La lobby filoisraeliana nel Regno Unito prende di mira una ricercatrice palestinese

Nora Barrows-Friedman

22 gennaio 2022 – Electronic Intifada

Un’università britannica ha sospeso dall’insegnamento una dottoranda in seguito a una campagna di calunnie da parte dei sostenitori di Israele.

Shahd Abusalama, da molto tempo attivista e collaboratrice di The Electronic Intifada, è una studentessa di dottorato presso l’Hallam University di Sheffield.

Abusalama ha scritto della sua esperienza nella Striscia di Gaza, dove è nata e cresciuta sotto l’occupazione, l’assedio e gli attacchi militari israeliani.

Ha anche scritto del terrore quando si è trovata separata dalla sua famiglia a Gaza mentre questa si trovava sotto i bombardamenti israeliani nel 2014 [operazione Margine protettivo, ndtr.].

La campagna contro di lei ricorda la strategia utilizzata lo scorso anno per colpire David Miller, docente dell’università di Bristol. Miller è stato licenziato nonostante sia stato scagionato da ogni accusa di fanatismo antiebraico da due inchieste indipendenti commissionate dall’università di Bristol.

Recentemente Abuslama era stata assunta come lettrice associata presso la Hallam University di Sheffield, nel nord dell’Inghilterra.

Si stava preparando a tenere la sua prima lezione il 21 gennaio, quando la sera prima un funzionario l’ha informata che la sua lezione era stata annullata e che i suoi studenti sarebbero stati avvertiti.

L’impiegato ha affermato che una denuncia aveva provocato un’indagine e che, in base alle norme dell’università, non le sarebbe stato consentito di insegnare finché questa non si fosse conclusa.

In passato Abusalama ha subito ripetuti attacchi da associazioni e pubblicazioni antipalestinesi.

Lei e la sua famiglia sono rifugiati palestinesi che nel 1948 subirono la pulizia etnica e furono espulsi dalle loro case in quella che è ora Israele dalle milizie sioniste. Come a tutti gli altri profughi palestinesi, Israele vieta loro di tornare al luogo d’origine in quanto non ebrei.

Abusalama è un’importante attivista per i diritti dei palestinesi fin dal suo arrivo nel Regno Unito come studentessa. è stata una militante contro l’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA, che confonde erroneamente le critiche a Israele con il fanatismo antiebraico, e nel 2019 per il boicottaggio dell’Eurovision [che quell’anno si tenne in Israele, ndtr.].

La controversa definizione dell’IHRA è regolarmente utilizzata dalle associazioni della lobby filo-israeliana per calunniare e censurare i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Abusalama ha affermato che il suo attivismo in queste due campagne è stato al centro di attacchi da parte di organizzazioni e pubblicazioni della lobby filo-israeliana.

Ha detto a Electronic Intifada che le ultime calunnie sono iniziate a dicembre, quando Jewish News [settimanale gratuito che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] e l’associazione della lobby filo-israeliana Campaign Against Antisemitism [Campagna contro l’Antisemitismo] l’hanno accusata di promuovere l’ostilità nei confronti degli ebrei.

In precedenza Joe Glasman, capo delle “inchieste politiche” di Campaign Against Antisemitism, nel 2019 si è attribuito a nome dell’associazione il merito della sconfitta elettorale del partito Laburista, allora guidato da Jeremy Corbyn. In seguito alla sconfitta Corbyn annunciò che avrebbe dato le dimissioni da leader del partito.

La bestia è stata uccisa,” si rallegrò Joe Glasman in un video che in seguito cercò di togliere da Internet. Il video diceva che Corbyn era stato “massacrato”.

Sostenitore dei diritti dei palestinesi, Corbyn, insieme ai suoi militanti di base, è stato bersaglio di una campagna di calunnie durata anni che lo accusava falsamente di antisemitismo.

Glasman ha sostenuto che lui e i suoi collaboratori hanno colpito Corbyn con una campagna coordinata utilizzando metodi che includevano “nostre spie e intelligence”.

Il direttore esecutivo della Campaign Against Antisemitism, Gideon Falter, è vicepresidente del Jewish National Fund UK [Fondo Nazionale Ebraico-UK], che raccoglie fondi per i progetti di colonizzazione israeliani su terre palestinesi. Resoconti sul JNF UK mostrano che fornisce sostegno finanziario per campagne di reclutamento nell’esercito israeliano e per Ein Prat, un’associazione che organizza corsi di addestramento per nordamericani che si arruolano in quell’esercito.

Affermazioni false

Queste accuse in malafede da parte di sostenitori del colonialismo di insediamento israeliano sono chiari tentativi di perseguitare e intimidire attivisti e accademici come Abusalama in modo da farli tacere.

Abusalama ha solo scoperto che l’università potrebbe aver indagato i suoi post sulle reti sociali leggendo le calunnie di Campaign Against Antisemitism e del Jewish News.

Lei afferma che l’università non si è messa in contatto con lei né le ha dato la possibilità di smentire le affermazioni diffamatorie.

Poi, il 19 gennaio, il Jewish Chronicle, nota pubblicazione antipalestinese con una lunghissima storia di calunnie, diffamazioni e denigrazioni, ha scritto una mail ad Abusalama, informandola che intendeva pubblicare un articolo sulla sua assunzione come lettrice.

Jewish Chronicle ha elencato una selezione dei suoi post sulle reti sociali che intendeva includere nell’articolo.

Abusalama ha risposto, spiegando il contesto di ogni post sulle reti sociali e aggiungendo di essere consapevole che le intenzioni della pubblicazione erano di diffamarla ulteriormente e intimidirla per proteggere Israele dalle critiche.

Sabato [22 gennaio] il Jewish Chronicle non aveva ancora pubblicato l’articolo.

Legittimare attacchi razzisti

Non è ancora chiaro chi o quale associazione abbia presentato la protesta che ha provocato la sua sospensione dall’insegnamento. Abusalama afferma che l’università non le ha ancora fornito alcuna informazione. Ma definisce vergognoso che l’università abbia legittimato gli attacchi considerando

la denuncia credibile e degna di un’indagine.

Abusalama afferma di essere sconvolta per il fatto che “l’università abbia dato retta e risposto a simili pubblicazioni razziste ed abbia confermato loro che avrebbe indagato sul mio conto senza prendere prima contatto con un membro della sua stessa comunità.”

I danni all’immagine provocati da pubblicazioni razziste come quelle sono una priorità più di quanto lo sia il dovere di salvaguardare i membri della propria comunità,” aggiunge.

Frattanto nelle caselle di posta elettronica dell’amministrazione stanno affluendo lettere di sostegno che chiedono che l’università protegga il lavoro di Abusalama e comprenda le ragioni politiche e razziste delle calunnie. Il sindacato dell’università e del college si sta mobilitando in sua difesa.

Non sono la prima e non sarò l’ultima ad essere presa di mira,” afferma. “È per questo che è fondamentale la resistenza contro di loro, per non consentirgli di continuare a diffondere stereotipi sui palestinesi come antisemiti solo perché osano sognare la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il loro popolo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cosa comporterà per la Palestina la vittoria di Gabriel Boric in Cile

Ramona Wadi

18 gennaio 2022 – Mondoweiss

Il nuovo presidente cileno, Gabriel Boric, appoggia il BDS ed ha promesso di prendere una decisa posizione in difesa dei diritti umani dei palestinesi. Ma sarà in grado di modificare la politica estera cilena?

Quando il Cile ha annunciato i risultati delle elezioni presidenziali, Israele e i suoi sostenitori non sono stati affatto contenti. Gabriel Boric, il candidato alla presidenza del Cile, filo-palestinese e di sinistra, è risultato vincitore su José Antonio Kast, di destra e filo-israeliano.

Ex leader studentesco, il trentacinquenne Boric salì alla ribalta durante le mobilitazioni per un’educazione gratuita e di qualità in Cile. Nel 2013 Boric venne eletto al parlamento come candidato indipendente in rappresentanza della regione Magallanes [nel sud del Cile, ndtr.]. Candidato contro Kast nelle elezioni presidenziali del 2021, il suo slogan contro il neoliberismo ha rispecchiato le rivolte in tutto il Paese contro il presidente uscente, Sebastian Piñera.

Boric è anche un critico veemente di Israele e appoggia il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). Nell’ottobre 2021, dopo essersi impegnato a sostenere una legge per sanzionare i prodotti provenienti dalle colonie israeliane, egli ha promesso di prendere una posizione dura in difesa dei diritti umani dei palestinesi. Alla fine ha sconfitto Kast con il 56% dei voti contro il 44%, evidenziando che gli elettori cileni sono pronti a rompere con il passato.

Cile e Palestina condividono alcune somiglianze in termini di lotta contro la violenza neoliberista. Le due popolazioni indigene – i mapuche del Cile e i palestinesi –devono entrambe fronteggiare gli orrori degli armamenti e della tecnologia securitaria di Israele. Tuttavia a questo punto la domanda è se Boric si adeguerà al consenso internazionale sul compromesso dei due Stati o manterrà il suo appoggio alla liberazione dei palestinesi.

Israele risponde a Boric

Nella stampa israeliana Boric è stato descritto come un antisemita per il suo precedente attivismo filo-palestinese, compresi attacchi diretti contro la comunità ebraica cilena che è in maggioranza favorevole alle politiche colonialiste sioniste. Pure i suoi rapporti con Daniel Jadue, un cileno di origini palestinesi che è stato anche lui candidato alle elezioni presidenziali del 2021 e che è molto esplicito contro il sionismo, sono stati messi in discussione dai media israeliani.

Emilio Dabed, un avvocato cileno di origini palestinesi che ha anche ottenuto un dottorato in scienze politiche e che è specializzato in diritto costituzionale, leggi internazionali e diritti umani, parla a Mondoweiss di come la propaganda israeliana stia manipolando la posizione di Boric e mette anche in luce le complessità della politica estera cilena nei confronti di Israele e Palestina.

Boric è stato accusato di essere antisemita perché ha manifestato l’opinione che Israele dovrebbe ritirarsi dai territori palestinesi occupati, e i suoi detrattori hanno insinuato che chiedere l’applicazione delle leggi internazionali sia ingiusto o possa rappresentare una forma di antisemitismo. Inoltre in una lettera aperta a Boric inviata da importanti donne ebree cilene il presidente eletto è stato criticato in quanto riterrebbe “gli ebrei responsabili delle politiche di un governo al potere in Israele.” Ma la propaganda israeliana e i suoi sostenitori insistono che Israele rappresenta tutti gli ebrei e accusano tutti i palestinesi di essere antisemiti perché criticano le politiche dello Stato di Israele,” spiega Dabed.

Oltretutto il presidente della comunità ebraica cilena ha anche criticato Boric per il suo appoggio al BDS, un’iniziativa non violenta e basata sulle leggi internazionali per obbligare Israele a rispettare i suoi obblighi in base al diritto internazionale. Dal punto di vista di Israele e dei suoi sostenitori chiedere il rispetto delle leggi internazionali è praticamente un crimine, appoggiare i diritti dei palestinesi è antisemita e l’instaurazione di una pace giusta in Palestina è un pericolo che li minaccia.”

Però gli apocalittici titoli dei media israeliani sul fatto che il Cile abbia eletto un presidente filopalestinese ignorano quasi totalmente il fatto che Israele avrebbe preferito che vincesse le elezioni Kast, nonostante il fatto che suo padre, Michael Kast, nato in Germania, fosse un membro del partito nazista e la cui famiglia sia stata coinvolta nella dittatura di Augusto Pinochet.

Lo scrittore e giornalista Javier Rebolledo, le cui ricerche sulla dittatura di Pinochet hanno portato a conoscenza dell’opinione pubblica molti segreti in precedenza ben nascosti, nel suo libro “A La Sombra de Los Cuervos” [All’ombra dei corvi] afferma che sia il padre di Kast che uno dei suoi fratelli, Christian Kast, sono stati coinvolti nelle attività della Direzione di Intelligence Interna (DINA). Un fratello di Kast, Miguel, è stato uno dei Chicago Boys – il gruppo di economisti formati da Milton Friedman incaricati dell’esperimento neoliberista in Cile. È stato anche nominato da Pinochet ministro del Lavoro e poi presidente della Banca Centrale cilena.

Durante la campagna presidenziale cilena del 2017 Kast ha messo in luce il suo strenuo appoggio a Pinochet: “Se Pinochet fosse ancora vivo voterebbe per me,” si è vantato. Si è anche dichiarato contrario alla chiusura della lussuosa prigione di Punta Peuco, dove ex-agenti e torturatori della DINA stanno scontando le loro condanne. La campagna elettorale di Kast del 2017 è stata finanziata dai sostenitori di Pinochet, tra cui la figlia dell’ex agente della DINA Marcelo Castro Mendoza [condannato a 10 anni di carcere per il sequestro e l’assassinio di 15 persone, ndtr.].

I media israeliani hanno confermato che dei 111 cileni cittadini israeliani 73 hanno votato per Kast. Parlando del trionfo elettorale di Boric Gabriel Colodro, presidente della comunità israeliana in Cile, ha affermato: “Ci sono preoccupazioni per la comunità ebraica (in Cile), ma gli auguriamo di avere successo.”

