha sostenuto Greeenblatt. “È una cosa frequente. Vivere in democrazia significa questo. Lo fa anche l’ADL. Ma l’instancabile ossessione contro lo Stato ebraico, le affermazioni secondo cui stia in qualche modo commettendo un genocidio contro i palestinesi o sia responsabile di suprematismo bianco, se pensi che un Paese, l’unico Stato ebraico al mondo, sia in qualche modo suprematismo bianco o stia commettendo un genocidio, ovviamente, tu – noi non dovremmo poi essere sorpresi quando compaiono svastiche sulla sede dell’associazione ebraica o quando le persone pensano che sia giusto prendere di mira e vittimizzare apertamente studenti ebrei.”

Gli attivisti hanno costantemente insistito perché le associazioni per i diritti umani smettano di lavorare con l’ADL a causa della lunga storia di opposizione ai diritti dei palestinesi e di collaborazione con le forze dell’ordine da parte dell’organizzazione. Nel 2020 una coalizione di associazioni (tra cui American Muslims for Palestine [Musulmani Americani per la Palestina], il Palestinian Youth Movement [Movimento Giovanile Palestinese], Adalah Justice Project [Progetto di Giustizia Adalah] e IfNotNow [SeNonOra]) hanno pubblicato una lettera aperta chiedendo di intervenire.

Benché l’ADL sia integrata nel lavoro di comunità su una serie di problemi, essa ha una storia e un costante comportamento aggressivo contro movimenti per la giustizia sociale guidati da comunità di colore, queer, immigrati, musulmani, arabi e altri gruppi emarginati, schierandosi nel contempo con polizia, dirigenti di destra e perpetratori della violenza di stato,” vi si legge. “Cosa ancora più indignante, spesso ha condotto questi attacchi sotto la bandiera dei ‘diritti civili’.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’arte dei bambini palestinesi mette in luce il genocidio culturale israeliano

Ramzy Baroud

7 marzo 2023 – Middle East Monitor

Il seguente messaggio di testo racconta l’intera storia di ciò per cui le comunità filo-palestinesi di tutto il mondo stanno combattendo e contro cui combattono i filo-israeliani: “Siamo lieti di annunciare che il Chelsea e il Westminster Hospital ha rimosso un’esposizione di opere d’arte disegnate da bambini provenienti da Gaza”.

Questo è il riassunto di una notizia pubblicata sulla homepage del gruppo lobbista filo-israeliano UK Lawyers for Israel [Avvocati Britannici per Israele, ndt.] (UKLFI). L’associazione è accreditata – se credito è la parola giusta – come lo schieramento che è riuscito a convincere l’amministrazione di un ospedale nella zona ovest di Londra a rimuovere alcune opere d’arte create dai bambini rifugiati nella Striscia di Gaza sotto assedio.

Per spiegare la logica alla base della loro incessante campagna per la rimozione dell’arte dei bambini, UKLFI ha affermato che i “pazienti ebrei” in ospedale “si sentivano vulnerabili e colpevolizzati dall’esibizione”. Le poche opere d’arte raffiguravano la Cupola della Roccia nella Gerusalemme Est occupata, la bandiera palestinese e altri simboli che non dovrebbero realmente “colpevolizzare” nessuno. L’articolo dell’ UKLFI è stato successivamente modificato, con la rimozione del riassunto offensivo, sebbene sia ancora accessibile sui social media.

Per quanto ridicola possa sembrare questa storia, in realtà è l’essenza stessa della campagna anti-palestinese lanciata da Israele e dai suoi alleati in tutto il mondo. Mentre i palestinesi si battono per i diritti umani fondamentali, la libertà e la sovranità come sancito dal diritto internazionale, il campo filo-israeliano si batte per la totale cancellazione di tutto ciò che è palestinese.

Alcuni chiamano ciò genocidio o etnocidio culturale. Sebbene i palestinesi abbiano familiarità con questa pratica israeliana in Palestina sin dall’inizio dello stato di occupazione, i confini della guerra sono stati ampliati per raggiungere qualsiasi parte del mondo, specialmente nell’emisfero occidentale.

La disumanità dell’UKLFI e dei suoi alleati è abbastanza palpabile, ma l’associazione non può essere l’unica da biasimare. Quegli avvocati non sono che la continuazione di una cultura coloniale israeliana che osserva l’esistenza stessa di un popolo palestinese, inclusa l’arte dei bambini rifugiati, attraverso una visione politica, come una “minaccia esistenziale” per lo stato di occupazione.

Il rapporto tra l’esistenza stessa di un Paese e l’arte dei bambini può sembrare assurdo, – e lo è – ma ha una sua, seppur strana, logica: finché questi bambini profughi si riconosceranno come palestinesi continueranno a vedere se stessi, ed essere considerati da altri, come parte di un tutto più grande, il popolo palestinese. Questa autoconsapevolezza e il riconoscimento da parte di altri – per esempio, pazienti e personale di un ospedale di Londra – di questa identità palestinese collettiva, rende difficile, di fatto impossibile, per Israele vincere.

Per palestinesi e israeliani la vittoria significa due cose completamente diverse, che sono conciliabili. Per i palestinesi la vittoria significa libertà per il popolo palestinese e uguaglianza per tutti. Per Israele la vittoria può essere raggiunta solo attraverso la cancellazione dei palestinesi sul piano geografico, storico, culturale e sulla base di ogni altro aspetto che potrebbe costituire parte dell’identità di un popolo.

Purtroppo il Chelsea and Westminster Hospital assume ora una parte attiva in questa tragica cancellazione dei palestinesi, allo stesso modo in cui nel 2018 Virgin Airlines [compagnia aerea privata britannica, ndt.] ha ceduto alle pressioni quando ha accettato di rimuovere il “cuscus di ispirazione palestinese” dal suo menu. All’epoca questa storia sembrò un bizzarro episodio del cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”, anche se in realtà la vicenda rappresentava il nucleo stesso di questo “conflitto”.

Per Israele la guerra in Palestina ruota attorno a tre finalità fondamentali: acquisire terra; cancellare le persone; riscrivere la storia. Il primo obiettivo è stato in gran parte raggiunto attraverso un processo di pulizia etnica e di folle colonizzazione della Palestina dal 1947-48. L’attuale governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu spera solo di portare a termine questo processo. Il secondo compito va oltre la pulizia etnica, perché anche la semplice consapevolezza della loro identità collettiva da parte dei palestinesi, ovunque si trovino, costituisce un problema. Da qui il processo attivo del genocidio culturale. E sebbene Israele sia riuscito a riscrivere la storia per molti anni, questo compito viene ora sfidato, grazie alla tenacia dei palestinesi e dei loro alleati e al potere delle reti sociali e digitali.

I palestinesi sono senza dubbio i maggiori beneficiari dello sviluppo dei media digitali. Questi hanno contribuito al decentramento delle narrazioni politiche e persino storiche. Per decenni la conoscenza da parte dell’opinione pubblica di cosa rappresentino “Israele” e “Palestina” nell’immaginario dominante è stata ampiamente controllata attraverso una specifica narrazione approvata da Israele. Coloro che deviavano da questa narrazione venivano attaccati ed emarginati, e quasi sempre accusati di “antisemitismo”. Sebbene queste tattiche siano ancora scatenate contro i critici di Israele, il risultato non è più garantito.

Ad esempio, un singolo tweet che descrive la “gioia” dell’UKLFI ha ricevuto oltre 2 milioni di visualizzazioni su Twitter. Milioni di britannici indignati e utenti di social media in tutto il mondo hanno trasformato quella che doveva essere una vicenda locale in uno degli argomenti riguardanti Palestina e Israele più discussi in tutto il mondo. Com’era prevedibile, non molti utenti dei social media hanno condiviso la “gioia” dell’ UKLFI, costringendo così il gruppo di pressione a riformulare l’articolo originale. Ancora più importante, in un solo giorno milioni di persone sono venuti a conoscenza di un argomento completamente nuovo su Palestina e Israele: la cancellazione culturale. La “vittoria” si è trasformata in un’assoluta figuraccia per la lobby filo-israeliana, forse addirittura una sconfitta.

Grazie alla crescente popolarità della causa palestinese e all’impatto dei social media, le iniziali vittorie israeliane quasi sempre gli si ritorcono contro. Un altro esempio recente è stato il licenziamento e la rapida reintegrazione dell’ex direttore di Human Rights Watch [una delle principali ong per i diritti umani, ndt.] (HRW), Kenneth Roth. A gennaio, il dottorato di Roth presso la Kennedy School dell’Università di Harvard è stata revocato a causa del rapporto di HRW che definisce Israele un regime di apartheid. Un’importante campagna avviata da piccole organizzazioni di media alternativi ha portato in pochi giorni alla reintegrazione di Roth. Questo e altri casi dimostrano che criticare Israele non determina più la fine di una carriera, come spesso accadeva in passato.

Israele continua ad impiegare tattiche obsolete per controllare il confronto e la narrazione sulla sua occupazione della Palestina. Sta fallendo perché quelle tattiche tradizionali non possono più funzionare in un mondo moderno in cui l’accesso alle informazioni è decentrato e dove nessuna censura può controllare il confronto. Per i palestinesi questa nuova realtà è un’opportunità per ampliare la loro rete di sostegno in tutto il mondo. Per Israele la missione è fragile, soprattutto quando le vittorie iniziali possono diventare in poche ore sconfitte totali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’UE afferma che è antisemita chiamare Israele Stato di apartheid.

Ali Abunimah  

23 gennaio 2023 – Electronic Intifada

Secondo l’Unione Europea dire che Israele sta perpetrando il crimine di apartheid contro il popolo palestinese è antisemita.

Ciò significherebbe che per Bruxelles importanti organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch, Amnesty International e l’israeliana B’Tselem, finanziata dall’UE, sono colpevoli di fanatismo antiebraico.

L’incredibile affermazione è giunta in risposta a un’interpellanza da parte di alcuni membri filoisraeliani del parlamento europeo rivolta all’organo esecutivo dell’UE, la Commissione Europea.

I parlamentari hanno affermato che il rapporto di Amnesty International dello scorso febbraio “sostiene che l’apartheid è intrinseco alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, costruito e conservato dai successivi governi israeliani.”

I deputati hanno chiesto se anche il responsabile per la politica estera dell’UE Josep Borrell considera Israele uno “Stato di apartheid”.

Intendevano anche sapere se Borrell considera “antisemita” il rapporto di Amnesty in base alla definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto] (IHRA) “dato che esso sostiene che l’esistenza dello Stato di Israele è un’iniziativa razzista (cioè uno Stato di apartheid).”

Non appropriata”

I parlamentari filoisraeliani dovrebbero essere pienamente soddisfatti dalla risposta scritta di Borrell resa pubblica il 20 gennaio:

La commissione considera che non sia appropriato usare il termine apartheid in relazione con lo Stato di Israele,” scrive Borrell.

