New York Times e il podio del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite accusano Israele di apartheid

 PHILIP WEISS  

28 agosto 2022, Mondoweiss

Peter Beinart sul New York Times: le influenti organizzazioni ebraiche che denunciano come antisemiti i rapporti che accusano Israele di praticare l’apartheid sono una “minaccia alla libertà”.

Va da sé che nel dibattito pubblico degli Stati Uniti in merito alla questione israeliana le voci ebraiche abbiano un grosso peso e le voci sioniste un peso ancora maggiore. Ebbene, questa settimana, giovedì e venerdì, due influenti ex sionisti ebrei hanno dato il loro sostegno alle accuse di apartheid contro Israele – sul New York Times e al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – ed entrambe le dichiarazioni hanno avuto ampia risonanza.

L’ex negoziatore israeliano Daniel Levy [presidente del US/Middle East Project, con sede a Londra e New York; ndt.] ha tenuto un discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite esortando le principali potenze a rendersi conto del fatto che la loro ipotesi di partizione è defunta. E “l’insieme sempre più consistente di accademici, giuristi e dell’opinione pubblica che accusa Israele di perpetrare l’apartheid nei territori sotto il suo controllo” sta guadagnando terreno tra le Nazioni di tutto il mondo.

E Peter Beinart [noto editorialista, giornalista e commentatore politico progressista statunitense, ndt.] ha pubblicato un editoriale sul New York Times che accoglie quasi completamente la definizione di apartheid data da Human Rights Watch e Amnesty International. L’articolo è un attacco alle organizzazioni ebraiche “influenti” che denunciano quei rapporti come presunti antisemiti, organizzazioni che rappresenterebbero una “minaccia alla libertà”. Beinart ha affermato che l’American Jewish Committee [dal 1906 una delle più antiche organizzazioni filosioniste degli USA, ndt.] e l’Anti-Defamation League [organizzazione mondiale nella lotta all’antisemitismo, ndt.] – e Deborah Lipstadt, incaricata di occuparsi di antisemitismo sotto Biden – stanno abbandonando il tradizionale impegno nei diritti umani per un cieco sostegno a Israele e si stanno schierando con i dittatori arabi per giustificare i crimini di Israele.

Entrambe le affermazioni hanno avuto un grande impatto. “Quando gli ex negoziatori israeliani come Daniel Levy parlano pubblicamente dell’apartheid in Israele non è forse ora che il Canada, che ha svolto un ruolo di primo piano a livello internazionale contro l’apartheid sudafricano, si alzi dalla panchina filo-israeliana e difenda i diritti umani in Israele e Palestina?” scrive un ex ambasciatore canadese.

I sionisti liberali sono infuriati e spingono per i due Stati. Independent Jewish Voices [rappresentanza degli ebrei canadesi impegnati per la giustizia sociale e i diritti umani, ndt.] stila una lunga lista di quanti sostengono l’accusa di apartheid. Khaled Elgindy [direttore del Programmma Palestina e Affari Israelo-Palestinesi del Middle East Institute di Washington, ndt.] dice dell’analisi di Levy secondo cui Israele non potrà mai raggiungere la sicurezza espropriando e opprimendo i palestinesi: “Che qualcosa di così ovvio e sensato debba essere affermato in modo così esplicito e ripetuto è sia sconcertante che inquietante”. J Street [associazione liberal americana che promuove la soluzione a due Stati, ndt.] sembra ignorare entrambe le affermazioni.

Questa la sezione centrale del monito di Levy. C’è solo uno Stato, ed è l’apartheid. Il futuro di Israele è a rischio. Sono notizie vecchie, ma nuove per il Consiglio di Sicurezza:

Sappiamo che alcuni sviluppi possono essere allo stesso tempo politicamente scomodi e politicamente rilevanti. L’insieme sempre più rilevante dell’opinione accademica, giuridica e pubblica che accusa Israele di perpetrare l’apartheid nei territori sotto il suo controllo è esattamente uno sviluppo di quel tipo.

La definizione data da studiosi e istituti palestinesi, successivamente esaminata e approvata dalla comunità israeliana per i diritti umani guidata da B’Tselem, è ora diventata la definizione legale per Human Rights Watch e quest’anno anche per Amnesty International. Ecco cosa risulta dall’incapacità di riconoscere le responsabilità e di lavorare per i due Stati.
Per quanto sia scomodo per alcuni, esorto quest’aula a non sottovalutare il significato a lungo termine e la direzione di ciò che sta accadendo. Lo scorso marzo a Ginevra agli incontri del Consiglio per i Diritti Umani, tutti gli Stati rappresentati nel gruppo africano, nel gruppo arabo e nel gruppo OIC [Organizzazione per la Cooperazione Islamica intergovernativa fondata nel 1969 da 57 Stati, ndt.], hanno fatto riferimento a questa situazione di apartheid.

Non sorprende che tutto ciò abbia eco e risonanza in quelle parti del mondo che hanno sperimentato l’apartheid e il colonialismo di insediamento e poi affrontato la decolonizzazione…

Deve essere un richiamo a reagire. Settantacinque anni fa le Nazioni Unite proposero la partizione come paradigma politico per la Terra Santa. Oggi quella terra è di fatto unita sotto un unico potere. In assenza di un’inedita azione di vasta portata per essere conseguenti con la partizione, i nostri successori in quest’aula dovranno discutere del compito di raggiungere l’uguaglianza in una realtà indivisa.

Ecco ora l’inizio dell’editoriale di Peter Beinart sul New York Times riguardo all’uso improprio dell’accusa di antisemitismo per difendere Israele. Israele è solo un altro governo “repressivo” che cerca di screditare i diritti umani.

Lo scorso aprile, quando Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto accusando Israele di “crimini di apartheid e persecuzione”, l’American Jewish Committee ha affermato che le argomentazioni del rapporto “a volte rasentano l’antisemitismo”. A gennaio, quando Amnesty International ha pubblicato il proprio studio in cui si afferma che Israele pratica l’apartheid, l’Anti-Defamation League ha predetto che “probabilmente porterà a un aumento dell’antisemitismo”. L’AJC e l’ADL hanno anche reso pubblica una dichiarazione insieme ad altri quattro noti gruppi ebraici americani che non solo hanno accusato il rapporto di essere parziale e impreciso, ma anche affermato che il rapporto di Amnesty “alimenta quegli antisemiti che in tutto il mondo cercano di minare l’unico Paese ebraico sulla Terra”.

I difensori dei governi repressivi spesso cercano di screditare le associazioni per i diritti umani che li criticano.

Il discorso di Beinart è degno di nota perché segna fino a che punto le organizzazioni ebraiche si sono dedicate ai diritti civili nel periodo precedente alla guerra del 1967. Da allora hanno abbandonato quell’impegno, nell’era di Israele militante e mentre la comunità ebraica organizzata è diventata sempre più conservatrice.

Ecco gli incisivi paragrafi sulle organizzazioni ebraiche che rappresentano una “minaccia alla libertà”.

Ora che qualsiasi critica allo Stato ebraico viene accolta con accuse di fanatismo anti-ebraico, importanti organizzazioni ebraiche americane e i loro alleati nel governo degli Stati Uniti hanno trasformato la lotta contro l’antisemitismo in mezzo non per difendere i diritti umani ma per negarli. La maggior parte dei palestinesi vive come cittadini di seconda classe all’interno dei confini di Israele o come non cittadini apolidi nei territori occupati da Israele nel 1967 o oltre i confini di Israele perché loro o i loro discendenti sono stati espulsi o fuggiti e non gli è stato permesso di tornare. Ma secondo la definizione di antisemitismo promossa dall’Anti-Defamation League, dall’American Jewish Committee e dal Dipartimento di Stato, i palestinesi sono antisemiti se chiedono la sostituzione di uno Stato che favorisce gli ebrei con uno che non discrimini in base all’etnia o alla religione.

Con amara ironia, la campagna contro “l’antisemitismo” condotta da influenti gruppi ebraici e dal governo degli Stati Uniti è diventata una minaccia alla libertà. Viene utilizzata come arma contro le organizzazioni per i diritti umani più rispettate al mondo e come scudo per alcuni dei regimi più repressivi del mondo. Abbiamo bisogno di un’altra lotta contro l’antisemitismo. Dovrebbe perseguire l’uguaglianza degli ebrei, non la supremazia ebraica, e includere la causa dei diritti degli ebrei in un movimento per i diritti umani in generale. Nello sforzo di difendere l’indifendibile in Israele, l’establishment ebraico americano ha abbandonato quei principi.

Beinart scredita anche Deborah Lipstadt come lacchè nelle relazioni di normalizzazione fra Israele e alcune dittature repressive.

A giugno la signora Lipstadt ha incontrato l’ambasciatore saudita a Washington e inneggiato a “i nostri obiettivi condivisi di superare l’intolleranza e l’odio”. Da lì è volata in Arabia Saudita, dove ha incontrato il Ministro degli Affari Islamici e ha riaffermato “i nostri obiettivi condivisi di promuovere la tolleranza e combattere l’odio”. Negli Emirati Arabi Uniti si è incontrata con il Ministro degli Esteri, che ha definito un “sincero partner nei nostri obiettivi condivisi” – avrete indovinato – “di promuovere la tolleranza e combattere l’odio”.

Tutto ciò non ha senso.

Il discorso di Levy è notevole perché ha messo in evidenza le recenti atrocità commesse da Israele, le uccisioni di bambini palestinesi e della giornalista Shireen Abu Akleh, e le incursioni fasciste contro sette organizzazioni palestinesi per i diritti umani con un pretesto infondato.

Dopo lo shock manifestato lo scorso anno dal Segretario Generale Guterres per il numero di bambini palestinesi uccisi e mutilati dalle forze israeliane, questo mese continuiamo a vedere la stessa tendenza e la sofferenza tra i giovanissimi a Gaza. Abbiamo assistito all’uccisione di chi riferisce e denuncia questi crimini, e Shireen Abu Akleh è stata l’ultima giornalista a pagare con la vita.

E ora questo attacco a coloro che documentano gli abusi e difendono i diritti umani, così come a chi fornisce servizi alla comunità, con le operazioni di Israele contro sei importanti organizzazioni della società civile palestinese… In seguito alla definizione da parte delle autorità israeliane delle sei ONG come terroriste, un certo numero di Paesi ha dichiarato che non erano state loro fornite prove convincenti. La scorsa settimana, gli uffici di quelle organizzazioni sono stati perquisiti e chiusi e i loro operatori interrogati.

Sono (come al solito) speranzoso che queste due affermazioni rappresentino un segno che l’establishment statunitense si stia finalmente rendendo conto della morte della soluzione dei due Stati e che il BDS guadagnerà prestigio politico. Come ha commentato insieme a me Donald Johnson, “Le cose sono cambiate a sufficienza perché i crimini israeliani non possano essere sempre cancellati o istericamente negati”.

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




La Germania fornisce un timbro kosher all’occupazione israeliana

Avraham Burg

26 luglio 2022 – Haaretz

La destra israeliana razzista e conservatrice controlla le azioni della Germania riguardo agli ebrei, all’antisemitismo e a Israele

Qualche settimana fa ho preso parte ad un’importante conferenza in Germania sul sequestro della memoria dell’Olocausto e la nuova destra. E’ stata una delle più intense, particolari e impegnate conferenze a cui abbia mai partecipato.

