Centotrentacinque docenti universitari israeliani nel Regno Unito e altrove esortano i senati accademici a respingere una definizione viziata di antisemitismo.  

Israeli Academics ,Regno Unito

11 gennaio 2021 israeliacademics uk

Gli accademici esprimono ferma opposizione alla imposizione da parte del governo della definizione “intrinsecamente viziata” ed esortano le università britanniche, fedeli al proprio impegno a favore della libertà accademica e della libertà di parola, a respingerla mentre continua incessante la loro lotta contro ogni forma di razzismo, antisemitismo compreso

Appello perché venga respinta la “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 al fine di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, n.d.tr.].

 

Destinatari: vicerettori, membri dei senati accademici, tutti gli altri docenti nonché studenti in Gran Bretagna & l’Onorevole Gavin Williamson, Segretario di Stato all’Istruzione

Oggetto: la “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA

 

Noi, nella doppia veste di docenti universitari britannici e cittadini israeliani, siamo fermamente contrari all’imposizione sulle università inglesi da parte del governo della “definizione operativa di antisemitismo” dell’IHRA. Facciamo appello a tutti i senati accademici affinché respingano il documento dell’IHRA ovvero, qualora esso sia già stato adottato, si adoperino per revocarlo. 

Rappresentiamo un gruppo eterogeneo per ambito disciplinare, appartenenza etnica e fascia di età. Ci accomuna un’esperienza protratta di lotta al razzismo. Per tale motivo abbiamo espresso critiche ad Israele per le sue persistenti politiche di occupazione, espropriazione, segregazione e discriminazione nei confronti del popolo palestinese. La nostra prospettiva storica e politica è fortemente condizionata dai molteplici genocidi dei tempi moderni, in particolare dell’Olocausto, nel quale diversi di noi hanno perduto membri delle proprie famiglie estese. La lezione che siamo determinati a trarre dalla storia è l’impegno a combattere tutte le forme di razzismo.

 

È proprio in virtù di queste prospettive personali, accademiche e politiche che siamo sconcertati per la lettera che Gavin Williamson, Segretario di Stato all’Istruzione, ha inviato ai nostri vicerettori in data 9 ottobre 2020. Sotto l’esplicita minaccia di sospendere i finanziamenti, la lettera cerca di forzare le università ad adottare la controversa “definizione operativa di antisemitismo” proposta inizialmente dalla Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA). Combattere l’antisemitismo in tutte le sue forme è un’esigenza imprescindibile. Tuttavia il documento dell’IHRA è intrinsecamente viziato tanto da pregiudicare tale lotta. Inoltre esso rappresenta una minaccia nei confronti della libertà di parola e di insegnamento, oltre a costituire un attacco sia contro il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi sia contro la battaglia per la democratizzazione di Israele.

 

Il documento dell’IHRA è stato ampiamente criticato in numerose occasioni. Qui ci limitiamo ad accennare ad alcuni aspetti particolarmente negativi nell’ambito dell’istruzione universitaria. Il documento consiste di due parti. La prima, citata nella lettera di Williamson, è una definizione di antisemitismo articolata come segue:

L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o le loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Tale formulazione è così vaga nel linguaggio oltre che carente nel contenuto da risultare inutilizzabile. Per un verso, essa si affida a termini poco chiari quali “una certa percezione” e “può essere espressa come odio”. Per contro, omette di menzionare elementi chiave quali “pregiudizio” e “discriminazione”. Ma soprattutto questa “definizione” è nettamente più debole e meno efficace dei regolamenti e delle leggi già in vigore o in via di adozione in ambito universitario.

Inoltre le pressioni esercitate dal governo sulle università perché adottino una definizione creata esclusivamente per un’unica forma di razzismo testimoniano un’attenzione esclusiva per le persone di origine ebraica, come se queste meritassero maggiore protezione di altri individui che subiscono regolarmente simili se non peggiori manifestazioni di discriminazione e razzismo.

 

La seconda parte del documento dell’IHRA presenta ciò che descrive come undici esempi di antisemitismo contemporaneo, sette dei quali si riferiscono allo Stato di Israele. Alcuni di questi “esempi” travisano la nozione di antisemitismo. Essi ottengono altresì un effetto dissuasivo nei confronti di quei docenti e studenti universitari che intendano legittimamente criticare l’oppressione esercitata da Israele sui palestinesi oppure che vogliano studiare il conflitto israelo-palestinese. Infine, interferiscono con il diritto che abbiamo in quanto cittadini israeliani di partecipare liberamente alle vicende politiche israeliane.

Per dare un’idea, un esempio di antisemitismo è “[affermare] che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo”. Un altro atto antisemita, secondo il documento, è “richiedere ad [Israele] un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro Stato democratico”. Sarebbe sicuramente legittimo, tanto più in ambito accademico, poter discutere se Israele, in quanto autoproclamato Stato ebraico, sia “un progetto razzistaoppure una “Nazione democratica”.

Attualmente la popolazione sotto il controllo di Israele comprende 14 milioni di persone, di cui quasi 5 milioni sono privi dei diritti fondamentali. Dei 9 milioni rimanenti il 21% (circa 1,8 milioni) sono stati sistematicamente discriminati da quando è stato fondato lo Stato israeliano. Questa discriminazione si manifesta in decine di leggi e politiche riguardanti i diritti di proprietà, l’istruzione e l’accesso alla terra e alle risorse. Tutte le persone che fanno parte dei 6,8 milioni a cui è negato l’accesso ad una piena democrazia sono non-ebrei. Un esempio emblematico è la “legge del ritorno”, che consente a tutti gli ebrei – ma solo agli ebrei – che vivono in qualsiasi parte del mondo di emigrare in Israele ottenendo la cittadinanza israeliana, diritto estendibile a coniugi e discendenti. Al contempo, si nega invece a milioni di palestinesi ed ai loro discendenti, sfollati o esiliati, il diritto di ritornare nella loro madrepatria.

Tali leggi e politiche statuali discriminatorie in altri sistemi politici contemporanei o del passato – si tratti di Cina, USA o Australia – vengono legittimamente e regolarmente passate al vaglio dagli specialisti e dall’opinione pubblica, criticate variamente come forme di razzismo istituzionalizzato e paragonate a certi regimi fascisti, compreso quello della Germania prima del 1939. In realtà, le analogie storiche sono uno strumento comune nella ricerca accademica. Tuttavia secondo il Segretario all’Istruzione soltanto quelle riguardanti lo Stato di Israele d’ora in poi vengono proibite agli studiosi e agli studenti in Inghilterra. Nessuno Stato dovrebbe essere al riparo da tali legittime discussioni accademiche.

 

Inoltre, mentre il documento dell’IHRA considera qualsiasi “accostamento della politica contemporanea israeliana a quella dei nazisti” una forma di antisemitismo, molti in Israele, sia al centro sia alla sinistra della scena politica, hanno fatto paragoni simili. Un esempio recente è una dichiarazione del 2016 di Yair Golan, membro della Knesset (il parlamento israeliano) ed ex vice-comandante dello stato maggiore dell’esercito israeliano. Un altro è il confronto fra Israele e il nazismo allo stadio iniziale fatto nel 2018 dall’illustre storico e politologo vincitore del premio Israele Zeev Sternhell, che è stato fino alla sua recente scomparsa uno dei massimi esperti di fascismo. Tali analogie vengono spesso fatte regolarmente anche negli editoriali dell’autorevole quotidiano israeliano Haaretz.

L’uso di tali analogie non è affatto nuovo. Per dare un’idea, alla fine del 1948 un illustre gruppo di intellettuali, fra cui Albert Einstein e Hannah Arendt, e rabbini ebrei pubblicò una lettera sul New York Times in cui accusò  Menachem Begin (futuro primo ministro di Israele) di essere alla guida di “un partito politico molto vicino per organizzazione, metodi, filosofia politica e mobilitazione della società ai partiti nazista e fascista.”