Egli afferma che l’UE si basa sulla cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA e sottolinea: “Sostenere che l’esistenza dello Stato di Israele sia un’iniziativa razzista è tra gli esempi illustrativi inclusi nella definizione dell’IHRA.”

L’estremamente politicizzata definizione dell’IHRA, pesantemente promossa da Israele e dalla sua lobby, ha subito incontrato una vasta opposizione dovuta a preoccupazioni sul fatto che sarebbe stata utilizzata esattamente nel modo in cui l’ha fatto Borrell ora: etichettare falsamente legittime critiche contro Israele e i suoi crimini come fanatismo antiebraico.

Borrell non fornisce nessuna base concreta per smentire la meticolosa ricerca di molte associazioni per i diritti umani che dimostra come Israele perpetra l’apartheid, un grave crimine contro l’umanità previsto dallo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte Penale Internazionale.

Ma egli prosegue riaffermando la rituale e vuota adesione dell’UE a “una soluzione negoziata a due Stati.”

Crimine contro l’umanità

In base al diritto internazionale il crimine di apartheid si configura come “azioni inumane commesse con lo scopo di creare e conservare la dominazione di un gruppo razziale di persone su qualunque altro gruppo razziale di persone e opprimerlo sistematicamente.”

Nel gennaio 2021 B’Tselem, l’associazione per i diritti umani appoggiata dall’UE, ha affermato che Israele mette in atto “un regime di supremazia ebraica dal fiume Giordano al mar Mediterraneo”, cioè tutta l’area che comprende Israele, la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Questo è apartheid,” conclude B’Tselem.

Il nuovo governo israeliano si è insediato proclamando apertamente il proprio impegno a favore della supremazia ebraica e di conseguenza delle politiche di apartheid necessarie a conservarla.

Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su ogni parte della Terra di Israele”, ha proclamato la nuova coalizione, promettendo di “favorire e sviluppare l’insediamento in ogni parte della Terra di Israele: nelle Galilee, nel Negev, sulle Alture del Golan e in Giudea e Samaria.”

Le Alture del Golan sono un territorio siriano occupato, mentre “Giudea e Samaria” sono i termini sionisti per la Cisgiordania occupata.

Dopo questa dichiarazione Borrell ha detto ai nuovi governanti israeliani di “guardare avanti per lavorare con voi per migliorare ulteriormente i rapporti UE-Israele.”

In altre parole l’impegno dell’UE nei confronti del regime di apartheid israeliano e della sua opposizione ai diritti dei palestinesi rimane solidissimo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Inventare il nuovo antisemitismo

Em Hilton

16 gennaio 2023+972 magazine

Israele ei suoi sostenitori hanno a lungo promosso l’agenda secondo cui l’antisionismo è una forma di razzismo antiebraico. Un nuovo libro mostra come questo sforzo sia avvenuto a spese sia dei palestinesi che degli ebrei della diaspora.

Whatever Happened to Antisemitism?: Redefinition and the Myth of the ‘Collective Jew,’” by Antony Lerman, Pluto Press, June 2022, pp. 336.

Antony Lerman, “Cosa accidenti è successo alll’antisemitismo? Ridefinizione e mito dell’ebreo collettivo’”, Pluto Press, giugno 2022, pp. 336.

Stiamo vivendo un momento particolarmente preoccupante nella lotta globale contro l’antisemitismo. In mezzo al risorgente autoritarismo di destra, le teorie antisemite del complotto vengono poste alla base delle campagne elettorali in tutto il mondo; gli attacchi violenti agli ebrei in Europa  sembrano in aumento e vanno di pari passo con gli attacchi ad altre minoranze; negli Stati Uniti i politici nazionalisti bianchi continuano a gettare la maschera, mentre personaggi pubblici con numeri enormi di follower professano il loro sostegno al nazismo.

Eppure nel frattempo la comprensione pubblica di ciò che costituisce antisemitismo è più confusa che mai. Le accuse di antisemitismo vengono regolarmente lanciate – molto spesso da Israele stesso – per mettere a tacere chi critica Israele  e per attaccare qualsiasi forma di difesa della Palestina come se fosse motivata esclusivamente dal razzismo antiebraico. Nel Regno Unito questa politicizzazione della questione dell’antisemitismo, che si esprime in gran parte come una battaglia di definizioni, ha ridotto a una partita di calcio politica e a stucchevoli politiche sull’identità la un tempo intellettualmente rigorosa ricerca per comprendere come si manifesti l’antisemitismo.

È in questo contesto che dobbiamo esaminare il nuovo libro dello scrittore britannico Antony Lerman, “Whatever Happened to Antisemitism?”. Offrendo un’esplorazione storica e analitica dei tentativi di ridefinire l’antisemitismo nel contesto moderno, il libro si concentra in particolare sullo sviluppo negli ultimi decenni del concetto di “nuovo antisemitismo” – un approccio politicizzato che mira a fondere le critiche a Israele e al sionismo con precedenti interpretazioni dell’antisemitismo che cercavano di fare una distinzione tra i due.

Il saggio di Lerman è completo e ben documentato. Il libro inizia con un riepilogo dei principali eventi relativi all’imbroglio dell’antisemitismo nel Partito Laburista durante tutto il periodo in cui Jeremy Corbyn ne fu il leader (2015-20): la confusione sulle definizioni di antisemitismo e l’uso e l’abuso della nozione di stereotipi antisemiti. Mentre i lettori potrebbero essere riluttanti a immergersi ancora una volta nei vari attacchi [all’interno del Labour, ndt.] di quella stagione politica – dall’evento di lancio del Rapporto Chakrabarti sull’antisemitismo, che l’ex deputata laburista ebrea Ruth Smeeth lasciò in lacrime, al commento di Corbyn, secondo cui i sionisti britannici  “non capiscono l’ironia inglese” –, il libro mostra l’acume dell’analisi di Lerman nel collocare quella che è nota come la “crisi dell’antisemitismo laburista” all’interno della più ampia strategia internazionale della destra per ridefinire l’antisemitismo in funzione della propria agenda politica piuttosto che lanciarsi in una nuova controversia autonoma su un terreno già battuto.

Il libro quindi passa a una rivisitazione storica della costruzione del “nuovo antisemitismo” da parte delle organizzazioni sioniste e dei successivi governi israeliani. Ciò è avvenuto in gran parte come risposta al cambiamento del clima politico seguito all’inizio dell’occupazione israeliana nel 1967, e in particolare all’ormai famosa risoluzione 3379 delle Nazioni Unite, approvata nel novembre 1975 e poi revocata, che dichiara che “il sionismo è una forma di razzismo e discriminazione razziale”. Come sostiene Lerman, la mossa simboleggiava una crescente ostilità verso Israele sulla scena internazionale, che costrinse il governo israeliano e gli accademici sionisti a elaborare una nuova strategia per puntellare la legittimità dello Stato.

La loro soluzione fu cercare di dimostrare come la critica a Israele sia, di fatto, un attacco al popolo ebraico in tutto il mondo, sostenendo che lo Stato [di Israele] rappresenta “l’ebreo collettivo” nella famiglia delle Nazioni. I fautori di questo “nuovo antisemitismo”, spiega Lerman, hanno suggerito che [secondo gli oppositori di Israele, ndt] “il diritto di stabilire e conservare uno Stato sovrano e indipendente è prerogativa di tutte le Nazioni, tranne che di quella ebraica”.

Lerman si affretta a sottolineare che l’intervento di Israele nei tentativi precedentemente condotti da organizzazioni ebraiche di tutto il mondo per affrontare l’antisemitismo nei propri Paesi non ha tenuto molto conto della sicurezza degli ebrei che vi vivono; l’esempio di Israele che vende armi alla giunta militare argentina che ha fatto sparire 20.000 dissidenti politici – 2.000 dei quali ebrei – tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 chiarisce bene questo punto.

Sancire che la critica a Israele è antisemitismo

In questo contesto Lerman esamina lo sviluppo della miriade di organizzazioni, istituzioni e organizzazioni no-profit dedicate all’identificazione e alla risposta all’antisemitismo contemporaneo che hanno adottato la premessa del “nuovo antisemitismo” e l’hanno incorporata nella loro difesa [degli ebrei, ndt.] e nei loro sforzi educativi. Questi organismi, sostiene, hanno compiuto un notevole sforzo, spesso in collaborazione con il governo israeliano o istituzioni affiliate, per ridefinire il modo in cui il fanatismo antiebraico è inteso a livello politico e socioculturale, lavorando per sancire fermamente che la critica a Israele o al sionismo è la versione moderna di un odio classico.

Questo era e continua ad essere chiaramente un progetto internazionale: gruppi come l’Anti-Defamation League e l’American Jewish Committee negli Stati Uniti, il World Jewish Congress (precedentemente con sede a Ginevra, ora a New York) e il Community Security Trust nel Regno Unito hanno convogliato e sviluppato risorse e analisi dell’antisemitismo che hanno spinto per il riconoscimento del “nuovo antisemitismo”. Altre organizzazioni, come il Britain Israel Communications and Research Center e il Canadian Institute for the Study of Antisemitism, sono state istituite sulla scia della Seconda Intifada e, secondo Lerman, si sono “concentrate su ‘nuovo antisemitismo’ e ‘antisionismo antisemitico.'”

Sebbene sia importante comprendere la natura interconnessa di questi problemi, Lerman entra nel merito con una quantità estremamente densa di informazioni sulle discussioni tra i vari gruppi ebraici storici, il che rischia di enfatizzare eccessivamente la rilevanza di dibattiti che potrebbero non aver avuto un impatto oltre la ristretta cerchia della politica o del discorso intracomunitario. Si potrebbe anche sostenere che a volte Lerman insiste troppo sull’idea che le organizzazioni ebraiche britanniche abbiano scarso interesse per il benessere e la sicurezza delle comunità che servono, e siano puramente motivate dal loro rapporto con Israele. È forse più giusto suggerire che il loro desiderio di sostenere Israele e il sionismo come pilastro cruciale dell’identità ebraico-britannica abbia avuto la priorità rispetto alle minacce materiali contro le comunità che vivono nel Regno Unito.

Tuttavia il livello di approfondimento di questa sezione del libro mette in evidenza gli ampi sforzi delle istituzioni accademiche israeliane e delle istituzioni governative – come il Ministero degli Affari Strategici, recentemente rimesso in funzione, responsabile della campagna internazionale di Israele contro il movimento BDS – per distogliere l’attenzione dall’ antisemitismo che colpisce principalmente le comunità ebraiche al di fuori di Israele e concentrarsi sul presunto pericolo che la delegittimazione di Israele rappresenterebbe per l’ebraismo globale. Lerman non sottovaluta l’impatto di questo sforzo e le considerevoli risorse che Israele vi ha riversato: non solo ha generato confusione nell’opinione pubblica su cosa sia l’antisemitismo, ma è anche servito a restringere la discussione pubblica su come comprenderlo e, cosa più importante, su come affrontarlo quando si presenta.