Cancellazione storica

La risposta di Israele alle elezioni cilene riflette la sua stessa impresa colonialista e il sostegno diplomatico internazionale che è abitato a ottenere. Anche i rapporti di Israele con la dittatura di Pinochet, a cui vendeva armi quando gli USA decisero che era tempo di prendere le distanze dai crimini contro l’umanità che aveva finanziato in Cile, fanno parte del retaggio tra i due Paesi che continua fino ad oggi.

Sia Israele che il Cile dalla dittatura in poi, almeno fino all’ultima presidenza, hanno prosperato ignorando il passato.

Dabed delinea l’impatto di questa cancellazione da parte di Israele e come ciò abbia giocato nella scelta della comunità ebraica a favore di Kast nelle elezioni presidenziali cilene del 2021.

Ciò che rivela ancora una volta la risposta israeliana all’elezione di Boric è la natura schizofrenica delle politiche israeliane e dei suoi sostenitori. Hanno creato una realtà parallela che pretende di volere la pace ma continuando la colonizzazione della Palestina e lo sfruttamento e l’oppressione dei palestinesi. D’altra parte la loro politica è il riflesso dell’etica negativa che hanno adottato. Etica e politiche negative nel senso che il loro obiettivo è la negazione dell’esistenza dei palestinesi, la negazione dei loro diritti, la cancellazione e la negazione della loro storia, la negazione della natura umana dei palestinesi.”

Questa cancellazione è dimostrata anche dalla preferenza della comunità cilena in Israele per Kast: “La stessa politica negativa ha operato in una parte della comunità ebraica in Cile come dimostra la sua scelta nelle elezioni cilene. Ha votato in maggioranza per Kast. La comunità cilena in Israele, per esempio, ha votato quasi al 70% per Kast, negando i crimini della dittatura di Pinochet che Kast ha appoggiato e ancora difende, negando la tortura, gli assassinii, le sparizioni di dissidenti politici durante la dittatura, tutti messi in pratica con l’assistenza e l’addestramento delle forze di sicurezza di Pinochet da parte dello Stato di Israele,” spiega Dabed.

Cosa aspettarsi dal governo di Boric

Nonostante Israele tenti di dipingere la nuova presidenza cilena come pericolosa per i suoi rapporti diplomatici, Boric dovrà districarsi su un terreno politico sia vecchio che nuovo, sia riguardo alla turbolenta storia cilena fin dalla dittatura e dalla transizione alla democrazia che alla sua politica estera.

Il Cile ospita la più grande e meglio organizzata comunità palestinese in America Latina. Il suo attivismo a favore del BDS continua a crescere ed ha influenzato la politica cilena. Per esempio nel novembre 2018 il parlamento cileno ha approvato una risoluzione che chiede al governo di rivedere i suoi accordi con Israele e di fornire ai cileni informazioni riguardo all’espansione delle colonie israeliane per prendere una decisione informata sul fatto di avere rapporti economici con Israele o di visitare lo Stato colonizzatore. Tuttavia vedere fin da subito l’attivismo filo-palestinese come un fattore di cambiamento della politica estera cilena è un punto di vista semplicistico.

Boric è un giovane politico di sinistra che durante il suo governo dovrà affrontare la destra antidemocratica cilena, la stessa che ha contribuito a rovesciare il governo socialista di Salvador Allende 50 anni fa e all’instaurazione della dittatura di Pinochet, che essa difende fino ad oggi. In queste circostanze sarebbe molto pericoloso per Boric inimicarsi del tutto la comunità ebraica cilena che, nel complesso, è molto influente, appoggia politiche di destra e ha votato per Kast. Dati i cambiamenti radicali che Boric ha promesso e il sostegno di cui avrà bisogno per portarli avanti, non penso che rischierà un ulteriore scontro,” spiega Dabed.

Non penso che ci saranno importanti cambiamenti nella politica estera cilena. Indipendentemente dall’orientamento politico i governi cileni hanno mantenuto la stessa politica estera riguardo a Palestina/Israele. Essa ripete il mantra definito dalla comunità internazionale sull’appoggio alla soluzione del conflitto attraverso i due Stati. Lo fa anche quando tutti sappiamo che questa strategia non ha portato i palestinesi da nessuna parte. I negoziati per la soluzione a due Stati sono diventati l’etichetta per mantenere lo status quo colonialista che soggioga i palestinesi fino ad oggi. Questo discorso ha consentito a Israele di ignorare i suoi impegni durante i negoziati di Oslo nel senso di uno scambio di terra con pace, e di raggiungere il suo obiettivo di conquistare la terra ed imporre condizioni per la pace che consolidano il suo progetto di colonizzazione.”

Tuttavia l’impatto di Boric in termini di attivismo e politiche non dovrebbe essere scartato. Mentre la diplomazia dei due Stati domina il discorso politico, ora il Cile ha un presidente che è apparentemente schierato con la causa palestinese, e il Cile è nelle condizioni di influire sul dibattito politico regionale riguardo alla colonizzazione israeliana della Palestina.

Dabed conclude: “Penso anche che l’ascesa al potere di Boric rappresenti un notevolissimo sostegno per i palestinesi e per la comunità palestinese in Cile. Anche se egli non potrà cambiare la politica estera cilena a questo riguardo, lui e i suoi consiglieri e sostenitori sono consapevoli della condizione di colonizzazione dei palestinesi, vi si oppongono e non si vergognano di esprimere queste opinioni. Non solo Boric, ma molti altri del suo circolo conoscono le ingiustizie e i crimini cui i palestinesi sono sottoposti dallo Stato di Israele, e sono pronti, io spero, a modificare almeno il discorso nel modo in cui Palestina/Israele sono visti e di come se ne parla, e questo non è privo di importanza. Ciò potrebbe portare alla creazione di iniziative a livello internazionale che potrebbero rimettere i palestinesi al centro del discorso pubblico, dopo tanti anni di silenzio sui principali mezzi di comunicazione e nei consessi internazionali.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il post di Emma Watson mostra come le accuse diffamatorie di Israele sull’ antisemitismo stiano iniziando a crollare

Asa Winstanley

8 gennaio 2022 – Middle East Monitor

Emma Watson, attrice del cast di Harry Potter, è stata diffamata lunedì da un funzionario israeliano razzista. Ne parleremo più avanti.

Ma, innanzitutto, è importante notare che il governo israeliano si è sempre avvalso contro i suoi nemici di accuse inventate di antisemitismo.

Questo risale alla fondazione sulle fosse comuni dei palestinesi dello stesso Stato di Israele nel 1948.

Il primo a venire diffamato in questo modo è lo stesso popolo palestinese. Le false accuse di antisemitismo architettate da Israele e dalla lobby israeliana contro il movimento di solidarietà con la Palestina sono quindi di fatto un’estensione della campagna di disinformazione del progetto coloniale sionista contro gli stessi palestinesi.

Diplomatici e propagandisti israeliani sostengono da tempo che l’opposizione del popolo palestinese all’espropriazione della propria terra non è motivata da alcun senso di ingiustizia, ma semplicemente dal razzismo antiebraico. Secondo il canone dell’orientalismo imperialista europeo quest’ultimo è ritenuto misteriosamente endemico nelle società musulmane e arabe.

Questa è, ovviamente, una sciocchezza. Più che una sciocchezza, è una bugia velenosa e razzista.

I palestinesi si oppongono al movimento sionista – e alla sua creazione, Israele – perché ha significato e continua a significare espulsioni, massacri, apartheid, dittatura militare ed espropriazione per loro, per i loro figli e per i figli dei loro figli.

Il fatto che Israele si definisca uno “Stato ebraico” è irrilevante. I palestinesi si sarebbero opposti a qualsiasi progetto politico e/o religioso che li avesse cacciati dalle proprie terre nello stesso modo o in modo simile.

È proprio perché le ingiustizie israeliane sono diventate sempre più chiare per un numero sempre maggiore di persone che il movimento sionista e la lobby israeliana sono arrivati ​​a fare sempre più affidamento su accuse inventate di antisemitismo.

I propagandisti israeliani sanno che non possono prevalere discutendo in un dibattito aperto. Quindi, invece di cercare di battere gli attivisti sconfiggendo le loro argomentazioni, tentano di zittirli, cancellarli, bandirli e, soprattutto in Palestina, incarcerarli.

Ma le accuse false e tendenziose di antisemitismo contro i nemici di Israele sono diventate così smaccate che la maggior parte delle persone non ci crede più.

L’uso dell’antisemitismo come arma – uno strumento nell’arsenale israeliano quasi tanto potente quanto le armi nucleari non dichiarate che possiede – sta cominciando a perdere la sua forza.

Tutto ciò ci riporta a Emma Watson.

Lunedì Watson ha pubblicato su Instagram una blanda dichiarazione di solidarietà con il popolo palestinese. Sullo sfondo di manifestanti solidali che tengono in mano bandiere palestinesi ha pubblicato la didascalia: “Solidarietà è un verbo”.

Non era certo un’affermazione tendenziosa. Ma il riconoscimento stesso dell’esistenza dei palestinesi e dei loro sostenitori ha sollevato la rabbia e l’odio di Israele e della sua lobby.

Danny Danon, ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite e attuale presidente della sezione internazionale del partito israeliano ufficialmente all’opposizione Likud, ha attaccato il post di Watson su Twitter, sostenendo che esso dimostrava che lei è un'”antisemita”.

Naturalmente, come al solito, non è stata presentata alcuna prova di questo presunto “antisemitismo”.

Ma la risposta di Danon è particolarmente grossolana. È totalmente priva di “sfumature” – è una diretta e inequivocabile pretesa che se fai anche la più blanda dichiarazione di solidarietà con i palestinesi significa che sei ipso facto un antisemita.

Ciò che molti commentatori non sottolineano sono due fatti importanti: è Danny Danon stesso il vero razzista, e il post di Danon ha anche mostrato che lui, come tutti i sionisti, è il vero antisemita.

Manca in tutta l’informazione mainstream sul post di Watson e nel modo in cui è stato accolto (gli autori del titolo del Guardian hanno affermato in modo fuorviante che esso ha portato a una “disputa sull’antisemitismo”) che personaggio sia esattamente Danon.

È un famigerato razzista anti-palestinese.

Questo doveva essere sottolineato, ma per lo più non lo è stato. Come ha scritto la mia collega di The Electronic Intifada Nora Barrows-Friedman: “Danon è un politico di estrema destra che ha chiesto il ‘suicidio nazionale’ dei palestinesi e ha una lunga storia di dichiarazioni razziste contro arabi e africani”.

E come ha detto bene l’utente di Twitter Jonathan Kennedy, Danon “equipara il sostegno ai palestinesi all’antisemitismo, presuppone che la repressione del popolo palestinese sia una qualità intrinsecamente ebraica, il che in questo caso è la vera opinione antisemita”.

Alcuni sionisti “liberal” si sono preoccupati che la diffamazione di Danon contro Watson fosse troppo “rozza” e che quindi non sarebbe stata creduta.

Avevano ragione ad avere paura. Le reazioni contro l’affermazione di Danon sono state immense e massive ed è stato ridicolizzato e denunciato per le sue vergognose calunnie.

Ma, contrariamente alle preoccupazioni dei sionisti “liberal” rispetto declino della forza del loro uso dell’accusa di antisemitismo come arma, questo declino è da accogliere con estremo favore ed è atteso da molto tempo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Non è antisemita protestare contro l’ambasciatrice israeliana. Basta chiedere agli ebrei britannici

Non è antisemita protestare contro l’ambasciatrice israeliana. Basta chiedere agli ebrei britannici

La scorsa settimana le proteste durante il discorso a Londra dell’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, sono state immediatamente definite antisemite e persino paragonate alla Notte dei Cristalli. Ma molti ebrei britannici hanno duramente criticato il razzismo di Hotovely e anche il suo sostegno all’occupazione.

Tommer Spence

15 novembre 2021 – Haaretz

 

Le proteste della scorsa settimana contro l’ambasciatrice israeliana nel Regno Unito, Tzipi Hotovely, durante il suo discorso alla London School of Economics (LSE), hanno innescato un’ondata di condanne nella politica britannica, con importanti esponenti conservatori e laburisti che le hanno etichettate come antisemitismo e un attacco alla libertà di parola.

In alcuni casi le istituzioni ebraiche britanniche sono andate oltre, e il Jewish Chronicle ha paragonato l’incidente alla Notte dei Cristalli, quando migliaia di ebrei furono mandati nei campi di concentramento dai paramilitari nazisti, le loro proprietà distrutte e le sinagoghe profanate.

In qualità di rappresentante eletto degli studenti ebrei nel Board of Deputies [la seconda maggiore organizzazione ebraica del Regno Unito, dopo la Initiation Society fondata nel 1745, ndtr.], il principale organo rappresentativo della comunità ebraica britannica, considero molto seriamente l’antisemitismo nei campus, anche perché è qualcosa che ho vissuto in prima persona.