Con i suoi undici “esempi”, il documento dell’IHRA è già stato utilizzato per reprimere la libertà di parola e la libertà di insegnamento (vedi qui, qui, qui). È preoccupante che sia servito a bollare la lotta contro l’Occupazione e l’espropriazione da parte di Israele come “antisemita”. Come hanno dichiarato in una lettera al Guardian [quotidiano inglese di centro-sinistra, ndtr.]122 intellettuali arabi e palestinesi:

Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro mezzo per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita… È un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite….Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta.” [ cfr Zeitun  ndr]

 

In una recente lettera l’onorevole Kate Green [del Partito Laburista, ndtr.], Segretaria di Stato Ombra dell’Istruzione, ha approvato l’imposizione del documento dell’IHRA alle università inglesi, affermando: “Potremo [combattere l’antisemitismo] soltanto se ascolteremo e ci confronteremo con la comunità ebraica.” Ciononostante, in qualità di cittadini israeliani residenti in Gran Bretagna, molti di origine ebraica, insieme con altri appartenenti alla comunità ebraica britannica, chiediamo che anche la nostra voce venga ascoltata, e riteniamo che il documento dell’IHRA rappresenti un passo nella direzione sbagliata. Esso fa oggetto di attenzione esclusiva la persecuzione degli ebrei; inibisce la libertà di parola e di insegnamento; priva i palestinesi del proprio diritto di parola nello spazio pubblico britannico ed infine impedisce a noi, cittadini israeliani, di esercitare il nostro diritto democratico di contestare il nostro governo. Per questi ed altri motivi, persino il redattore originale del documento dell’IHRA, Kenneth Stern, ha ammonito:

Gruppi ebraici di destra hanno preso la “definizione operativa” che includeva alcuni esempi su Israele…, e hanno deciso di strumentalizzarla. … [Questo documento] non ha mai avuto l’intenzione di diventare un codice da utilizzarsi in ambito universitario contro i discorsi di incitamento all’odio… eppure [da parte della destra è stato usato come] un attacco contro la libertà di parola e di insegnamento, e non danneggerà soltanto i sostenitori della causa palestinese, ma anche l’università, gli studenti ebrei e lo stesso mondo della ricerca. …Sono sionista. Tuttavia nelle… università, la cui finalità è l’esplorazione delle idee, anche gli antisionisti hanno diritto di espressione. … Inoltre, all’interno della comunità ebraica si discute se essere ebreo si traduca necessariamente nell’essere anche sionista. Ignoro se ci sia una risposta a questo quesito, ma tutti gli ebrei dovrebbero temere il fatto che sia in pratica il governo a stabilire per noi quale sia la risposta. (The Guardian, 13 dicembre 2019).

  

Queste preoccupazioni sono condivise da molti altri, fra cui centinaia di studenti britannici, esperti di antisemitismo e razzismo, oltre a numerosi gruppi ed associazioni palestinesi ed ebraici impegnati nella difesa della giustizia sociale sia in Gran Bretagna sia in altre parti del mondo, quali l’Institute of Race Relations [istituto di ricerca antirazzista britannico, n.d.tr.], Liberty [ovvero Consiglio Nazionale per le Libertà Civili, organizzazione apartitica per i diritti fondamentali e le libertà nel Regno Unito, n.d.tr.], l’ex giudice della Corte di Appello Sir Stephen Sedley e il rabbino Laura Janner-Klausner.

 

Ci uniamo alla richiesta che le università britanniche rimangano fermamente ancorate alla libertà di parola e di insegnamento. Sollecitiamo le università britanniche a continuare a lottare contro ogni forma di razzismo, antisemitismo compreso. Il documento dell’IHRA è viziato e rende un cattivo servizio a tali obiettivi. Noi pertanto ci appelliamo a tutti i senati accademici affinché respingano i decreti governativi che ne impongono l’adozione, ovvero, qualora esso sia già stato adottato, si adoperino per revocarlo. 

 

Firmatari:

  1. Prof. Hagit Borer FBA, università Queen Mary di Londra
  2. Dr. Moshe Behar, università di Manchester
  3. Dr. Yonatan Shemmer, università di Sheffield
  4. Dr. Hedi Viterbo, università Queen Mary di Londra
  5. Dr. Yael Friedman, università di Portsmouth
  6. Dr. Ophira Gamliel, università di Glasgow
  7. Dr. Moriel Ram, università di Newcastle
  8. Prof. Neve Gordon, università Queen Mary di Londra
  9. Prof. Emeritus Moshé Machover, King’s College di Londra
  10. Dr. Catherine Rottenberg, università di Nottingham
  11. PhD Candidate Daphna Baram, università di Lancaster
  12. Dr. Yuval Evri, King’s College Londra
  13. Dr. Yohai Hakak, Brunel università di Londra
  14. Dr. Judit Druks, University College Londra
  15. PhD Candidate Edith Pick, università Queen Mary di Londra
  16. Prof. Emeritus Avi Shlaim FBA, università di Belfast
  17. Dr. Hagar Kotef, SOAS, università di Londra
  18. Prof. Emerita Nira Yuval-Davis, università di East London, Premio dell’Associazione internazionale di Sociologia del 2018 per eccellenza nella Ricerca e nella Prassi .
  19. Dr. Assaf Givati, King’s College Londra
  20. Prof. Yossef Rapoport, università Queen Mary University di Londra
  21. Prof. Haim Yacobi, University College Londra
  22. Prof. Gilat Levy, London School of Economics
  23. Dr. Noam Leshem, università di Durham
  24. Dr. Chana Morgenstern, università di Cambridge
  25. Prof. Amir Paz-Fuchs, università del Sussex
  26. PhD Candidate Maayan Niezna, università del Kent
  27. Prof. Emeritus, Ephraim Nimnie, Queen’s University Belfast
  28. Dr. Eytan Zweig, università di York
  29. Dr. Anat Pick, Queen Mary, università di Londra
  30. Prof. Joseph Raz FBA, King’s College di Londra, vincitore del Tang Prize per lo Stato di Diritto, 2018
  31. Dr. Itamar Kastner, università di Edinburgo
  32. Prof. Dori Kimel, università di Oxford
  33. Prof. Eyal Weizman MBE FBA, Goldsmiths, università di Londra
  34. Dr. Daniel Mann, King’s College di Londra
  35. Dr. Shaul Bar-Haim, università dell’Essex
  36. Dr. Idit Nathan, University of the Arts Londra
  37. Dr. Ariel Caine, università Goldsmiths di Londra
  38. Prof. Ilan Pappe, università di Exeter
  39. Prof. Oreet Ashery, università di Oxford, Turner Bursary 2020
  40. Dr. Jon Simons, in pensione
  41. Dr. Noam Maggor, università Queen Mary di Londra
  42. Dr. Pil Kollectiv, università di Reading, docente dell’HEA
  43. Dr. Galia Kollectiv, università di Reading, docente dell’HEA
  44. Dr. Maayan Geva, università di Roehampton
  45. Dr. Adi Kuntsman, università metropolitana di Manchester
  46. Dr. Shaul Mitelpunkt, università di York
  47. Dr. Daniel Rubinstein, Central Saint Martins, University of the Arts, Londra
  48. Dr. Tamar Keren-Portnoy, università di York
  49. Dr. Yael Padan, University College di Londra
  50. Dr. Roman Vater, università di Cambridge
  51. Dr. Shai Kassirer, università di Brighton
  52. PhD Candidate Shira Wachsmann, Royal College of Art
  53. Prof. Oren Yiftachel, University College di Londra
  54. Prof. Erez Levon, università Queen Mary di Londra
  55. Prof. Amos Paran, University College di Londra
  56. Dr. Raz Weiner, università Queen Mary di Londra
  57. Dr. Deborah Talmi, università di Cambridge
  58. Dr. Emerita Susie Malka Kaneti Barry, università di Brunel
  59. Dottorando Ronit Matar, università di Essex
  60. Dottorando Michal Rotem, università Queen Mary di Londra
  61. DR. Mollie Gerver, università di Essex
  62. Prof. Haim Bresheeth-Zabner, SOAS
  63. Dottorando Lior Suchoy, Imperial College di Londra
  64. Dr. Michal Sapir, Independente

Accademici israeliani che appoggiano nel resto del mondo:

  1. Prof. Amos Goldberg, The Hebrew University di Gerusalemme
  2. Dottorando Aviad Albert, università di Colonia
  3. Dr. Noa Levin, Centre Marc Bloch, Berlino
  4. Prof. Paul Mendes-Flohr
  5. Dr. Uri Horesh
  6. Prof. Roy Wagner, ETH di Zurigo
  7. Prof. Dmitry Shumsky
  8. Prof. Nurit Peled-Elhanan, Università Ebraica e David Yellin Academic College
  9. Prof. Arie Dubnov, università George Washington
  10. Prof. Natalie Rothman, università di Toronto
  11. Dr. Anat Matar, università di Tel Aviv
  12. Dr. Ido Shahar, università di Haifa
  13. Prof. Nir Gov, Weizmann Institute
  14. Prof. Emeritus Amiram Goldblum, Università Ebraica di    Gerusalemme
  15. Dr. Itamar Shachar, università di Gent, Belgio
  16. Prof. Emeritus Jacob Katriel, Technion – Israel Institute of Technology
  17. Dr. Eyal Shimoni, Weizmann Institute of Science
  18. Dr. Gilad Liberman, Harvard Medical School
  19. Prof. Emeritus Emmanuel Farjoun, Università Ebraica di   Gerusalemme
  20.  
  21. Prof. Avner Ben-Amos, università di Tel Aviv
  22. Dr. Alon Marcus, The Open University di Israele
  23. Dr. Uri Davis, università di Exeter, Exeter, università UK &       AL-QUDS
  24. Prof. Emeritus Avishai Ehrlich, The Academic College di Tel Aviv-      Giaffa
  25. Prof. Naama Rokem, università di Chicago
  26. Dr. Marcelo Svirsky, università di Wollongong
  27. Prof. Atalia Omer, università di Notre Dame
  28. Prof. Emeritus, Jose Brunner, università di Tel Aviv
  29. Dr. Michael Dahan, Sapir College
  30. Dr. Naor Ben-Yehoyada, Columbia University
  31. Dr. Shai Gortler, università del Western Cape
  32. Dr. Roni Gechtman, università Mount Saint Vincent, Halifax,     Canada
  33. Prof. Ivy Sichel, UC Santa Cruz
  34. Prof. Ofer Aharony, Weizmann Institute
  35. Prof. Outi Bat-El Foux, università di Tel-Aviv
  36. Dr. Elazar Elhanan, CCNY
  37. Dr .Ofer Shinar Levanon
  38. Prof. Emeritus Isaac Nevo
  39. Prof. Emerita Nomi Erteschik-Shir, università Ben-Gurion del Negev
  40. Prof. Yinon Cohen, Columbia University
  41. Dottorando Revital Madar
  42. Prof. Yael Sharvit, UCLA
  43. Prof.  Emeritus Isaac Cohen, università statle di San Jose
  44. Dr. Kobi Snitz, Weizmann Institute of Science
  45. Dr. Irena Botwinik, Open University, Israele
  46. Prof. Niza Yanay, università Ben Gurion
  47. Prof. Julia Resnik, Università Ebraica di Gerusalemme
  48. Prof. Charles Manekin, università di Maryland
  49. Prof. Jerome Bourdon, università di Tel Aviv
  50. Dr. Ilan saban, università di Haifa
  51. Dottoranda Netta Amar-Shiff, università Ben Gurion
  52. Prof. Emeritus Ron Kuzar, università di Haifa
  53. Dr. Yanay Israeli, Hebrew università di Gerusalemme
  54. Prof. Emeritus Avner Giladi, università di Haifa
  55. Prof. Emerita Esther Levinger, università di Haifa
  56. Prof. Emeritus Micah Leshem, università di Haifa
  57. Prof. Jonathan Alschech, università della Northern British Columbia
  58. Prof. Emeritus Yehoshua Frenkel, università di Haifa
  59. Prof. Yuval Yonay, università di Haifa
  60. Prof. Emerita Vered Kraus, università di Haifa
  61. Dr. Amit G., università israeliane
  62. Dr. Shakhar Rahav, università di Haifa
  63. Prof. Emeritus Yoav Peled, università di Tel Aviv
  64. Prof. Emerita Linda Dittmar, università del Massachusetts
  65. Prof. Emeritus Uri Bar-Joseph, università di Haifa
  66. Dr. Ayelet Ben-Yishai, università di Haifa
  67. Gilad Melzer, Beit Berl College
  68. Prof. Raphael Greenberg, università di Tel Aviv
  69. Prof. Emerita Sara Helman, università Ben Gurion
  70. Dr. Itamar Mann, università di Haifa
  71. Dr. Tamar Berger

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Il Ministro della Sanità israeliano paragona il suo obbligo di vaccinare i palestinesi a quello che hanno i palestinesi di prendersi cura dei “delfini del Mediterraneo”

Philip Weiss

24 gennaio 2021 Mondoweiss

Quando Andrew Marr, giornalista e presentatore della BBC, ha incalzato il Ministro israeliano della Sanità Yuli Edelstein chiedendogli perché Israele non estenda il suo piano di vaccinazione ai palestinesi che vivono nei territori occupati, Edelstein ha affermato che l’obbligo che Israele ha nei loro confronti è equivalente a quello del suo omologo palestinese “di prendersi cura dei delfini del Mediterraneo.” Sì, avete sentito bene. 

Ecco quello che si sono detti. Sorprende che i servizi sui media USA parlino delle percentuali israeliane di vaccinazione come qualcosa da prendere a modello. (uno per tutti, Richard Engel di NBC)

Marr: L’ONU ha dichiarato che siete legalmente tenuti ad assicurare un accesso rapido e paritario ai vaccini anti Covid-19 ai palestinesi che vivono sotto occupazione. Perché non lo fate?

Edelstein: Per quanto riguarda i vaccini, penso che l’obbligo di Israele valga prima di tutto nei confronti dei propri cittadini. Non pagano forse le tasse per questo? Ma ciò detto, ricordo pure che è nostro interesse – non un obbligo legale – che è nostro interesse fare in modo che i palestinesi abbiano il vaccino e non trasmettano il Covid-19.

Marr: Capisco, ma i palestinesi vi hanno chiesto i vaccini e voi non glieli avete dati, e secondo la Convenzione di Ginevra, la 4^ Convenzione di Ginevra, Israele ha l’obbligo di farlo. Posso leggerglielo. L’articolo 56 dice che Israele “deve adottare e fornire le misure di profilassi e prevenzione necessarie a combattere la diffusione di malattie ed epidemie in collaborazione con le autorità locali.” Ecco, questo significa il vaccino. Perché non gli fornite il vaccino?

Edelstein: Direi che prima di tutto dovremmo analizzare anche i cosiddetti Accordi di Oslo laddove si dice chiaro e tondo che i palestinesi devono badare loro alla propria salute.

Marr: Scusi se la interrompo nuovamente, ma l’ONU afferma che su questo la legge internazionale prevale sugli Accordi di Oslo.

Edelstein: Se è responsabilità del Ministro della Sanità israeliano prendersi cura dei palestinesi, allora quale è esattamente la responsabilità del Ministro della Salute palestinese? Prendersi cura dei delfini del Mediterraneo?

Marr: Scusi, lasci che le dica che anche molti dei vostri stessi cittadini pensano che dovreste fare di più. Duecento rabbini hanno dichiarato in una petizione: “Un imperativo morale dell’ebraismo richiede di non mostrarci indifferenti nei confronti delle sofferenze del prossimo, ma di mobilitarci e offrire il nostro aiuto nel momento del bisogno.” Hanno ragione i rabbini o no?

Edelstein: Direi che i rabbini hanno sempre ragione, ma aggiungo anche che è esattamente per questo motivo che quando i palestinesi e le loro unità mediche si sono rivolti a noi per questioni sanitarie, ho autorizzato la fornitura di qualche vaccino alle equipe mediche della Autorità Nazionale Palestinese che hanno in cura pazienti Covid. Come è chiaro da questa intervista, non l’ho fatto perché credo che abbiamo degli obblighi legali in tal senso, ma perché mi rendo conto che in questa fase ci sono medici ed infermieri che non ricevono il vaccino. 

 

Alcuni anni dopo un massacro israeliano a Gaza Jimmy Carter ebbe a dire che Israele tratta i gazawi come se fossero animali e per questo venne accusato di antisemitismo; stavolta il messaggio arriva direttamente da un israeliano.

Aggiungo che è impossibile immaginare che un giornalista di un’emittente USA sia duro come Marr nei confronti del Ministro della Sanità israeliano. Anche se quel giorno si avvicina.

La contraddizione fra le posizioni che prenderanno gli USA sui temi della diversità/parità e la loro relazione con il regime suprematista ebraico diventerà schiacciante nell’era Biden. Negli USA qualunque funzionario della sanità usasse un linguaggio simile a quello di Edelstein perderebbe il posto.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




La risoluzione tedesca anti –BDS viola il diritto alla libertà d’espressione

Adri Nieuwhof

8 gennaio 2021 – Electronic Intifada

Alcune istituzioni culturali tedesche hanno criticato la risoluzione del parlamento tedesco contro il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [contro Israele, ndtr.] perché determina una zona d’ombra giuridica e minaccia il diritto alla libertà d’espressione.

La risoluzione del 2019 esorta le istituzioni e le pubbliche autorità tedesche a negare finanziamenti e strutture ad associazioni della società civile che supportino il movimento BDS.

Ma in dicembre importanti istituzioni artistiche ed accademiche tedesche hanno denunciato la risoluzione come “dannosa per la sfera democratica pubblica” e hanno messo in guardia dal suo impatto negativo sul libero scambio di opinioni.

Sempre in dicembre, ciò ha suggerito una ricerca da parte del dipartimento del servizio scientifico del Bundestag, un organismo consultivo del parlamento federale, che è arrivato a una conclusione simile, secondo cui la risoluzione anti-BDS non è giuridicamente vincolante e viola il diritto alla libertà di espressione, difeso dalla Costituzione tedesca.

Esperti dell’ONU, la Lega Araba, la società civile palestinese, artisti, studiosi e attivisti della solidarietà con la Palestina hanno protestato contro la risoluzione tedesca contro il BDS.

L’élite culturale interviene

L’iniziativa “Weltoffenheit GG 5.3” di dicembre da parte di responsabili di importanti istituzioni artistiche e accademiche tedesche, tra cui il Goethe Institute, il Museo Ebraico di Hohenems [comune austriaco, ndtr.], l’Humboldt Forum [museo berlinese, ndtr.] e il Centro per la Ricerca sull’ Anti-Semitismo dell’Università Tecnica [politecnico, ndtr.] di Berlino, ha visto intervenire nella contesa l’élite culturale tedesca.

Con questa iniziativa le istituzioni si sono unite per segnalare il clima nocivo determinato dalla risoluzione anti-BDS che impedisce la libertà di parola.

Weltoffenheit si può approssimativamente tradurre come “apertura al mondo”, e GG5.3 fa riferimento all’articolo della costituzione tedesca sulla libertà di opinione nelle arti e a livello accademico.