E’ inquietante l’ipotesi che la lotta contro l’antisemitismo dalla fine del XX secolo fosse invischiata con e subordinata agli interessi del sionismo in modo tale che le interpretazioni contrastanti dell’antisemitismo contrapponessero la sicurezza e il benessere degli ebrei in tutto il mondo alla forza di uno Stato-Nazione. Ma, come mostra Lerman, queste sono le inevitabili conseguenze della politicizzazione della lotta all’antisemitismo.

Abbiamo visto questa competizione manifestarsi in modo più netto dall’inizio del nuovo secolo: dal primo ministro Benjamin Netanyahu, che afferma abitualmente di parlare a nome di tutto il popolo ebraico mentre si allinea con alcuni dei leader più antisemiti del mondo; all’ex primo ministro Naftali Bennett, che sfrutta l’orribile sparatoria nella sinagoga di Pittsburgh per giustificare l’aggressione israeliana contro i palestinesi a Gaza; a Yair Lapid, che critica come antisemita il rapporto, sostenuto da prove inequivocabili, di Amnesty International sull’apartheid israeliano. Interventi come questi da parte dei leader israeliani hanno ulteriormente alimentato la confusione e lo scetticismo sull’antisemitismo come fenomeno reale, distogliendo l’attenzione e le risorse dall’effettivo antisemitismo che si manifesta ovunque. Lerman mostra come, anteponendo gli interessi del suo progetto nazionale agli interessi degli ebrei di tutto il mondo,  i tentativi di Israele di ridefinire l’antisemitismo per adattarlo ai suoi obiettivi politici stiano attivamente rendendo gli ebrei meno sicuri.

IHRA: Il nuovo gold standard sull’antisemitismo

Negli ultimi anni la guerra sulle definizioni di antisemitismo ha portato questo tema al centro del dibattito pubblico. Lo sviluppo della definizione operativa dell’Osservatorio dell’Unione europea sul razzismo e la xenofobia nei primi anni 2000, che in seguito si è trasformata nella definizione operativa dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto] (IHRA), è stato un tentativo di generare una definizione unificante di antisemitismo, ma così facendo ha incluso varie critiche a Israele come esempi di tale sentimento antiebraico.

La definizione dell’IHRA è stata propagandata come il gold standard sull’antisemitismo, consentendo ai suoi sostenitori di screditare e respingere qualsiasi comprensione alternativa di come funziona l’antisemitismo. Il successo del sostegno all’IHRA è evidente nel contesto britannico: quasi tutti i principali partiti politici del Regno Unito l’hanno adottata, insieme a numerosi istituti di istruzione superiore e persino organizzazioni sportive come la Football Association. Eppure la definizione dell’IHRA è stata assente dalle risposte a incidenti antisemiti di alto profilo nella vita pubblica del Regno Unito, come il licenziamento dell’ex accademico dell’Università di Bristol David Miller [sociologo cacciato per aver sostenuto che Israele cerca di imporre la propria volontà al resto del mondo, ndt.]. Con questo in mente Lerman vuole che comprendiamo non solo l’inutilità del tentativo di creare una definizione universalmente accettata di antisemitismo, ma anche che i tentativi dei sostenitori dell’IHRA di espandere la comprensione del razzismo antiebraico per includervi le critiche a Israele o al sionismo in realtà rende gli ebrei più vulnerabili.

Negli ultimi due anni gruppi di studiosi hanno tentato di combattere l’influenza dell’IHRA producendo definizioni alternative di antisemitismo, tra cui la Definizione Nexus e la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo (JDA), che non vedono l’antisionismo come necessariamente equivalente all’antisemitismo. Per Lerman, tuttavia, queste non sono riuscite a rappresentare una “sfida decisiva” all’IHRA, proprio perché tali iniziative sono viste come un tentativo politico piuttosto che accademico.

In questo contesto, Lerman descrive come parti dell’accademia che si dedicano allo studio degli ebrei, dell’antisemitismo e del razzismo siano state a volte reclute volontarie nella battaglia per difendere il sionismo e proteggere Israele dalle critiche. “Non esento lo studio accademico dell’antisemitismo contemporaneo dall’essere afflitto e dal contribuire allo stato di confusione intorno alla comprensione dell’antisemitismo… e dal ridurre tutte le critiche a Israele all’antisionismo antisemita”, scrive. L’impatto di questo sviluppo è stato duplice.

In primo luogo, è sempre più ovvio, in particolare nel contesto britannico, come il manto della ricerca accademica sia utilizzato per legittimare le motivazioni politiche alla base della definizione dell’IHRA. In effetti, gli sviluppi successivi alla pubblicazione di “Whatever Happened” hanno ulteriormente esemplificato le intenzioni di coloro che insistono, attraverso studi accademici, sul fatto che l’antisionismo è antisemitismo.

L’istituzione, alla fine del 2022, del London Centre for the Study of Contemporary Antisemitism (LCSCA) illustra il punto di vista di Lerman. Sul suo sito web la LCSCA dichiara sua missione “sfidare le basi intellettuali dell’antisemitismo nella vita pubblica e affrontare l’ambiente ostile per gli ebrei nelle università”. Tuttavia uno sguardo più attento rivela ciò che sta alla base di questa missione, poiché l’organizzazione definisce esplicitamente l’antisionismo come “un’ideologia antiebraica”. Oltre a fornire credenziali accademiche per il perseguimento della ridefinizione dell’antisemitismo per includervi la critica a Israele, iniziative come queste promuovono anche l’idea che l’antisemitismo sia un’ideologia radicata nella politica di sinistra (molti degli oratori invitati all’evento di lancio dell’LCSCA, che è stato rinviato in seguito alla morte della regina Elisabetta II, erano accaniti critici del partito laburista di Corbyn).

Questi sforzi ad ampio raggio per politicizzare la lotta all’antisemitismo nel discorso pubblico britannico hanno avuto conseguenze significative. Lerman si concentra sul trattamento degli ebrei di sinistra nel partito laburista – alcuni dei quali sono stati espulsi per il loro sostegno a figure laburiste accusate di antisemitismo – da quando Keir Starmer ha sostituito Corbyn, e li cita come i principali obiettivi di questa strategia nel Regno Unito. Ma questi sforzi vanno oltre le fazioni del Labour. Stimati studiosi dell’antisemitismo che non aderiscono alla politica del “nuovo antisemitismo”, come il professor David Feldman, direttore del Birkbeck Institute for the Study of Antisemitism di Londra, sono stati ampiamente attaccati dall’establishment ebraico-britannico per aver criticato la definizione dell’IHRA e la strategia che la guida e sottolineato come pregiudichi la nostra comprensione e capacità di affrontare l’antisemitismo. (Feldman è uno dei firmatari della JDA.)

Allo stesso modo, i sostenitori della definizione dell’IHRA hanno preso di mira gli accademici il cui lavoro riguarda la Palestina, tentando di restringere ulteriormente i parametri del legittimo discorso accademico. Alla fine del 2021, Somdeep Sen, autore di diversi libri sulla politica palestinese, si è ritirato da un seminario all’Università di Glasgow dato che gli era stato ordinato di divulgare in anticipo il materiale delle sue lezioni ed era stato ammonito di non violare le leggi nazionali antiterrorismo dopo che l’Associazione Ebraica dell’università aveva espresso preoccupazione per il suo invito. E l’anno scorso, l’accademica palestinese residente nel Regno Unito Shahd Abusalama è stata sospesa dalla sua posizione di docente presso la Sheffield Hallam University dopo che sono emersi post sui social media in cui difendeva uno studente che aveva fatto un cartello con scritto “Ferma l’Olocausto palestinese” – il che, secondo il suo datore di lavoro, violava l’IHRA.

Come attesta Lerman, questa repressione dei discorsi critici nei confronti di Israele nel mondo accademico sono possibili grazie all’ambiguità della definizione dell’IHRA sull’identificazione dell’antisemitismo, che alla fine crea un effetto intimidatorio. In effetti l’ambiguità è il punto che fa leva sul desiderio delle persone più ragionevoli di non essere percepite come antisemite. Questa indeterminatezza è ciò che rende la definizione dell’IHRA così efficace non solo nel generare confusione su cosa sia l’antisemitismo, ma anche nel deviare il discorso dal danno che Israele perpetra quotidianamente contro i palestinesi. La decisione del Tower Hamlets Council [consiglio distrettuale di quartiere, ndt.] di Londra di cancellare “The Great Bike Ride for Palestine” nel 2019 per paura di essere considerato antisemita ne è un esempio.

Il secondo impatto che Lerman identifica sottolinea ulteriormente come la politicizzazione della lotta all’antisemitismo diminuisca e cancelli le esperienze vissute di molti ebrei, compresi quelli che hanno effettivamente sperimentato l’antisemitismo. Espandere la definizione di ciò che costituisce l’antisemitismo rischia di indebolirla, rendendo in ultima analisi inutili questi tentativi. Citando il filosofo ebreo britannico Brian Klug, Lerman sostiene: “Se tutto è antisemitismo, allora niente è antisemitismo”.

Lerman dà il meglio di sé nel capitolo sul mito dell'”ebreo collettivo”, che analizza come il tentativo di ritrarre Israele come l’ebreo nella famiglia delle Nazioni abbia alla fine minato la lotta per smantellare l’attuale antisemitismo. Sostiene che questa distorsione dell’antisemitismo per consentire a Israele di agire impunemente è avvenuta non solo (e in modo più pertinente) a scapito dei diritti umani e delle libertà dei palestinesi, ma anche  della sicurezza e del benessere del popolo ebraico in tutto il mondo.

Le affermazioni di Lerman sono viscerali e piuttosto caustiche. Dissezionare questo processo alla fine mette a nudo l’assurdità quasi comica dell’attuale clima politico, e come la cinica strumentalizzazione dell’antisemitismo da parte di Israele e della sua industria dell’hasbara [gli sforzi di pubbliche relazioni per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] significhi che la sicurezza ebraica è passata in secondo piano rispetto al desiderio di affermare un progetto di supremazia etnica tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Forse il punto più prezioso di questo libro per gli attivisti progressisti è lo studio di come il nazionalismo ci renda tutti meno sicuri, sostenendo con vigore l’importanza di proteggere i valori universali e di incrementare la solidarietà collettiva di fronte all’eccezionalismo e all’ipernazionalismo

Respingere la definizione di “nuovo antisemitismo”

Il problema che Lerman identifica in “Whatever Happened” è enorme nella misura in cui può sembrare insormontabile. La diffusione del concetto di “nuovo antisemitismo” è sofisticata e dotata di adeguate risorse. È comprensibile che quando si tratta di tentare di sfidare l’identificazione tra Israele ed ebrei – e tra antisemitismo e antisionismo – Lerman sia deluso, come quando descrive gli accenni di resistenza ebraica dopo l’Operazione Piombo Fuso, l’attacco di Israele a Gaza nel 2008 -2009, come “di breve durata”. Sebbene Lerman comprenda l’urgenza e la necessità di respingere queste tendenze, rimane chiaramente scettico sulla nostra capacità collettiva di farlo. Ma gli ostacoli alle lotte di liberazione sono stati quasi sempre percepiti come insormontabili, finché non lo sono più stati.