L’establishment ebraico locale ha immediatamente reagito con una prevedibile risposta pavloviana: “Antisemiti!”, “Sostenitori del BDS!”. Ci sono state anche sgradevoli e scorrette insinuazioni riguardo ad uno dei più importanti storici della nostra generazione (ovviamente non ebreo). Io c’ero: mentono e distorcono la realtà. Ecco perché adesso mi è chiaro che è tempo di far scoppiare il bubbone di cui sono responsabili.

Negli anni scorsi si sono svolti in Germania parecchi eventi che hanno messo in questione il discorso ebraico-israeliano-tedesco. Uno scrittore ebreo, che sta fuori dal coro dei conservatori, è stato messo a tacere perché sua madre non è ebrea. Contemporaneamente il direttore del museo ebraico di Berlino è stato costretto a dimettersi a causa di un tweet sulla libertà di espressione.

Ora sono nel mezzo di una feroce campagna di delegittimazione nei confronti di alcune tra le più importanti istituzioni di ricerca e culturali sia in Germania che nel mondo: l’Einstein Forum e il Centro Internazionale di Berlino per lo studio dell’antisemitismo. Nella miglior tradizione della falsa propaganda, hanno rinominato quest’ultimo “l’istituzione per l’antisemitismo”.

Stanno cercando di intimidire e intimorire centri importantissimi e validi ricercatori la cui unica colpa è lottare per una ricerca in profondità e universale, senza che vengano imposte a priori delle mistificazioni demagogiche. Chiunque osi esprimere un’opinione o una posizione diversa dalla loro rischia di essere giustiziato pubblicamente.

La Germania ha un governo eletto, ma quando si tratta di sensibilità su questioni legate alla storia ebraica-tedesca o all’attuale problema dell’antisemitismo tutto viene controllato dal Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania. Questo ente dovrebbe rappresentare la totalità degli ebrei della Germania, ma di fatto ne rappresenta solo una piccola parte.

Sotto molti aspetti ciò è logico e giustificabile. Ma pochi colgono la catena di connessioni: l’estrema destra guida la politica dello Stato di Israele; Israele modella le posizioni del Consiglio Centrale e a sua volta questo ente detta la linea delle discussioni politiche più delicate in Germania. Ciò significa che la destra israeliana conservatrice e razzista ha il controllo di una gamma di sentimenti dei tedeschi relativi al loro passato riguardante gli ebrei, l’antisemitismo e Israele.

Come è successo? Israele ha trasformato l’antisemitismo in una potente arma diplomatica. Il suo governo conservatore ha ampliato molto questo concetto. Ogni critica è antisemita; ogni oppositore è un nemico; ogni nemico è Hitler; ogni anno è il 1938.

Questa è la struttura portante della sensibilità politica e dell’arte di governo di Israele e la Germania vi gioca un ruolo chiave: funge da certificazione kosher [di purezza dal punto di vista della religione ebraica, ndt.] per le ingiustizie perpetrate dagli ebrei israeliani. Lo Stato tedesco è terrorizzato da ogni confronto o chiarificazione con Israele sulla natura dell’antisemitismo contemporaneo e sulla questione di che cosa sia una critica corretta delle illegittime politiche israeliane.

Tramite questa elusione la Germania è diventata il maggior garante e complice della realtà in cui i palestinesi sono privi di diritti e di status nella loro stessa patria. Non ci sarà mai pace in Medio Oriente, né esisterà un Israele sano e duraturo, finché la Germania sarà prigioniera delle complessità del suo passato.

L’Olocausto e lo Stato di Israele devono rimanere componenti cruciali dell’identità politica ed etica della Germania – ma non si tratta di questo. In tutti gli ambiti relativi ad Israele e al popolo ebreo, in Germania attualmente non esiste una reale libertà di espressione. Viene attivata automaticamente una stretta e severa censura, anche se si può capire. Ma un meccanismo di cinico sfruttamento politico ha preso il controllo, trasformando l’Olocausto e la sua memoria in strumento per respingere ogni critica ad Israele.

Non esiste nessun altro Paese nell’Occidente democratico che nega i diritti naturali di milioni di persone a votare ed essere eletti, a vivere nel proprio Paese in virtù del diritto all’autodeterminazione, come fa Israele al popolo palestinese. Israele è in grado di fare questo perché gli Stati Uniti considerano giusta la loro visione distorta e la Germania sostiene ogni capriccio israeliano automaticamente e cecamente.

C’è ancora del vero antisemitismo nel mondo e non si deve mostrare alcuna comprensione o legittimazione verso di esso. In piccola parte si tratta del vecchio e tradizionale antisemitismo; in parte è una variante diffusa da gruppi anti-israeliani che usano il crimine dell’occupazione per attaccare tutti gli ebrei dovunque siano e negano la loro esistenza come individui e come comunità.

C’è anche un livello ancor più subdolo e pericoloso di antisemitismo: quello che si ammanta di un falso sostegno ad Israele per nascondere la propria xenofobia e odio per gli immigrati. E’ l’antisemitismo dei fascisti e dei neo-nazisti che “amano” Israele. E sorprendentemente parecchi ebrei perbene e tedeschi dell’establishment li sostengono perché, almeno per il momento, appaiono come filo-ebrei o filoisraeliani. In termini più chiari: ci sono ebrei e tedeschi che sostengono l’antisemitismo sottoforma di amore per Israele.

C’è un altro modo per combattere l’antisemitismo globale e l’odio per gli ebrei in Germania. E’ accettabile criticare Israele, esattamente come è accettabile difenderlo. Si può contestare le sue politiche, così come si può appoggiarle. Ed è persino possibile che esista un antisionismo ideologico e intellettuale che non è antisemitismo.

Inoltre la lotta contro il vero antisemitismo non è un problema solo per gli ebrei. Si deve costituire un’alleanza contro ogni forma di odio, sia locale che globale. Quando qualcuno odia un turco, odia anche me. Quando offende i musulmani, offende me. E quando perseguita gli immigrati, le donne e i membri della comunità LGBTQ+, anche io vengo perseguitato. Perché questo è il volto del vero ebraismo, dalla Bibbia a Martin Buber: una civiltà che non ignora mai i propri obblighi universali verso tutte le persone.

L’odio per gli ebrei non deve costituire un’eccezione nell’elenco di odi dei nostri tempi. Solo in questo modo, attraverso la solidarietà con tutte le vittime, possiamo ottenere la vittoria sulla coalizione degli odiatori e dei populisti. In questa lotta globale tedeschi ed ebrei hanno un ruolo strategico di enorme importanza. La Germania è la chiave dell’intero Occidente. È una vergogna che i suoi dirigenti siano un’irresponsabile banda di ebrei egocentrici e tedeschi incapaci di distinguere la luce dal buio.

Come presidente a mio tempo della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] e come ex presidente dell’Organizzazione Mondiale Sionista, che è stata coinvolta per molti anni in questa questione, chiedo al governo tedesco e a Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli ebrei in Germania: scegliete una data e un luogo e discutiamo del modo in cui l’Olocausto deve essere ricordato nel XXI secolo; del fatto che è vietato sfruttarlo per fini politici impropri; di come rappresentare gli ebrei e l’ebraismo. E soprattutto di come costruire un mondo in cui Israele sia un esempio per risolvere i conflitti e non un certificato kosher per tutti i meschini interessi nel mondo populista di oggi.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Germania: il vandalismo razzista alla vigilia di Documenta 15 innervosisce gli artisti palestinesi

Hebh Jamal

14 giugno 2022 – Middle East Eye

Atti di vandalismo razzista contro l’esposizione palestinese getta un’ombra sull’imminente evento artistico quinquennale.

La più grande esposizione di arte contemporanea al mondo, Documenta 15, aprirà la prossima settimana in un contesto di polemiche politiche, dopo atti di vandalismo razzisti che hanno preso di mira l’esposizione palestinese, innervosendo gli artisti alla vigilia di questo evento molto atteso che si svolge ogni cinque anni nella città tedesca di Cassel.

A fine maggio individui non identificati hanno fatto irruzione nello spazio espositivo del collettivo artistico palestinese ‘The Question of Funding’ [il problema dei finanziamenti], hanno imbrattato i muri con il contenuto di un estintore ed hanno scritto su decine di superfici “187” (codice utilizzato negli Stati Uniti come minaccia di morte con riferimento al codice penale della California) e “Peralta”.

Gli organizzatori dell’evento ritengono che “Peralta” si riferisca alla politica fascista spagnola Isabelle Peralta, che si è vista negare l’ingresso in Germania a causa delle sue opinioni neonaziste.

Questo attacco era chiaramente mirato, poiché gli assalitori hanno vandalizzato solo i piani che ospitano il collettivo ‘The Question of Funding’ “, ha dichiarato a Middle East Eye Lara Khalidi, artista e operatrice culturale palestinese. “Potrebbe trattarsi di una minaccia di morte e adesso tutti gli artisti hanno molta paura di portare avanti l’esposizione.”

Secondo Lara Khalidi questa minaccia arriva dopo parecchi mesi di campagna di diffamazione e incitamento all’odio sulla stampa tedesca.

Il sostegno al BDS, motivo di repressione

Un’organizzazione locale contro l’antisemitismo, ‘Budnis gegen Antisemitismus Kassel’ [Alleanza contro l’Antisemitismo Kassel], accusa questa quinta edizione di Documenta di coinvolgere degli “attivisti anti-Israele”, di “violare le severe leggi tedesche contro l’antisemitismo” e di sostenere il movimento palestinese Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

In Germania un sostegno anche solo formale al BDS può essere motivo di repressione. Nel 2019 il Bundestag (il parlamento tedesco) ha approvato una risoluzione che definisce il movimento BDS antisemita.

Limitando il loro accesso ai fondi e agli spazi pubblici, questa risoluzione offre alle istituzioni statali e all’associazione filo-israeliana tutta la discrezionalità per attaccare le organizzazioni, gli artisti, gli accademici palestinesi e anche semplici individui.

Il commissario tedesco alla lotta contro l’antisemitismo Felix Klein si è unito alle critiche all’esposizione affermando che poiché “nessun artista israeliano è stato invitato, se ne deduce chiaramente che gli artisti israeliani devono essere boicottati.”

Lara Khalidi e alcuni suoi colleghi sono stati accusati di essere simpatizzanti nazisti perché hanno ricoperto posizioni direttive all’interno del centro culturale Khalil Sakakini, un’importante organizzazione senza scopo di lucro culturale e artistica di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

L’organizzazione locale contro l’antisemitismo afferma che Khalil Sakakini, insegnante palestinese progressista, era un antisemita in base a citazioni false e fuori contesto di Wikipedia, mentre Lara Khalidi e altri artisti palestinesi sono accusati di antisemitismo per associazione [a Sakakini, ndt.].

Questa vicenda dimostra chiaramente come la “lotta contro l’antisemitismo” sia diventata un’espressione pratica di xenofobia e razzismo puri e semplici”, spiega a MEE Michael Sappir, giornalista israeliano che vive in Germania.

Se il tipo di affermazioni usate per costruire l’accusa di antisemitismo contro gli artisti – in particolare in rapporto a Sakakini – fosse preso sul serio e considerato in buona fede, molti tedeschi famosi, affiliati ad organizzazioni con legami nazisti sarebbero coinvolti molto più gravemente.

Ma questo tipo di accuse poco chiare è una copertura pratica nel contesto tedesco di lotta ostentata contro l’antisemitismo per dare una patina di legittimità e di importanza agli attacchi contro gli stranieri, e sicuramente in particolare contro i palestinesi.”