Durante una conferenza stampa dell’11 dicembre i responsabili delle istituzioni coinvolte hanno rivelato che a causa della risoluzione temono sempre più le conseguenze di lavorare con artisti o intellettuali che sono a favore del BDS o come tali sono percepiti.

L’iniziativa ha specificamente citato come esempio le calunnie di antisemitismo contro il professor Achille Mbembe, noto a livello internazionale.

Il filosofo camerunense era stato invitato a fare il discorso d’apertura del Ruhrtriennale Festival di Bochum [rassegna triennale di arte e cultura della Ruhr, ndtr.], ma i responsabili del festival hanno subito pressioni da politici perché ritirassero l’invito allo studioso africano a causa del suo presunto antisemitismo, per le critiche delle politiche israeliane.

Il festival è stato di fatto annullato in seguito alla pandemia di COVID-19.

Le preoccupazioni dell’élite culturale sono appoggiate da oltre 1.400 firme racconte da una lettera aperta di un gruppo di artisti internazionali e tedeschi in Germania o che lavorano con istituzioni tedesche.

Entrambe le iniziative contribuiscono a un intenso dibattito pubblico, che alla fine ha spinto il responsabile tedesco per l’antisemitismo Felix Klein a suggerire l’idea di chiedere al dipartimento per il servizio giuridico del parlamento tedesco un parere consultivo sull’argomento.

Klein è indicato come la persona che ha sollecitato la risoluzione anti-BDS, che equipara quest’ultimo all’antisemitismo e si basa sulla controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [organizzazione intergovernativa a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA), “un grande segno di solidarietà con Israele.”

Opinione degli esperti: dare priorità al diritto alla libertà di parola

Il rapporto dell’organismo di consulenza dei servizi scientifici del parlamento non ha affrontato il modo in cui la definizione di antisemitismo dell’IHRA, la base della risoluzione anti-BDS, viene utilizzata per mettere a tacere e calunniare i palestinesi e i loro sostenitori.

Ma il rapporto ha confermato l’affermazione dell’iniziativa Weltoffenheit, secondo cui la risoluzione non è giuridicamente vincolante: è un’opinione politica.

Il parere dell’esperto afferma che, come legge, la risoluzione sarebbe una limitazione anticostituzionale del diritto alla libertà di espressione, che è protetta dalla costituzione tedesca.

Il rapporto ha rappresentato un rimprovero nei confronti dell’esperto berlinese di antisemitismo, il professor Samuel Salzborn, che in precedenza aveva sostenuto di essere “irritato e infastidito” dall’appello dell’élite culturale tedesca.

D’altronde Salzborn aveva molto tempo fa svelato le sue tendenze antipalestinesi quando aveva twittato di essersi sentito a disagio su un treno perché “la gente vicino a te inizia a parlare di ‘Palestina’ senza nessuna ragione apparente,” un tweet accompagnato dall’ hashtag, #anti-Semitism.

Spazio per voci palestinesi?

La Germania ha una consistente comunità di circa 250.000 persone di origine palestinese, 40.000 delle quali a Berlino.

Ma molti di loro affermano di aver paura di criticare Israele o l’occupazione israeliana.

Molti giovani palestinesi non osano impegnarsi,” ha detto al quotidiano tedesco Tageszeitung [giornale berlinese di estrema sinistra, ndtr.] l’ex-presidente di un’organizzazione palestinese che ha voluto rimanere anonimo. “Temono che ciò possa danneggiare la loro carriera professionale.”

L’attivista tedesco palestinese Amir Ali conferma che in Germania i palestinesi hanno paura di parlare liberamente.

Ali è uno dei Bundestag 3 for Palestine [3 del Buntestag per la Palestina] (BT3P) che hanno citato in giudizio il parlamento tedesco per la risoluzione anti-BDS quando è stata emanata.

In un video realizzato come parte di quella campagna parla di come alcuni amici gli hanno chiesto perché è pronto a rischiare il suo futuro personale con un’azione legale.

Lo faccio perché difendere i diritti umani in generale e quelli dei palestinesi in particolare è la cosa giusta da fare… So che in Germania molti palestinesi la pensano così, ma, poiché ciò mette in pericolo il loro futuro, non possono partecipare alla nostra azione legale.”

Majed Abusalama, un attivista palestinese che ha vissuto in Germania negli ultimi 5 anni, ribadisce questa sensazione.

Non c’è alcuno spazio per un palestinese che non faccia il discorso tedesco della soluzione a due Stati, o che citi il BDS,” dice a Electronic Intifada.

La Germania sta andando molto oltre nel traumatizzare la nostra comunità.”

Abusalama è stato uno dei tre militanti denunciati in Germania per aver disturbato all’università di Berlino un evento che ospitava un politico israeliano. Ci sono voluti tre anni perché un tribunale tedesco lo assolvesse.

Nel 2018, a causa della sua partecipazione alla protesta nell’università, è stato inserito in un rapporto dell’agenzia di intelligence interna dello Stato di Berlino nella sezione sull’antisemitismo.

Ciò a sua volta lo ha portato a comparire sul The Jerusalem Post [giornale israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.] come “un attivista filo-BDS molto aggressivo”.

Un video dell’intervento di Abusalama all’evento rivela che la descrizione è palesemente inesatta.

Tutta la faccenda lo ha sconfortato.

È stato una grave intimidazione, persecuzione, diffamazione e distruzione della mia immagine, intesa non solo a far tacere me, ma a cancellare ogni segno di attivismo palestinese per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia in Germania,” dice Abusalama.

E più in generale, afferma, “è parte del razzismo antipalestinese in aumento” in Germania.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alcuni giuristi affermano che Williamson sbaglia a obbligare le università ad attenersi alla definizione di antisemitismo

Harriet Sherwood

7 gennaio 2021 – The Guardian

Una lettera accusa il ministro dell’Istruzione di “ingerenza indebita” dopo un ordine riguardante il testo dell’IHRA

Un gruppo di eminenti giuristi, tra cui due ex-giudici di Corte d’Appello, ha accusato Gavin Williamson, il ministro all’Istruzione, di “ingerenza indebita” a danno dell’autonomia universitaria e del diritto alla libertà di espressione.

Essi affermano che l’insistenza di Williamson perché le università adottino la definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ente intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] oppure debbano affrontare sanzioni è “illegale e immorale”. La loro dichiarazione giunge nel bel mezzo di una certa resistenza a livello accademico alla lettera inviata in ottobre da Williamson ai vice-rettori delle università, in cui minacciava: “Se entro Natale non avrò visto la stragrande maggioranza delle istituzioni [universitarie] adottare la definizione (dell’IHRA), allora interverrò.”

In questo mese docenti dell’University College di Londra dovrebbero decidere se chiedere all’organo direttivo dell’istituzione di annullare l’adozione, nel novembre 2019, della definizione dell’IHRA. Alcuni sostengono che ciò impedisce un libero dibattito su Israele.

Oxford e Cambridge sono tra le università che nelle scorse settimane hanno adottato la definizione dell’IRHA. Il ministero dell’Istruzione afferma che, dall’invio della lettera di Williamson, almeno 27 istituzioni l’hanno adottata.

Secondo un calcolo dell’Union of Jewish Students [Unione degli Studenti Ebrei] (UJS), un totale di 48 su 133 [università] hanno al momento adottato la definizione, compresa la grande maggioranza di quelle d’eccellenza che fanno parte del Russell Group [rete di 24 università in Gran Bretagna che ricevono i 2/3 dei finanziamenti alla ricerca, ndtr.]. L’UJS sostiene che le istituzioni che resistono a fare altrettanto starebbero dimostrando “disprezzo…nei confronti dei loro studenti ebrei.”

Invece la lettera dei giuristi, pubblicata dal Guardian, afferma: “Il diritto legalmente riconosciuto alla libertà di espressione viene minacciato dalla promozione di una ‘definizione operativa giuridicamente non vincolante’ di antisemitismo intrinsecamente incoerente. La sua promozione da parte di pubbliche istituzioni sta portando alla limitazione della discussione. Le università e altri enti che rifiutano l’indicazione… di adottarla dovrebbero essere appoggiate nel fare ciò.”

Essa cita la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo relativa alla libertà di espressione, che è inserita nel diritto del Regno Unito dalla legge sui diritti umani del 1998.

Williamson ha “sbagliato giuridicamente ed eticamente in ottobre a dare indicazioni alle università inglesi di adottare e mettere in pratica” la definizione di antisemitismo dell’IHRA. Questa minaccia di sanzioni “sarebbe un’indebita interferenza con la loro autonomia.”

La lettera aggiunge: “L’impatto sul dibattito pubblico sia dentro che fuori le università è già stato significativo.”

Tra gli otto firmatari ci sono Sir Anthony Hooper e Sir Stephen Sedley, entrambi giudici di Corte d’Appello in pensione.

L’opposizione accademica all’adozione generalizzata della definizione dell’IHRA si concentra sulla libertà di espressione, e in particolare sul fatto se verrebbero impedite le critiche al modo in cui Israele tratta il popolo palestinese.