Anche se Lerman forse non vede come suo compito offrire una visione di ciò che potrebbe essere, il suo libro è anche un intervento contro lo status quo, benché ridotto rispetto a quanto descrive. Ora c’è un’opportunità per valutare le prove presentate da Lerman e invitare coloro che lavorano per combattere il concetto di “nuovo antisemitismo” a riunirsi e identificare ulteriori punti con cui respingerla.

Quindi il valore fondamentale di questo libro per la comprensione del dibattito politico del nostro tempo è il fatto che dimostra non solo che lo sviluppo del progetto del “nuovo antisemitismo” è essenzialmente una questione politica piuttosto che accademica, ma anche che Israele, i suoi sostenitori e altre figure politiche di destra al fine di servire la propria agenda politica hanno sfruttato i timori delle comunità ebraiche di tutto il mondo per confondere le acque rispetto al compito vitale di smantellare l’antisemitismo. “Whatever Happened” fornisce una storia e un contesto di valore inestimabile per coloro che cercano di dare un senso a come la battaglia sulle definizioni di antisemitismo sia stata al centro di un processo per tentare di legare l’identità ebraica a un progetto nazionalista, sia tra gli ebrei che nella società in generale.

Em Hilton è una scrittrice e attivista ebrea che vive tra Tel Aviv e Londra. È la co-fondatrice di Na’amod: British Jews Against Occupation e fa parte del comitato direttivo del Center for Jewish Non-Violence.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




C’è una ragione per cui la Germania sta prendendo di mira gli intellettuali post-coloniali

Hebh Jamal


12 dicembre 2022 – Al Jazeera

Il postcolonialismo minaccia la percezione che lo Stato tedesco ha della propria identità nazionale e di quella di Israele

All’inizio di quest’anno, documenta quindici, quindicesima edizione della principale mostra di arte contemporanea in Europa che si svolge ogni cinque anni nella città tedesca di Kassel, si è trovata al centro di un acceso dibattito sui presunti legami tra l’antisemitismo e il pensiero postcoloniale.

Tutto ciò è iniziato con Ruangrupa, il collettivo di artisti con sede a Giacarta che ha curato l’edizione di quest’anno e che ha scelto di centrare la mostra, della durata di 100 giorni, su artisti del Sud globale e sul loro lavoro che chiede uguaglianza, condivisione, sostenibilità e, cosa fondamentale, liberazione dall’oppressione colonialista.

L’esposizione non era affatto concentrata sulla Palestina, con pochi collettivi palestinesi invitati a presenziare alla mostra, che dura vari mesi. Tuttavia la loro partecipazione, insieme all’appoggio reso pubblico di Ruangrupa al movimento palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), è bastata ai media tedeschi per etichettare l’esposizione di quest’anno come “antisemita”. Numerosi giornalisti hanno contestualizzato le accuse di antisemitismo contro documenta quindici anche come un processo al postcolonialismo.

Per esempio, commentando la cosiddetta “débacle” di documenta, un giornalista tedesco ha scritto che “finché lo Stato di Israele è un problema per il postcolonialismo, il postcolonialismo deve rimanere un problema per l’Occidente.” Un altro ha sostenuto che, poiché il libro dell’intellettuale palestinese Edward Said Orientalismo può essere considerato uno dei testi fondativi del pensiero postcoloniale, l’argomento “presta il fianco al tradizionale e antiisraeliano antisemitismo e nasce con un’ossessione nei confronti di Israele.”

Il dibattito sul presunto antisemitismo del pensiero postcoloniale non è rimasto circoscritto solo alla sfera dei media. A luglio, durante un incontro della commissione Cultura e Media del Bundestag [il parlamento tedesco, ndt.] sulle accuse di antisemitismo relative a questa edizione di Documenta, il partito di destra AfD ha chiesto in nome della lotta contro l’antisemitismo che nessun finanziamento federale venisse concesso a progetti di ricerca in settori culturali o educativi “che cerchino di diffondere contenuti ideologici postcoloniali”. E in ottobre l’Università della Ruhr a Bochum ha ospitato una conferenza intitolata “Antisemitismo postcoloniale tra Desmond Tutu e Documenta”, che, secondo la descrizione ufficiale, intendeva “comprendere le peculiarità dell’antisemitismo postcoloniale e le sue argomentazioni utilizzando come esempio la figura di Desmond Tutu.”

Come dimostra la menzione in questo contesto del famoso attivista per la giustizia razziale e premio Nobel per la Pace arcivescovo Desmond Tutu, in Germania il dibattito sul cosiddetto “antisemitismo postcoloniale” non è iniziato con documenta quindici.

In effetti nel 2020 lo studioso camerunense Achille Mbembe, considerato all’avanguardia nel campo del pensiero postcoloniale, era già stato accusato di “relativizzare l’Olocausto” e etichettato come antisemita dai media tedeschi per aver definito Israele uno Stato di apartheid e aver appoggiato il movimento BDS.

Tali accuse nei confronti di pensatori, artisti e attivisti postcoloniali che criticano Israele sono una diretta conseguenza dell’impegno dello Stato e del sistema politico tedeschi ad appoggiare incondizionatamente lo Stato di Israele come un modo per fare ammenda dei passati crimini della Germania contro il popolo ebraico.

Dalla caduta del Terzo Reich e dalla formazione di Israele la Germania ha concepito la difesa di Israele e dei suoi interessi come parte della propria ragion di stato. E oggi non si tratta solo di fornire appoggio politico, finanziario e morale a Israele, ma anche di accettare come un dato di fatto le affermazioni di Israele secondo cui qualunque critica allo Stato ebraico, o azione a sostegno della lotta per la liberazione dei palestinesi, sia intrinsecamente e indiscutibilmente antisemita.

Per esempio nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione che etichetta il movimento BDS come entità che utilizza tattiche antisemite per raggiungere i suoi obiettivi politici e ha chiesto al governo di “non fornire spazi e strutture gestite dal Bundestag a organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto di Israele ad esistere.”

In effetti la Germania è riuscita a rendere quanto meno tabù, se non criminale, qualsivoglia appoggio alla liberazione dei palestinesi e discorso contro l’occupazione israeliana. Quanti sono fortemente determinati a mettere a tacere le voci palestinesi in nome della “lotta contro l’antisemitismo” hanno vietato proteste da parte dei palestinesi, annullato eventi palestinesi, etichettato come razzisti intellettuali palestinesi e cacciato giornalisti palestinesi dal loro lavoro.

Le aggressioni contro gli studi postcoloniali sono state per varie ragioni il passo successivo naturale di questa falsa lotta contro l’antisemitismo.

Il postcolonialismo, lo studio critico accademico dell’eredità culturale, politica ed economica del colonialismo, minaccia la percezione dello Stato tedesco dell’identità nazionale propria e di Israele in vari modi.

Primo, esso interpreta i genocidi come intrinsecamente connessi al colonialismo, e quindi vede l’Olocausto non come un’eccezione nella storia, un crimine diverso da ogni altro, ma solo come un altro sottoprodotto orripilante del colonialismo tedesco.

Quarant’anni prima dell’Olocausto i tedeschi furono responsabili di un altro genocidio, contro gli Herero e i Nama,” ha spiegato nel 2017 lo storico Jürgen Zimmerer. “Nell’Africa del Sudovest tedesca nacque uno Stato razzista, c’era un’ideologia, c’erano leggi, c’erano strutture militari e burocratiche adeguate e finalizzate a questo obiettivo. Trovo totalmente inverosimile non vedere alcun rapporto con i crimini del ‘Terzo Reich’ avvenuti in seguito.”

Questa idea secondo cui le precedenti atrocità colonialiste in Africa prepararono la strada all’Olocausto evidenzia l’indifferenza della Germania riguardo ai suoi crimini al di fuori dell’Europa e richiede una resa dei conti che con cui lo Stato tedesco non sembra affatto pronto a fare i conti.

Secondo, il postcolonialismo svela somiglianze tra soggetti statali violenti, e quindi evidenzia alcune scomode verità su Israele che la Germania preferirebbe piuttosto non affrontare.

Come hanno evidenziato molti studiosi del colonialismo, subendo per questo una marea di accuse di antisemitismo, Israele ha molto in comune con le violente, oppressive e razziste colonie di insediamento del passato: separa con violenza dai suoi coloni la popolazione indigena della terra che occupa, condiziona la cittadinanza e i diritti fondamentali allo status di coloni, impone blocchi per soffocare ogni resistenza al suo potere e sostiene di fare tutto ciò per controllare la violenza e la barbarie della popolazione locale.

Negli ultimi anni le critiche postcoloniali a Israele hanno conquistato una nuova attenzione globale in seguito alle proteste internazionali di Black Lives Matter [movimento antirazzista nato negli USA contro la violenza della polizia razzista nei confronti degli afro-americani, ndt.] che ha puntato i riflettori non solo sul razzismo istituzionalizzato nell’Occidente, ma anche sulle lotte anticoloniali in corso in tutto il mondo.

In Germania, dove difendere ad ogni costo Israele è visto come un dovere nazionale, tutto ciò ha portato a capillari tentativi di demonizzare le voci a favore dei palestinesi e a mettere in secondo piano i tentativi di una vera decolonizzazione. Documenta quindici è stata la più recente, ma sicuramente non l’ultima, vittima di questa sinistra campagna di diffamazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono solo dell’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Hebh Jamal


Hebh Jamal è universalmente considerata una oppositrice della disuguaglianza educativa, dell’islamofobia e dell’occupazione della Palestina. Si è messa in evidenza su molte tribune mediatiche come il NYTimes, TeenVogue, Netflix documentary Teach Us All e molte altre. Attualmente Hebh frequenta l’ultimo anno al City College di NY. Lavora al NYU Metro Center [Centro Metropolitano per la Ricerca sull’Uguaglianza e la Trasformazione delle Scuole] come collaboratrice nelle politiche per i giovani in quanto continua a lottare contro la segregazione nelle scuole. È stata anche presidentessa degli Studenti per la Giustizia in Palestina del college.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il fardello che i progressisti occidentali impongono solo ai palestinesi

Joseph Massad

9 novembre 2022 – The Electronic Intifada

Fin dall’inizio della colonizzazione sionista ebraica del loro Paese negli anni ’80 dell’800, i palestinesi hanno affrontato la richiesta che si facessero carico di un doppio fardello: lottare contro il colonialismo razzista sionista dovendo nel contempo difendere i loro colonizzatori contro il razzismo antisemita dei cristiani europei.

Nessun altro popolo colonizzato è stato obbligato a farsi carico di un tale duplice fardello. Neppure alle popolazioni native africane della Liberia venne chiesto di difendere i loro colonizzatori afro-americani razzisti, che li disprezzavano, dal razzismo europeo e statunitense contro i neri che prendeva di mira i colonialisti neri. Né venne mai chiesto ai sudafricani neri di difendere i loro oppressori afrikaner [coloni calvinisti olandesi, tedeschi e francesi, ndt.] contro i britannici che li opprimevano, rinchiudendoli persino in campi di concentramento.