Conseguenza dell’autocensura

Il centro culturale Khalil Sakakini in un comunicato deplora che le accuse “trite e ritrite” di antisemitismo siano sempre più utilizzate in Germania nei confronti di chi si esprime contro l’occupazione e l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

Un’accusa usata come mezzo per ridurre al silenzio i suoi detrattori e come strumento di intimidazione. Questo attacco continuo si è ingigantito, passando dall’incitamento all’odio sui media ad un attacco diretto”, prosegue il comunicato.

Il teorico culturale Sami Khatib ritiene che in Germania il razzismo anti-palestinese “sistematico”si dissimuli sotto una facciata di intervento umanitario.

Questo dipende dal fatto che la comunità internazionale si vede nel ruolo di salvatore per scongiurare ‘il male del passato’ nel presente e nel futuro”, dichiara Sami Khatib.

Anche l’occasione di trovare una corretta definizione di antisemitismo e di discutere apertamente delle accuse degli organizzatori viene posta sotto la lente di ingrandimento.

L’annullamento di una tavola rotonda organizzata da Documenta per affrontare le questioni legate all’antisemitismo, al razzismo e all’islamofobia sarebbe dovuto a una lettera di Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, inviata a Claudia Roth, Ministra della Cultura e delle Comunicazioni. 

Schuster vi criticava il “pregiudizio evidente” di Documenta, insinuando che la tavola rotonda fosse di parte e non prevedesse interventi a favore di Israele. Questa lettera sottolineava la necessità “di una chiara presa di posizione e di una risoluta azione politica ad ogni livello politico, artistico, culturale e sociale” per combattere l’antisemitismo.

Come conseguenza dell’autocensura dei partecipanti in seguito alle reazioni, questa tavola rotonda è stata annullata. 

L’istituto ha ritenuto che fosse meglio organizzare un dibattito pubblico su ciò che significa antisemitismo. Invece si è stati accusati di essere di parte, anche se la tavola rotonda includeva partecipanti israeliani”, lamenta Lara Khalidi.

Il collettivo di artisti indonesiani Ruangrupa, responsabile di questa quinta edizione di Documenta, ha risposto alle accuse di antisemitismo con una lettera aperta.

Quando ogni critica allo Stato israeliano viene demonizzata e associata all’antisemitismo, bisogna aspettarsi che tale demonizzazione sia contestata. Questa contestazione viene principalmente da chi per primo è colpito dagli attacchi israeliani ai diritti umani”, si legge in questa lettera.

La cultura tedesca che associa l’antisionismo e persino il non-sionismo all’antisemitismo esclude i palestinesi e gli ebrei non sionisti dalla lotta contro l’antisemitismo, li diffama e li riduce al silenzio etichettandoli come antisemiti.”

L’elemento più inquietante in tutto ciò resta tuttavia l’origine di queste voci di antisemitismo.

Artisti ed attivisti sostengono che l’associazione all’origine di tutte queste voci e accuse di fatto non è altro che un blog gestito da una sola persona associata ad un gruppo dissidente di estrema sinistra chiamato Antideutsche (movimento anti-tedesco).

Per gli attivisti i grandi media tedeschi hanno ripreso questa informazione pubblicata dal blog senza nemmeno verificare queste accuse, che secondo loro sono piene di stereotipi razzisti e falsi.

La cosa più triste in tutto questo”, dice Lara Khalidi, “è che queste accuse senza fondamento sono state riprese da media nazionali seri, che hanno rilanciato gli appelli all’annullamento di Documenta se non fosse stato risolto il problema dell’antisemitismo.”

Una posizione forte e chiara”

I media hanno chiuso gli occhi sul fatto che si tratta dell’iniziativa di una sola persona, che posta regolarmente su Facebook dei contenuti islamofobi. Invece hanno ripreso come fatti reali le sue storie inventate, meditabonde e anche immaginarie”, ribadisce Lara Khalidi.

Ormai, a meno di una settimana dall’avvio dell’esposizione artistica tanto attesa, che si svolgerà dal 18 giugno al 25 settembre, gli artisti e gli organizzatori mostrano nervosismo.

Anche se Documenta ha reagito al vandalismo e alle minacce sporgendo denuncia e rafforzando la sicurezza sui luoghi, molti ritengono che la sua reazione e il suo comunicato ufficiale non siano sufficienti.

Il collettivo di artisti ha pubblicato un proprio comunicato definendo questo vandalismo un attacco razzista, mentre il comunicato stampa di Documenta prende semplicemente atto che si tratta di minacce “con motivazioni politiche”, senza menzionare che il bersaglio erano gli artisti palestinesi e senza qualificare questo atto come crimine di odio.

MEE ha sollecitato l’ufficio stampa di Documenta relativamente alla scelta dei termini, ma non ha ricevuto alcuna risposta. 

Il fatto è che, per cominciare, non sono neanche capaci di definire (questo attacco) per quello che è. Il problema riguardo alla maggior parte delle risposte agli attacchi razzisti da parte di Documenta 15, a prescindere dalla loro buona volontà, è che contribuiscono a questa mancanza di chiarezza”, lamenta con MEE Edwin Nasr, operatore culturale e giornalista che vive ad Amsterdam.

Firas Shehadeh, artista palestinese che vive a Vienna, spiega a MEE che il tentativo di Documenta di presentare l’attacco come un incidente isolato “svia l’attenzione dal fatto che si tratta di un attacco razzista.”

Aggiunge che Documenta ha pubblicato questo comunicato solo in seguito alla pressione esercitata dalla solidarietà palestinese e internazionale.

Tuttavia, ha aggiunto, questo comunicato non fa che ripetere il discorso anti-palestinese. “Non hanno nemmeno nominato la vittima – la Palestina o i palestinesi” ribadisce. “Al contrario, questo comunicato serve a nascondere il loro fallimento nel proteggere gli artisti invitati che volevano solamente contribuire al panorama artistico contemporaneo internazionale.”

Documenta è un ente finanziato da fondi pubblici. Secondo Lara Khalidi questo lo rende soggetto all’autocensura, cosa che limita la sua capacità di esprimersi sulla questione per timore di venire privato dei finanziamenti.

Non c’è alcun dubbio che, se si trattasse di un ente del tutto diverso, si definirebbe tutto questo un crimine di odio”, assicura.

Per garantire la sicurezza degli artisti ed attivisti palestinesi e filopalestinesi non vogliamo solo misure di sicurezza e un maggior numero di poliziotti, ma una posizione forte e chiara che lo denunci per quello che è: razzismo antipalestinese.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Cosa unisce i suprematisti americani bianchi e la brutale aggressione israeliana contro i palestinesi

David Rothkopf

16 maggio 2022 – Haaretz

Un killer razzista uccide dieci persone a Buffalo, New York. La polizia israeliana carica i partecipanti al funerale della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Due eventi, due mondi lontani, ma con molto in comune

A Buffalo, New York, un diciottenne entra in un negozio di alimentari e apre il fuoco uccidendo dieci persone. Sulla canna del suo fucile è inciso un epiteto razzista così offensivo che quasi tutti i media (anglosassoni) dicono semplicemente “n-word, [n**ro].”

La polizia israeliana aggredisce brutalmente i partecipanti al funerale della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Strappa la bandiera palestinese dal suo feretro che veniva trasportato a spalla. 

Due eventi, due mondi lontani. Cosa potrebbero mai avere in comune?

Dopo tutto Payton S. Gendron, lo stragista di Buffalo, era un noto antisemita che temeva che ebrei, neri e persone di colore stessero cercando di “sostituire” i bianchi. Un altro simbolo trovato sulla sua arma, il numero 14, evoca un credo della supremazia bianca: “Dobbiamo garantire l’esistenza della nostra gente e un futuro ai bambini bianchi.” Si è trattato di un criminale. 

Secondo la polizia israeliana si stava cercando di “agevolare un funerale calmo e dignitoso. “Cosa potrebbe mai avere a che fare il suo comportamento con quello di un razzista squilibrato che considera quelli diversi da lui come un pericolo mortale e, di conseguenza, si è sentito giustificato a ricorrere alla violenza contro di loro?

Gendron è stato collegato a un manifesto di 180 pagine in cui elogiava altri killer razzisti, tra cui Robert Gregory Bowers, che [nel 2018] ha attaccato la sinagoga Tree of Life a Pittsburgh in cui morirono undici persone e sei rimasero ferite. Come potrebbe mai avere qualcosa in comune con una forza di polizia incaricata di proteggere un popolo che lui detesta?

Eppure l’impulso alla base di entrambi gli attacchi è stato l’odio alimentato dalla paura dell’ “altro.” Sì, sia Gendron che la polizia israeliana hanno agito con totale indifferenza per la vita o il senso morale umani. Sì, la polizia e Gendron stavano attivamente proteggendo una visione del mondo secondo cui le persone di razze e fedi diverse sono viste come inferiori, e negare loro le libertà fondamentali, persino privarle della vita, è diventato normale.

Sì, la teoria della sostituzione dei bianchi sostenuta da Gendron è propagandata da media di destra come Fox News di Rupert Murdoch. E sì, quando Tucker Carlson, star della Fox, è stato attaccato per aver sposato “la teoria della sostituzione dei bianchi,” in sua difesa ha citato il caso di Israele: “È irrealistico e inaccettabile aspettarsi che lo Stato di Israele sovverta volontariamente la propria esistenza sovrana e la propria identità nazionalista e diventi una minoranza vulnerabile all’interno di quello che una volta era il suo territorio.”

Per quanto ripugnanti siano le frasi di Carlson è facile capire la logica che l’ha portato a citare le opinioni israeliane sui palestinesi come simili a quelle dei suprematisti bianchi americani verso i non cristiani e i non bianchi.

Il razzismo e l’odio dei media di destra in entrambi i Paesi sono direttamente collegati a partiti politici negli USA e in Israele che hanno attinto all’odio e alle paure razziali per alimentare la propria popolarità: nel caso degli USA il GOP [il Great Old Party, il partito repubblicano, ndt.], e in particolare il movimento di Donald Trump con il suo slogan MAGA [Make America Great Again, rendiamo l’America di nuovo grande, ndt.], e nel caso di Israele le coalizioni di destra che hanno sostenuto Bibi Netanyahu e ora sostengono il primo ministro Naftali Bennett.

In effetti questi potenti movimenti politici e i loro benefattori e accoliti nei media hanno fatto da megafono e operato per istituzionalizzare la loro intolleranza. È così, sia che si manifesti negli USA, dove si fa di tutto per scoraggiare gli elettori di colore, si erige un muro lungo la frontiera o si rinchiudono i bambini in gabbie, che in Israele, con un sistema che è stato giustamente condannato perché impone un sistema di apartheid, di cittadinanza di seconda classe, di limitazione dei diritti e di violenza seriale contro i palestinesi.

No, commettendo il suo crimine Gendron non stava lavorando per lo Stato come la polizia israeliana quando ha brutalmente e ingiustificabilmente aggredito coloro che in lacrime seguivano il corteo funebre. Ma il suo razzismo è direttamente collegato a un potente movimento politico statunitense, lo stesso che gli ha messo in mano un’arma, proprio come nel caso della polizia israeliana, che ha bastonato chi trasportava la bara e negato un funerale decente a una cittadina palestinese-americana estremamente rispettata che si meritava molto di meglio.

Naturalmente è facile stabilire un legame fra questi due atti, entrambi spregevoli, ripugnanti e offensivi, secondo qualsiasi norma morale. Ma è pericoloso accostare eventi solo per la loro vicinanza temporale. Sarebbe un errore farlo se tale analogia ne minimizzasse uno o travisasse l’altro.