L’antisemitismo è profondamente radicato nella società britannica, quindi non c’è dubbio che si annidi nelle università, e che i luoghi comuni sugli ebrei possano – inconsciamente o meno – influenzare il modo in cui le persone percepiscono e criticano lo Stato ebraico.

Ma se vogliamo sradicare l’antisemitismo da ogni tipo di discorso e di militanza relativi a Israele, allora dobbiamo essere molto chiari su cosa lo sia e cosa no.

Non si discute su eventuali minacce di violenza o intimidazioni rivolte a Hotovely: sono chiaramente inaccettabili.

Ma sono inaccettabili come atti individuali, riferibili solo a sé stessi. Suggerire che da soli rappresentino atti di antisemitismo semplicemente perché l’ambasciatrice è una funzionaria del governo israeliano è tanto inconsistente quanto dannoso, dato che uno dei messaggi fondamentali dell’educazione contro l’antisemitismo è che gli ebrei e lo Stato di Israele sono distinti e non intercambiabili.

Non ci sono testimonianze di canti antisemiti intonati durante la protesta quando Hotovely se n’è andata, e ha potuto parlare senza essere interrotta. L’idea che quanto accaduto sia paragonabile alla Notte dei Cristalli solo perché l’incidente è avvenuto nello stesso giorno è così grossolana che rasenta il revisionismo sull’Olocausto.

La realtà è che affermare che i manifestanti contro Hotovely potessero essere mossi solo da odio contro gli ebrei serve solo – inconsapevolmente o meno – a occultare il suo razzismo passato ed attuale. Implica che non vi sia alcuna ragione legittima che possa provocare espressioni di critica quando in realtà è vero il contrario.

Il curriculum di Hotovely in politica include l’invito alla Knesset [il parlamento israeliano] di un gruppo razzista e violento contrario ai matrimoni misti, e l’affermazione che fosse “importante prevedere delle procedure per prevenire i matrimoni misti”.

È sostenitrice dichiarata della soluzione discriminatoria di un unico Stato, avendo espresso esplicitamente la propria visione di come la Cisgiordania potrebbe essere portata sotto il permanente controllo israeliano senza dare la cittadinanza ai palestinesi che vi vivono. Da quando è diventata ambasciatrice ha chiarito che questo continua ad essere il suo punto di vista e ha continuato a fare commenti razzisti, descrivendo la Nakba come una “bugia araba” in uno dei suoi primi eventi pubblici lo scorso anno.

I politici e i commentatori che si sono precipitati ad accusare i manifestanti di antisemitismo pensavano senza dubbio di parlare in nome di, oppure a, una comunità concorde su questo punto. L’ironia è che, mentre si è registrata una condanna  unanime delle minacce di violenza contro Hotovely alla LSE, gli ebrei britannici non sono mai stati più divisi su Israele – in gran parte proprio grazie a Hotovely.

Dopo anni di latente scontento per l’occupazione, la nomina ad ambasciatrice di una nazionalista dichiarata ha provocato un’ondata di frustrazione nei confronti del governo israeliano. Quasi 2000 ebrei britannici hanno firmato una petizione chiedendo che la nomina di Hotovely fosse respinta ed è stata apertamente criticata da figure pubbliche di alto livello, tra cui il rabbino capo del Reform Movement [movimento religioso che vuole adattare l’ebraismo alle mutate condizioni del mondo moderno, ndtr.], la seconda comunità del Regno Unito.

Da quando è arrivata a Londra un anno fa, alcune istituzioni pubbliche hanno cercato di ignorare la frattura, ospitandola in numerose occasioni e rifiutandosi di contestare anche i suoi commenti più incendiari. Eppure all’interno della comunità ebraica ha continuato a crescere l’opposizione nei suoi confronti.

Dopo che la fazione progressista Liberal Judaism [seconda in Gran Bretagna dopo Reform Movement nella World Union for Progressive Judaism, ndtr.]  l’ha ospitata per un evento questa primavera, decine di membri di base sono intervenuti e uno dei membri del consiglio di amministrazione del movimento – il presidente del gruppo di azione antirazzista – si è dimesso per protesta. L’amministratore delegato di Liberal Judaism, il rabbino Charley Baginsky, ha in seguito espresso rammarico per come l’evento fosse stato strutturato in modo acritico e per come ai membri della comunità non fosse stata data l’opportunità di obiettare prima che esso fosse annunciato pubblicamente.

Il movimento giovanile sionista Noam, parte della corrente conservatrice di Masorti [movimento di ebrei tradizionali, non strettamente osservanti in Israele, che si identificano principalmente con l’ebraismo ortodosso, ndtr.], ha apertamente boicottato Liberal Judaism in merito ad un evento con Hotovely, un fatto senza precedenti nelle comunità ebraiche di tutto il mondo. La sua prima apparizione di persona nella comunità ebraica, meno di un mese fa, è stata accolta dall’uscita di attivisti ebrei.

Senza dubbio qualcuno – non ultima l’ambasciata israeliana – spera che gli eventi alla LSE della scorsa settimana mettano fine a questo malcontento all’interno della comunità ebraica, che la scena di Hotovely oggetto di feroci proteste evochi un senso di solidarietà che porti al fatto che futuri disaccordi vengano espressi a porte chiuse, come lo furono con i predecessori di Hotovely. Ma i fatti suggeriscono il contrario.

Le violenze di maggio in Israele-Palestina hanno mosso le proteste guidate da ebrei del Regno Unito più vaste mai avvenute a sostegno dei palestinesi, una tendenza che è molto probabile aumenti mentre continua l’occupazione. Le opinioni impudenti ed estremiste di Hotovely non faranno altro che esacerbare questa tendenza, e finché rimarrà in carica molti ebrei britannici con orgoglio la contesteranno sulla base dei loro principii.

Tommer Spence è uno dei fondatori di Na’amod [movimento di ebrei britannici contro l’occupazione, ndtr.], e rappresentante degli studenti ebrei nel Board of Deputies degli ebrei britannici.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Recensione Dear Palestine

Guerra arabo-israeliana (1947-1950)

Saccheggi, razzismo, espulsioni…La conquista della Palestina raccontata dai combattenti

Sono state scritte parecchie storie della prima guerra arabo-israeliana (1948-1950), ma questa è senza dubbio la prima in cui uno storico fa parlare, attraverso le loro lettere, i combattenti dei due campi. Questa corrispondenza mostra le divisioni interarabe e getta un’ombra sul comportamento dei soldati israeliani, sulla loro brutalità e sul loro razzismo, non solo nei confronti degli arabi ma anche degli ebrei marocchini e iracheni andati a combattere per Israele.

 

Sylvain Cypel

14 ottobre 2021 – Orient XXI

 

Shay Hazkani, Dear Palestine. A Social History of the 1948 War [Cara Palestina. Una storia sociale della Guerra del 1948], Stanford University Press, 2021.

 

Cara Palestina, l’opera di Shay Hazkani, storico israeliano dell’università del Maryland, costituisce uno dei primi studi di storia sociale della guerra che, tra il 1947 e il 1949, oppose da una parte le milizie armate dell’yishuv (la comunità ebraica nella Palestina mandataria britannica), poi l’esercito dello Stato di Israele dopo la sua creazione, il 15 maggio 1948, e dall’altra le milizie palestinesi e soprattutto i gruppi armati arruolati nei Paesi vicini, poi gli eserciti arabi (fondamentalmente quello egiziano e quello giordano).

In questo libro il lettore imparerà poco dello svolgimento degli avvenimenti di quella guerra, ma molto di ciò che spesso i racconti cronologici e fattuali delle guerre nascondono, cioè il contesto socioculturale nel quale sono immersi i suoi protagonisti. Per svelarlo l’autore privilegia due fonti principali: da una parte la formazione delle truppe e delle argomentazioni (compresa la propaganda) degli stati maggiori di ognuno dei campi, dall’altra lo sguardo dei combattenti su quella guerra e ciò che esso dice della sua realtà. Hazkani lo fa in parte basandosi sui discorsi dei responsabili militari, ma soprattutto – ed è la principale originalità del libro – sulle lettere dei soldati alle famiglie, come sono state conservate in vari archivi militari dopo che erano state lette dalla censura. Queste spesso sono più ricche da parte israeliana, ma l’autore riesce nonostante tutto a fare uno studio relativamente equilibrato tra i due campi.

Volontari dall’estero

Egli assegna uno spazio importante alle reclute a cui i capi militari hanno fatto appello fuori dal Paese. Da una parte i “Volontari dall’estero” (il cui acronimo in ebraico era Mahal), giovani ebrei che si arruolarono in Europa, negli Stati Uniti e anche in Marocco per aiutare militarmente il nascente, poi costituito, Stato di Israele. Si vedrà che questo gruppo offre uno sguardo sulla guerra spesso diverso da quello dei “sabra”, i giovani nati ed educati nell’yishuv. Dall’altra diverse milizie di volontari arabi arruolati in Siria, Transgiordania, Iraq e Libano per sostenere i palestinesi. Egli privilegia in particolare quella più attiva, l’Esercito di Liberazione Arabo (ALA, in arabo l’Armata Araba di Salvezza), comandata da Fawzi Al-Kaoudji. Anche qui lo sguardo sulla guerra e sul suo contesto da parte di queste reclute è spesso inaspettato.

Lo studio delle lettere come l’analisi dei discorsi dei responsabili militari fa emergere un fatto. Al di là del rapporto di forze militare, l’unità e la chiarezza di obiettivi erano dal lato israeliano, la disunione e la confusione da quello palestinese, a parte l’idea principale del rifiuto di una partizione della Palestina, giudicata sia ingiusta che profondamente iniqua (gli ebrei, all’epoca il 31% della popolazione, si vedevano assegnare il 54% del territorio palestinese). Indipendentemente dai dissensi interni, tutte le forze sioniste intendevano costruire uno Stato da cui sarebbe stato escluso il maggior numero possibile dei suoi abitanti palestinesi (il piano di partizione prevedeva che lo “Stato Ebraico” includesse…il 45% di palestinesi!). Hazkani mostra quanto la direzione politica e militare dello Stato ebraico fosse determinata, ancor prima di dichiararlo, a “ripulirlo” il più possibile sul piano etnico ed anche quanto questa aspirazione fosse condivisa dalla gran parte delle truppe.

Divisioni tra arabi e palestinesi

E [l’autore] mostra con parecchi esempi quanto la divisione e la diffidenza regnassero nel campo dei palestinesi e dei loro alleati. Come scrisse dal febbraio 1948 Hanna Badr Salim, l’editore ad Haifa del giornale Al-Difa (La Difesa), “abbiamo dichiarato guerra al sionismo, ma, impegnati a combatterci tra di noi, non eravamo preparati.” I responsabili dell’ALA diffidavano delle forze palestinesi guidate da Abdel Kader Al-Husseini. Così un alto ufficiale dell’ALA raccomandò di nominare alla testa dei reggimenti ufficiali egiziani, siriani o iracheni, ma non palestinesi, di cui non si fidava. Da parte sua Husseini preferiva limitare la mobilitazione a piccoli gruppi composti solo da reclute palestinesi sicure. Di fatto l’atteggiamento delle forze arabe straniere nei confronti dei palestinesi era spesso pesantemente critico. Delle lettere di soldati arabi evocano le brutalità commesse da queste truppe contro persone che si supponeva fossero andate a liberare.

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Ma la diffidenza era essenzialmente di ordine politico. Da parte palestinese la preoccupazione principale era evidentemente di non perdere la Palestina. Da parte di chi interveniva dall’esterno, con forze più preparate, le preoccupazioni erano molto diverse e ambigue.

Alcuni combattevano per raggiungere un accordo migliore con i sionisti, altri vedevano in questa lotta una prima tappa per il rovesciamento dei regimi alleati dei colonizzatori occidentali, altri ancora intendevano inviare i loro oppositori a combattere in Palestina per ridurre la loro influenza.” Tra il siriano Salah Bitar, fondatore del partito Ba’th nel 1947, un nazionalista arabo che intendeva fare della Palestina il trampolino di una “nuova civiltà araba”, e Nouri Saïd, uomo legato ai britannici in Iraq, che cercava di utilizzare la lotta filopalestinese per distogliere dalla mobilitazione popolare contro Londra (e dunque contro se stesso), la differenza di interessi era totale. Sul terreno delle operazioni, nota Hazkani, i capi dell’ALA erano “per la maggior parte più preoccupati di fare in modo che il fervore anticolonialista dei volontari arabi non si trasformasse in una lotta ulteriore contro i regimi arabi.

Quanto alla propaganda utilizzata dalle forze arabe, contrariamente alla tesi presentata dai vincitori israeliani, “i miei lavori” scrive Hazkani, “suggeriscono che nell’ALA l’antisemitismo era trascurabile.” Ne fa qualche esempio, ma li giudica poco presenti nelle lettere dei combattenti arabi. Analogamente “le lettere mostrano che molti di loro erano lungi dall’essere dei fanatici del jihadismo radicale.” Ma, evidenzia, più si profilava la sconfitta, più dalle lettere emergeva la dimensione di guerra santa contro gli ebrei. Tuttavia dalla loro lettura Hazkani conclude che termini come “sterminio” o “gettare gli ebrei a mare” vi sono assenti.