E nessuno ha mai chiesto che la popolazione indigena difendesse i suoi colonizzatori bianchi contro le persecuzioni religiose di cui erano vittime in Europa, che secondo loro li avevano obbligati a colonizzare il Nord America.

Quando queste diverse popolazioni colonizzate attaccarono l’oppressione dei loro colonizzatori, i loro crimini suprematisti e lo sfruttamento, nessuno sembrava preoccupato che tali critiche sarebbero state utilizzate dai precedenti oppressori dei coloni contro di essi, o che il colonizzato non avesse diritto di condannare i propri oppressori.

Al contrario, la richiesta generale imposta da molti europei cristiani ed ebrei e da molti ebrei europei colonialisti ai palestinesi è che essi avrebbero dovuto cedere volontariamente la propria patria agli ebrei europei e manifestare simpatia per la sofferenza causata agli ebrei europei dall’antisemitismo europeo.

In mancanza di ciò, gli europei cristiani e gli ebrei europei colonizzatori sostengono che la lotta anticoloniale dei palestinesi contro la colonizzazione ebraica è “antisemita”, intendendo con ciò che i palestinesi non si oppongono al principio della colonizzazione della loro patria, ma piuttosto che si oppongono solo al diritto degli ebrei, ma non di altri popoli, a colonizzarla.

Secondo questo ragionamento, se fossero stati cristiani, musulmani o induisti a colonizzare la Palestina i palestinesi avrebbero ceduto volontariamente la loro patria, ma rifiutano di fare altrettanto nel caso degli ebrei semplicemente perché sono antisemiti.

Simpatia condizionata

Negli ultimi 50 anni progressisti occidentali cristiani ed ebrei che simpatizzano con i palestinesi come vittime dell’oppressione israeliana, ma non come resistenti anticolonialisti, insistono sul fatto che ogni critica palestinese a Israele debba essere accuratamente calibrata per il timore che venga percepita dagli europei come antisemitismo.

Tuttavia durante lo stesso periodo gli israeliani e chi li appoggia in Occidente hanno scatenato una massiccia campagna sostenendo che ogni critica al sionismo e a Israele è “antisemita”, culminata nella recente adozione da parte di Paesi europei e degli USA della definizione di antisemitismo ideata dall’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto], con sede in Europa.

Queste accuse sono centrate su una serie di argomentazioni sospette che molti sostenitori occidentali dei palestinesi-come-vittime-ma non-come-resistenti vogliono impedire ai palestinesi di fare.

I sionisti e i progressisti occidentali sostengono che, se i palestinesi attaccano il diritto degli ebrei a colonizzare le loro terre, ciò sarebbe antisemita perché, negando agli ebrei europei il diritto di essere colonialisti, i palestinesi negherebbero il loro presunto “diritto” all’autodeterminazione. O peggio, che i palestinesi negherebbero il legame razziale che i protestanti europei evocarono fin dal XVI secolo, cioè che gli ebrei europei sarebbero fantasiosamente in qualche modo i discendenti degli antichi ebrei della Palestina (una leggenda che a volte sostengono anche gli ebrei europei) e non europei convertitisi in seguito all’ebraismo!

In base a questa logica, i sionisti sostengono che i palestinesi di fatto sono i colonizzatori della Palestina, mentre i colonialisti ebrei europei sarebbero i veri nativi della Palestina che starebbero tornando alla patria dei loro presunti antenati.

All’inizio del XIX secolo molti europei filoellenici si consideravano i discendenti degli antichi greci e vedevano i greci nativi come “slavi cristianizzati” che erano migrati a sud verso l’antica Grecia e più simili ai turchi.

Ma, dato che alla fine nessun progetto di colonialismo d’insediamento venne concepito per la Grecia, la questione venne lasciata cadere a favore dell’“indipendenza” greca dagli ottomani e dell’appropriazione della Grecia come parte dell’Europa invece che del Mediterraneo orientale.

I sionisti non sono mai stati dei pensatori originali, in quanto la maggior parte delle loro argomentazioni è derivata da altri colonialisti europei. Furono i francesi, e poi gli italiani, che sostennero che la loro colonizzazione del Nord Africa non era nientemeno che il ritorno alle antiche terre dell’impero romano e che i nativi arabi erano i veri colonialisti!

In effetti illustri razzisti occidentali come Albert Camus sostennero che gli arabi algerini erano colonialisti stranieri affermando che “i francesi d’Algeria erano anche nativi, nel vero senso della parola.”

L’antisemitismo europeo proiettato sui palestinesi

Dunque, per timore di essere accusati di antisemitismo, i palestinesi dovrebbero accettare l’invenzione sionista secondo cui gli ebrei europei sarebbero la popolazione indigena della Palestina e che loro sono i veri colonialisti? Quando i palestinesi affermano che i media dell’Occidente e degli USA sono sempre stati filoisraeliani e razzisti contro i palestinesi, i loro sostenitori occidentali temono che ciò venga percepito come antisemita perché gli antisemiti europei e statunitensi storicamente accusano gli ebrei europei di controllare i mezzi di comunicazione occidentali.

Tuttavia l’affermazione dei palestinesi non è diversa da quella degli algerini, cioè che i mezzi di comunicazione occidentali appoggiarono sempre il colonialismo francese in Algeria, o da quella dei nativi americani, secondo cui essi appoggiano i diritti dei colonizzatori bianchi negli Stati Uniti.

Che i media occidentali, che sono i mezzi di comunicazione dei colonizzatori e dei colonialisti, appoggino il colonialismo testimonia pregiudizi strutturali, a volte persino pregiudizi complottisti, contro le popolazioni native. Ciò non significa che gli ebrei controllino i media occidentali come sostengono gli antisemiti, ma che lo fanno i colonialisti europei, cristiani ed ebrei, e i sostenitori del colonialismo.

Quindi i palestinesi non dovrebbero attaccare i pregiudizi endemici filoisraeliani e antipalestinesi dei media occidentali per timore di venire “scambiati” per antisemiti dai progressisti?

Storicamente i palestinesi hanno anche identificato il grande potere finanziario e politico mobilitato dal sionismo fin dagli anni ’80 dell’800 per realizzare il progetto di colonizzazione della Palestina, a cominciare dai Rothschild che finanziarono le prime colonie di ebrei europei in Palestina.

Di nuovo, quando i palestinesi parlano dei ricchi ebrei europei e americani, uomini d’affari e banchieri, che appoggiano il sionismo e Israele, concepiscono progetti per espellere i palestinesi e promettono di finanziare la loro espulsione, come propose nel 1934 il ricco ebreo americano sionista Edward A. Norman, o di rubare le loro terre, i progressisti cristiani ed ebrei occidentali sussultano perché queste argomentazioni ricordano le fandonie antisemite dei cristiani europei secondo cui tutti gli ebrei sono ricchi e controllano tutto il sistema finanziario dell’Occidente.

Ma il fatto che i ricchi ebrei filosionisti appoggino Israele e finanzino i colonizzatori non è diverso dagli investimenti di imprese e Stati europei cristiani che hanno finanziato la colonizzazione di Algeria, Sudafrica, Kenya, Nuova Zelanda e persino Israele.

Smascherare i ricchi ebrei europei e statunitensi che finanziano il sionismo corrisponde al loro fondamentale ruolo e influenza coloniali nel distruggere la società palestinese e nell’oppressione dei palestinesi.

Ciò non implica, come gli antisemiti vorrebbero farci credere, che tutti gli ebrei siano banchieri che controllano le vite degli europei cristiani, o che tutti gli ebrei siano ricchi, cosa che non sono – anche se e quando, secondo molti, fin dalla Seconda Guerra Mondiale la maggioranza degli ebrei europei e statunitensi ha appoggiato e continua a sostenere la colonizzazione ebraica in Palestina, proprio come la maggioranza dei cristiani francesi o dei britannici appoggiarono la colonizzazione in Africa.

Quindi, per timore di essere scambiati per antisemiti, i palestinesi dovrebbero tacere riguardo all’influenza dei sionisti europei e statunitensi che contribuiscono alla loro oppressione?

Incontro coloniale

Non essendo europei, fin dagli anni ’80 dell’800 i palestinesi hanno incontrato gli ebrei per lo più come coloni armati, intenzionati a rubare la loro terra e a espellerli dal loro Paese.

Mentre è vero che alcuni dirigenti politici palestinesi cercarono di utilizzare la retorica antisemita europea contro i colonizzatori ebrei europei per difendersi contro la colonizzazione sionista, la maggioranza dei leader palestinesi spesso ha fatto l’esatto contrario e ha concordato con parecchie affermazioni sioniste, colonialiste e razziste, come fecero, oltre un secolo fa, lo scrittore e intellettuale Yusuf al-Khalidi, Yasser Arafat nel 2002 e Mahmoud Abbas continua a fare oggi.

Al-Khalidi, vissuto a Vienna a cavallo tra ‘800 e ‘900, contestò la scelta della Palestina come luogo per un futuro Stato per gli ebrei europei, in quanto era la patria dei nativi arabo-palestinesi.

Egli rispose alle affermazioni di Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista, a cui nel 1899 inviò una lettera di questo tenore: “In base a quale diritto dunque gli ebrei la rivendicano per sé?”

Stranamente, accettando le rivendicazioni razziali e antisemite dei sionisti secondo cui gli ebrei europei erano i discendenti biologici diretti degli antichi ebrei, al-Khalidi, molto probabilmente a causa dell’educazione colonialista europea che gli era stata impartita, affermò che “il sionismo, teoricamente, è un’idea completamente naturale e giusta come soluzione della questione ebraica,” e di conseguenza “chi può opporsi ai diritti degli ebrei sulla Palestina? Buon dio, storicamente è davvero il vostro Paese.”

Tuttavia, nell’interesse della pace, al-Khalidi propose che il movimento sionista cercasse altri “Paesi disabitati in cui milioni di poveri ebrei forse potrebbero essere felici e avere una vita sicura come popolo.”

Ciò forse sarebbe la soluzione migliore, più razionale per la questione ebraica,” affermò.

Ma, nel nome di dio, lasciate in pace la Palestina.”

Dopo al-Khalidi molti altri palestinesi continuarono a cadere in queste false argomentazioni sioniste.

I frutti del razzismo antipalestinese

L’ironia risiede nel fatto che i critici progressisti occidentali dei palestinesi e quanti sostengono i palestinesi-come-vittime raramente chiedono conto ai sionisti e ai filosionisti dei loro interminabili accessi di razzismo contro i palestinesi e gli altri arabi e dell’utilizzo del tradizionale razzismo antiarabo europeo e statunitense che ha portato all’uccisione di milioni di arabi dall’Algeria alla Libia da parte degli europei durante le lotte anticoloniali, e dal 1991 in Iraq da parte degli americani.