La definizione dell’IHRA è di sole 40 parole.

Essa afferma: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto”.

Ma essa è accompagnata da 11 esempi esplicativi, sette dei quali riguardano Israele.

Secondo il rapporto di un gruppo di lavoro istituito dal consiglio di facoltà della UCL, la definizione e gli esempi “spostano in modo sproporzionato il dibattito su Israele e Palestina nelle discussioni riguardo all’antisemitismo, confondendo potenzialmente antisionismo e antisemitismo…in modo da…rischiare di eliminare la legittima discussione e la ricerca accademica.”

Il rapporto afferma che la definizione non ha basi legali e c’è già “un vasto corpo di leggi esistenti nel Regno Unito e politiche coerenti dell’UCL che invece dovrebbero essere utilizzate come base di ogni meccanismo istituzionale per combattere l’antisemitismo.”

Le università hanno “l’esplicito obbligo statutario di proteggere la libertà di parola nel rispetto delle leggi,” dice il rapporto.

Come strumento educativo la definizione “potrebbe avere in effetti un potenziale valore, ma esso dovrebbe essere equilibrato contro effetti potenzialmente deleteri sulla libertà di parola, quali l’istigazione a una cultura della paura o all’autocensura nell’insegnamento o nella ricerca o nella discussione in aula di contenuti controversi.”

Il rapporto afferma: “La possibilità di tenere discussioni scomode o di sentirsi interpellati da idee in conflitto è al cuore del mandato dell’educazione superiore. Sono tempi in cui sentiamo la necessità di chiarire e illuminare queste tensioni invece di affrettarci ad accogliere le richieste di detrattori che potrebbero travisare questi esempi come atti di discriminazione, se dobbiamo difendere i valori della vita universitaria.”

Pur riconoscendo “prove inquietanti che incidenti di antisemitismo sono presenti nella nostra università,” il rapporto raccomanda all’organismo direttivo dell’UCL di annullare l’adozione della definizione dell’IHRA e di “prendere in considerazione alternative più coerenti.”

Il corpo docente dell’UCL avrebbe dovuto votare sulle raccomandazioni del rapporto prima di Natale, ma, data la sua importanza, ha deciso di approfondire la discussione nel nuovo anno.

Harry Goldstein, uno dei critici del rapporto, ha sostenuto che i suoi argomenti danno credito “proprio alle teorie cospirative che sono al centro dell’antisemitismo classico. Ci deve sempre essere un complotto per mettere a tacere le critiche a Israele.”

In un messaggio sul suo blog, Goldstein, che si definisce un sostenitore di Israele progressista di centro-sinistra, ha affermato che il rapporto confonde la distinzione tra critiche a Israele e antisionismo, utilizza un linguaggio tendenzioso e “non comprende la natura differente dell’antisemitismo rispetto ad altre forme di razzismo.”

Dave Rich, responsabile per le questioni politiche del Community Security Trust (CST), che assiste la comunità ebraica del Regno Unito sui problemi di sicurezza, afferma che la discussione accademica sulle definizioni di antisemitismo “perde di vista quello che realmente importa: il benessere e la sicurezza degli studenti ebrei nelle università britanniche.”

Un rapporto del CST, Campus Antisemitism in Britain 2018-20 [Antisemitismo nei campus britannici 2018-20] ha registrato un totale di 123 incidenti legati all’antisemitismo che nel corso dei due anni hanno coinvolto studenti in 34 città e cittadine.

Decisamente troppi studenti ebrei sperimentano pregiudizi e fanatismo nei campus, fuori dai campus e in rete. Ciò include l’antisemitismo dell’estrema sinistra, che mescola l’odio contro Israele con il sospetto nei confronti di ogni ebreo che non sia d’accordo con essa,” ha scritto lo scorso mese Rich.

James Harris, il presidente di UJS, ha sostenuto che la continua battaglia sulla definizione dell’IHRA è “inaccettabile”.

Ha aggiunto: “Abbiamo visto molteplici esempi di razzismo antiebraico ignorati dalle università che rifiutano sistematicamente di adottare questa definizione. Quando essa non viene usata, ciò dà la possibilità a quanti devono svolgere indagini di determinare arbitrariamente quello che ritengono costituisca antisemitismo.

La definizione dell’IHRA è la pietra angolare per garantire che l’antisemitismo, quando registrato, venga affrontato in modo tale per cui gli studenti ebrei possano aver fiducia.”

Un portavoce del ministero dell’Istruzione ha affermato: “Il governo si aspetta che le istituzioni abbiano un approccio di tolleranza zero verso l’antisemitismo, con la messa in pratica di severe misure per affrontare i problemi quando sorgono.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dal mondo della cultura italiano il sostegno alla lettera di 122 palestinesi e del mondo arabo

Pubblichiamo, ringraziando chi ha aderito, le 276 firme di sostegno alla lettera delle 122  personalità palestinesi del mondo dello spettacolo, accademico, artistico pubblicata da The Guardian il 29 novembre 2020, riguardante la definizione di antisemitismo dell’IHRA (e relativi allegati) e l’uso distorto che ne viene  fatto in Europa come negli Stati Uniti da istituzioni e Governi, volto a delegittimare la lotta per diritti e contro l’occupazione da parte dei movimenti di solidarietà con la Palestina.
Con la lettera che vedete qui sotto, abbiamo chiesto il sostegno a personalità italiane, dello stesso mondo dei 122 firmatari. Trovate insieme ai/lle primi/e firmatari/e, le firme raccolte entro il 3 gennaio, data di chiusura. Nel tempo, il passaparola ha fatto sì che si aggiungessero anche firme dell’associazionismo solidale con la Palestina.
RICHIESTA DI  APPOGGIO ALLA LETTERA PALESTINESE E DEL MONDO ARABO 21 Dicembre 2020
Chi scrive si occupa da anni di promuovere informazione e cultura relative alla Palestina, per contribuire alla loro conoscenza e valorizzazione. 
Per questo vi sottoponiamo una significativa lettera scritta da 122 artisti e intellettuali palestinesi, e di altri paesi arabi, pubblicata il 29 novembre da The Guardian.
La lettera riguarda la definizione di antisemitismo ed esprime preoccupazione sull’uso che in Europa e negli Stati Uniti, Governi e Istituzioni fanno della definizione di antisemitismo – e relativi allegati- dell’ International Holocaust Remembrance. Tale uso è volto a delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi sotto occupazione e la negazione dei loro diritti.