Allo stesso modo egli smentisce totalmente l’argomento così spesso avanzato da Israele dopo questa guerra secondo cui i dirigenti arabi avrebbero invitato i palestinesi a fuggire per lasciar loro campo libero. Al contrario il 24 aprile 1948, quando i palestinesi avevano subito poco prima delle sconfitte disperanti – in una settimana venne ucciso in combattimento Abdel Kader Al-Husseini, la lotta per la Galilea volse a favore delle forze ebraiche e ci fu il massacro di Deir Yassin –  Kaoudji pubblicò un ordine in cui definì “codardo” ogni palestinese che fuggiva da casa.

Un uso smodato della Bibbia

Da parte loro, nel campo della formazione, anche ideologica, delle truppe, le milizie ebraiche e poi l’esercito israeliano si mostrarono immensamente più preparate dei loro avversari. Copiando la logica dell’Armata rossa, il campo sionista instaurò il dualismo tra l’ufficiale e il commissario politico (il “politruk”). Fin dal 1946 un’opera dello scrittore sovietico Alexander Bek sulla difesa di Mosca nel 1941 venne tradotta e diffusa tra le forze israeliane per rafforzarvi lo “spirito di corpo” (‘l’esprit de corps’, in francese nel libro) e la determinazione a utilizzare tutti i mezzi per vincere. Nell’agosto 1948 Dov Berger, capo dell’hasbara (la propaganda israeliana), distribuì agli ufficiali dei “manuali educativi” nei quali le reclute ricevevano tutte una formazione politica identica. Si noterà che i responsabili militari, all’epoca quasi tutti usciti da contesti sionisti-socialisti, fecero un uso smodato della Bibbia per strutturare l’ostilità delle truppe nei confronti del mondo arabo circostante, già equiparato ad “Amelek e alle sette nazioni”, queste tribù descritte nella Bibbia come le più ostili agli ebrei. L’autore evidenzia che “la suggestione che la guerra del 1948 fosse comparabile alle guerre di sterminio che compaiono nella Bibbia non era affatto una visione marginale, essa veniva ripetuta nel BaMahaneh”, il giornale dell’esercito israeliano.

Perciò non c’è da stupirsi del successo riscosso dal “politruk” Aba Kovner tra le truppe. Egli era un eroe, scappato dal ghetto di Vilna, dove aveva tentato senza successo di organizzare contro i nazisti una rivolta come quella del ghetto di Varsavia. Membro dell’Hachomer Hatzaïr (La Giovane Guardia), la frangia filosovietica del sionismo, era riuscito a fuggire e a raggiungere le colonne dell’Armata rossa. Poeta di talento e cugino di Meïr Vilner, capo del partito comunista [israeliano, ndtr.], nel 1948 Kovner divenne responsabile dell’educazione della celebre brigata Givati. Citando i suoi Bollettini di combattimento, Hazkani mostra come attizzasse i sentimenti più crudeli, e anche i più razzisti, dei soldati, giustificando in anticipo i crimini peggiori. “Massacrate! Massacrate! Massacrate! Più uccidete dei cani assassini, più vi migliorerete. Più migliorerete il vostro amore per ciò che è bello e buono e per la libertà.” Gli alti gradi respingeranno i suoi costanti appelli al massacro degli arabi, compresi i civili. Ma le affermazioni di Kovner continuarono a essere riprodotte nel giornale dell’esercito israeliano. Non sarà che alla fine della guerra, evidenzia Hazkani, che lo stato maggiore esigerà “un’applicazione più rigida delle regole contro l’assassinio e la brutalità” da parte della truppa.

Né il socialismo né la morale

Contrariamente ad autori che l’hanno preceduto, Hazkani stima che gli abusi israeliani furono più sistematici di quanto finora si è creduto. Numerosi villaggi palestinesi vennero rasi al suolo dopo che era stata portata a termine la “pulizia” della loro popolazione. Avvennero massacri di civili. Egli cita una nota della censura militare israeliana del novembre 1948: “Le vittorie e le conquiste sono state accompagnate da saccheggi e assassinii, e molte lettere dei soldati mostrano un certo choc.” Ma la maggior parte dei sabra avvallava queste azioni in quella che l’Ufficio della Censura definisce una “intossicazione della vittoria”. Nel novembre 1948, dopo un’esplosione di violenze, preoccupato per il rischio di perdere il controllo sui soldati, lo stato maggiore ordinò che questi crimini e saccheggi cessassero. Il soldato David scrisse ai suoi genitori: “Non era il socialismo né la fraternità tra i popoli, né la morale: era rubare e scappare.” La soldatessa Rivka concorda: “Tutto è stato saccheggiato. Sono stati rubati come bottino cibo, denaro, gioielli. Certi soldati si sono fatti una piccola fortuna.

Nell’esercito qualche combattente si sentiva offeso. Tra loro i volontari stranieri occupano una parte importante. Le loro lettere descrivono stupore, e persino disgusto, di fronte al comportamento dei sabra, che percepiscono come mancanza di sensibilità nei confronti dei palestinesi. Un sondaggio ordinato dallo stato maggiore alla fine della guerra constatò che il 55% dei volontari ebrei stranieri aveva una visione molto negativa dei giovani israeliani, percepiti come arroganti e brutali.

I sabra sono orrendi,” scrive Martin, un ebreo americano, che aggiunge: “Qui viene istituito un Golem [creatura mitica che inizialmente difende gli ebrei ma poi impazzisce e colpisce tutti indiscriminatamente, ndtr.]. Gli ebrei israeliani hanno scambiato la loro religione per una pistola.” “Io non voglio più partecipare a questa gioco e voglio tornare appena possibile,” scrive Richard, un volontario sudafricano.

Cosciente delle reticenze espresse da una parte delle truppe, il dipartimento dell’educazione dell’esercito aveva distribuito loro un fascicolo intitolato Risposte alle domande frequentemente poste dai soldati. La prima era: “Perché non accettiamo il ritorno dei rifugiati arabi durante le tregue?” Risposta degli educatori militari: “Comprendiamo meglio di chiunque altro la sofferenza di questi rifugiati. Ma chi è responsabile della propria situazione non può esigere che noi risolviamo il suo problema.” Con un tale viatico, non c’è da stupirsi della lettera di uno di questi sabra che, nello stesso momento, scrive alla sua famiglia: “Abbiamo ancora bisogno di un periodo di battaglie per riuscire ad espellere gli arabi che rimangono. Allora potremo tornare a casa.

L’ultimo aspetto innovativo del libro è quello che Hazkari dedica agli “ebrei orientali” in questa guerra, in particolare agli ebrei marocchini, che ne furono all’epoca l’incarnazione, ma anche agli ebrei iracheni. I marocchini, se ne sa poco, costituirono il 10% degli ebrei che arrivarono in Palestina e poi in Israele nel 1948-49. Molto presto dovettero affrontare un razzismo spesso sconcertante da parte dei loro correligionari ashkenaziti (originari dell’Europa centrale), che allora costituivano il 95% dell’immigrazione. Nel luglio 1949 la censura notò che “gli immigrati del Nord Africa sono il gruppo più problematico. Molti vogliono tornare nei loro Paesi d’origine e avvertono i loro parenti di non emigrare.” Di fatto le lettere dei soldati marocchini mostrano un’amarezza spesso notevole.

Gli ebrei marocchini? “Selvaggi e ladri”

Yaïsh scrive che “gli ebrei polacchi pensano che i marocchini sono selvaggi e ladri”; la recluta Matitiahou si lamenta: “I giornali scrivono che i marocchini non sanno neppure usare la forchetta.” “Noi siamo ebrei e ci trattano come arabi,” scrive il soldato Nissim alla sua famiglia, riassumendo il sentimento corrente, anch’esso intriso di razzismo. Hazkani nota che “la visione di questi immigrati cambiava rapidamente” una volta arrivati in Israele. “Gli ebrei europei, che hanno terribilmente sofferto a causa del nazismo, si vedono come una razza superiore e considerano i sefarditi come inferiori” scrive Naïm. Yakoub aggiunge: “Siamo venuti in Israele credendo di trovare un paradiso. Vi abbiamo trovato degli ebrei con un cuore da tedeschi.” Di fatto Hazkani cita una lunga inchiesta di Haaretz, giornale delle élite israeliane, secondo cui gli ebrei venuti dal Nord Africa, affetti da “pigrizia cronica”, erano “appena al di sopra del livello degli arabi, dei neri e dei berberi.

Nelle lettere si trova un’adesione agli obiettivi della guerra anche nelle reclute ebree maghrebine. “Certi soldati marocchini ricavano una grande fierezza dal fatto di aver ucciso decine di arabi” e dall’averlo raccontato alle loro famiglie, notò persino con soddisfazione il capo di stato maggiore Ygael Yadin – che peraltro aveva definito gli ebrei orientali dei “primitivi”. Ma la preoccupazione dei dirigenti israeliani era tale, afferma Hazkani, che le autorità confiscarono i passaporti di questi immigrati recenti per evitare il loro ritorno. Quanto ai soldati originari dell’Iraq, lo stesso generale Yadin espresse pubblicamente la sua preoccupazione: essi “non manifestano nei confronti degli arabi il livello di animosità che ci si aspetta da loro.

Infine, se resta ancora un elemento importante da ricavare da questo libro molto ricco, è che l’enorme sconfitta del campo palestinese, successiva a quella della rivolta contro l’occupante britannico nel 1936-39, ebbe indubbiamente un impatto fondamentale sul bilancio politico dei palestinesi: quello di fidarsi in primo luogo di se stessi in futuro. Così Burhan Al-Din Al-Abbushi, poeta di una grande famiglia di Jenin, è palesemente severo con il nemico tradizionale, l’Inglese e il sionista.

Ma Hazkani mostra che “la sua critica più dura è riservata ai dirigenti palestinesi e arabi.” Antoine Francis Albina, un palestinese cristiano espulso da Gerusalemme, offre una critica radicale: “Non dobbiamo accusare nessuno salvo noi stessi.” Il più grande errore dei palestinesi secondo lui: essersi fidati dei regimi arabi. Quanto agli israeliani, “nel mondo successivo all’Olocausto, la maggior parte dei soldati di origine ashkenazita si convinse che il matrimonio tra ebraismo ed uso della forza era una necessità, e celebrarono l’emergere di un ‘ebraismo muscolare’.

Ci volle una quindicina d’anni ai palestinesi per cominciare a superare la “catastrofe” del 1948. Quanto agli israeliani, 70 anni dopo ashkenaziti e sefarditi insieme nella loro maggioranza festeggiano il trionfo di questo ebraismo muscolare. E i loro critici israeliani contemporanei ne sono più che mai sgomenti.

Sylvain Cypel

È stato membro del comitato di redazione di Le Monde [principale giornale francese, ndtr.] e in precedenza direttore della redazione del Courrier international [settimanale francese simile ad Internazionale, ndtr.]. È autore de Les emmurés. La société israélienne dans l’impasse  [I murati vivi. La società israeliana a un punto morto] (La Découverte, 2006) e de L’État d’Israël contre les Juifs [Lo Stato di Israele contro gli ebrei] (La Découverte, 2020).

 

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Dopo Corbyn, la lobby israeliana prende di mira il mondo accademico britannico

Jonathan Cook

19 ottobre 2021- Palestine Chronicle

Sembra che la lobby israeliana si stia preparando a una campagna per sradicare gli accademici di sinistra che nel Regno Unito sono critici verso la continua oppressione israeliana del popolo palestinese, impegnandosi in sforzi simili a quelli messi in atto contro l’ex leader laburista Jeremy Corbyn.

Come per gli attacchi contro Corbyn, quello contro gli accademici è guidato dal Jewish Chronicle, settimanale inglese che si rivolge ai più ardenti sostenitori di Israele fra la comunità ebraica britannica.

La mossa segue il successo che la lobby ha ottenuto questo mese con le sue pressioni sull’università di Bristol affinché licenziasse uno dei suoi docenti, David Miller, anche dopo le indagini dalla stessa università, condotte da un giurista, che avevano concluso che le accuse di antisemitismo contro Miller erano infondate.

Miller è stato formalmente licenziato con la generica motivazione secondo cui egli “non risponde ai criteri di comportamento che ci si aspetta dai nostri dipendenti e dall’Università”.

La lobby ha mascherato a stento la propria soddisfazione dopo che, apparentemente per paura di pubblicità negativa, l’università di Bristol ha capitolato davanti a una campagna di affermazioni infondate in base alle quali Miller “ha vessato” gli studenti ebrei.

Miller, sociologo, è all’avanguardia per le sue ricerche sulle fonti dell’islamofobia nel Regno Unito. Il suo lavoro presenta un esame dettagliato del ruolo della lobby israeliana nel fomentare il razzismo contro musulmani, arabi e palestinesi.

Israele ha promosso da tempo l’idea di essere un baluardo contro la presunta barbarie islamica e il terrorismo, in quello che lo Stato e i suoi sostenitori presentano come uno “scontro di civiltà”.

Più di un secolo fa, Theodor Herzl, il padre del sionismo politico, sosteneva nel linguaggio colonialista dell’epoca che uno Stato ebraico in Medio Oriente sarebbe servito come “un muro di difesa per l’Europa in Asia, un avamposto di civiltà contro la barbarie”.