Per esempio, nel suo lavoro pubblicato il giornalista ebreo americano Jeffrey Goldberg rivela di essere stato un colono in Israele, di essere entrato nell’esercito israeliano e di averci prestato servizio come guardia carceraria di palestinesi imprigionati per essersi opposti alla colonizzazione ebraica (è stato anche sostenitore dell’invasione statunitense in Iraq).

Eppure, nonostante le sue deplorevoli opinioni sui palestinesi e sugli iracheni, per non parlare del suo ruolo diretto in azioni di persecuzione come guardia carceraria, Goldberg è celebrato, rispettato e gli vengono dati lavori editoriali nelle più prestigiose riviste progressiste degli USA, oltre che premi giornalistici.

Al contrario, se si scopre che, nella sua immatura e male informata gioventù, una giornalista palestinese [si riferisce alla vicenda di Shatha Hammad, licenziata dal sito di notizie Middle East Eye, ndt.], non nel suo lavoro pubblicato, ma su Facebook, ha manifestato abominevoli opinioni a favore dell’antisemitismo europeo, opinioni che ha palesemente equivocato come parte della legittima espressione di rabbia contro i suoi oppressori, viene licenziata dal suo lavoro persino da un mezzo di informazione filopalestinese.

Oltretutto, per la soddisfazione dei progressisti occidentali, le è stato revocato un premio giornalistico benché l’errore di gioventù non sia stato ripetuto durante la sua carriera giornalistica.

Invece l’ex-guardia carceraria israeliana continua con i suoi discorsi giornalistici antiarabi e antipalestinesi e con i suoi continui attacchi contro quei palestinesi che difendono il proprio popolo dal colonialismo come antisemiti.

Un altro importante giornalista ebreo americano, Ben Shapiro, ha invocato l’espulsione di massa dei palestinesi e appoggiato l’uccisione di civili palestinesi e afghani.

Una volta Shapiro ha dichiarato che “gli israeliani amano costruire”, mentre “gli arabi amano sparare merda e vivere in mezzo a fogne a cielo aperto.”

Eppure questi e altri commenti razzisti non impediscono al New York Times di celebrare Shapiro come “gladiatore provocatorio” e “pugile professionista”, notando nel contempo che egli è stato bersaglio di antisemitismo.

Ovviamente giornalisti americani ed europei cristiani bianchi come John F. Burns del New York Times, che appoggiano e informano entusiasticamente sulle invasioni USA all’estero, sono stati e continuano a essere esaltati.

Vengono puniti anche giornalisti ebrei

Nel contempo giornalisti ebrei che criticano Israele vengono licenziati da mezzi di comunicazione progressisti dell’Occidente, com’è successo a Emily Wilder, che nel 2021 è stata cacciata dall’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.], e più di recente Katie Halper, licenziata da The Hill [giornale statunitense di politica e di tendenza liberal, ndt.].

Nel caso di Wilder, secondo quanto riferito dai media, il suo “attivismo nel college è stato il vero problema” che ha portato al suo licenziamento. Si confronti questo caso con l’esaltazione da parte dei principali media occidentali del racconto della guardia carceraria israeliana del suo incontro con i palestinesi nelle prigioni israeliane come motivo di promozione, non di ostracismo o licenziamento!

Quello che i progressisti europei e americani vogliono è che i palestinesi rimangano in silenzio riguardo ai meccanismi internazionali che appoggiano e difendono la colonia di insediamento ebraica; che i palestinesi si oppongano solamente all’oppressione a cui sono sottoposti dai loro colonizzatori ebrei, ma non al diritto di questi ultimi a colonizzarli; che i palestinesi difendano i loro colonizzatori ebrei contro gli antisemiti europei; che i palestinesi si schierino in solidarietà con i colonizzatori-come-vittime mentre vengono repressi sotto gli stivali militari dei colonizzatori.

Nel contempo praticamente nessuna collaborazione attiva con gli israeliani nella loro oppressione dei palestinesi, per non parlare delle abituali manifestazioni di razzismo contro i palestinesi da parte di israeliani e filoisraeliani, merita alcuna censura quando espressa da israeliani o dai loro sostenitori in Occidente.

Quando la maggioranza della classe politica e intellettuale palestinese presta ascolto ai progressisti occidentali perché difendano gli ebrei dall’antisemitismo, come ha fatto l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina onorando le vittime ebree dell’Olocausto fin dagli anni ’70, né Israele né i suoi sostenitori si dicono soddisfatti.

Il loro obiettivo non è insegnare ai palestinesi la storia degli ebrei europei come vittime di oppressione, ma piuttosto insegnargli perché gli ebrei europei come oppressori hanno avuto e hanno il diritto di colonizzarli e portagli via la patria.

Joseph Massad è docente di politica e storia intellettuale araba contemporanea alla Columbia University a New York. Il suo libro più recente è Islam in Liberalism [L’Islam nel liberalismo] (University of Chicago Press, 2015).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




128 studiosi avvertono: “Non incastrate le Nazioni Unite in una definizione di antisemitismo vaga e utilizzata come arma”

3 novembre 2022Euobserver

In qualità di studiosi specializzati in antisemitismo, studi sull’olocausto, storia ebraica moderna e campi correlati, assistiamo con crescente preoccupazione a sforzi motivati ​​politicamente per strumentalizzare la lotta contro l’antisemitismo all’interno e contro le Nazioni Unite.

L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Gilad Erdan ha guidato questi sforzi. Nei suoi persistenti tentativi di indebolire i palestinesi e di proteggere il governo israeliano dalle critiche internazionali Erdan è arrivato al punto di denunciare l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA) e la Corte penale internazionale (ICC) come “antisemite”.

Al di là di tale diffamazione, il Sig. Erdan ora cerca di cambiare radicalmente le regole del gioco spingendo l’ONU ad adottare la “Definizione operativa di antisemitismo” dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA WDA).

Troviamo questa definizione profondamente problematica. Vaga e incoerente, l’IHRA WDA non soddisfa i requisiti di base di una buona definizione.

Piuttosto che garantire una maggiore chiarezza, l’IHRA WDA ha generato confusione su ciò che costituisce antisemitismo.

Di conseguenza, l’IHRA WDA è diventata molto controversa e contestata, anche tra gli ebrei. Le sue debolezze hanno spinto 350 eminenti studiosi di antisemitismo, studi sull’Olocausto e campi correlati ad approvare un’altra definizione più solida, la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo.

L’effetto divisivo e polarizzante dell’IHRA WDA deriva da undici “esempi contemporanei di antisemitismo” ad essa allegati, sette dei quali riguardano Israele. Ampie prove mostrano che questi esempi vengono utilizzati come armi per screditare e mettere a tacere come antisemitismo le legittime critiche alle politiche di Israele.

Tra coloro che denunciano tale uso improprio c’è Kenneth Stern, l’autore principale dell’IHRA WDA. Più recentemente, Antony Lerman, ex capo dell’Institute of Jewish Affairs del World Jewish Congress, ha aspramente criticato l’IHRA WDA per diversi difetti, inclusa la sua attenzione nei riguardi del cosiddetto “nuovo antisemitismo” legato a Israele, a scapito dell’attenzione verso forme virulente di antisemitismo ora in aumento.

Uno degli esempi dell’IHRA WDA dice: “Applicare doppi standard richiedendo a [Israele] un comportamento non previsto o richiesto da parte di nessun’altra nazione democratica”. Questo esempio è particolarmente soggetto ad abusi politici in seno alle Nazioni Unite, poiché può essere facilmente invocato per etichettare come antisemita qualsiasi risoluzione delle Nazioni Unite che critichi Israele.

Cerchiamo di essere chiari: accogliamo con tutto il cuore l’impegno delle Nazioni Unite a combattere l’antisemitismo e lodiamo l’ONU per i suoi fondamentali sforzi in questa direzione. Ciò a cui ci opponiamo e contro cui mettiamo fortemente in guardia è che le Nazioni Unite possano mettere a repentaglio questa lotta essenziale e danneggiare la propria missione universale di promuovere i diritti umani approvando una definizione che costituisce uno strumento politico per scoraggiare la libertà di parola e per proteggere il governo israeliano dalla responsabilità delle sue azioni.

Sappiamo che l’IHRA WDA è stata adottata da più governi, principalmente in Europa e negli Stati Uniti. Questo è di per sé problematico. Tuttavia, se le Nazioni Unite approvassero l’IHRA WDA, il danno sarebbe esponenzialmente maggiore.

Il governo israeliano sarebbe incoraggiato e abilitato a intensificare la sua campagna contro gli organismi e gli esperti delle Nazioni Unite, usando come un’arma e sfruttando l’IHRA WDA come standard delle Nazioni Unite per “stabilire” che l’UNRWA, la CPI, il Consiglio per i diritti umani e organismi come la Commissione d’inchiesta sono antisemiti.

Inoltre i difensori dei diritti umani e le organizzazioni che contestano le violazioni israeliane sarebbero completamente esposti a campagne diffamatorie basate su accuse in malafede di antisemitismo, danneggiando la loro libertà di espressione e altri diritti fondamentali protetti e promossi dalle Nazioni Unite.

La missione e il mandato delle Nazioni Unite si basano su un serio dibattito sulle preoccupazioni relative ai diritti umani. L’adozione dell’IHRA WDA trasformerebbe qualsiasi discussione fattuale sulle violazioni e responsabilità israeliane in un aspro dibattito sulla presunzione di antisemitismo

Ciò potrebbe anche indebolire la capacità delle Nazioni Unite di agire come mediatore neutrale in Israele e Palestina. Le debolezze e la strumentalizzazione dell’IHRA WDA hanno implicazioni dirette per la capacità delle Nazioni Unite di combattere l’antisemitismo e tutte le altre forme di razzismo su basi universali. L’alto rappresentante delle Nazioni Unite Miguel Moratinos è stato incaricato dalle Nazioni Unite di sviluppare una “risposta rafforzata a livello di sistema [all’antisemitismo] basata su un approccio ai diritti umani”.

Oltre a contraddire un approccio basato sui diritti umani [universali, ndt], l’IHRA WDA inevitabilmente politicizzerebbe quella risposta e quindi comprometterebbe la capacità delle Nazioni Unite di combattere efficacemente l’antisemitismo.

Invece di identificarsi formalmente con una definizione vaga e divisiva che è stata distorta per proteggere il governo israeliano, l’ONU dovrebbe rafforzare la sua lotta contro l’antisemitismo basandosi sui suoi principi universali sui diritti umani, in conformità con la sua Carta.

Nella ricerca di un orientamento l’ONU dovrebbe essere libera diconsultare una varietà di risorse, inclusa la Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo. Diamo il benvenuto al recente rapporto del Prof. E. Tendayi Achiume, relatore speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di razzismo, in cui “mette in guardia contro la dipendenza dall’IHRA WDA come strumento guida per e presso l’ONU e le sue entità costituenti” e invita “gli Stati membri delle Nazioni Unite e i suoi funzionari [a] rifiutare fermamente e agire in modo responsabile per porre fine alla strumentalizzazione politica della lotta contro l’antisemitismo”.