Detto ciò, sarebbe anche un errore non vedere le somiglianze, poiché i due atti sono in effetti associati a movimenti tossici che rappresentano una gravissima minaccia per i Paesi in questione, specialmente quando questi due Paesi, USA e Israele, sono intimamente legati.

Entrambi sono scaturiti da un odio irrazionale fomentato da politici etno-nazionalisti che hanno reso ancora più possibili tali reati, offrendo la giustificazione per gli attacchi (anche se l’orrendo comportamento era di natura molto diversa) e, in un modo o nell’altro, rendendo disponibili le armi usate per commettere questi crimini. 

(E prima di dire che nell’aggressione israeliana non è morto nessuno, quanti palestinesi innocenti sono morti senza giustificazione per mano di polizia o esercito israeliani? Non sappiamo ancora esattamente a chi appartenessero i proiettili che hanno ucciso Shireen Abu Akleh, ma è persino troppo facile citare altri casi. Sappiamo anche che le indagini sulla sua morte saranno probabilmente inconcludenti e che tali crimini continueranno, spesso in conseguenza del calcolo delle istituzioni israeliane che regolarmente valutano le vite dei palestinesi meno di quelle israeliane.)

Sono ben consapevole che alcuni incaselleranno tale analisi fra le tipiche affermazioni da ebreo americano critico di Israele o del sionismo, spesso equiparate all’antisemitismo dagli esponenti della destra israeliana. Loro, come quelli della destra americana, sono allergici al dissenso e propendono a mettere in dubbio la reputazione dei loro oppositori.

Ma se sionismo significa sostenere il tipo di razzismo di uno Stato creato per fuggirlo, allora sostenerlo e chiudere un occhio davanti alle violazioni e ai valori corrotti che lo appoggiano è in realtà il vero atto di antisemitismo.

Proprio come nel partito Repubblicano negli USA, molti appartenenti all’ala destra del governo israeliano hanno perso la strada e stanno danneggiando il proprio Paese più di quanto non potrebbero farlo i loro nemici. E proprio come negli USA la cura consiste nell’accantonare gli eufemismi, il cerchiobottismo e le scuse e riconoscere che entrambi i nostri Paesi stanno soffrendo per l’istituzionalizzazione di forme di razzismo che vanno nella direzione contraria ai nostri valori fondanti, anche se per niente contrarie alla verità effettiva della storia in entrambe le nazioni.

L’ultimo libro di David Rothkopf si intitola: ‘Traitor: A History of Betraying America from Benedict Arnold to Donald Trump’ [Traditore: una storia del tradimento in America da Benedict Arnold a Donald Trump]. È anche conduttore di podcast e amministratore delegato del Rothkopf Group.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Perché una portavoce israeliana per la lotta all’antisemitismo diffonde la documentazione delle indagini contro un bambino palestinese?

Oren Ziv

26 aprile 2022 – +972 Magazine

La celebre attivista israeliana Noa Tishby ha diffuso foto inedite di un’indagine dell’esercito per giustificare l’arresto di un palestinese di 14 anni.

Le autorità responsabili della sicurezza israeliane stanno consegnando il materiale investigativo alle personalità di spicco online della hasbara [parola ebraica che indica la propaganda a favore dello Stato di Israele attraverso la diffusione di informazioni positive, ndtr.] per guadagnare consensi sui social media? Sembra proprio di sì.

Venerdì scorso l’attrice israeliana Noa Tishby, che questo mese è stata nominata prima portavoce speciale di Israele per la lotta all’antisemitismo e alla delegittimazione di Israele, ha pubblicato un video sulla sua pagina personale di Instagram in risposta a un post della top model palestinese-americana Bella Hadid. Hadid aveva condiviso una testimonianza su Athal al-Azzeh, un ragazzo palestinese di 14 anni arrestato due settimane fa dall’esercito israeliano con l’accusa di aver lanciato pietre, un’accusa che Athal ha categoricamente negato.

Nel suo video di risposta Tishby mostra due foto di un palestinese mascherato che fa rotolare un pneumatico, che sembra facciano parte del fascicolo investigativo dell’esercito israeliano su Athal – dato confermato da sua madre, Jinan, che afferma che le foto le sono state mostrate nel corso di un interrogatorio da agenti israeliani diversi giorni prima del post di Tishby. Il fascicolo dell’indagine, che non è pubblico, è stato molto probabilmente consegnato a Tishby dalle autorità.

Athal è stato arrestato il 15 aprile vicino al Checkpoint 300 a Betlemme, nella Cisgiordania occupata, mentre si dirigeva verso la casa di sua nonna nel campo profughi di Aida, vicino al muro di separazione. Sul luogo non erano in corso proteste ma nelle vicinanze, mentre lui passava, alcuni adolescenti stavano lanciando delle pietre contro la barriera di separazione.

Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, ha detto a +972 il padre di Athal, Ahmad, che svolge la professione di avvocato. Ahmad fa presente che sono passate poche ore prima che la famiglia ricevesse finalmente la notizia dal distretto palestinese dell’Ufficio di Coordinamento e Collegamento (DCO) [Uffici di coordinamento militare israelo-palestinese istituiti nell’ambito dell’accordo Gaza-Gerico del 1994 tra Israele e l’Autorità palestinese, ndtr.] che il loro figlio era stato arrestato, dopodiché hanno ricevuto una telefonata da un investigatore militare israeliano.

“Eravamo felici che fosse vivo, che almeno non l’avessero ucciso, soprattutto in un momento in cui sentiamo costantemente parlare di uso di armi da fuoco contro adolescenti”, dice Ahmad.

L’arresto di Athal ha attirato l’attenzione internazionale dopo che Bella Hadid ha condiviso un commento sul caso da parte dell’attivista israeliano di sinistra Yahav Erez, che ha ricevuto oltre 16.000 ‘mi piace’. Il post di Erez, che mostrava una foto di al-Azzeh mentre suonava il violino e cercava di convincere le autorità israeliane a rilasciarlo, riportava che Athal era “tenuto in ostaggio dall’apartheid israeliana”.

In risposta al post di Erez, Tishby sostenitrice di Israele di vecchia data, la cui nuova posizione di portavoce ricade sotto la competenza del ministero degli Esteri ha sostenuto su Instagram che Hadid stesse “propagandando antisemitismo”.

“Non è vero”, ha detto Tishby ai suoi follower. Non è stato rapito né è tenuto in ostaggio. È stato processato il 16 [aprile], ha visto un giudice due volte e ne è previsto il rilascio il 24. Athal è stato arrestato per aver lanciato sassi e bruciato pneumatici, cosa per cui sarebbe stato arrestato negli Stati Uniti o in qualsiasi altro Paese del mondo rispettoso della legge”.

Nel condividere il post, continua Tishby, Hadid sta “diffondendo odio e disinformazione, che demonizza lo stato ebraico e fa divampare – sì, Bella – divampare l’antisemitismo”, aggiungendo che Athal dovrebbe “concentrarsi maggiormente sul suo violino piuttosto che sulla violenza contro gli ebrei.

Il video di Tishby includeva foto di palestinesi mascherati che sembrano essere state scattate dalle telecamere di sicurezza israeliane posizionate lungo la barriera di separazione, presumibilmente durante gli scontri con le forze israeliane. Jinan, la madre di Athal, ha detto che mercoledì scorso, diversi giorni prima che Tishby pubblicasse il suo video, dopo essere stata condotta alla stazione di polizia di Atarot, gli agenti israeliani che la interrogavano le hanno mostrato, tra l’altro, le due foto viste nel pezzo postato da Tishby.

“Ho visto le foto che sono apparse su Instagram”, ricorda. Sono esattamente le stesse foto [che mi hanno mostrato]. Mi hanno mostrato le due immagini e volevano che dicessi che era mio figlio, ma ho detto loro che non lo era. Mi hanno chiamata bugiarda”.

Dal momento del suo arresto Athal ha affrontato quattro udienze presso il tribunale militare di Ofer, una delle quali si è svolta martedì scorso. È stato accusato di lancio di pietre e di aver dato fuoco a pneumatici. “Mio figlio non ha fatto nulla e ha negato tutte le accuse contro di lui”, afferma Jinan. “Nel corso delle indagini hanno continuato a fare pressioni su di lui con l’uso di tattiche psicologiche per costringerlo a confessare”.

Ahmad ha detto che quando ha incontrato suo figlio a Ofer Athal gli ha riferito che gli agenti che conducevano l’interrogatorio lo hanno minacciato di tenerlo in prigione “per sempre”, ma Athal si è rifiutato di ammettere le accuse. “Ciò li disturba”, ha aggiunto Ahmad. Io stesso sono un avvocato e molto spesso in casa abbiamo parlato della legge. Lui lo sa”. Athal ha anche detto ai suoi genitori che se si fosse rifiutato di confessare, anche loro sarebbero stati sottoposti ad interrogatorio. Le autorità hanno mantenuto la loro promessa e la scorsa settimana hanno convocato Jinan.

Violazione del diritto ad un procedimento equo

Non sorprende che, nonostante le affermazioni di Tishby, Athal non sia stato rilasciato il 24 aprile, ma al contrario sia stato portato per un’udienza a Ofer, dove la sua custodia cautelare è stata prolungata.

Ho visto il post [di Tishby]. Speravo che riportasse la verità e che sarebbe stato rilasciato, ma sfortunatamente non è stato così”, dice Ahmad. Non ho alcuna speranza, ma chissà. Voglio continuare a credere che Dio lo aiuti e che il giudice ordini il rilascio di [Athal]”.

Lo stesso Ahmad ha pubblicato due commenti sul video di Tishby su Instagram prima e dopo l’indicazione da parte sua della data di rilascio. Tra le altre osservazioni ha scritto (riformulato per maggiore chiarezza): Ti permetti di essere poco professionale e di parlare a nome dell’intelligence israeliana. Stai diffondendo bugie su un ragazzo innocente di 14 anni”. Trascorso il 24 aprile, ha pubblicato un’ulteriore risposta: “Athal è stato torturato dal tuo esercito e la madre di Athal è stata sottoposta a un inferno di interrogatori che volevano costringerla a condannare suo figlio – hai qualche risposta in merito? Mentre ti godi l’abbronzatura sulla spiaggia noi palestinesi veniamo torturati dal tuo governo”.

In un’udienza tenutasi martedì presso il tribunale militare di Ofer il giudice Noam Breiman ha ordinato il rilascio di Athal su una cauzione di 4.000 NIS [nuovi shekel israeliani, 1147 euro, ndtr.], nonché una cauzione sulla responsabilità di terzi di 5.000 NIS [1433 euro, ndtr.]. I procedimenti legali continueranno e Athal rischia di essere giudicato alla fine di maggio.

Il giudice ha stabilito che il lancio di pietre avvenuto durante il passaggio di Athal non era diretto ai soldati israeliani ma piuttosto a una torre di guardia e che a causa della sua taglia fisica è dubbio che le pietre possano aver causato danni significativi.

L’arresto di minori palestinesi, compresi adolescenti, è una pratica israeliana comune nella Cisgiordania occupata. Secondo Addameer, un’organizzazione impegnata a favore dei diritti dei prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e palestinesi, Israele detiene attualmente in prigione 160 minori palestinesi.

Proprio questa settimana Haaretz ha riferito che, secondo i dati dell’esercito, tra il 2018 e l’aprile 2021, il 96% dei processi nei tribunali militari israeliani si è concluso con una condanna e il 99,6% di tali condanne è stato ottenuto tramite un patteggiamento. Questa tendenza dominante è evidente nel caso di Athal, poiché l’esercito e il sistema giudiziario militare cercano chiaramente di fare pressioni su di lui affinché confessi le accuse durante gli interrogatori, aprendo la strada a un patteggiamento.