Sono parole significative che pensiamo vadano sostenute anche da loro collegh* italian*.
La lettera dei/lle 122 Palestinesi ci sembra particolarmente importante in quanto mentre si esprime nettamente contro l’antisemitismo – purtroppo risorgente in occidente – ne mette in luce l’uso strumentale (uso peraltro criticato anche dal suo stesso estensore Kenneth Stern). Hanno dichiarato il loro appoggio ad essa anche un folto gruppo di ebrei di diversi paesi 
In precedenza già 40 gruppi di ebrei a livello mondiale avevano espresso la loro opposizione all’equazione antisemitismo = critica alla politica di Israele nei confronti dei palestinesi e degli stessi cittadini/e israeliani/e, ad esempio attraverso la legge sullo Stato nazione solo per ebrei.
Infine, la non distinzione tra critica delle politiche di Israele e antisemitismo rischia anche di oscurare la giusta lotta contro l’antisemitismo, che deve fondarsi su ben precisi principi.
Alessandra Mecozzi per Cultura è Libertà
Carlo Tagliacozzo per Zeitun
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Un gruppo di 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi esprime le proprie
preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA.
29 novembre 2020, The Guardian
Lettera
Noi sottoscritti accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi, dichiariamo le nostre opinioni riguardo la definizione di antisemitismo da parte dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) e il modo in cui questa definizione è stata presentata, interpretata e applicata in diversi Paesi d’Europa e del Nord America.
Negli ultimi anni la lotta contro l’antisemitismo è stata sempre più strumentalizzata dal governo israeliano e dai suoi sostenitori nel tentativo di delegittimare la causa palestinese e mettere a tacere i difensori dei diritti dei palestinesi. Sviare l’indispensabile lotta contro l’antisemitismo per favorire un tale programma minaccia di svilire questa battaglia e quindi di screditarla e indebolirla.
L’antisemitismo deve essere smascherato e combattuto. Indipendentemente dai pretesti, nessuna espressione di odio per gli ebrei in quanto ebrei dovrebbe essere tollerata in nessuna parte del mondo.
L’antisemitismo si manifesta attraverso generalizzazioni e stereotipi indiscriminati sugli ebrei, riguardanti in particolare il potere e il denaro, insieme a teorie del complotto e alla negazionedell’Olocausto.
Consideriamo legittima e indispensabile la lotta contro tali atteggiamenti. Crediamo anche che le lezioni dell’Olocausto, così come quelle di altri genocidi dei tempi moderni, debbano far parte dell’educazione delle nuove generazioni contro ogni forma di odio e pregiudizio razziale.
La lotta contro l’antisemitismo, tuttavia, deve essere affrontata in modo in termini di principi, onde evitare di vanificare il suo scopo. Attraverso gli “esempi” che fornisce, la definizione dell’IHRA fonde l’ebraismo con il sionismo partendo dal presupposto che tutti gli ebrei siano sionisti e che lo Stato di Israele nella sua condizione attuale incarni l’autodeterminazione di tutti gli ebrei. Siamo in profondo disaccordo con questo. La lotta contro l’antisemitismo non deve essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e la continua occupazione della loro terra. A tale riguardo consideriamo fondamentali i seguenti
principi:
1. La lotta contro l’antisemitismo deve essere condotta nel quadro del diritto internazionale e dei diritti umani. Dovrebbe essere parte integrante della lotta contro tutte le forme di razzismo e xenofobia,compresi l’islamofobia e il razzismo anti-arabo e anti-palestinese. Lo scopo di questa lotta è garantire libertà ed emancipazione a tutte le categorie oppresse. Orientarlo verso la difesa di uno Stato oppressivo e rapace costituisce un profondo stravolgimento.
2. Esiste un’enorme differenza tra una condizione in cui gli ebrei vengono individuati, oppressi e soppressi come minoranza da regimi o organizzazioni antisemite e una condizione in cui l’autodeterminazione di una popolazione ebraica in Palestina / Israele è stata realizzata sotto forma di uno Stato etnico esclusivista e territorialmente espansionista. Così come esiste attualmente, lo Stato di Israele è fondato sullo sradicamento della stragrande maggioranza dei nativi – quella che palestinesi e arabi chiamano Nakba – e sulla sottomissione dei nativi che vivono ancora nel territorio della Palestina storica come cittadini di seconda classe o come popolo sotto occupazione, deprivati del diritto all’autodeterminazione.
3. La definizione di antisemitismo dell’IHRA e le relative misure legali adottate in diversi Paesi sono state utilizzate principalmente contro le organizzazioni di sinistra e quelle per i diritti umani che sostengono i diritti dei palestinesi e contro la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento eSanzioni (BDS), mettendo da parte la reale minaccia per gli ebrei, proveniente dai movimenti nazionalisti bianchi di destra in Europa e negli Stati Uniti. La rappresentazione della campagna del BDS come antisemita è una grossolana distorsione di quello che è fondamentalmente un mezzo legittimo di lotta non violenta a favore dei diritti dei palestinesi.
4. L’affermazione della definizione dell’IHRA secondo cui un esempio di antisemitismo è “Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è piuttosto strana. Non si preoccupa di riconoscere che, in base al diritto internazionale, l’attuale Stato di Israele costituisce una potenza occupante da oltre mezzo secolo, come riconosciuto dai governi dei Paesi in cui viene accolta la definizione dell’IHRA. Non si preoccupa di considerare se questo diritto includa il diritto di creare una maggioranza ebraica attraverso la pulizia etnica e se debba essere bilanciato in rapporto ai diritti del popolo palestinese.
Inoltre, la definizione dell’IHRA potenzialmente scarta come antisemite tutte le visioni non sioniste del futuro dello Stato israeliano, come la difesa di uno Stato bi-nazionale o democratico laico che rappresenti allo stesso modo tutti i suoi cittadini. Un autentico sostegno al principio del diritto di un popolo all’autodeterminazione non può escludere la Nazione palestinese, né qualunque altra.
5. Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro mezzo per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita. Il fatto che una tale richiesta crei ansie tra gli israeliani non prova che essa sia ingiusta, né antisemita. È un diritto riconosciuto dal diritto internazionale come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite.
6. Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta. Israele può così deportare i suoi cittadini palestinesi, revocarne la cittadinanza o negare loro il diritto di voto, ed essere comunque immune dall’accusa di razzismo.
La definizione dell’IHRA e il modo in cui è stata applicata vietano qualsiasi discussione sullo Stato israeliano in quanto basato su una discriminazione etnico-religiosa. In tal modo viola la giustizia elementare e le norme fondamentali dei diritti umani e del diritto internazionale.
7. Crediamo che la giustizia richieda il pieno sostegno del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, inclusa la richiesta di porre fine all’occupazione internazionalmente riconosciuta dei loro territori, alla mancanza di uno Stato e alla deprivazione dei rifugiati palestinesi. La soppressione dei diritti dei palestinesi nella definizione dell’IHRA rivela un atteggiamento di sostegno ai privilegi anziché ai diritti degli ebrei in Palestina invece dei diritti ebraici, in Palestina e, invece della sicurezza ebraica, la
supremazia ebraica sui palestinesi. Crediamo che i valori e i diritti umani siano inseparabili e che la lotta contro l’antisemitismo debba andare di pari passo con la lotta a nome di tutti i popoli e gruppi oppressi per la dignità, l’uguaglianza e l’emancipazione.
Prime adesioni dall’Italia:
1. Cristina Alziati, Poetessa e traduttrice
2. Roberto Beneduce, Antropologo,Docente Universitario,
3. Luciano Canfora, Storico
4. Luciana Castellina, Giornalista e scrittrice
5. Alessandra Farkas, giornalista e scrittrice
6. Iaia Forte, Attrice
7. Giorgio Forti, Docente Universitario Emerito,
8. Luciana Galliano, Musicologa
9. Domenico Gallo, Magistrato
10. Giovanna Marini, Cantautrice,Musicista
11. Citto Maselli, Regista
12. Monica Maurer, regista
13. Tomaso Montanari,Storico dell’Arte
14. Alberto Negri, Giornalista
15. Moni Ovadia, Attore, Cantante, Musicista e Scrittore
16. Livio Pepino, Magistrato
17. Nicola Perugini, Docente Universitario
18. Marco Revelli, Docente Universitario
19. Annamaria Rivera, Antropologa, Docente Universitaria
20. Eric Salerno,Giornalista
21. Salvatore Settis, Archeologo e Storico dell’Arte
22. Giuliana Sgrena, Giornalista e scrittrice
23. Gianni Tognoni, Membro Agenzia del Farmaco e Segretario Tribunale dei Popoli
24. Carlo Rovelli, Fisico, scrittore, Université de Aix-Marseille.
25. Francesco Pallante, costituzionalista
26. Marco Paolini drammaturgo e attore
27. Daniele Sepe musicista
28. Simona Taliani, antropologa docente universitaria
29. Marco Martinelli, drammaturgo e regista
30. Ermanna Montanari, attrice e scenografa
31. Angelo D’Orsi, storico
32. Enrico Pugliese docente universitario emerito
33. Gabriele Usberti, docente universitario emerito
34. Rosita Di Peri, politologa, docente universitaria
35. Andrea Domenici, ricercatore universitario
36. Paola Rivetti, docente universitaria
37. Wasim Dahmash, docente universitario
38. Lorenzo Casini, Università Messina
39. Estella Carpi, University College London
40. Luisa Morgantini, già vice presidente del Parlamento Europeo
41. Angelo Baracca, prof. di Fisica
42. Prof. Nicola Franco Parise, Accademia dei Lincei,
43. Paola Manduca, Genetista , Genova, Italia