Esortiamo gli Stati membri delle Nazioni Unite e i suoi funzionari ad agire in base all’avvertimento del Relatore speciale Achiume e a invitare e tenersi pronti a sostenere le Nazioni Unite nei loro passi avanti.

Elenco delle firme [Data la non perfetta corrispondenza tra i titoli accademici italiani e quelli anglosassoni si è preferito lasciare l’elenco in originale, ndt]

Meir Amor, Dr., Department of Sociology and Anthropology (retired), Concordia University, Montreal

Ofer Ashkenazi, Professor, Director The Richard Koebner Minerva Center for German History, The

Hebrew University of Jerusalem

Aleida Assmann, Professor of English Literature and Cultural Theory, Konstanz University

Jan Assmann, Professor, Egyptologist and Religious Studies, University of Heidelberg

Leora Auslander, Arthur and Joann Rasmussen Professor of Western Civilization in the College and

Professor of European Social History, Department of History, University of Chicago

Angelika Bammer, Professor of Comparative Literature, Affiliate Faculty of Jewish Studies, Emory

University

Omer Bartov, Samuel Pisar Professor of Holocaust and Genocide Studies, Department of History,

Faculty Fellow, Watson Institute for International & Public Affairs, Brown University

Moshe Behar, Dr., Arabic & Middle Eastern Studies, School of Arts, Languages & Cultures, The

University of Manchester

Peter Beinart, Professor of Journalism and Political Science, The City University of New York (CUNY);

Editor at large, Jewish Currents

Joel Beinin, Donald J. McLachlan Professor of History and Professor of Middle East History, Emeritus,

Stanford University

Elissa Bemporad, Jerry and William Ungar Chair in East European Jewish History and the Holocaust;

Professor of History, Queens College and The City University of New York (CUNY)

Doris Bergen, Chancellor Rose and Ray Wolfe Professor of Holocaust Studies, Department of History

and Anne Tanenbaum Centre for Jewish Studies, University of Toronto

Werner Bergmann, Professor Emeritus Dr., Sociologist, Center for Research on Antisemitism,

Technische Universität Berlin

Michael Berkowitz, Professor of Modern Jewish History, Department of Hebrew & Jewish Studies,

University College London

Lila Corwin Berman, Murray Friedman Chair of American Jewish History, Temple University

David Biale, Emanuel Ringelblum Distinguished Professor Emeritus, UC Davis

Frank Biess, Professor of Modern European History, University of California-San Diego

Daniel Blatman , Professor Emeritus, Department of Jewish History and Contemporary Jewry, The

Hebrew University of Jerusalem

Donald Bloxham, Richard Pares Professor of History, University of Edinburgh

Daniel Boyarin, Taubman Professor of Talmudic Culture Emeritus, UC Berkeley

Micha Brumlik, Professor Dr., fmr. Director of Fritz Bauer Institut-Geschichte und Wirkung des

Holocaust, Frankfurt am Main

Jose Brunner, Professor Emeritus, Buchmann Faculty of Law and Cohn Institute for the History and

Philosophy of Science, Tel Aviv University

Bryan Cheyette, Professor and Chair in Modern Literature and Culture, University of Reading

Geoffrey Claussen, Associate Professor of Religious Studies, Lori and Eric Sklut Scholar in Jewish

Studies and Chair of the Department of Religious Studies, Elon University

Stephen Clingman, Distinguished University Professor, Department of English, University of

Massachusetts, Amherst

Raya Cohen, Dr., fmr. lecturer Department of Jewish History, Tel Aviv University and Department of

Sociology, University of Naples Federico II

Alon Confino, Pen Tishkach Chair of Holocaust Studies, Professor of History and Jewish Studies,

Director Institute for Holocaust, Genocide, and Memory Studies, University of Massachusetts,

Amherst

Sebastian Conrad, Professor of Global and Postcolonial History, Freie Universität Berlin

Frank Dabba Smith, Rabbi Dr., Leo Baeck College

Sidra DeKoven Ezrahi, Professor Emerita of Comparative Literature, The Hebrew University of

Jerusalem

Hasia R. Diner, Professor Emerita, New York University

Monique Eckmann, Professor Emerita, University of Applied Sciences and Arts, Western Switzerland

(HES-SO), Geneva; fmr. member Swiss delegation to the IHRA (2004-2018)

Vincent Engel, Professor, University of Louvain, UCLouvain

Jennifer Evans, Professor, Department of History, Carleton University; Member College of New

Scholars, Royal Society of Canada

David Feldman, Professor of History, Director of the Birkbeck Institute for the Study of Antisemitism,

University of London

Anna Foa, fmr. Associate Professor, Department of History, Cultures, Religions, Sapienza University

of Rome

Ute Frevert, Director of the Max Planck Institute for Human Development, Berlin

Efrat Gal-Ed, Professor Dr., Institute of Jewish Studies, Heinrich Heine University Düsseldorf

Katharina Galor, Hirschfeld Senior Lecturer in Judaic Studies, Brown University

Alexandra Garbarini, Charles R. Keller Professor of History, Faculty Affiliate in Jewish Studies,

Williams College

Sander Gilman, Distinguished Professor of the Liberal Arts and Sciences Emeritus, Emory University

Shai Ginsburg, Associate Professor, Chair of the Department of Asian and Middle Eastern Studies and

Faculty Member of the Center for Jewish Studies, Duke University

Amos Goldberg, Professor, The Jonah M. Machover Chair in Holocaust Studies, Head of the Avraham

Harman Research Institute of Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Harvey Goldberg, Professor Emeritus, Department of Sociology and Anthropology, The Hebrew

University of Jerusalem

Sylvie-Anne Goldberg, Professor, Jewish Culture and History, Head of Jewish Studies at the Advanced

School of Social Sciences (EHESS), Paris

Svenja Goltermann, Professor Dr., Historisches Seminar, University of Zurich

Dorota Glowacka, Professor, Humanities, University of King’s College, Halifax

Leonard Grob, Professor Emeritus of Philosophy, Fairleigh Dickinson University

Jeffrey Grossman, Associate Professor and Chair Germanic Languages and Literatures, Member

Program in Jewish Studies, University of Virginia

Atina Grossmann, Professor of History, Faculty of Humanities and Social Sciences, The Cooper Union,

New York

Wolf Gruner, Shapell-Guerin Chair in Jewish Studies, Professor of History and Founding Director of

the USC Dornsife Center for Advanced Genocide Research, University of Southern California

Ruth HaCohen, Artur Rubinstein Professor Emerita of Musicology, The Hebrew University of

Jerusalem

Aaron J. Hahn Tapper, Professor, Mae and Benjamin Swig Chair in Jewish Studies, Director of the

Swig Program in Jewish Studies and Social Justice, University of San Francisco

Anna Hajkova, Associate Professor of Modern Continental European History, Warwick University

Rachel Havrelock, Professor of English and Jewish Studies, University of Illinois, Chicago

Elizabeth Heineman, Professor of History and of Gender, Women’s and Sexuality Studies, University

of Iowa

Deborah Hertz, Wouk Chair in Modern Jewish Studies, University of California, San Diego

Dagmar Herzog, Distinguished Professor of History and Daniel Rose Faculty Scholar Graduate Center,

The City University of New York (CUNY)

Dafna Hirsch, Dr., Department of Sociology, Political Science and Communication, The Open

University of Israel

Marianne Hirschberg, Professor, Faculty of Human Sciences, University of Kassel

Jill Jacobs, Rabbi, Executive Director, T’ruah: The Rabbinic Call for Human Rights, New York

Uffa Jensen, Professor Dr., Center for Research on Antisemitism, Technische Universität, Berlin

Jonathan Judaken, Professor, Spence L. Wilson Chair in the Humanities, Rhodes College

Irene Kacandes, The Dartmouth Professor of German Studies and Comparative Literature,

Dartmouth University

Marion Kaplan, Professor Emerita of Hebrew and Judaic Studies, New York University

Brian Klug, Hon. Fellow in Social Philosophy, Campion Hall, University of Oxford; Emeritus Fellow,

Faculty of Philosophy, University of Oxford; Hon. Fellow, Parkes Institute for the Study of Jewish/nonJewish Relations, University of Southampton

Thomas A. Kohut, Sue and Edgar Wachenheim III Professor of History, Williams College

Alexander Korb, Dr., Associate Professor in Modern European History, Stanley Burton Centre for

Holocaust and Genocide Studies, University of Leicester

Tony Kushner, Professor, Parkes Institute for the Study of Jewish/non-Jewish Relations, University of

Southampton

Dominick LaCapra, Professor Emeritus of History, Cornell University

Ferenc Laczó, Assistant Professor in European History, Maastricht University

Ben Lapp, Associate Professor of History, Montclair State University, New Jersey

Nitzan Lebovic, Professor, Department of History, Chair of Holocaust Studies and Ethical Values,

Lehigh University

Claudia Lenz, Professor of Social Science, Chair for prevention of racism and antisemitism, MF

Norwegian School of Theology, Religion and Society, Oslo

Mark Levene, Dr., Emeritus Fellow, University of Southampton and Parkes Centre for Jewish/nonJewish Relations

Giovanni Levi, Professor Emeritus of Modern History, Ca’ Foscari University of Venice

Simon Levis Sullam, Associate Professor of Modern History, Ca’ Foscari University of Venice

Hanno Loewy, Director of the Jewish Museum Hohenems, Austria

Ian S. Lustick, Bess W. Heyman Chair Emeritus, Department of Political Science, University of

Pennsylvania

Sergio Luzzatto, Emiliana Pasca Noether Chair in Modern Italian History, Department of History,

University of Connecticut

Shaul Magid, Professor of Jewish Studies, Dartmouth College

Avishai Margalit, Professor Emeritus in Philosophy, The Hebrew University of Jerusalem

Jessica Marglin, Associate Professor of Religion, Law and History, Ruth Ziegler Early Career Chair in

Jewish Studies, University of Southern California

David Mednicoff, Associate Professor of Middle Eastern Studies and Public Policy and Chair

Department of Judaic and Near Eastern Studies, University of Massachusetts, Amherst

Eva Menasse, Novelist, Berlin

Paul Mendes-Flohr, Professor Emeritus of History and Religious Thought, University of Chicago;

Professor Emeritus at the Divinity School, The Hebrew University of Jerusalem

Leslie Morris, Professor of German and Jewish Studies, Chair Department of German, Nordic, Slavic &

Dutch, University of Minnesota

Dirk Moses, Professor, Anne & Bernard Spitzer Chair in International Relations, The City College of

New York (CCNY)

Samuel Moyn, Henry R. Luce Professor of Jurisprudence and Professor of History, Yale University

Harriet L. Murav, Professor, Center for Advanced Study, Catherine and Bruce Bastian Professor of

Global and Transnational Studies, Department of Slavic Languages and Literatures, Comparative and

World Literature, University of Illinois

Susan Neiman, Professor Dr., Philosopher, Director of the Einstein Forum, Potsdam

Adi Ophir, Professor Emeritus, Tel Aviv University; Visiting Professor, Brown University, the Cogut