Riham Nassra, un avvocato che rappresenta i detenuti palestinesi nei tribunali militari, ha affermato che la pubblicazione di materiale investigativo prima che venga emessa un’accusa, come ha fatto Tishby, è illegale e indica che il materiale è effettivamente trapelato. “Anche se quei materiali sono stati in qualche modo presentati all’udienza del tribunale, era illegale che venissero diffusi: ciò viola il diritto a un processo equo, soprattutto quando si tratta di un minore la cui udienza si tiene a porte chiuse e può anche interrompere o danneggiare l’indagine”.

Il ministero degli esteri israeliano, che sovrintende al ruolo di Tishby come portavoce speciale per la lotta all’antisemitismo, ha dichiarato: “Il video di Noa Tishby è stato pubblicato in risposta a un video ingannevole pubblicato sui social media con informazioni deliberatamente false sull’arresto di un giovane palestinese, al fine di offuscare l’immagine di Israele e delegittimare le sue azioni. In coordinamento con vari organismi abbiamo condotto un esame dei fatti che hanno costituito la base per la risposta di Noa Tishby. Le foto pubblicate non rivelano il volto del detenuto e quindi non vi è alcun impedimento alla loro pubblicazione. In particolare, il ministero degli Esteri non ha negato esplicitamente di aver consegnato i materiali per la pubblicazione da parte di Tishby.

Il portavoce dell’IDF [esercito israeliano, ndtr.] deve ancora rispondere alla nostra richiesta di commento.

Oren Ziv è un fotoreporter e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [organizzazione internazionale di fotografi e fotoreporter che utilizzano l’immagine fotografica come strumento contro ogni forma di oppressione, razzismo e discriminazione, in particolare nel territorio palestinese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Niente fa sì che i progressisti abbandonino i loro valori, o il loro coraggio, quanto menzionare la Palestina

Arwa Mahdawi

12 marzo 2022, The Guardian

Come il padre di Gigi Hadid, anche il mio è un rifugiato palestinese e sono stata vessata per aver sostenuto che anche i palestinesi sono degni dei diritti umani

Progressisti tranne che per la Palestina

Cosa inizia con “P” e finisce con “A” ed è una parola troppo terrificante per molte persone persino da menzionare? “Palestina”, ovviamente! Semplicemente citare la parola con la P in modo anche solo vagamente empatico è sufficiente a suscitare accuse in malafede di antisemitismo. L’argomento è diventato talmente scottante da far pensare che alcune persone preferiscano sostenere che la Palestina e i palestinesi non esistono e ignorare semplicemente tutta la questione. Niente fa sì che i progressisti abbandonino i loro valori, o il loro coraggio, quanto menzionare la Palestina.

Vogue, qui sto parlando di te. Recentemente la rivista ha pubblicato un riferimento alla Palestina tratto da un post su Instagram sulla sua pagina ufficiale nella rete sociale dedicato alla promessa della supermodella Gigi Hadid di donare tutto il suo compenso per la Settimana della Moda alle attività di soccorso in Ucraina e in Palestina. La scorsa domenica Gigi, che è per metà palestinese, ha annunciato che avrebbe devoluto il suo compenso “all’aiuto di quanti sono vittime della guerra in Ucraina, e anche per continuare a sostenere quanti hanno subito la stessa sorte in Palestina. I nostri occhi e i nostri cuori devono essere sensibili a tutte le ingiustizie del mondo.” Inizialmente Vogue ha incluso il riferimento alla Palestina nel post, ma poi lo ha tolto dopo che è stato accusato da alcune voci filo-israeliane, decisamente in malafede, di promuovere l’antisemitismo. Dopo la protesta di persone che hanno evidenziato che non è antisemita appoggiare i palestinesi, Vogue ha poi corretto per la terza volta il post reinserendo il riferimento.

Peraltro non è la prima volta che una Hadid vede cancellare su Instagram i propri commenti sulla Palestina. Lo scorso anno Bella Hadid ha postato su Instagram una foto del passaporto statunitense di suo padre, in cui viene indicata la Palestina come luogo di nascita. La rete sociale l’ha subito cancellata. Perché? Secondo Instagram il post violava “le linee guida della comunità su persecuzione o bullismo”, così come regole sul “discorso d’odio”. Dopo che Bella ha protestato Instagram ha fornito qualche altra spiegazione per la rimozione e poi ha affermato: “Ops, è stato un errore!”

Come il padre delle sorelle Hadid anche il mio è un rifugiato palestinese. Come le sorelle Hadid, anch’io sono stata aggredita e vilipesa per aver osato suggerire che i palestinesi sono degni dei diritti umani. (A differenza delle sorelle Hadid, purtroppo io non sono una supermodella). Come ho scritto in precedenza, a quanto pare per i palestinesi non c’è un modo accettabile di protestare contro l’oppressione o di difendere i propri diritti.

L’invasione russa dell’Ucraina è straziante. Ma voglio essere molto chiara sul fatto che stare dalla parte degli ucraini, come tutti noi dobbiamo fare, non significa ignorare ingiustizie e oppressione altrove. Sollevare domande sul doppio standard non sminuisce la lotta del popolo ucraino. Per esempio, non svia né distrae da quello che sta avvenendo in Ucraina chiedere perché una foto virale di una ragazzina bionda che affronta un soldato davanti a un carrarmato è stata esaltata quando la gente pensava che la ragazza fosse un’ucraina, ma trattata in modo molto diverso quando è stato sottolineato che in realtà si trattava Ahed Tamimi, una palestinese, che affrontava un soldato israeliano.[vedi su Zeitun]

Invece è assolutamente fondamentale fare questo tipo di domande. “L’ingiustizia in qualunque luogo è una minaccia alla giustizia ovunque,” ha affermato Martin Luther King. Queste non sono solo belle parole. Quando ignori le leggi internazionali in un’area ciò contribuisce a indebolire le leggi internazionali in tutto il mondo. Quando alzi le spalle riguardo all’oppressione in un luogo, contribuisci ad aprirle la porta altrove. La solidarietà non è una distrazione, è un verbo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il discorso dell’ambasciatrice israeliana a Cambridge è stato interrotto quando gli studenti hanno inscenato un sit-in

Areeb Ullah

8 febbraio 2022 – Middle East Eye

In precedenza Tzipi Hotovely aveva descritto la Nakba come una “menzogna araba” e si era opposta alle rivendicazioni palestinesi sulla Cisgiordania

Impugnando le bandiere della Palestina e cantando “Palestina libera”più di 100 studenti dell’Università di Cambridge hanno manifestato contro l’ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, Tzipi Hotovely, della quale era previsto un discorso martedì alla Cambridge Union

Hotovely, che ha servito come ministro delle colonie sotto l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu, ha parlato alla Cambridge Union mentre all’esterno imperversavano le proteste contro l’ambasciatrice.

La “Union”, un club privato ​​per il quale i partecipanti devono pagare, ha ospitato l’evento nonostante le critiche di una serie di organizzazioni studentesche.

I manifestanti stazionavano fuori dall’edificio della “Union”, dove i partecipanti erano in coda per entrare. Gli organizzatori hanno vietato ai partecipanti di portare borse all’evento e hanno proibito loro di registrare il discorso.

Quando l’evento è iniziato, i manifestanti si sono spostati sul retro dell’edificio, dove era parcheggiato il convoglio dell’ambasciatrice, e hanno bloccato l’ingresso del parcheggio.

I manifestanti hanno portato tamburi e cartelli mentre gridavano slogan tramite un altoparlante come “Palestina libera” e “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”.

Fonti all’interno della “Union” che hanno assistito al discorso hanno riportato a Middle East Eye che il discorso della Hotovely è stato interrotto a causa del rumore proveniente dalle proteste.

I manifestanti hanno quindi organizzato un sit-in e bloccato l’ingresso del parcheggio dove sostava il convoglio dell’ambasciatrice israeliana, mentre la polizia armata di taser cercava di sgomberare i manifestanti.

Opposizione

Gli organizzatori della protesta alla fine hanno ceduto e hanno interrotto il loro sit-in dopo che era stato loro riportato che la protesta era riuscita a interrompere il discorso dell’ambasciatrice.

Hotovely è stata successivamente nascosta da un ombrello e impacchettata nella sua macchina mentre i manifestanti sono rimasti fuori a cantare “vergognati” e “Palestina libera”.

Un portavoce della Cambridge University Palestine Society, che ha voluto rimanere anonimo, ha affermato che la protesta è stata organizzata in opposizione al “sistema” rappresentato da Hotovely.

“Hotovely rappresenta e sostiene un apparato statale che diverse organizzazioni hanno accusato di praticare l’apartheid e crimini contro l’umanità “, ha detto il portavoce a MEE.

Pensiamo che a chiunque rappresenti uno Stato impegnato in pratiche illegali e abusi dei diritti umani non dovrebbe essere dato uno spazio nella nostra città e università. Questa protesta non riguarda solo la condanna di Hotovely come singola persona e per ciò che ha detto, ma vuole rappresentare rifiuto delle pratiche in cui si impegna e rappresenta, come mobilitazioni violente dei coloni contro i palestinesi, le pratiche illegali e le violazioni dei diritti umani”.

‘Solidarietà ebraica’

Anche Chaya Kasif, una studentessa ebrea dell’Università di Cambridge, ha partecipato alla protesta pro-Palestina di martedì contro Hotovely.

Tenendo un cartello che diceva: “Solidarietà ebraica da Gadigal [in Australia] a Gaza”, Kasif ha descritto la sua presenza alla protesta come un’opportunità per mostrare sostegno ai palestinesi.

Il discorso di Hotovely arriva dopo che Amnesty International ha pubblicato un rapporto lungamente atteso che accusa Israele di praticare l’apartheid nei territori palestinesi e in Israele.

L’anno scorso, centinaia di studenti hanno protestato contro la presenza di Hotovely alla London School of Economics, dove ha tenuto una conferenza sul conflitto israelo-palestinese.

Hotovely ha fatto notizia a livello nazionale quando è stato pubblicato online il filmato di lei mentre veniva accompagnata di corsa alla sua macchina mentre gli attivisti studenteschi protestavano contro la sua presenza nel campus.

L’ambasciatrice ha accusato gli studenti di antisemitismo, ma gli studenti hanno risposto affermando che la loro protesta non era razzista.

Da quando è diventata ambasciatrice in UK Hotovely ha cercato la polemica.

Nel 2020, durante un evento ospitato dal consiglio dei rappresentanti degli ebrei britannici [Il Board of Deputies of British Jewish è la più grande organizzazione comunitaria ebraica nel Regno Unito, ndtr.], Hotovely ha affermato che la Nakba, l’espropriazione di massa e l’espulsione dei palestinesi dalle loro case durante la fondazione di Israele, è una “menzogna araba”

Si è anche opposta a qualsiasi pretesa palestinese sulla Cisgiordania, a Gaza o a Gerusalemme est, ha sostenuto l’espansione delle colonie israeliane e si è opposta ai matrimoni misti di ebrei e palestinesi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Sconfiggere la caccia alle streghe dell’IHRA: un’intervista all’attivista e docente palestinese Shahd Abusalama

Ramona Wadi

7 febbraio 2022 – Mondoweiss

Shahd Abusalama riflette sulla sua ingiusta sospensione dall’università Hallam di Sheffield dovuta a false accuse di antisemitismo e sulla mobilitazione popolare che ha contribuito alla sua riammissione.