Questo è il concetto chiave a cui il movimento sionista fece ricorso per far pressione sulle principali potenze del tempo, principalmente l’Inghilterra, perché contribuisse a cacciare il popolo palestinese autoctono dalla maggior parte della sua patria in modo che potesse invece insediarsi l’auto-dichiarato Stato ebraico di Israele.

A tutt’oggi Israele incoraggia sia l’idea di essere vittima di una minaccia esistenziale permanente da parte di un odio apparentemente irrazionale e dal fanatismo dei musulmani, sia di giocare un ruolo cruciale di prima linea nella difesa dei valori occidentali. Di conseguenza i palestinesi si sono trovati isolatati a livello diplomatico.

Punta dell’iceberg’

A indicare la direzione che probabilmente la lobby intende seguire d’ora in poi, questo mese il Jewish Chronicle ha pubblicato un editoriale intitolato “Il licenziamento di Miller dovrebbe essere l’inizio, non la fine”. In esso si conclude: “Miller non è una voce isolata, ma è rappresentativo di una scuola di pensiero radicata quasi ovunque nel mondo accademico.”

Allo stesso tempo, sotto il titolo “Miller se ne è andato, ma lui è solo la punta dell’iceberg”, si riporta che, all’inizio dell’anno, studiosi in “74 diverse istituzioni britanniche di istruzione superiore” hanno firmato una lettera di sostegno a Miller rivelando “la vastità della rete che lo sostiene nelle università in tutto il Regno Unito”.

Si fa notare che fra i firmatari è incluso “un numero significativo di rappresentanti dell’establishment del Russell Group, costituito da 24 delle più prestigiose università britanniche”.

Il Chronicle sottolinea il fatto che 13 dei firmatari appartenevano all’università di Bristol e faceva il nome di parecchi docenti.

L’insinuazione appena velata è che ci sia un problema di antisemitismo nelle università britanniche e che sia tollerata dai piani alti.

La lobby ha usato la stessa tesi con Corbyn, sostenendo, nonostante la scarsità delle prove, che lui e la sua cerchia più ristretta fossero indulgenti verso una ipotetica esplosione di antisemitismo all’interno del partito, insinuando in modo pesante che la stessero incoraggiando.

Le affermazioni della lobby sono state entusiasticamente amplificate dai media in mano ai miliardari e dalla burocrazia di destra del partito laburista, profondamente ostili al socialismo di Corbyn.

Riesumare la strategia

Negli ultimi tre anni il Chronicle è stato oggetto di un numero stupefacente di condanne da parte dell’Independent Press Standards Organisation (IPSO), la debole l’autorità garante della stampa nominata dall’industria stessa della carta stampata.

La maggior parte di queste distorsioni risale alla precedente campagna contro Corbyn, in cui il Jewish Chronicle ha giocato un ruolo centrale. Affermava sistematicamente che c’era una epidemia di antisemitismo fra i politici di sinistra in Inghilterra.

Sembra quindi che il Chronicle, con il resto della lobby filoisraeliana, stia riesumando la strategia che aveva usato contro Corbyn, sostenitore agguerrito dei diritti dei palestinesi, che, insieme a un gran numero di membri del partito laburista, si è visto calunniato con l’accusa di antisemitismo.

È memorabile come, nell’estate del 2018, il Chronicle e due altri giornali della comunità ebraica abbiano condiviso l’editoriale di prima pagina affermando che Corbyn costituiva una “minaccia esistenziale” per la vita degli ebrei nel Regno Unito.

L’editoriale era stato pubblicato alla vigilia delle elezioni generali di un anno prima, in cui Corbyn non era riuscito a conquistare la maggioranza dei seggi nel parlamento inglese solo per qualche migliaio di voti. Con il partito conservatore impantanato in una crisi permanente, a quel punto sembrava che fossero imminenti nuove elezioni.

La posta in gioco per la lobby era alta. Se Corbyn avesse vinto sarebbe probabilmente stato il primo leader di uno dei maggiori Stati europei a riconoscere lo Stato palestinese e a imporre sanzioni contro Israele, incluso il bando contro la vendita di armamenti, come era stato fatto per l’apartheid in Sudafrica.

Keir Starmer, successore di Corbyn, ha condotto una guerra, osannata dal Chronicle e da altri, contro la sinistra del partito usando di nuovo l’antisemitismo come pretesto.

Le rappresentazioni fuorvianti del giornale riguardo al partito laburista, che l’hanno ripetutamente messo nei guai con l’IPSO, l’autorità garante della stampa, sono ora messe al servizio contro gli accademici.

La manovra in due mosse del Jewish Chronicle nel caso Miller è abituale.

Primo, ha insinuato che il professore aveva perso il suo posto perché l’università aveva concluso che le sue azioni erano antisemite, quando invece tutto indicava che l’inchiesta era stata favorevole a Miller.

Secondo, il giornale ha insinuato con forza che più di 200 studiosi che avevano firmato una lettera all’università di Bristol esprimendo preoccupazione per l’indagine su Miller, condividevano le sue cosiddette idee antisemite. 

Placare la lobby

Così come il Chronicle, nonostante la mancanza di prove, ha cercato di dare l’impressione di una epidemia di antisemitismo nel Labour sotto Corbyn ora spera di insinuare che l’antisemitismo stia dilagando nelle università inglesi.

Infatti persino quelli che hanno firmato la lettera non condividono necessariamente le opinioni di Miller su Israele o sul suo ruolo nel fomentare l’islamofobia. La lettera difendeva soprattutto il principio della libertà accademica e il diritto di Miller di continuare la propria ricerca ovunque essa lo conducesse, senza timore di perdere il lavoro. Nessuno dei firmatari era d’accordo con tutte le conclusioni [delle sue ricerche] o con tutto quello che ha detto.

Ciò che è veramente scioccante è che non ci sia stato un numero maggiore di accademici ad accorrere in sua difesa, soprattutto alla luce del fatto che le accuse mosse dalla lobby israeliana contro di lui sono state smentite dall’inchiesta interna dell’università di Bristol.

Corbyn e la sua cerchia hanno scelto una linea di condotta simile a quella della Bristol, cercando di placare la lobby. Ma l’ufficio di Corbyn ha scoperto che ogni concessione da loro fatta alle calunnie di antisemitismo serviva solo ad alimentare la convinzione della lobby che la sua campagna intimidatoria stava funzionando e che la rete poteva essere ulteriormente ampliata.

Poco dopo la lobby ha sostenuto che non solo un diffuso sostegno della sinistra laburista in favore della lotta dei palestinesi contro decenni di occupazione israeliana fosse antisemita, ma che chiunque negasse che ciò fosse una prova di antisemitismo era a sua volta antisemita.

Come con i suoi attacchi contro Corbyn, le affermazioni del Chronicle contro Miller sono esagerate, dato che il giornale riporta in modo acritico che i membri del sindacato degli studenti ebrei a Bristol ha accusato il professore di “vessazioni, di prenderli di mira e di polemiche malevole”.

In realtà questa ipotetica “persecuzione” si riferisce o a una lezione di Miller sulla propaganda, basata sulla sua ricerca che cita la promozione dell’islamofobia da parte della lobby israeliana, o a considerazioni critiche da lui fatte sul sionismo e la lobby israeliana in in contesti diversi dalle lezioni.

Miller non ha perseguitato nessuno. Piuttosto quelli che si identificano come sionisti e per i quali Israele è una costante priorità politica hanno scelto di ritenersi offesi dalle sue scoperte. Non sono stati bullizzati, intimiditi o minacciati, come suggerisce il Chronicle. Le loro convinzioni politiche su Israele sono state contestate dal lavoro accademico di Miller.

Significativamente la ricerca di Miller mostra anche che i movimenti conservatori, come il partito di governo nel Regno Unito, hanno giocato un ruolo centrale nel promuovere l’islamofobia, in quanto parecchie figure chiave del partito conservatore britannico, come ad esempio la baronessa Sayeeda Warsi hanno ripetutamente messo in guardia.

Ma Bristol avrebbe seriamente indagato, per esempio, le affermazioni di studenti del partito Conservatore se fossero stati loro a essere “perseguitati” da Miller perché ha presentato la sua ricerca durante le lezioni o in suoi interventi a eventi politici fuori dall’aula? L’università avrebbe preso in considerazione il suo licenziamento basandosi su quelle affermazioni?

Non c’è neanche da porsi la domanda. La natura politica delle proteste e la loro minaccia alla libertà accademica sarebbe immediatamente ovvia a chiunque.

E in ciò risiede la speciale utilità per l’establishment della lobby israeliana. La sua campagna estremamente faziosa e politicizzata contro la sinistra, in modo iniquo ma troppo spesso efficace, può essere mascherata da antirazzismo o dalla promozione dei diritti umani.

Cresce l’analisi critica

Ma come il Chronicle implicitamente ammette nella sua chiamata a prendere di mira una cerchia molto più ampia di accademici inglesi, i sionisti più ardenti devono affrontare una sfida molto più grande di un singolo leader politico o un singolo docente.

Si sentono personalmente offesi se l’oggetto della loro passione politica, Israele, diventa oggetto di un’analisi critica crescente. Come il Chronicle, la speranza sionista di ribaltare i vari sviluppi politici degli ultimi dieci o vent’anni ha reso molto più difficile per loro difendere pubblicamente Israele.

Questi sviluppi includono:

* Il successo dal 2005 degli appelli della società civile palestinese per un boicottaggio internazionale di Israele per porre fine alla sua oppressione sui palestinesi;

* Le immagini orrende dei ripetuti assalti dell’esercito israeliano contro la popolazione palestinese che vive in quella che in effetti è diventata un’affollata prigione a cielo aperto nella Gaza assediata da Israele da 15 anni;

* il sabotaggio da parte di Israele della soluzione dei due Stati offerta dalla leadership palestinese con la costruzione illegale di sempre più colonie su terreni palestinesi, respingendo allo stesso tempo l’alternativa di un solo Stato che garantisca uguali diritti a ebrei e palestinesi nella regione;

* i recenti rapporti da parte di gruppi israeliani e internazionali per i diritti umani che chiaramente sostengono la tesi che Israele si possa considerare uno Stato d’apartheid.

Il Chronicle e gli ardenti sionisti nel Regno Unito a cui dà voce temevano che Corbyn rappresentasse il momento in cui questa visione di Israele irrompesse nel mainstream politico.

E ora essi temono che, a meno che si prendano drastiche iniziative, studiosi come Miller avviino un dibattito più puntuale nel mondo accademico su Israele, denunciando la lobby per il suo razzismo anti-palestinese.

Sanzioni pecuniarie

Minacciate da sanzioni pecuniarie dal governo di destra di Johnson, decine di università inglesi sono state costrette ad adottare una nuova definizione di antisemitismo.

Questo era il prezzo che la lobby ha cercato di far pagare a Corbyn. Egli è stato costretto ad accettare non solo l’imprecisa definizione di odio contro gli ebrei dell’Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, [IHRA, organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce governi ed esperti allo scopo di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] ma anche gli 11 esempi in appendice che, nella maggioranza dei casi, confondono apertamente critiche dure contro Israele con l’antisemitismo. La lobby sostiene che confutare questi esempi costituiscano antisemitismo è anch’essa una forma di antisemitismo.

Descrivendo in recenti rapporti Israele uno Stato d’apartheid, sia Human Rights Watch, con sede a New York, che B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani più rispettata, sarebbero stati vittime dell’affermazione dell’IHRA’ secondo cui è antisemita descrivere Israele come “un’iniziativa razzista”.

Similmente, molti studiosi israeliani e quasi tutti quelli palestinesi e i loro sostenitori violerebbero l’esempio che si oppone al fatto che a Israele venga richiesto un “comportamento che non ci si aspetta o si richieda a nessun’altra Nazione democratica”.

Essi mettono in dubbio il concetto stesso che Israele sia una Nazione democratica. I ricercatori israeliani l’hanno invece definita “etnocrazia”, perché imita uno Stato democratico mentre concede diritti e privilegi a un gruppo etnico, gli ebrei, e li nega a un altro, i palestinesi.

Corbyn si è ritrovato rapidamente intrappolato dalla definizione dell’IHRA e dagli esempi connessi. Ogni supporto significativo per i palestinesi contro l’oppressione israeliana, incluse le sue azioni passate prima che diventasse leader laburista, potrebbe essere distorto e diventare prova di antisemitismo.

E ogni argomentazione in base alla quale l’antisemitismo è stato in tal modo utilizzato dalla lobby come arma potrebbe a sua volta essere usato come prova di antisemitismo. Si sono create le condizioni perfette per una caccia alle streghe contro la sinistra laburista.

Ora la lobby spera che le stesse condizioni possano bandire le critiche contro Israele a livello accademico.

Uno dei primi bersagli della nuova campagna della lobby sarà probabilmente il sindacato delle Università e dei College (UCU), un sindacato dei docenti universitari che rappresenta oltre 120.000 accademici e personale di supporto. Fino ad ora ha resistito alla campagna di pressione.