Institute for the Humanities and the Center for Middle East Studies

Atalia Omer, Professor of Religion, Conflict and Peace Studies at the University of Notre Dame and

the Dunphy Visiting Professor of Religion, Violence, and Peacebuilding at Harvard Divinity School

Thomas Pegelow Kaplan, Professor of History, Louis P. Singer Endowed Chair in Jewish History,

University of Colorado Boulder

Robert Jan van Pelt, University Professor, School of Architecture, University of Waterloo

Derek Penslar, William Lee Frost Professor of Jewish History, Harvard University

Andrea Pető, Professor, Central European University (CEU), Vienna; CEU Democracy Institute,

Budapest

Alessandro Portelli, fmr. Professor of Anglo-American Literature, Sapienza University of Rome

David Ranan, Dr., Political Scientist and Writer, London/Berlin

James Renton, Professor of History, Co-Director, International Centre on Racism, Edge Hill University

Na’ama Rokem, Associate Professor, Director Joyce Z. And Jacob Greenberg Center for Jewish

Studies, University of Chicago

Mark Roseman, Distinguished Professor in History, Pat M. Glazer Chair in Jewish Studies, Indiana

University

Göran Rosenberg, Writer and Journalist, Sweden

Ishay Rosen-Zvi, Professor of Talmud and Jewish Philosophy, Department of Jewish Philosophy, Tel

Aviv University

Michael Rothberg, 1939 Society Samuel Goetz Chair in Holocaust Studies, UCLA

Raz Segal, Associate Professor of Holocaust and Genocide Studies and Endowed Professor in the

Study of Modern Genocide, Stockton

Joshua Shanes, Professor and Director of the Arnold Center for Israel Studies, College of Charleston

David Shulman, Professor Emeritus, Department of Asian Studies, The Hebrew University of

Jerusalem

Dmitry Shumsky, Professor, Israel Goldstein Chair in the History of Zionism and the New Yishuv,

Head of the Institute of History, Department of Jewish History and Contemporary Jewry, The Hebrew

University of Jerusalem

Tamir Sorek, Liberal Arts Professor of Middle East History and Jewish Studies, Penn State University

David Sorkin, Lucy G. Moses Professor of Modern Jewish History, Department of History, Yale

University

Stefanie Schüler-Springorum, Professor Dr., Director of the Center for Research on Antisemitism,

Technische Universität Berlin

Michael Stanislawski, Nathan J. Miller Professor of Jewish History, Department of History, Columbia

University

Michael P. Steinberg, Barnaby Conrad and Mary Critchfield Keeney Professor of History; Professor of

Music and German Studies, Brown University

Lior Sternfeld, Associate Professor of History and Jewish Studies, Penn State University

Mira Sucharov, Professor and Associate Chair, Department of Political Science, Carleton University

Kylie Thomas, Dr., Senior Researcher, NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies,

Amsterdam

Anya Topolski, Associate Professor of Ethics and Political Philosophy, Radboud University, Nijmegen

Barry Trachtenberg, Associate Professor, Rubin Presidential Chair of Jewish History, Wake Forest

University

Enzo Traverso, Susan and Barton Winokur Professor in the Humanities, Department of History,

Cornell University, Ithaca, New York

Peter Ullrich, Dr. Dr., Senior Researcher, Fellow at the Center for Research on Antisemitism,

Technische Universität Berlin

Alana M. Vincent, Associate Professor, Religious Studies, Department of Historical, Philosophical and

Religious Studies, Umeå University

Anika Walke, Georgie W. Lewis Career Development Professor and Associate Professor of History,

Washington University in St. Louis

Dov Waxman, The Rosalinde and Arthur Gilbert Foundation Chair in Israel Studies, University of

California Los Angeles (UCLA)

Sebastian Wogenstein, Associate Professor of German, Hebrew and Judaic Studies, University of

Connecticut

Moshe Zimmermann, Professor Emeritus, The Richard Koebner Minerva Center for German History,

The Hebrew University of Jerusalem

Steven J. Zipperstein, Daniel E. Koshland Professor in Jewish Culture and History, Stanford University

Moshe Zuckermann, Professor Emeritus of History and Philosophy, Tel Aviv University

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Un esperto di antisemitismo sostiene che i progressisti “hanno il diritto di escludere i sionisti”

Nasim Ahmed

7 settembre 2022-Middle East Monitor

 

Un importante esperto di antisemitismo ha affermato che i gruppi dei campus universitari “hanno il diritto di escludere i sionisti”. Scrivendo sul Times of Israel, Kenneth Stern ha affermato che, sebbene possa essere “offensivo” e controproducente, il diritto dei gruppi progressisti di escludere i sostenitori dello stato di occupazione deve essere rispettato. Stern è un avvocato statunitense che ha avuto un ruolo chiave nella stesura della controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).

Il suo intervento fa seguito al crescente dibattito sull’esclusione degli studenti sionisti dagli spazi progressisti. Fondato sugli ideali etno-nazionalisti del sionismo, Israele è visto da lungo tempo nei circoli progressisti come un paese razzista che sostiene il colonialismo di insediamento e la pulizia etnica. Questo punto di vista si è progressivamente diffuso negli ultimi tempi dopo che importanti gruppi per i diritti umani hanno accusato Israele di commettere il crimine di apartheid.

Con il sionismo sempre più visto come un’ideologia razzista e imperialista, i gruppi che sostengono l’uguaglianza, i diritti umani, i diritti delle minoranze e i valori progressisti in generale, escludono sempre più spesso i sostenitori di Israele dai loro spazi. Ciò è accaduto nonostante le affermazioni che il sionismo e l’affinità elettiva con lo stato dell’apartheid siano parti intrinseche dell’identità ebraica. I critici, tuttavia, hanno a lungo messo in discussione questa argomentazione e hanno respinto l’affermazione che un’ideologia politica dovrebbe essere trattata come una “categoria da proteggere [dalle discriminazioni, ndt.]” allo stesso modo del genere, della religione e della razza.

La recente polemica sulla definizione dell’IHRA è in gran parte una richiesta da parte di gruppi filo-israeliani di un consenso più ampio nel sostenere la loro affermazione che il sionismo e il sostegno allo Stato di Israele siano accettati come una categoria del genere. È una forma di difesa eccezionalista che viene respinta in blocco quando altri gruppi nella società fanno richieste simili. Ad esempio, l’ideologia politica dell'”islamismo” o il desiderio di creare uno “Stato islamico” non solo sono violentemente contrastati e condannati, ma anche qualsiasi musulmano che insista affinché le proprie opinioni politiche e la propria religione ricevano una protezione speciale viene prontamente e giustamente respinto.

Un esempio simile sarebbe se il governo indiano del BJP di estrema destra sotto il primo ministro Narendra Modi e i sostenitori di Hindutva [forma predominante di nazionalismo indù, ndt.] affermassero che è razzista e anti-indù mettere in discussione la loro richiesta di creare uno Stato esclusivamente indù. Come sta diventando sempre più chiaro, nella loro ricerca di rimodellare l’India come Stato indù, gli estremisti Hindutva si sono messi in rotta di collisione con la costituzione laica del Paese. L’istanza che l’India sia l’unico stato indù al mondo non dovrebbe fare la differenza, ma l’obiettivo è comunque la riforma dell’India come Stato etno-religioso che offre diritti e privilegi speciali agli indù all’interno di un sistema di cittadinanza a più livelli [di diritti, ndt] Lo stato modello che questi indù aspirano a replicare è Israele. Il parallelo tra le due ideologie è un potente esempio dello status speciale concesso al sionismo.

A Israele e ai suoi sostenitori viene concesso un privilegio che non è esteso a nessun’altra comunità politica. Gli enti pubblici e le istituzioni private in tutto il mondo occidentale non solo hanno acconsentito alla loro richiesta, ma hanno anche adottato la presunta “definizione funzionale” di antisemitismo prodotta dall’IHRA che confonde le legittime critiche a Israele e al sionismo con il razzismo antiebraico.

Stern non compara il sionismo a ideologie simili nel resto del mondo, ma insiste nel trattare Israele e la sua ideologia fondante allo stesso modo di qualsiasi altra ideologia politica e dei suoi seguaci. Il diritto di criticare liberamente senza essere etichettato come razzista dovrebbe essere salvaguardato, sostiene. Ammette che il sionismo stesso è termine controverso ma, tuttavia, i sentimenti su ciò che il sionismo significa personalmente per alcuni ebrei non dovrebbero essere una scusa per reprimere la libertà di parola etichettando le persone come “antisemiti” per aver criticato l’ideologia fondatrice di Israele.

Commentando le diverse percezioni del sionismo e le ragioni per cui i progressisti escludono i sostenitori di Israele, Stern ha detto: “Alcuni studenti progressisti possono interpretare il sionismo come un termine per il trattamento riservato da Israele ai palestinesi; altri possono comprendere il sionismo come la maggior parte degli studenti ebrei: il diritto degli ebrei all’autodeterminazione nella loro patria storica”.

Ha spiegato che un numero significativo e crescente di ebrei è “agnostico” riguardo al sionismo o è antisionista, il che sembra suggerire che il sionismo e l’affinità con Israele non sono così rilevanti per l’identità ebraica come affermano i gruppi filo-israeliani.

“Gli studenti antisionisti possono pensare che lasciare che un sionista lavori tra loro equivalga a non considerare se qualcuno sia nazista”, ha detto Stern, “proprio come alcune organizzazioni ebraiche potrebbero ritenere che ammettere ebrei che sostengono il Boicottaggio/Disinvestimento/Sanzioni (Il movimento BDS) contro Israele sia sottovalutarne l’antisemitismo”. Stern non è d’accordo con entrambe le posizioni ma gli studenti del campus devono poter scegliere la loro politica.”

Alle prese con la questione centrale del pezzo sul Times of Israel — se sia antisemita escludere i sionisti dagli spazi progressisti — Stern difende il diritto dei gruppi progressisti ad essere selettivi. “Se un gruppo decide che per essere un membro bisogna avere una visione particolare di Israele e del sionismo, il diritto a prendere tale decisione deve essere rispettato. Chi non è ammesso, anche se l’esclusione fa male, può trovare altri modi per esprimersi, anche creando nuovi gruppi e coalizioni”.

Stern ha criticato il modo in cui la definizione IHRA di antisemitismo è stata utilizzata da gruppi filo-israeliani contro i critici dello Stato di apartheid. Il suo ultimo intervento è un’altra difesa della libertà di associazione e di parola contro ciò che molti dicono essere una repressione delle voci pro-palestinesi e contro i pericoli di sovrapporre antisionismo ad antisemitismo.

“I gruppi ebraici hanno usato la definizione come arma per affermare che le espressioni antisioniste sono intrinsecamente antisemite e devono essere soppresse”, aveva scritto Stern sul Times of Israel due anni fa. Le preoccupazioni da lui sollevate rafforzano l’affermazione che la lotta contro l’antisemitismo, come sostiene il commentatore ebreo americano Peter Beinart, ha “perso la strada”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)