44. Giuseppe Cederna, attore
45. Marina Forti, giornalista e scrittrice
46. Silvia Balit comunicazione visuale
47. Andrea Anastasio
48. Luisa Moruzzi, insegnante
49. Manuela Bono, insegnante di inglese e bartender, Savona, Italia
50. Elisa Giunchi, docente universitaria
51. Enrico Calamai
52. Chiara Dimase
53. Franco Milanesi, saggista
54. Sancia Gaetani, nutrizionista
55. Alberto Clarizia, docente di Fisica
56. Fausto Gianelli, avvocato
57. Pasquale Martino, docente e saggista,Bari
58. Albertina Cuppini, Bologna
59. Maria Francesca Gulotta, docente liceale, Milano
60. Vesna Scepanovic, giornalista, Torino
61. Daniela Pioppi, docente universitaria
62. Karim Metref, educatore, giornalista.
63. Locatelli Pierluigi
64. Fabrice Olivier Dubosc, psicoanalista, etnoclinico
65. Ireo Bono, medico, Savona
66. Giovanna Lelli, ricercatrice, Università Cattolica di Lovanio, Belgio
67. Marlène Micheloni, sociologa in pensione (Università di Neuchâtel e Ginevra, Svizzera)
68. Dorys Contreras, psicologa
69. Gabriella Rossetti, Già docente universitaria antropologia
70. Miriam Garavaglia
71. Gianni Fossati
72. Fabio Cani, Direttore Ecoinformazioni
73. Giampaolo Rosso, Presidente Arci Como
74. Diego Ianiro, docente, Napoli
75. Luigi Lorusso editore, Bari
76. Daniele Barbieri, giornalista, Imola
77. Alchesay Rinaldi Castro
78. Daniela Dimase
79. Antonio Vermigli, direttore In Dialogo
80. Giuseppe Bruzzone
81. Franco Berardi, saggista
82. Loretta Mussi, dirigente medico di Sanità Pubblica
83. Michele Citoni, Roma
84. Francesco Masala, Cagliari, insegnante
85. Ada Sacchi, Roma
86. Angelo Orientale
87. Marina Collaci, giornalista, Roma
88. Francesco Andreini, insegnante
89. Susanna Sinigaglia, pubblicista, Milano
90. Marcella Saddi Cagliari
91. Yula Sambuy, Biologa, Roma
92. Stefano Pantezzi, Avvocato, Trento
93. Maria Teresa Messidoro vice presidente Lisangà culture in movimento
94. Ugo Usseglio, contro tutti i fascismi
95. Giuseppe Callegari Mantova
96. Filippo Bianchetti, medico Varese
97. Alessandro Gemmiti – Essere Umano
98. Simona Sermoneta
99. Carmela Ieroianni Milano
100. Giovanni Acquati Inzago
101. Gabriella Bernieri Milano
102. Claudia Berton verona, insegnante e scrittrice
103. Daniela Deho, Bergamo, insegnante
104. Rosanna Lauro Cagliari
105. Ettore Acocella, cooperante, Roma
106. Brunella Pepori
107. Antonia Sani, docente materie letterarie
108. Michele Perchiazzi
109. Slvano Rigotti . Torino
110. Giorgio Treves, regista
111. Piera Redaelli, traduttrice
112. Nadia Pagani, Università di Bologna
113. Allan Christensen, professore emerito, università John Cabot
114. Fiorenzo Fantaccini, docente Università di Firenze
115. Ugo Giannangeli, avvocato
116. Diego Bombardelli, insegnante
117. Pier Giorgio Righetti, Politecnico di Milano
118. Giovanni Mottura, sociologo, Università di Modena e Reggio Emilia
119. Serafina Esposito, Cagliari
120. Luigi Cazzato, docente Università di Bari
121. Roberto Bertilaccio, insegnante in pensione
122. Giusy Checola
123. Giulia Maria Gallotta
124. Raya Cohen, storica
125. Sergio Durante, musicologo, Unipd
126. Giuseppe Acconcia, giornalista e docente universitario
127. Robert Jennings, docente Università di Milano (in pensione)
128. Paolo La Spisa, Università di Firenze
129. Marco Ramazzotti Stockel, consulente x sviluppo rurale
130. Antonio Fantoni, Professore Emerito della Sapienza
131. Sandro Tripepi, Università della Calabria
132. Raffaele Porta, Biochimico, docente Università di Napoli Federico II
133. Paolo Ramazzotti, economista, Università di Macerata
134. Vincenzo Pezzino, docente universitario di Medicina in pensione,
135. Margherita Gaetan
136. Pietro Deandrea, Università di Torino
137. Aldo Lotta , traduttore
138. Antonella Picchio, IAFFE (International Association for Feminist Economics)
139. Giovanni Esposito
140. Marco Zannetti, docente universitario emerito
141. Marina Vitale, anglista (Napoli)
142. Marcello Albanello
143. Cristina Stevanoni, già docente all’Università di Verona.
144. Marina Premoli, traduttrice
145. Gabriele Noferi, psicologo
146. Luca Tranchini, docente universitario
147. Joan Haim, tutor, Milano
148. Federico Lastaria, docente universitario, Milano.
149. Federico Zanettin, docente universitario
150. Flavia Zucco, già dirigente di ricerca CNR
151. Stefano Morosetti, già docente della Sapienza
152. Gianni Bottigliero, O.S.S., Padova
153. Rodolfo Delmonte Università Ca’ Foscari
154. Lia Forti, Ricercatrice, Università dell’Insubria
155. Chiara Maritato, assegnista di ricerca, Università di Torino
156. Monica Zoppè, Ricercatrice Biologa, CNR, Milano
157. Paola Sacchi, antropologa, Università di Torino
158. Loris Campetti, giornalista e scrittore
159. Guido Viale, pubblicista
160. Paolo Pavan, architetto
161. Adel Jabbar, sociologo
162. Elana Ochse, docente universitaria
163. Margherita Caporusso, medico
164. Marco Ammar, docente universitario
165. Marco Buttino, storico
166. Gianni Piazza, sociologo
167. Jacopo Tolja, Sorano
168. Elena Mengheri
169. Francesco Giordano . Educatore
170. Bruno Bertolini, Roma
171. Rosa Virtù, educatrice
172. Miryam Marino, scrittrice
173. Marzia Casolari, storico, docente universitaria
174. Maria Nadotti, saggista
175. Mariateresa Crosta, ricercatrice dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Torino
176. Antonello Boassa, scrittore, Cagliari
177. Maria Perino, docente universitaria,Torino
178. Sandro Triulzi, storico
179. Lorenzo Girodo, musicista
180. Alessandro Portelli, Università La Sapienza, Roma
181. Anita Sonego Co presidente Casa delle Donne, Milano
182. Gianna Morgantini, insegnante, Milano
183. Manuela Pennasilico, insegnante
184. Cecilia Dalla Negra, giornalista
185. Vincenza Pezzuto, Presidente la Casa delle Artiste
186. Alberto Giasanti Docente universitario Milano Bicocca
187. Laura Morini
188. Floriana Lipparini
189. Silvana Magni
190. Gabriella Grasso, Parallelo Palestina
191. Alessandro Corsi, docente universitario, Torino
192. Elisabetta Visalberghi, ricercatrice
193. Andrea Balduzzi, ricercatore in pensione, Università di Genova
194. Francesco Vacchiano, ricercatore, Università Ca’ Foscari di Venezia
195. Silvia Tarantola, insegnante
196. Roberta Bono, insegnante, Savona
197. Maria Grazia Campari avvocata, Firenze
198. Mari Casalucci, attivista ecotransfemminista
199. Nada Pretnar, insegnante, Trieste
200. Enrico Campofreda, giornalista
201. Claudia Maria Tresso, docente, Università degli Studi di Torino
202. Giampiero Ruani, Dirigente di Ricerca
203. Angela Dogliotti, insegnante, Torino
204. Haidi Gaggio Giuliani, pensionata, Genova
205. Angelo Gaccione, scrittore, Milano
206. Grazia Cantoni medico in pensione
207. Guido Ortona, Università del Piemonte Orientale (in pensione)
208. Enzo Barone
209. Sergio Perri psicanalista, Milano
210. Mauro Corali , agente di Commercio Como
211. Anna Bruna Albanello, insegnante in pensione
212. Nicoletta Cerrani, psicologa, Milano
213. Nicola Melis, docente universitario, UniCa
214. Marina Cavallini, consulente
215. Cristiana Cavagna, traduttrice, Torino
216. Nicoletta Pirotta
217. Nadia De Mond, insegnante
218. Elena Medi, sociologa, fisioterapista di comunità (in pensione)
219. Anna Invernizzi, giornalista
220. Marina Medi, insegnante
221. Giorgio Rossi, pensionato, Chioggia
222. Maria De Ceglia
223. Cinzia Benelli
224. Ionne Guerrini, insegnante, Ravenna
225. Francesca Koch, ex insegnante
226. Chantal Meloni, professore di diritto penale internazionale, università Milano
227. Olivia Fiorilli, insegnante, Parigi
228. Luciana Negro
229. Gabriella Gagliardo, insegnante
230. Giusy Diquattro, insegnante
231. Enzo Mingione, professore di sociologia
232. Filomena Rosiello
233. Daniele Gaglianone, regista e sceneggiatore
234. Matilda Zacco, studentessa e attivista per i DDUU
235. Stefania Zacco, docente universitaria, Milano
236. Simonetta Jucker Medica Milano
237. Liana Borghi, ricercatrice
238. Giovanni Burali d’Arezzo, poeta scrittore
239. Massimo Squillacciotti, antropologo
240. Sergio Fergnachino documentarista
241. Dante Bedini, insegnante di storia e filosofia in pensione
242. John Gilbert, insegnante universitario, Firenze
243. Alessandra Algostino, costituzionalista, docente universitaria, Torino
244. Tiziana Morosetti, docente universitaria, Londra
245. Checchino Antonini, giornalista, Roma
246. Sandro Busso, docente universitario, Torino
247. Carla Consiglio, docente di storia , Roma
248. Giovanni Russo Spena, diritto amministrativo docente Un. Napoli
249. Silvana Magni, pensionata, Varese
250. Fiamma Arditi, giornalista, scrittrice
251. Sandro Manzo
252. Alfonso Gianni, pubblicista. IiiRoma
253. Franco Dinelli, ricercatore scientifico e docente universitario
254. Vittorio Agnoletto, medico, professore a contratto Università degli Studi, Milano
255. Luciana Poliandri,medico, Roma
256. Domenico Cecchini, urbanista, Roma
257. Angelo Stefanini, medico, docente (in pensione) Università di Bologna
258. Massimo Loche, giornalista
259. Laura Prevedello, pensionata, Venezia
260. Luca Tagliacozzo,Fisico Barcelona
261. Ettore Vicari, Fisico,Università Pisa
262. Pasquale Calabrese, Fisico, Trieste
263. M.Simonetta Pavan, pensionata, Milano
264. Marcello Dalmonte, ricercatore
265. Liliana Ellena, insegnante e ricercatrice storica, Torino
266. Marta Fin, giornalista, Bologna
267. Erminio Capitani, docente universitario
268. Adria Petani, insegnante in pensione
269. Miriam Silvestri, insegnante in pensione – Venezia
270. Erminia Romano docente/ Formatrice, Napoli
271. Enzo Ferrara, ricercatore EPR ed educatore, Torino
272. Marinella Sanvito Insegnante Milano
273. Renata La Rovere insegnante Napoli
274. Agata Spaziante, architetto, docente universitaria in pensione, Torino
275. Serenella Angeloni Cortesi insegnante in pensione