L’università Hallam di Sheffield aveva sospeso Shahd Abusalama dal suo incarico di lettrice associata dopo che il mese scorso erano state lanciate contro di lei accuse anonime. L’iniziativa ha provocato un’ondata di appoggi all’accademica palestinese e ha acceso una discussione sul modo in cui governi ed istituzioni sono complici di Israele nell’adottare la definizione di antisemitismo [che negli esempi assimila antisionismo e critiche a Israele all’antisemitismo, ndtr.] dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto [ente intergovernativo cui aderiscono 34 Stati, ndtr.] (IHRA) allo scopo di reprimere le critiche a Israele e silenziare la narrazione palestinese.

Abusalama è stata sospesa in seguito ad una serie di tweet in cui esprimeva la propria opinione sull’uso da parte di uno studente del primo anno delle parole “Stop all’olocausto palestinese” in un manifesto del dicembre 2021. ‘Jewish News – UK’ [Il quotidiano gratuito filoisraeliano che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] ha riferito che l’università stava indagando sui tweet. Il 21 gennaio, mentre si preparava a tenere una lezione, ad Abusalama è stata notificata la sospensione e la sua lezione è stata annullata. La natura dell’accusa e l’identità di chi stava dietro la denuncia non sono trapelati.

Non è la prima volta che Abusalama, dottoranda ed attivista di Gaza trasferitasi nel Regno Unito nel 2014, è stata presa di mira dai propagandisti sionisti per le sue attività. Parlando a Mondoweiss, Abusalama sottolinea che il suo caso è stato paragonato a quelli di Jeremy Corbyn e David Miller, entrambi bersagli dei sionisti. “Ma occorre fare una distinzione. Sì, si è vittime della stessa caccia alle streghe, ma le conseguenze sono diverse perché viviamo in una società ineguale in cui alcune persone hanno maggiori privilegi di altre. Loro due sono bianchi, anziani ed hanno cittadinanza europea. Io non ho nessuna di queste caratteristiche, sapete. Io sono vulnerabile in così tanti modi che il fatto che la definizione dell’IHRA sia stata usata dall’università per la prima volta contro una palestinese dimostra come noi siamo i più vulnerabili a questa nefasta e subdola definizione.”

Abusalama descrive la campagna contro di lei come malvagia. “Ma mostra anche un modo di agire storicamente ricorrente di come i palestinesi vengono trattati come eccezione alla regola.” I palestinesi, dice, sono trattati come un’eccezione quando si tratta di diritti umani e autodeterminazione, e le azioni dell’università nei suoi confronti hanno ribadito la radicata politica israeliana di razzismo e colonialismo, che fondamentalmente assoggetta i palestinesi, le loro storie e le loro esperienze per mantenere i privilegi concessi ai colonizzatori.

Abusalama ha detto che durante un precedente incontro con il responsabile delle risorse umane dell’università le è stato espresso rammarico per la cattiva gestione della situazione e l’insensibilità verso il benessere degli studenti, le cui lezioni sono state bruscamente annullate. “Infatti non dimentichiamo che la mia sospensione ha implicato che le lezioni sarebbero state annullate fino a nuova comunicazione e quindi anche i miei studenti sono stati colpiti dal comportamento scorretto e dalla risposta da parte dell’università. Il fatto che riconoscano tutti gli errori commessi è un passo nella giusta direzione, ma l’indagine è ancora in corso, perciò tutto questo non è ancora finito. Essa si basa sulla definizione dell’IHRA e l’università ha parlato alla stampa sionista senza prima consultarmi. Si sono letteralmente arresi alla campagna di diffamazione condotta dai media sionisti, comunicando con loro riguardo al mio lavoro senza parlarmene prima e dicendo loro che la mia università stava indagando su di me, senza che io lo sapessi.”

L’immagine che Israele ha costruito nei decenni contando sull’appoggio colonialista si sta lentamente incrinando, grazie alla maggioranza, come Abusalama definisce i palestinesi e gli oppressi. “La pressione popolare funziona e se noi contrattacchiamo possiamo vincere”, sostiene Abusalama, “grazie a tutta questa ondata di sostegno arrivata da ogni parte del mondo – sostenitori di tutte le nazioni, di tutte le fedi, di tutte le razze in tutto il mondo – e questo sostegno è una carta fondamentale nella lotta per la Palestina. Dobbiamo ricordare che siamo la maggioranza e che abbiamo dalla nostra parte la giustizia, le risoluzioni dell’ONU, il diritto internazionale e tutte le convenzioni internazionali – anche la Corte Internazionale di Giustizia è dalla nostra parte. E lo sono persino le organizzazioni israeliane per i diritti umani.”

Certo, l’ondata di sostegno ad Abusalama sulle piattaforme social contrasta con l’attività della lobby sionista, che conta sulle campagne per intimidire e mettere a tacere. Usare come arma la definizione dell’IHRA, che è abbastanza ambigua da rispondere alla strategia politica suprematista israeliana, è una tattica che dovrebbe essere accuratamente analizzata.

Ci sono stati molti timori che la definizione dell’IHRA potesse essere usata per soffocare le critiche a Israele, in particolare prendendo di mira sia persone di nazionalità che sono direttamente coinvolte con le politiche israeliane, come ad esempio la popolazione palestinese o libanese, sia accademici i cui percorsi di ricerca includono analisi delle politiche israeliane. Altri, al di fuori dell’ambito universitario, si sono preoccupati che l’eliminazione delle critiche ad Israele possa condurre alla “censura e cancellazione dell’opposizione palestinese alla violenza che continua a espropriarli.” A questo punto risulta chiaro che, quando le università adottano la definizione dell’IHRA, ciò comporta una partecipazione diretta all’ostilità sionista nei confronti dei palestinesi e delle voci filopalestinesi. Inoltre essa disprezza la memoria collettiva dei palestinesi e l’esperienza vissuta della perdurante Nakba di Israele.

Se chiedete a qualcuno come me se Israele ha un comportamento razzista, è superfluo dire che lo è. Io sono una vittima della loro pulizia etnica. La mia famiglia è una vittima della loro pulizia etnica – 531 villaggi e città palestinesi completamente spopolati dalle loro popolazioni native e distrutti, cosa che è un atto di memoricidio che è denunciato da molte persone, persino da storici israeliani”, dice Abusalama. “Israele cerca disperatamente di arrogarsi il ruolo di vittima, ma solo per distogliere l’attenzione dalla reale vittima del suo crimine e questo è stato denunciato prima della creazione dello Stato.”

Abusalama sottolinea che all’interno del consiglio per le colonie del governo britannico vi erano degli ebrei che si sono schierati contro la costruzione del giudaismo come identità nazionale. “È stata una grande ingiustizia anche solo pensare di costruire uno Stato sionista in cui i palestinesi sarebbero stati del tutto trascurati e questo avvenne contemporaneamente alle promesse britanniche agli arabi sull’autodeterminazione della Palestina. Cosa che era l’orientamento della potenza mandataria in quell’epoca seguente alla prima guerra mondiale: sosteneva di voler condurre quella popolazione occupata all’indipendenza e all’autonomia. Ma, mentre la maggioranza delle comunità colonizzate nel mondo andava verso la decolonizzazione, i palestinesi rimasero bloccati sotto il colonialismo ed il potere coloniale passò dai britannici ad Israele. La Gran Bretagna lasciò la Palestina il 14 maggio 1948, dopo 30 anni di distruzione e colonialismo di insediamento. Trascorsero poche ore tra il ritiro britannico dalla Palestina e la dichiarazione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948. Ciò avvenne sullo sfondo della pulizia etnica che schiacciò e distrusse la terra di Palestina ed il suo popolo. E questo processo continua tuttora a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme, nella maggior parte dei quartieri di Gerusalemme, a Beita, Hebron e dovunque, anche nel nord della Palestina. Questo è chiarissimo nei rapporti di B’Tselem che condannano l’apartheid israeliano. Un regime di apartheid che si estende dal fiume Giordano al mar Mediterraneo.”

In un contesto di prove storiche della pulizia etnica di Israele e delle perduranti ripercussioni dell’ espansione delle sue colonie di insediamento, ora si criminalizza l’attivismo invece di richiamare Israele alle sue responsabilità in base al diritto internazionale.

Dice Abusalama: “Quando noi diciamo ‘Palestina libera dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]’ vogliamo dire che queste prassi oppressive dal fiume al mare e anche oltre, come evidenzia il mio caso, devono finire. Devono finire. Ma persino questo bello slogan di liberazione viene tacciato di antisemitismo. Persino ‘la solidarietà è un verbo’ [altro slogan del movimento filo-palestinese, ndtr.] in questa atmosfera è antisemitismo. È preoccupante e deve preoccupare le persone a cui importa qualcosa dell’umanità e dei diritti umani. Nessuno è al sicuro. Nessuno è al sicuro finché continua l’ingiustizia in tutto il mondo. Basta vedere come Israele usa il suo modello di oppressione contro i palestinesi e lo vende ad altri Stati oppressivi perché lo usino contro i diversi che non vogliono avere sul loro territorio.”

Abusalama è stata categorica nel non accettare alcuna inchiesta basata sulla definizione dell’IHRA. “Non accetterò di essere valutata sulla base di falsi presupposti e credo che questa indagine dovrebbe essere lasciata cadere. Si tratta di una motivazione intrinsecamente razzista e fuorviante, che viene imposta alle università da politici al governo qui nel regno Unito, tagliando loro i fondi se non adottano la definizione dell’IHRA. Gavin Williamson, Ministro dell’Istruzione del Regno Unito, ha imposto alle università la definizione dell’IHRA ed ha addirittura fissato una scadenza entro la quale la mancata adozione della definizione dell’IHRA comporterà la cancellazione dei finanziamenti. Questo è un vulnus all’autonomia universitaria che non può essere accettato, che tu sia palestinese o no. L’ingerenza del governo nelle attività universitarie dimostra quanto sia politico questo strumento della definizione dell’IHRA e quanto sia utile praticamente solo agli interessi britannici, israeliani ed imperialisti.”

Dopo la nostra conversazione Abusalama è stata reintegrata. Il 2 febbraio il sindacato dell’università e del college Hallam di Sheffield ha approvato una mozione che chiede all’università di chiedere pubblicamente scusa, di interrompere ogni indagine contro di lei che sia basata sulla definizione dell’IHRA e di stabilire una sospensione dell’utilizzo della definizione nelle azioni disciplinari dell’università.

Il giorno seguente Abusalama è stata informata dall’università che non verrà condotta alcuna ulteriore indagine. Ora è completamente scagionata dalle false accuse di antisemitismo sollevate contro di lei in base alla definizione dell’IHRA e le è stato offerto un contratto più stabile con l’università.

Ramona Wadi

Ramona Wadi è ricercatrice indipendente, giornalista freelance, critica letteraria e blogger. I suoi lavori si occupano di una serie di tematiche relative a Palestina, Cile e America Latina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Cosa rende diverso il rapporto di Amnesty?

Maureen Clare Murphy

3 febbraio 2022 – Electronic Intifada

Cosa rende diverso da quelli che l’hanno preceduto il nuovo rapporto di Amnesty International secondo cui Israele pratica il crimine di apartheid contro i palestinesi?

Sicuramente la reazione di Israele, “isterica” nelle parole di un titolo di Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], all’analisi di Amnesty è notevolmente diversa dalla sua risposta, relativamente di basso profilo, a rapporti simili recentemente resi pubblici da B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, e da Human Rights Watch, con sede a New York.