La sua resistenza sembra aver spronato anche alcune istituzioni accademiche a non cedere. In particolare, a febbraio il senato accademico dell’University College of London si è ribellato contro l’adozione della definizione dell’IHRA da parte del consiglio di amministrazione dell’università, definendo la formulazione “politicizzata e divisiva”.

In dicembre un rapporto del consiglio dell’UCL ha avvertito che la definizione dell’IHRA confonde i pregiudizi contro gli ebrei con il dibattito politico su Israele e Palestina. Ciò, afferma, potrebbe avere “effetti potenzialmente deleteri sulla libertà di parola, come istigare una cultura di paura o autocensura nell’insegnamento o nella ricerca o in discussioni in aula su argomenti controversi”.

Ciò è esattamente quello che sperano la lobby israeliana e i suoi attivisti nel sindacato degli studenti ebrei che hanno preso di mira Miller. Con la loro nuova guerra contro il mondo accademico, aiutati da un governo di destra, potrebbero essere in grado di infliggere al sostegno degli accademici per i palestinesi tanti danni quanti ne hanno fatto ai politici che li appoggiano.

Jonathan Cook ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism. Fra i suoi libri ci sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ricostruire il Medio Oriente”] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [Palestina che sta scomparendo: gli esperimenti di Israele sulla disperazione umana] (Zed Books).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele non può essere accusato di niente

Israele non può essere accusato di niente, grazie alla narrazione della cultura dell’hasbara della vittimizzazione ebraica.

L’etnocentrismo ha devastato la cultura politica ebraica.

Yakov Hirsch

20 settembre 2021 – Mondoweiss

 

Il mio lavoro si concentra sulla cultura dell’hasbara: la costruzione sociale di una realtà alternativa che si centra sulla vittimizzazione del popolo ebraico che ha poco a che vedere con il mondo reale. Ma, nonostante le idee della cultura dell’hasbara siano a-storiche, i suoi concetti e discorsi sull’odio contro gli ebrei sono ora un’opinione diffusa nella cultura politica ebraica e americana. E ciò ha avuto parecchie conseguenze disastrose per il mondo in cui viviamo.

Hasbara è la parola israeliana per propaganda, e la cultura dell’hasbara sostiene che l’antisemitismo è un odio unico che va collocato in una categoria differente dalle altre forme di odio. E i guardiani della narrazione della vittimizzazione fanno tutto il necessario per continuare a mantenere questa prospettiva. In un editoriale del 2009 sul NYT riguardo ai “timori di Israele” Jeffrey Goldberg ha espresso perfettamente la prospettiva della cultura dell’hasbara riguardo all’antisemitismo “eterno”:

“L’antisemitismo è un odio sui generis che è mutevole, impermeabile alla logica ed eterno.”

È impossibile comprendere il mondo attuale senza prima capire la grande lotta della cultura dell’hasbara contro questo “odio sui generis”. I proseliti della cultura dell’hasbara sottolineano eventi della storia ebraica per trasmettere la convinzione che tutto il mondo sia ossessionato, e sempre lo sia stato, dall’eliminazione degli ebrei, arrivando fino ad oggi con l’esistenza dello Stato ebraico.

La prospettiva vittimistica di Yair Rosenberg non riflette il mondo reale. Come ho dimostrato nel mio ultimo articolo, la nuova serie di video di Rosenberg “per spiegare l’antisemitismo” ascrive agli eventi uno scorretto “significato” più ampio. Gli esseri umani, i loro pensieri e motivi individuali non sono come i sostenitori della cultura dell’hasbara di solito interpretano il mondo. I sostenitori della cultura dell’hasbara sono alla continua ricerca di quel “significato più ampio”.

Nel suo video “Al di là di sinistra e destra” Yair Rosenberg sostiene che l’antisemitismo continua a prosperare oggi perché persone di destra come di sinistra tendono a vigilare contro il fanatismo antiebraico solo quando proviene dai loro nemici politici. La voce narrante afferma che si capisce perché ciò avvenga.

“È molto più difficile parlarne quando l’intolleranza viene dai tuoi amici e alleati.” Con chi riesci a provocare dei cambiamenti, chiede: con i tuoi amici o con i tuoi nemici? Nella tua comunità o in quella di qualcun altro? Quindi, mentre la destra denuncia l’antisemitismo nella sinistra e la sinistra denuncia quello di destra, esse non condannano gli intolleranti della propria parte politica.

Nell’immaginario della cultura dell’hasbara quello che gli storici chiamano “essere antisemita” è un’incessante persecuzione degli ebrei. E di conseguenza gli ebrei devono essere protetti. Questo è il ruolo e il dovere che si sono assunti i giornalisti della cultura dell’hasbara. E, dato che secondo la cultura dell’hasbara il popolo ebraico e ora Israele sono eternamente vittime, diventano anche eternamente innocenti.

Il risultato di questa innocenza “fuori dalla storia” è che ora diventa “comprensibile” qualunque odio e razzismo che provenga dalla comunità ebraica.

Prendete in considerazione l’opinione di Yair Rosenberg sull’ ‘imbarazzante’ politica israeliana Miri Regev, ex-ministra della Cultura di Benjamin Netanyahu. Secondo Rosenberg l’estremismo di destra di Regev è comprensibile a causa dei tweet antisemiti che egli ha trovato su Twitter.

“Miri Regev è una dei ministri di Israele più di destra, demagogica e imbarazzante, ma menzogne inquietanti come queste sul potere malvagio di Israele aiutano la gente come lei ad essere eletta.”

E non si tratta solo di Rosenberg. Tutta una generazione di giornalisti della cultura dell’hasbara ha imposto a forza al mondo reale la sua prospettiva vittimistica: l’antisemitismo eterno rende comprensibile qualunque cosa Israele e i suoi sostenitori dicano. Prendete in considerazione la reazione di Jeffrey Goldberg [giornalista USA, ndtr.] all’accoglienza estasiata che l’AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndtr.] ha riservato a Donald Trump nel 2016:

“Quanti di voi sono sorpresi che un pubblico filo-israeliano abbia apprezzato un discorso filo-israeliano di Donald Trump dovrebbero smettere di essere sorpresi.”

Quello a cui dovrebbe rispondere Jeffrey Goldberg se gli venisse chiesto è: “Perché la gente dovrebbe smettere di manifestare sorpresa riguardo all’entusiasmo delirante del pubblico dell’AIPAC per Donald Trump? Quello che Goldberg dovrebbe dire è la differenza tra il pubblico dell’AIPAC e la solita folla seguace di Trump che Goldberg ha passato anni a condannare incessantemente. Perché Goldberg sta concedendo un’approvazione a un’organizzazione ebrea filo-israeliana che non attribuirebbe a un’altra aggregazione favorevole a Trump? Dov’è finito il suo usuale moralismo?” La sua risposta a questa domanda spiegherebbe parecchio.

Tutto ciò che deve avvenire per dare un senso al mondo è che Jeffrey Goldberg risponda a questa domanda.

Si noti che Peter Beinart [noto intellettuale e commentatore ebreo americano, ndtr.] non ha nessun problema a condannare quello stesso evento. Come ho già sostenuto, l’importanza culturale di Peter Beinart è che egli è il giornalista ebreo più influente senza che abbia una prospettiva vittimistica.

Il discorso della politica estera è pieno di esempi di come la prospettiva vittimistica modelli il mondo. Come Bret Stephens ha spiegato ai lettori del New York Times perché sembrava che Israele stesse per annettere i territori? Ha detto che la mano di Netanyahu era stata forzata dalle critiche globali contro Israele.

Naturalmente, secondo la prospettiva vittimistica di Stephens, annettere i territori è “comprensibile”.

Questa prospettiva vittimistica rende legittima qualunque cosa abbia fatto Netanyahu. Ho già denunciato ad alta voce quanti collaborano con Netanyahu per fuggire dal luogo del loro delitto culturale.

Si veda questo tweet di David Frum. Frum è stato dalla parte di Netanyahu contro il giornale [israeliano] progressista Haaretz. Dopo che Chemi Shalev di Haaretz ha twittato un editoriale del New York Times in cui si sosteneva che “Benjamin Netanyahu sta schiacciando la stampa libera di Israele,” Frum ha risposto:

“Il malefico piano di Netanyahu per schiacciare la stampa? Consentire l’esistenza di un giornale che non piace alla sinistra israeliana. Proprio così.”

Il lungo regno di Netanyahu non può essere compreso senza prendere in considerazione la protezione culturale garantita da questi giornalisti ebrei. Non era Jeffrey Goldberg l’esperto numero 1 al mondo su Israele e Netanyahu quando Obama e Kerry erano apparentemente così anti-israeliani? Dov’è andato? Chi meglio di Goldberg per spiegare come sia possibile che il corrotto uomo forte sacro della cultura dell’hasbara sia arrivato in un attimo a diventare dittatore degli ebrei? Ma, come previsto, una volta diventato capo-redattore dell’Atlantic [rivista USA progressista di cultura e politica estera, ndtr.]  sotto Trump, Goldberg ha perso ogni interesse in Israele e nelle questioni ebraiche che gli hanno fatto fare carriera.

Vediamo qualche altra azione “comprensibile” degli israeliani. Secondo la cultura dell’hasbara è comprensibile che gli ebrei israeliani lincino arabi. Leggete solo l’articolo di Jeffrey Goldberg del 2012 “Un quasi linciaggio a Gerusalemme”, in cui ha richiamato all’ordine la giornalista del NYT Isabel Kershner per aver definito “linciaggio” un’imboscata di ebrei contro un arabo. Ancora una volta, in base alla cultura dell’hasbara l’attacco contro arabi innocenti è comprensibile.

“Questo tipo di cose non sono realmente una novità. Avendo scritto un articolo sul corteo funebre di Meir Kahane, il rabbino razzista assassinato a New York più di 20 anni fa, posso testimoniare il fatto che teppisti ebrei, molti dei quali provenienti dai quartieri più poveri di Gerusalemme (e molti che sono discendenti di ebrei fuggiti o espulsi da Paesi arabi), si sono periodicamente scagliati contro arabi innocenti. Lo hanno fatto durante il funerale e in incidenti successivi.”

Notate il sottotesto: dopotutto questi ebrei provenivano da quartieri poveri e molti di loro erano discendenti di ebrei che fuggirono, o furono espulsi, da Paesi arabi. Quindi la loro vendetta è naturale.

Sono questo offuscamento e oscurantismo che DEVONO portare ai pogrom contro gli arabi che da allora sono diventati eventi quasi settimanali.

Il punto di vista della cultura dell’hasbara sull’innocenza di Israele di fronte all’eterno antisemitismo è la ragione per cui l’onesto Rosenberg e altri combattenti contro l’odio sono rimasti in silenzio mentre l’epoca dell’odio da anni ’30 si ripeteva di fronte a tutto il mondo. Il loro discorso vittimistico porta alla totale impunità e immunità di Benjamin Netanyahu. Si legga questo tweet di Eli Lake:

“Fantastico articolo di @LahavHarkov [giornalista israeliana del Jerusalem Post, ndtr.] su Tablet riguardo alla disponibilità di Israele nei confronti dei regimi autoritari e alla complicata posizione in cui mette lo Stato ebraico. Lo consiglio caldamente.”

C’è da meravigliarsi che Netanyahu sia andato in giro per il mondo a distribuire programmi di spionaggio informatico a regimi reazionari? I giornalisti della cultura dell’hasbara gli coprono le spalle. Secondo la prospettiva vittimistica Netanyahu è in una “posizione difficile” e cerca di proteggere Israele. Qualunque cosa Netanyahu abbia fatto è diventata “comprensibile” e nessuno lo sa più di Netanyahu. Come ho sostenuto, questo è stato il segreto del suo successo.

E dalla prospettiva della vittimizzazione ebraica Israele non può essere accusato di niente. Perché? Perché essere troppo duri con Israele “rafforzerà” gli antisemiti e provocherà il rischio della distruzione di Israele. Si veda questo tweet di Rosenberg per capire come la cultura dell’hasbara risponda alle accuse di apartheid contro Israele. Secondo la dottrina della cultura dell’hasbara, “la progressione dei tweet affatto sorprendente” è il passaggio da “Israele è colpevole di apartheid” all’idea che “l’Olocausto non ci sia mai stato”.

È proprio così? Quelli di noi che vivono nel mondo reale sanno che sono stati i soldi e la cultura dell’hasbara di Sheldon Adelson [miliardario ebreo statunitense, ndtr.] che hanno dettato la politica di Trump riguardo a Israele, per non parlare della costante pressione di suo [di Trump] genero a favore di Israele. Questo è un altro esempio del fatto che Israele e il popolo ebraico sono stati tolti dalla storia, come ho scritto nel mio ultimo articolo.

Quindi perché la cultura dell’hasbara pensa che così tanti ce l’abbiano e sempre ce l’avranno con il popolo ebraico? O, come dice Bari Weiss [giornalista del Wall Street Journal, del NYT e di Die Welt, ndtr.], perché “tutti odiano gli ebrei”?