Organizzazioni palestinesi per i diritti umani come Al-Haq e Al Mezan hanno da molto prima presentato un quadro generale di apartheid, e i rapporti delle summenzionate associazioni israeliane e internazionali prendono spunto dal loro lavoro.

Amnesty, Human Rights Watch e B’Tselem hanno esaminato il sistema di controllo di Israele che privilegia gli ebrei israeliani in tutta la Palestina storica, emargina i palestinesi e viola i loro diritti in vario modo, in larga misura a seconda di dove essi vivano.

E, a differenza delle analisi pubblicate dalle associazioni palestinesi, questi tre rapporti, accolti come rivoluzionari e innovativi, sono inadeguati nel collocare il sistema dell’apartheid di Israele nel contesto del colonialismo di insediamento. (Una ricerca delle parole chiave nel rapporto di Amnesty dà tre risultati per i termini “colonialismo” e “coloniale”, che si trovano nei titoli di lavori citati nelle note.)

Amnesty sottolinea ripetutamente “il tentativo di Israele di conservare il suo sistema di oppressione e dominazione” senza mettere esplicitamente in chiaro che l’apartheid è un mezzo il cui fine è la colonizzazione di insediamento: cacciare i palestinesi dalla terra in modo che siano sostituiti da coloni provenienti dall’estero.

L’organizzazione per i diritti afferma che “dalla sua fondazione nel 1948 Israele ha perseguito una politica esplicita di creazione e conservazione di un’egemonia demografica ebraica e massimizzazione del suo controllo sulla terra a favore degli ebrei israeliani, riducendo nel contempo al minimo il numero di palestinesi, limitandone i diritti e ostacolandone la possibilità di resistere a questa spoliazione.”

Onore al merito: Amnesty fa piazza pulita del mito fondativo di Israele, riconoscendo che è stato razzista fin dall’inizio, una presa di distanza dal tipico atteggiamento progressista secondo cui nel corso del tempo Israele in qualche momento si è allontanato dai suoi ideali.

Amnesty evidenzia persino che “molti elementi del sistema militare repressivo di Israele nei TPO [territori palestinesi occupati, ndtr.] (Cisgiordania e Gaza) hanno origine nel regime militare israeliano sui palestinesi cittadini di Israele durato 18 anni,” iniziato nel 1948, “e che la spoliazione dei palestinesi di Israele continua fino a oggi.”

Amnesty riconosce anche che “nel 1948 singoli individui e istituzioni ebraiche detenevano circa il 6,5% della Palestina mandataria, mentre i palestinesi erano in possesso del 90% della terra di proprietà privata,” in riferimento a tutta la Palestina storica prima della fondazione dello Stato di Israele. “In soli 70 anni la situazione è stata ribaltata,” aggiunge l’organizzazione.

E questo è l’obiettivo di Israele – il “sistema di oppressione e dominazione” sottolineato da Amnesty è il mezzo attraverso cui esso ha usurpato la terra palestinese a favore di coloni provenienti dall’estero.

Dopotutto i coloni sionisti non sono andati in Palestina dall’Europa con l’intenzione di dominare e opprimere i palestinesi: essi sono arrivati con l’intenzione di colonizzarne la terra.

Come afferma il Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro Palestinese di Assistenza Legale e Diritti Umani di Gerusalemme, ndtr.], un’organizzazione palestinese, “ogni riconoscimento di Israele come Stato di apartheid dovrebbe essere collocato all’interno del contesto del suo regime di colonialismo d’insediamento.”

Amnesty evita anche di esaminare e mettere in discussione il sionismo, l’ideologia razzista dello Stato di Israele attorno alla quale si è organizzato il suo progetto di colonialismo d’insediamento.

Come ha chiesto mercoledì Adalah-NY, un’associazione di sostegno con sede negli USA: “È possibile porre fine all’apartheid senza fare altrettanto con il progetto colonialista d’insediamento sionista?”

Un lavoro preliminare per obbligare a pagare le conseguenze

Nonostante questi limiti problematici, l’analisi di Amnesty pone una solida base per considerare Israele responsabile all’interno del carente contesto delle leggi internazionali e fa energiche raccomandazioni per porvi fine.

Amnesty si unisce alle associazioni palestinesi che sollecitano la Corte Penale Internazionale a “indagare sulla messa in atto del crimine di apartheid” e la sua procura generale a “prendere in considerazione l’applicabilità del crimine contro l’umanità di apartheid all’interno della sua attuale indagine formale” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Dato che la CPI non ha giurisdizione territoriale in Israele, Amnesty chiede al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di sottoporre “tutta la situazione alla CPI” oppure di creare “un tribunale internazionale per processare i presunti responsabili” del crimine contro l’umanità di apartheid.

Amnesty aggiunge che il Consiglio di Sicurezza “deve anche imporre sanzioni mirate, come il congelamento dei beni, contro i politici israeliani più coinvolti … e un complessivo embargo militare contro Israele.”

Ripetendo il suo “appello di lunga data” agli Stati perché sospendano ogni forma di assistenza militare e vendita di armamenti a Israele, Amnesty chiede anche alle autorità palestinesi di “garantire che ogni tipo di accordo con Israele, principalmente attraverso il coordinamento per la sicurezza, non contribuisca a mantenere il sistema di apartheid contro i palestinesi” in Cisgiordania e a Gaza.

Amnesty afferma inoltre che Israele deve riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e fornire alle vittime palestinesi “risarcimenti completi”, compresa la “restituzione di tutte le proprietà acquisite su base razziale.”

Queste richieste di Amnesty, che afferma di essere la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, vanno molto oltre quelle fatte da Human Rights Watch e da B’Tselem.

Ciò spiega in certa misura perché Israele e i suoi alleati e apologeti abbiano tentato di fare pressione su Amnesty perché ritirasse il suo rapporto prima della pubblicazione e, non essendovi riusciti, ora stanno ricorrendo alle solite accuse senza fondamento di antisemitismo.

Yair Lapid, ministro degli Esteri di Israele, ha cercato di screditare il rapporto di Amnesty affermando che esso “riecheggia la propaganda” e “le stesse menzogne condivise da organizzazioni terroristiche,” in riferimento a importanti associazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali da Israele.

Se Israele non fosse uno Stato ebraico, nessuno ad Amnesty avrebbe osato fare simili affermazioni contro di esso,” ha aggiunto Lapid.

Nel suo rapporto Amnesty osserva che “le organizzazioni palestinesi e i difensori dei diritti umani che hanno guidato la sensibilizzazione contro l’apartheid e si sono impegnati in campagne hanno subito per anni la repressione israeliana come punizione per il loro lavoro.”

Mentre definisce “organizzazioni terroristiche” le associazioni palestinesi per i diritti umani, Israele sottopone “le organizzazioni israeliane che denunciano l’apartheid a campagne di calunnie e delegittimazione,” aggiunge Amnesty.

Israele potrebbe scoprire che tali tattiche, quando utilizzate contro la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, potrebbero non convincere nessuno al di fuori della sua cerchia.

Il suo tentativo di “anticipare la faccenda”, che sarebbe stato guidato dal primo ministro israeliano Naftali Bennett insieme a Lapid attaccando preventivamente il rapporto di Amnesty, è solo servito a rafforzare la correlazione tra Israele e l’apartheid.

Ha anche garantito che “il rapporto avesse una pubblicità molto maggiore di quella di cui avrebbe beneficiato,” come ha osservato un editorialista di Haaretz.

Rendere noto al grande pubblico il contesto di apartheid

C’è un’altra differenza fondamentale tra il rapporto di Amnesty sull’apartheid e quelli che lo hanno preceduto.

Amnesty International è un’organizzazione che fa campagne con milioni di membri e sostenitori che, afferma l’organizzazione, “rafforzano la nostra richiesta di giustizia.”

Amnesty ha accompagnato il suo rapporto con un corso in rete di 90 minuti intitolato “Decostruire l’apartheid israeliano contro i palestinesi.”

Ha anche prodotto un documentario di 15 minuti per un vasto pubblico disponibile su YouTube che analizza la domanda se Israele pratica l’apartheid.

Finora la lista di attività di Amnesty include solo il fatto di inviare una cortese lettera a Naftali Bennett, primo ministro israeliano, contro le demolizioni di case e le espulsioni, cose per niente entusiasmanti.

Invece la sezione statunitense di Amnesty ha fatto bizzarre smentite per distinguersi dal movimento per il boicottaggio, disinvestimento e le sanzioni guidato dai palestinesi ed ha persino affermato che l’organizzazione non prende posizione sull’occupazione in sé, concentrandosi invece sugli obblighi di Israele “come potenza occupante, in base alle leggi internazionali”.

Sia Amnesty International che Human Rights Watch hanno sede in Paesi imperialisti e sono state create nel contesto della guerra fredda perché si concentrassero principalmente sulla rivendicazione dei diritti di persone nei Paesi comunisti dell’Europa orientale.

Il loro quadro ristretto e l’ideologia costitutiva le hanno portate ad opporsi alle lotte di liberazione anticolonialiste e alla violenza che esse implicavano perché, come ha detto Nelson Mandela, “è l’oppressore che definisce la natura della lotta e spesso l’oppresso è lasciato senza altri mezzi se non ricorrere a metodi che rispecchiano quelli dell’oppressore.”

Queste contraddizioni fondamentali significano che le associazioni occidentali per i diritti umani prenderanno sempre posizioni di compromesso, se non dannose, contrarie alla liberazione dei palestinesi, e Human Rights Watch recentemente ha suggerito un’equivalenza etica tra la violenza utilizzata da Israele contro i palestinesi assediati a Gaza e quella della resistenza palestinese contro di esso.

Ma i materiali didattici di Amnesty, comprendenti un lungo documento con domande e risposte, contribuiranno a preparare i militanti di base per rispondere ai sostenitori di Israele che intendano sviare le critiche alle prassi dello Stato attaccando chi le divulga.

Dopotutto, come ha detto su Twitter un acuto osservatore, questa è l’unica freccia a disposizione dell’arco di quanti sono impegnati a mantenere il governo di apartheid di Israele e la situazione di impunità.

Il rapporto di Amnesty è un potente indicatore che un’analisi al di là dell’occupazione del 1967 in Cisgiordania e a Gaza sta diventando di dominio pubblico.

Nel contempo Israele e i suoi alleati e sostenitori nel Congresso USA e nel Dipartimento di Stato hanno tirato in ballo triti argomenti, ignorando nel contempo la sostanza dei risultati di Amnesty.

(Al contrario, pochi parlamentari del partito Democratico hanno pubblicamente sostenuto le conclusioni di Amnesty, e Cory Bush [afroamericana eletta nel Missouri, ndtr.] ha chiesto di porre fine al “sostegno USA, con i soldi dei contribuenti, a questa violenza”).

Ma, come politici dell’ONU e dell’UE che blaterano noiosamente all’infinito sul loro impegno per un’inesistente processo di pace verso la soluzione a due Stati, quanti ripetono a pappagallo questi argomenti della lobby israeliana così slegati dalla realtà appaiono sempre più ridicoli.

Israele teme un rapporto ONU

Mentre respingono il termine “apartheid” e attacca Amnesty, Israele e i suoi alleati e sostenitori hanno gli occhi puntati su una minaccia ancora maggiore per l’impunità di Israele.

Secondo un dispaccio del ministero degli Esteri israeliano visionato dal periodico Axios [sito statunitense di notizie, ndtr.], Israele ha pianificato una campagna che cerca di screditare una commissione d’inchiesta permanente dell’ONU sulle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele in tutto il territorio sotto il suo controllo.