La risposta della cultura dell’hasbara è che il popolo ebraico è migliore di qualunque altro popolo. Yair Rosenberg descrive quanto sia eccezionale il popolo ebraico.

“Nessuno che conosca gli ebrei rimarrà sorpreso che Israele abbia definito la protesta come un diritto fondamentale che è consentito persino durante un lockdown d’emergenza.”

È così che due anni fa Bari Weiss ha detto a Jake Tapper [noto giornalista televisivo USA, ndtr.] nel [centro culturale ebraico, ndtr.] 92d Street Y:

“La nostra unicità è ciò che continua a far impazzire la gente.”

L’etnocentrismo che si nota in questo articolo ha devastato la cultura politica ebraica. E non c’è una lotta ebraica più importante che smentire questa sacra prospettiva vittimista della cultura dell’hasbara.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

 




Demonizzare Durban, Oscurare il Razzismo

Richard Falk

EDITORIALE

16 agosto 2021 TRANSCEND Media Service

[Nota introduttiva: il post seguente descrive la campagna portata avanti negli ultimi 20 anni dalla propaganda filo-israeliana, sia del governo che delle ONG, per diffamare gli sforzi antirazzisti delle Nazioni Unite come una nuova specie di antisemitismo. È uno sforzo perverso che protegge le politiche e le pratiche razziste di Israele nei confronti del popolo palestinese dietro una perversa tesi secondo cui le critiche a queste politiche dovrebbero essere viste come antisemitismo. Il pezzo è stato originariamente pubblicato su Transcend Media Service e appare qui nella sua forma originale. Per il link all’originale

Contesto

16 agosto 2021 – È stata avviata un’insidiosa campagna per demonizzare la sponsorizzazione delle Nazioni Unite di un’iniziativa antirazzista per tenere una conferenza di un giorno alle Nazioni Unite il 22 settembre 2021, continuazione di quello che è diventato noto come il “Processo di Durban”. Esso identifica lo sforzo in corso negli ultimi vent’anni di attuare la Dichiarazione di Durban e il relativo Programma d’Azione adottato alla Conferenza Mondiale sul Razzismo, Discriminazione Razziale, Xenofobia and Intolleranza correlata tenutasi a Durban, in Sudafrica 20 anni fa.

La Conferenza di Durban fu controversa ancor prima che i delegati si riunissero, anticipata come un forum in cui Israele, il colonialismo, l’eredità della schiavitù e la vittimizzazione di etnie vulnerabili sarebbero stati illustrati e condannati. Era formalmente sotto gli auspici del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, il cui Alto Commissario, Mary Robinson, fu sottoposta a pressione dall’Occidente per annullare l’evento. Essa rifiutò, e invece di essere elogiata per la sua indipendenza, questa ex presidentessa di alti princìpi dell’Irlanda fu privata del sostegno di Washington per la riconferma a un secondo mandato come Alto Commissario. Israele e gli Stati Uniti si ritirarono dalla conferenza e boicottarono gli eventi di follow-up minori nel 2009 e nel 2011, il che spiega perché il prossimo raduno è indicato come Durban IV.

Alla conferenza del 2001, messa in ombra dagli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti, avvenuti pochi giorni dopo la chiusura di Durban, molti discorsi furono pronunciati da rappresentanti di vari governi, inclusi molti che criticarono Israele per le politiche e le pratiche razziste perpetrate contro il popolo palestinese, inclusa l’accusa che il sionismo fosse una forma di razzismo, che era stata precedentemente affermata nella Delibera della Assemblea Generale (vedi GA Res. 3379 approvata con 72-35 voti e 32 astenuti, A/RES/3379, 10 novembre 1975; revocata nel 1991 senza spiegazione nella GA Res. 46/96). Oltre alla Conferenza intergovernativa di Durban si teneva un Forum parallelo delle ONG dedicato alla stessa agenda in cui furono pronunciati accesi discorsi e dichiarazioni. Eppure il tema di maggiore stimolo fu fornito dalla vittoriosa lotta contro l’apartheid in Sud Africa che veniva a legittimare sia l’evento sia l’attuale necessità di affrontare la lunga incompiuta agenda antirazzista.

Il risultato a Durban

I principali risultati formali della Conferenza di Durban furono due significativi e comprensivi testi conosciuti come la Dichiarazione di Durban e il Programma d’Azione di Durban. Il processo di Durban successivo al 2001 ha riguardato più o meno esclusivamente l’attuazione di questi due documenti formali delle Nazioni Unite, che sono la rappresentazione ad ampio spettro di tutta una serie di rimostranze derivanti dal maltrattamento di varie categorie di persone vulnerabili dovuto alla guerra all’applicazione della legge sui diritti umani e attraverso una varietà di mezzi, tra cui l’istruzione e l’attivismo della società civile, delle ONG e persino del settore privato. Non c’è assolutamente alcuna base per lamentarsi del fatto che Israele sia stato criticato o che le disposizioni dei documenti della conferenza possano essere correttamente interpretate come antisemite o addirittura anti-israeliane, eppure, come sarà mostrato di seguito, una tale campagna è stata incessantemente condotta per screditare tutto ciò che Durban significa, quasi esclusivamente a causa del suo presunto pregiudizio estremo nei confronti di Israele.

Una lettura corretta di entrambi i documenti porterebbe a concludere che a Israele sono state effettivamente risparmiate critiche giustificabili, molto probabilmente a causa delle pressioni esercitate sia sull’ONU che sui media prima e durante la conferenza. Se osserviamo i testi, abbiamo l’impressione che le sensibilità israeliane siano state comprese e rispettate. L’apartheid e il genocidio sono stati condannati in termini generali, ma senza alcun riferimento negativo a Israele, e di fatto un’inclusione che ha individuato Israele in un modo che avrebbe essere accolto favorevolmente. Nel par. 58 della Dichiarazione troviamo la seguente affermazione: “..ricordiamo che l’Olocausto non deve mai essere dimenticato”. E par. 61 prende atto con “profonda preoccupazione dell’aumento dell’antisemitismo e dell’islamofobia in varie parti del mondo, nonché l’emergere di movimenti razziali e violenti basati sul razzismo e su idee discriminatorie nei confronti delle comunità ebraiche, musulmane e arabe”. Sembra assolutamente perverso screditare la Dichiarazione di Durban come un’invettiva contro gli ebrei.

Nel corso dei 122 paragrafi della Dichiarazione la situazione Israele/Palestina è menzionata solo nel paragrafo 63, e poi in maniera neutrale che sembra trascurare la deliberata vittimizzazione del popolo palestinese. Si legge come segue: “Siamo preoccupati per la difficile situazione del popolo palestinese sotto occupazione straniera. Riconosciamo il diritto inalienabile del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla creazione di uno Stato indipendente e riconosciamo il diritto alla sicurezza per tutti gli Stati della regione, compreso Israele, e invitiamo tutti gli Stati a sostenere il processo di pace e a portarlo a una rapida conclusione.” Cosa può essere offensivo anche per il più ardente sostenitore israeliano di una tale disposizione, che è sepolta in profondità in una dichiarazione di trenta pagine in un linguaggio che non punta il dito contro Israele.

La campagna anti-Durban di Israele

Eppure la realtà di Durban, la violenza della lingua usata per denunciare questi documenti e il Processo di Durban sembra estremo, e provenire da fonti note per seguire da vicino la linea ufficiale diffusa da Tel Aviv. Il colonnello britannico Richard Kemp, che scrive sul sito web notoriamente di destra del Gladstone Institute, è raramente da meno nel suo sostegno all’uso della forza da parte di Israele contro l’indifesa Gaza. Kemp definisce il Processo di Durban “come la famigerata vendetta ventennale delle Nazioni Unite contro Israele” e pronuncia il suo giudizio che “Durban IV darà nuova energia a questo vergognoso processo”. [“Fighting the Blight of Durban”, 29 luglio 2021] Kemp è a suo agio nell’invocare il linguaggio iperbolico di UN Watch che etichetta assurdamente Durban come “..la peggiore manifestazione internazionale di antisemitismo nel dopoguerra”.

UN Watch aveva espresso separatamente il suo velenoso punto di vista del processo di Durban un mese prima in un comunicato stampa dal titolo grossolanamente fuorviante, “Durban IV: fatti chiave”, 24 maggio 2021, riassunto dalla frase una “perversione dei principi dell’antirazzismo”. Questa caratterizzazione di Durban è resa più concreta affermando che fa “… affermazioni infondate contro il popolo ebraico”, è usato “per promuovere il razzismo, l’intolleranza, l’antisemitismo e la negazione dell’Olocausto… e per erodere il diritto di Israele a esistere”. Questo linguaggio diffamatorio di UN Watch dovrebbe essere confrontato con i testi della Dichiarazione di Durban e del Programma d’azione, la cui attuazione è l’obiettivo principale del Processo di Durban, per avere una visione delle oscure motivazioni di questi critici di orientamento israeliano.

2021 – Israele e Apartheid

È vero che nel 2021 non ci sarebbe modo di evitare di supporre che “la difficile situazione del popolo palestinese” sia un risultato diretto dell’apartheid israeliano, che non solo è condannato dal processo di Durban, ma è fermamente stabilito come crimine contro l’umanità in entrambi la Convenzione internazionale del 1974 sulla repressione e la repressione del crimine di apartheid e l’articolo 7 dello Statuto di Roma che disciplina le operazioni della Corte penale internazionale. Non è più ragionevole respingere le accuse di apartheid israeliana come estremiste, tanto meno come manifestazioni di antisemitismo. Tuttavia, poiché Israele, con il sostegno degli Stati Uniti, controlla ancora il discorso principale in Occidente, i media fissano tali risultati in un silenzio di pietra nonostante la prolungata sofferenza del popolo palestinese, un promemoria convincente che dove la geopolitica e la moralità/legalità si scontrano, la geopolitica prevale.

Riscattare il processo di Durban

Ci sono due serie di osservazioni che rendono vergognosi e spudorati questi attacchi al lodevole sforzo delle Nazioni Unite attraverso Durban di evidenziare le molte sfaccettature del razzismo e della discriminazione razziale. Il Processo di Durban è diventato il fulcro di una campagna mondiale sui diritti umani per aumentare la consapevolezza pubblica e sollevare preoccupazioni all’interno delle Nazioni Unite per quanto riguarda le molte varietà di criminalità razzista, nonché per sottolineare la responsabilità dei governi e i potenziali contributi dell’attivismo della società civile.

E’ degno di nota che Israele e il suo comportamento nella Dichiarazione di Durban e nel Programma d’Azione non ricevono neanche lontanamente l’attenzione di altre questioni come l’abuso delle popolazioni indigene, dei Rom, dei migranti e dei rifugiati. In effetti, alla luce degli sviluppi più recenti che hanno confermato le precedenti preoccupazioni sulla vittimizzazione palestinese, il Processo di Durban, semmai, può essere accusato di aver messo in secondo piano il razzismo di Israele e di essere caduto nella trappola dell’hasbara di imporre una responsabilità simmetrica all’oppressore e alla vittima, incolpando entrambe le parti, proprio per sventare la crescente tendenza del sostegno organizzato di Israele a giocare la carta antisemita come una tattica crescente per distogliere l’attenzione pubblica dal crescente consenso sul fatto che Israele operi come uno Stato di apartheid.

Forse, nell’atmosfera del 2001, era politicamente provocatorio accusare Israele di razzismo e apartheid, sebbene, come ho cercato di dimostrare, queste accuse rivolte a Israele nel dibattito aperto a Durban non hanno mai avuto seguito nell’esito formale della Conferenza di Durban. E come è stato chiarito dai suoi sostenitori, il Processo di Durban si occupa principalmente dell’attuazione della Dichiarazione di Durban e del Programma d’azione (https://www.un.org/en/durbanreview2009/ddpa.shtml ). Nel 2021, ciò che era provocatorio vent’anni fa è stato ripetutamente confermato da valutazioni dettagliate affidabili e attendibili e indirettamente approvato dalla Legge fondamentale israeliana emanata dalla Knesset nel 2018. I punti salienti di questa dinamica si sono verificati nel corso degli ultimi cinque anni:

la pubblicazione nel marzo 2017 di uno studio accademico indipendente sponsorizzato dalla Commissione economica e sociale delle Nazioni Unite per l’Asia occidentale (ESCWA) che ha concluso che le politiche e le pratiche israeliane costituivano una schiacciante conferma delle accuse di apartheid [“Le pratiche di Israele verso il popolo palestinese e la questione dell’apartheid”]

-il rapporto dell’ONG israeliana per i diritti umani, B’Tselem, “Un regime di supremazia ebraica da che Dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo: questo è Apartheid”, 12 gennaio 2021,

-il rapporto di Human Rights Watch, “Una soglia oltrepassata: le autorità israeliane e i crimini di apartheid e persecuzione”, 27 aprile 2021.

Non è più plausibile sostenere che associare il trattamento israeliano del popolo palestinese all’apartheid sia antisemita. In quanto ebreo, considero le giustificazioni israeliane per il suo comportamento nei confronti della Palestina come l’incarnazione del comportamento antisemita, che porta discredito al popolo ebraico.