Lo scorso maggio la Commissione ONU per i Diritti Umani ha approvato di stretta misura una risoluzione che crea questa commissione d’inchiesta in seguito all’attacco israeliano di 11 giorni contro Gaza durante il quale i palestinesi si sono ribellati in tutta la loro patria.

Associazioni palestinesi hanno a lungo chiesto agli Stati di “affrontare le cause che sono alla radice del colonialismo d’insediamento e dell’apartheid imposto sul popolo palestinese nel suo complesso,” come ha affermato Al-Haq prima del voto.

La commissione d’inchiesta condotta da tre esperti di diritti umani indipendenti scelti dalla Commissione per i Diritti Umani dovrebbe presentare i suoi risultati a giugno.

La scorsa settimana Axios ha informato che i politici israeliani sono “molto preoccupati che il rapporto della commissione faccia riferimento a Israele come uno ‘Stato di apartheid’.”

La rivista aggiunge che “l’amministrazione Biden non appoggia l’inchiesta e ha giocato un ruolo centrale nel tagliarle i fondi del 25% nei negoziati sul bilancio ONU.”

Nel contempo un gruppo bi-partisan di 42 membri del Congresso ha chiesto al Segretario di Stato USA di “guidare un tentativo di porre fine alla vergognosa e ingiusta commissione permanente d’inchiesta.”

Ma evidentemente Israele teme che questo intervento non sia sufficiente.

Questa settimana Haaretz ha informato che “importanti politici israeliani” non meglio identificati sono preoccupati che l’ONU “possa presto accettare una narrazione secondo cui Israele è uno ‘Stato di apartheid’, infliggendo un duro colpo allo status di Israele a livello internazionale.”

Il consenso dell’ONU riguardo all’apartheid israeliano “potrebbe portare all’esclusione di Israele da varie manifestazioni internazionali, comprese competizioni sportive o eventi culturali,” aggiunge la rivista.

In altre parole, i politici israeliani temono che lo Stato venga trattato come un paria a livello globale nello stesso modo in cui lo fu il Sudafrica prima del crollo dell’apartheid in quel Paese.

Il comitato direttivo del movimento guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che si ispira alla campagna di boicottaggio globale che contribuì alla fine dell’apartheid in Sudafrica, sostiene che “indagini sull’apartheid israeliano da parte dell’ONU e dei suoi membri sono passi necessari per raggiungere la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il popolo palestinese.”

Questo comitato esorta le Nazioni che sono state colonizzate a riprendere “il ruolo di guida che hanno assunto all’ONU per l’eliminazione dell’apartheid nell’Africa meridionale.”

Human Rights Watch ha invitato a nominare un incaricato internazionale ONU per i crimini di persecuzione e apartheid.

Amnesty afferma che l’Assemblea Generale dell’ONU “dovrebbe ripristinare la Commissione Speciale contro l’Apartheid, creata in origine nel novembre 1962 per concentrarsi su ogni situazione… in cui sia stata commessa la grave violazione dei diritti umani e crimine contro l’umanità di apartheid.”

Secondo il comitato direttivo del movimento BDS queste iniziative avrebbero conseguenze al di là della causa palestinese all’interno del sistema dell’ONU, dove “le intimidazioni e la pressione politica hanno impedito l’analisi e la discussione, per non parlare delle sanzioni, sull’apartheid israeliano.”

In definitiva, la ricerca di Amnesty non sarebbe fondamentalmente diversa da quelle che l’hanno preceduta. Ma il contesto in cui compare – mentre si consolida il consenso internazionale riguardo al riconoscimento dell’apartheid israeliano, è in corso un’indagine della Corte Penale Internazionale e con le ripercussioni del programma di spionaggio israeliano – suggerisce che potrebbe essere iniziato un nuovo capitolo nella lotta globale per la libertà dei palestinesi.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Un tribunale federale tedesco stabilisce che la politica anti-BDS di Monaco è illegale

Adri Nieuwhof

24 gennaio 2022 – Electronic Intifada

Con una vittoria della libertà politica, un tribunale federale tedesco ha sentenziato che il rifiuto dell’amministrazione comunale di Monaco di mettere a disposizione uno spazio pubblico per un dibattito sulla risoluzione anti-BDS della città è stato un provvedimento anticostituzionale.

Il tribunale ha stabilito che la politica dell’amministrazione comunale della città “viola il diritto fondamentale alla libertà d’espressione”.

La decisione è uno schiaffo per il consiglio comunale di Monaco, che nel 2017 ha adottato una risoluzione che nega finanziamenti e spazi pubblici ai sostenitori del BDS, la campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi.

La sentenza ha importanti implicazioni per la libertà di parola in tutta la Germania, dove le persone che difendono i diritti dei palestinesi affrontano una metodica repressione e calunnie da parte di politici.

Nel contempo nella vicina Austria la giunta comunale di Vienna ha denunciato un membro di BDS Austria per “diffamazione” per un post su Facebook in cui critica l’apartheid israeliano.

Monaco viola la legge

Nell’aprile 2018 Klaus Ried ha cercato di prenotare una sala del Museo della Città di Monaco in cui tenere un dibattito su come la risoluzione anti-BDS della municipalità avrebbe colpito la libertà di parola. L’amministrazione comunale ha rifiutato la prenotazione in quanto lo considerava un evento legato al BDS.

Ried ha portato la questione in tribunale. In un primo tempo la corte ha sentenziato contro di lui, affermando che l’amministrazione comunale di Monaco aveva il diritto di imporre simili restrizioni.

Egli ha presentato appello e nel 2020 ha vinto.

Ma l’amministrazione comunale di Monaco non ha accettato questa decisione e ha portato la causa davanti a un tribunale federale, sperando di ribaltare la vittoria di Ried.

Tuttavia il tentativo è fallito. Il 20 gennaio il tribunale federale amministrativo tedesco di Lipsia ha emanato la sua sentenza a favore di Ried. La corte federale ha affermato che la legge tedesca “garantisce a chiunque il diritto di esprimersi liberamente e di diffondere la propria opinione.” Ha stabilito che la giunta comunale di Monaco non poteva violare quel diritto negando il permesso a un evento a causa del fatto che fosse prevedibile che “venissero espresse opinioni sulla campagna BDS o sul suo contenuto, obiettivi e tematiche.”

Il tribunale federale ha affermato che la risoluzione anti-BDS di Monaco non è una legge.

La storica sentenza invia un avvertimento ai consigli comunali in tutta la Germania che hanno approvato risoluzioni simili e hanno negato la disponibilità di spazi pubblici

a organizzatori di eventi riguardanti il BDS.

La sentenza ha anche implicazioni riguardo alla risoluzione anti-BDS del parlamento tedesco del 2019, in cui, pur non essendo giuridicamente vincolante, si invitano le istituzioni tedesche e gli enti pubblici a negare finanziamenti e strutture a gruppi che appoggiano il movimento BDS.

BDS Austria sotto attacco

La giunta comunale [alleanza tra socialdemocratici e liberali, ndtr.] della capitale austriaca, Vienna, ha denunciato un rappresentante di BDS Austria per un post dell’agosto 2021 su una pagina Facebook del gruppo di attivisti.

Il post mostra la foto di un manifesto del Comune con incollato sopra un cartello di protesta, ma con il logo ufficiale della città ancora visibile.

Il manifesto di protesta richiama il famoso cartello degli anni ’30 “Visita la Palestina” [manifesto propagandistico sionista, ndtr.]. Ma porta invece la scritta “Visita l’apartheid”. Anche il manifesto di protesta ha il logo della città. Un post sulle reti sociali di BDS Austria ha l’ironica didascalia: “Siamo lieti che anche la Città di Vienna prenda atto dell’apartheid e lo affermi pubblicamente.”

In novembre a un membro di BDS Austria è stato notificato che il Comune di Vienna aveva presentato una denuncia sostenendo che il movimento BDS “incita all’odio contro il popolo israeliano.” Di conseguenza, sostiene l’amministrazione cittadina, essere pubblicamente associati al BDS è una diffamazione, dato che “la definizione della situazione in Israele/Palestina come ‘apartheid’ costituisce un danno per la nostra reputazione.”

L’amministrazione cittadina chiede al tribunale di proibire a BDS Austria di utilizzare i loghi del Comune e circa 3.500 € di danni. Se il tribunale ordinerà a BDS Austria di pagare le spese legali la cifra totale potrebbe arrivare fino a 35.000 €.

L’ European Legal Support Center [Centro Europeo di Sostegno Giuridico] (ELSC), un’associazione per i diritti civili e la difesa legale, l’ha definito un esempio di SLAPP –Strategic Lawsuit Against Public Participation [denuncia strategica contro l’attivismo pubblico].

Simili denunce intendono generalmente zittire le opinion critiche.

L’affermazione dell’amministrazione cittadina è palesemente ridicola perché risulta evidente che il manifesto era incollato in modo approssimativo su quello della città e che non si trattava di un messaggio ufficiale della città di Vienna.

Inoltre la negazione da parte di Vienna della situazione di apartheid vissuta dai palestinesi è in netto contrasto con un crescente consenso ed è sostenuta persino da importanti associazioni, come Human Rights Watch e l’israeliana B’Tselem.

ELSC ha organizzato una campagna di raccolta fondi per chiedere a donatori pubblici di contribuire alle spese giudiziarie.

E una petizione a sostegno di BDS Austria ha ottenuto circa 700 firme.

Strenui difensori di Israele

Nel 2017 l’Austria ha adottato la cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, ente intergovernativo che riunisce rappresentanti di 34 Paesi, per lo più europei, ndtr.].

La controversa “definizione”, promossa da Israele e dalla sua lobby, confonde le critiche contro Israele e la sua ideologia statale sionista con il fanatismo antiebraico. La definizione dell’IHRA è ora regolarmente utilizzata in vari Paesi per calunniare i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Un anno dopo l’amministrazione comunale di Vienna [alleanza tra socialdemocratici e verdi, ndtr.] ha adottato una risoluzione che definisce il movimento BDS come intrinsecamente antisemita. La risoluzione nega appoggio istituzionale ai sostenitori del BDS e minaccia l’esistenza di uno spazio politico sicuro per la difesa dei diritti dei palestinesi in Austria. Nel 2019 membri di BDS Austria hanno organizzato una protesta presso il consiglio comunale della città contro questa censura ufficiale.

Come in Germania, l’élite politica austriaca sostiene strenuamente Israele. L’annessione dell’Austria da parte di di Adolf Hitler, austriaco, nel 1938 fu ben accolta dalla maggioranza dell’opinione pubblica austriaca, per cui, proprio come in Germania oggi, molti austriaci vedono l’incondizionato sostegno a Israele, indipendentemente da quello che fa ai palestinesi, come una forma di espiazione dei crimini nazisti.

L’avvocatessa Elisabetta Folliero, insieme al European Legal Support Center, ha presentato una confutazione della denuncia dell’amministrazione comunale. Essa include un parere specialistico dei giuristi di fama internazionale Eric David, Xavier Dupré De Boulois, Richard Falk e John Reynolds.

Essi sostengono che le risoluzioni austriache contro il BDS violano gli standard internazionali ed europei per i diritti umani, anche riguardo ai diritti fondamentali di libertà di espressione e associazione.

Tra le altre cose, gli esperti citano la fondamentale sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo del 2020 che afferma che chiedere il boicottaggio dei prodotti israeliani costituisce un discorso politico protetto [dal principio della libertà di espressione, ndt].

La causa contro BDS Austria verrà discussa il 28 gennaio 2022 dal tribunale commerciale di Vienna.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)