Traduzione di Angelo Stefanini




La nostra arte si occupa di ingiustizie reali, alcune in Palestina: non sorprende abbia incontrato ostilità

Forensic Architecture

20 agosto 2021 – The Guardian

La nostra lotta per ripristinare un’affermazione nella mostra a Manchester in realtà riguarda cosa si può o non può dire negli spazi culturali

A Manchester mercoledì 18 manifestanti si sono ripresi una delle principali istituzioni culturali della città. Nonostante la pioggia, attivisti filo-palestinesi si sono radunati davanti al portone chiuso della galleria d’arte Whitworth, parte dell’università di Manchester. È stato grazie alla loro azione insistente e a 13.000 lettere inviate alla galleria, che è stata ripristinata una parte della nostra mostra, la dichiarazione scritta intitolata: “Forensic Architecture [Architettura forense] sta dalla parte della Palestina”. La mostra che dietro nostre insistenze era stata chiusa dopo la rimozione unilaterale dell’enunciato, è ora riaperta.

Sabato 15 agosto un post sul blog del sito web dell’organizzazione UK Lawyers for Israel [Giuristi Britannici per Israele] (UKLFI) aveva annunciato che, in seguito al loro intervento, la frase era stata rimossa dalla nostra mostra, “Cloud Studies” [Studi di Nubi]. Quando l’abbiamo appreso non ci siamo poi molto sorpresi. Lo stesso gruppo aveva già criticato una dichiarazione di solidarietà con i palestinesi pubblicata a giugno sul sito della Whitworth ed era riuscito a convincere l’università a toglierla. E questo non era per niente il primo attacco da parte di UKLFI contro di noi come organizzazione. Nel 2018, quando siamo stati nominati per il Turner Prize [prestigioso premio britannico di arte contemporanea, ndtr.], l’UKLFI aveva sollecitato la Tate [noto complesso museale britannico, ndtr.] a non consegnarci il premio adducendo il motivo ridicolo che i documenti che avevamo pubblicato sulla Palestina equivalevano a “una moderna ‘accusa del sangue’ [accusa antisemita diffusa dall’XI secolo secondo cui alcuni ebrei berrebbero sangue infantile per compiere riti di magia nera, ndtr.] che avrebbe potuto promuovere antisemitismo e attacchi contro gli ebrei”.

Forensic Architecture non è esattamente un collettivo di artisti come qualcuno ci descrive. Siamo piuttosto un gruppo universitario di ricerca che opera in tutto il mondo con comunità in prima linea nei conflitti. Noi sviluppiamo tecniche e strumenti architettonici per raccogliere prove delle violazioni dei diritti umani da usare nelle aule di tribunali nazionali e internazionali, in inchieste parlamentari, tribunali per i diritti dei cittadini, forum di comunità, istituzioni accademiche e media. Noi esponiamo i risultati delle nostre ricerche anche in gallerie e musei quando altri siti affidabili sono inaccessibili.

Perciò, seppure sorpresi dalla nomina del Turner Prize, abbiamo scelto di usare la piattaforma per rivelare le affermazioni ufficiali israeliane sull’uccisione del beduino palestinese Yaakub Abu al-Qi’an per mano di poliziotti israeliani il 18 gennaio 2017. Abbiamo collaborato con gli abitanti del villaggio palestinese Umm al-Hirane e con attivisti per redigere un’inchiesta che collettivamente smentisce l’affermazione dei poliziotti israeliani secondo cui al-Qi’an era un “terrorista” e al contrario svela l’uccisione efferata e il rozzo tentativo di occultarla. Era difficile contestare le conclusioni dell’inchiesta e persino l’allora primo ministro di estrema destra, Benjamin Netanyahu, è stato alla fine costretto a scusarsi per l’omicidio.

Il nostro lavoro rivela l’avvento di un nuovo tipo di arte politica, meno interessata a commentare che a intervenire in contesti politici. È con questo spirito che abbiamo esposto Cloud Studies alla Whitworth. Il titolo si riferisce alla comparsa della meteorologia nel diciannovesimo secolo con il lavoro combinato di scienziati e artisti, ma, invece di occuparsi del tempo, la mostra mappa le odierne nubi tossiche: dai gas lacrimogeni negli USA, in Palestina e in Cile, agli attacchi chimici in Siria, a quelli prodotti dalle industrie estrattive in Argentina, alle nuvole di CO2 create dagli incendi nelle foreste in Indonesia.

Un elemento chiave della mostra è il nostro studio sul razzismo ambientale in Louisiana, nello specifico sul “corridoio petrolchimico” intensamente industrializzato lungo il fiume Mississippi, fra Baton Rouge e New Orleans. Gli abitanti delle comunità, a maggioranza nera, che vivono nei pressi di questi impianti respirano una delle arie più tossiche del Paese e registrano i numeri più elevati di casi di tumore.

A maggio, mentre stavamo lavorando alla mostra, è cominciata la serie più recente di attacchi israeliani contro Gaza. Abbiamo seguito da vicino collaboratori, amici ed ex dipendenti a Gaza e altrove in Palestine che ci mandavano in tempo reale immagini orribili delle distruzioni che le forze armate israeliane stavano arrecando alle loro case e aziende. Mentre assistevamo al sorgere di nubi tossiche sopra gli stabilimenti chimici bombardati di Beit Lahia ci sembrava di vedere una rappresentazione dal vivo dei nostri ‘Studi di nubi’.

Gli attacchi si sono estesi anche a istituzioni artistiche: l’artista Emily Jacir, nostra cara amica palestinese, ci ha mandato video del raid dell’esercito israeliano contro Dar Jacir, uno spazio indipendente e vitale gestito da artisti a Betlemme.

La nostra dichiarazione, la cui inclusione nella mostra era stata approvata in fase di progettazione dai curatori della Whitworth, è stata scritta mentre si svolgevano questi attacchi. Abbiamo usato termini come “pulizia etnica” e “apartheid” per descrivere le politiche del governo israeliano in Palestina perché descrivono la realtà della vita palestinese, sono in linea con il linguaggio delle principali organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani e sono naturalmente state usate in Palestina per decenni. Analogamente il termine “colonialismo di insediamento” è stato usato estensivamente dagli studiosi per descrivere le politiche israeliane in Palestina. Se tali termini sono offensivi, essi sono ancora più offensivi per quelli che sperimentano quotidianamente l’impatto di tali politiche. Le università devono essere luoghi dove tali categorie possono essere presentate, sviluppate e discusse e la nostra battaglia per ripristinare la dichiarazione riguardava in realtà quello che si può dire in un contesto accademico e culturale.

Compiacere gruppi come UKLFI, un’organizzazione che ha ospitato un evento pubblico a cui era presente Regavim, l’organizzazione israeliana di coloni di estrema destra che sostiene la demolizione delle case dei palestinesi, non è solo una violazione del principio della libertà di espressione, ma mostra anche un’assenza di integrità morale. Il nostro è solo un caso, e non uno degli esempi più significativi, della campagna di diffamazione e di attacchi giuridici contro artisti e intellettuali palestinesi, molti dei quali subiscono la repressione per mano delle autorità di occupazione israeliane, e censura e restrizioni della loro libertà di espressione a livello internazionale. Secondo noi la campagna di UKLFI per screditare Forensic Architecture fa parte di questi tentativi di far tacere e intimidire. Il fatto che uno sforzo concertato sia riuscito a ribaltare la posizione dell’Università di Manchester dimostra che a tali azioni si può opporre una resistenza a livello collettivo.

Questa lotta alla Whitworth ha anche qualcosa da dire ai responsabili delle politiche culturali: mentre le gallerie si orientano sempre di più ad ospitare arte politica, allo stesso modo istituzioni e l’opinione pubblica non dovrebbero essere sorpresi quando l’arte politica è, appunto, politica.

Forensic Architecture è un’organizzazione di ricerca che indaga violazioni di diritti umani, inclusa la violenza commessa da Stati, forze di polizia, militari e corporazioni.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Siamo Ben e Jerry. Gelatai e uomini con saldi principii.*

Bennett Cohen e Jerry Greenfield

Il signor Cohen e il signor Greenfield hanno fondato la Ben & Jerry’s Homemade Holdings nel 1978

29 luglio 2021 – New York Times

*Nota redazionale: pubblichiamo questa lettera di Cohen e Greenfield pur non condividendone alcune affermazioni. Come affermato dalla commissione Onu Falk-Tilley, dall’ong israeliana B’Tselem e da un rapporto di Human RIghts Watch, che denunciano il fatto che Israele pratica un sistema di apartheid su tutto il territorio dal fiume Giordano al mar Mediterraneo, non riteniamo che Israele possa essere considerato uno Stato democratico. Tuttavia ci pare molto significativa questa presa di posizione da parte di ebrei americani contro l’illegale occupazione dei territori palestinesi e il fatto che la lettera sia stata pubblicata dal New York Times, che in genera appoggia le politiche israeliane

Siamo i fondatori di Ben & Jerry’s. Siamo anche ebrei orgogliosi di esserlo. Costituisce una parte essenziale del nostro essere e di come ci siamo identificati per tutta la vita. Quando la nostra azienda ha iniziato ad espandersi a livello internazionale, Israele è stato uno dei nostri primi mercati esteri. Allora eravamo, e rimaniamo oggi, sostenitori dello Stato di Israele.

Ma è possibile sostenere Israele e opporsi ad alcune delle sue politiche, proprio come ci siamo opposti a politiche del governo degli Stati Uniti. Pertanto, sosteniamo inequivocabilmente la decisione dell’azienda di porre fine agli affari nei territori occupati, un’occupazione che la maggioranza della comunità internazionale, comprese le Nazioni Unite, ha dichiarato illegale.

Anche se non abbiamo più alcun controllo operativo sull’azienda che abbiamo fondato nel 1978, siamo orgogliosi della sua azione e crediamo che sia dalla parte giusta della storia. A nostro avviso, porre fine alle vendite di gelato nei territori occupati è una delle decisioni più importanti che l’azienda abbia preso nei suoi 43 anni di storia; è stata particolarmente coraggiosa da parte sua. Anche se sapeva che senza dubbio la risposta sarebbe stata rapida e pesante, Ben & Jerry’s ha preso l’iniziativa per rendere coerenti la sua azione e le sue attività con i suoi valori progressisti.

Il fatto che noi si sostenga la decisione dell’azienda non è una contraddizione, né è antisemita. In effetti, crediamo che questo atto possa e debba essere visto come la promozione dei concetti di giustizia e diritti umani, principi fondamentali dell’ebraismo.

Ben & Jerry’s è un’azienda che sostiene la pace. Da tempo chiede al Congresso di ridurre il budget militare degli Stati Uniti. Ben & Jerry’s si è opposta alla guerra del Golfo Persico del 1991, non solo a parole: una delle nostre primissime iniziative di missione sociale, nel 1988, è stata quella di introdurre il Peace Pop [uno stecco gelato con il simbolo della pace, ndtr.]. Faceva parte di uno sforzo per promuovere l’idea di reindirizzare l’1% dei budget della difesa nazionale in tutto il mondo per finanziare attività di promozione della pace. Vediamo la recente azione dell’azienda come parte di una traiettoria simile, non come anti-israeliana, ma come parte di una lunga storia pacifista.

Nella sua dichiarazione la società ha fatto una distinzione tra il territorio democratico di Israele e i territori occupati da Israele. La decisione di fermare le vendite al di fuori dei confini democratici di Israele non è un boicottaggio di Israele. La dichiarazione di Ben & Jerry non sostiene il movimento BDS.

La decisione, come affermato dall’azienda, di rendere le sue operazioni più coerenti con i suoi valori non è un rifiuto di Israele. È un rifiuto della politica israeliana di proseguire un’occupazione illegale che ostacola la pace e viola i diritti umani fondamentali del popolo palestinese che vive sotto occupazione. Come sostenitori ebrei dello Stato di Israele, respingiamo totalmente l’idea che sia antisemita mettere in discussione le politiche dello Stato di Israele.

Quando nel 2000 abbiamo lasciato il timone della società nell’accordo di acquisizione con Unilever [multinazionale inglese, ndtr.] abbiamo contrattato una struttura di governance unica. Quella struttura è la “magia” che sta dietro alla continua indipendenza di Ben & Jerry e al suo successo. Come parte dell’accordo, la società ha mantenuto un consiglio di amministrazione indipendente con la responsabilità di proteggere l’irrinunciabile integrità del marchio dell’azienda e di perseguire la sua missione sociale.

Crediamo che le imprese siano tra i soggetti più potenti della società. Crediamo che le aziende abbiano la responsabilità di usare il loro potere e la loro influenza per promuovere nella maggior misura possibile il bene comune. Nel corso degli anni, siamo anche arrivati ​​a credere che ci sia un aspetto spirituale negli affari, proprio come c’è nella vita degli individui. Quello che dai, ricevi. Ci auguriamo che per Ben & Jerry’s ciò rimanga centrale negli affari. Per noi questo è ciò che rappresenta questa decisione ed è per questo che siamo orgogliosi che, 43 anni dopo aver aperto una gelateria in una fatiscente stazione di servizio a Burlington, Vermont, i nostri nomi siano ancora sulle confezioni.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)