Una definizione di antisemitismo usata in modo strumentale

 

Se le università britanniche non adotteranno entro Natale la definizione di antisemitismo proposta dall’International holocaust remembrance alliance (Ihra) rischiano le sanzioni del governo di Londra e il taglio dei finanziamenti. L’aveva annunciato lo scorso ottobre il segretario all’istruzione Gavin Williamson, accusando le università britanniche di ignorare l’antisemitismo, dato che solo 29 istituti su 133 avevano adottato la definizione dell’Ihra. Con l’avvicinarsi della fine dell’anno, il dibattito si è acceso, e alla fine di novembre 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi hanno pubblicato una lettera sul Guardian in cui esprimono le loro preoccupazioni.

Come si può leggere sul sito dell’organizzazione, l’International holocaust remembrance alliance è stata fondata nel 1998 e “unisce governi ed esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione, la ricerca e la memoria a proposito dell’olocausto”. Nel maggio del 2016, l’Ihra ha adottato una definizione operativa non giuridicamente vincolante di antisemitismo, considerato come “una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei”. Per chiarire la sua posizione, l’Ihra ha aggiunto undici esempi, tra cui “negare agli ebrei il diritto all’autodeterminazione, sostenendo che l’esistenza dello stato di Israele è una espressione di razzismo” e “applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non atteso da o non richiesto a nessun altro stato democratico”.

Spianare la strada
Fin dall’inizio diversi osservatori ed esperti hanno espresso delle riserve su questa definizione, in particolare sul rischio degli usi politici della formulazione adottata dall’Ihra. In uno studio pubblicato dalla Rosa Luxemburg foundation nell’ottobre del 2019, il sociologo tedesco Peter Ullrich ha documentato che la vaghezza e la debolezza della definizione hanno spianato la strada alla sua “strumentalizzazione politica, per esempio per screditare moralmente con l’accusa di antisemitismo le posizioni di chi si trova dall’altra parte nel conflitto arabo-israeliano”. Secondo la studiosa Rebecca Ruth Gold, che a luglio ha pubblicato un lungo articolo su The Political Quarterly, “con il suo intenso focus sulla critica a Israele come segno di antisemitismo, la definizione dell’Ihra è stata pesantemente usata nella soppressione dei discorsi critici nei confronti di Israele negli ultimi anni”. A essere presi di mira, sostengono gli esperti, sono stati in particolare i sostenitori della causa palestinese.

Come sottolinea la lettera pubblicata dai 122 intellettuali arabi sul Guardian, “attraverso gli ‘esempi’ che fornisce, la definizione dell’Ihra fonde l’ebraismo con il sionismo presumendo che tutti gli ebrei siano sionisti e che lo stato di Israele nella sua realtà attuale incarni l’autodeterminazione di tutti gli ebrei”.

La lotta contro l’antisemitismo, continua la lettera, “non dovrebbe essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e la continua occupazione della loro terra”.

Il terreno è particolarmente scivoloso in un contesto accademico, dove sono in gioco le libertà soprattutto delle persone che si occupano di questioni legate alla Palestina e alle politiche israeliane. Come spiega in un commento mandato per email Nicola Perugini, docente di relazioni internazionali all’università di Edimburgo, “se applicata in ambito universitario, questa problematica definizione di antisemitismo rischia di inibire e reprimere gli insegnamenti, le discussioni insieme agli studenti e alle studenti, e gli eventi accademici pubblici in cui si affrontano le politiche di Stato discriminatorie messe in atto da Israele nei confronti della popolazione palestinese che vive in Palestina e nella diaspora”.

Il terreno è particolarmente scivoloso in un contesto accademico in cui ci si occupa di questioni legate alla Palestina e alle politiche israeliane

A oggi la definizione dell’Ihra è stata adottata da venticinque paesi, tra cui Regno Unito, Germania, Belgio, Svezia e Italia (a gennaio di quest’anno). In molti paesi in cui non è stata formalmente adottata dal governo (compresi gli Stati Uniti), la definizione è stata comunque integrata da agenzie e istituzioni dello Stato, oltre che da consigli comunali, università, mezzi d’informazione, partiti politici e organizzazioni umanitarie. Ma essendo un documento che, come indica Rebecca Ruth Gold, abbonda in “inutili tautologie”, “condizionali” e “modelli di pensiero che non hanno necessariamente una correlazione con l’antisemitismo”, si presta particolarmente a “generare equivoci, applicazioni scorrette e, infine, abusi del suo intento dichiarato”.

Un passo indietro
In un articolo su Middle East Eye, Sai Englert, che insegna economia politica del Medio Oriente all’università di Leida, nei Paesi Bassi, sottolinea che invece di identificare i fattori strutturali e istituzionali che riproducono e amplificano l’antisemitismo e ogni altra forma di razzismo, la definizione dell’Ihra si concentra solo sui rapporti interpersonali, senza alcun riferimento al contesto internazionale né alla lotta globale per il rispetto dei diritti umani. Così facendo, rischia di essere inefficace e addirittura controproducente nella lotta all’antisemitismo, come denunciano anche gli autori della lettera. Secondo Englert, la definizione dell’Ihra è “non solo imprecisa e con deboli basi giuridiche”, ma è anche un “passo indietro nella lotta contro l’antisemitismo e il razzismo in generale”.

Inoltre non fa alcuna differenza tra una condizione di oppressione degli ebrei in quanto minoranza da parte di regimi o gruppi antisemiti e la condizione in cui l’autodeterminazione della popolazione ebraica in Israele è realizzata attraverso l’occupazione e l’esclusione di un altro popolo. Come indica anche la lettera pubblicata sul Guardian, nella sua forma attuale lo Stato d’Israele si basa sullo sradicamento della grande maggioranza della popolazione nativa. I palestinesi che ancora vivono all’interno dei suoi confini sono considerati come cittadini di seconda classe, mentre gli altri sono costretti a vivere sotto occupazione militare in Cisgiordania, sotto assedio nella Striscia di Gaza oppure all’estero. Qualunque diritto di autodeterminazione gli è negato dallo stesso Stato di Israele che lo rivendica per sé. In Israele sono in vigore più di 65 leggi discriminatorie nei confronti dei palestinesi, mentre dal luglio del 2018 è in vigore la legge sullo Stato nazione, che sancisce la supremazia dei cittadini ebrei su tutti gli altri. “Il paradosso”, sostiene Perugini, è che “nel nome della lotta al razzismo e all’antisemitismo la definizione dell’Ihra protegge il razzismo di Stato”.

La lettera degli intellettuali sottolinea anche che la definizione di antisemitismo dell’Ihra e le relative misure legali adottate in vari paesi sono state usate soprattutto contro gruppi di sinistra e per la difesa dei diritti umani che sostengono le rivendicazioni dei palestinesi, ignorando che la vera minaccia nei confronti degli ebrei viene dai movimenti nazionalisti bianchi di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti.

In particolare il movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), che ha lo scopo di esercitare una pressione politica ed economica su Israele per mettere fine all’occupazione, riconoscere i diritti fondamentali dei palestinesi e rispettare il diritto al ritorno dei profughi, è stato colpito da una campagna globale di delegittimazione e discredito. A novembre gli Stati Uniti hanno dichiarato il movimento “antisemita”, mentre il governo britannico ha cercato più volte di ostacolare la sua diffusione nel paese. “Rappresentare la campagna Bds come antisemita”, si legge nella lettera pubblicata sul Guardian, “è una grave distorsione di quello che è fondamentalmente uno strumento legittimo e non violento della lotta per i diritti palestinesi”.

Il dibattito è molto complesso e sicuramente andrà avanti nelle prossime settimane. Quello che non bisogna perdere di vista, conclude Perugini, è che “l’antisemitismo va combattuto insieme a tutte le forme di razzismo, nessuna esclusa”. La lettera degli intellettuali si chiude così: “Crediamo che i valori e i diritti umani siano indivisibili e che la lotta contro l’antisemitismo dovrebbe andare di pari passo con la lotta nel nome di tutti i popoli e i gruppi oppressi per la dignità, l’uguaglianza e l’emancipazione”.

 




Boicottaggio di Israele. La Francia cerca di aggirare le decisioni della giustizia europea

François Dubuisson

14 dicembre 2020 – Orient XXI

Con una recente sentenza la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato la Francia ed ha confermato la legalità degli inviti al boicottaggio dei prodotti israeliani. Invece di adeguarsi a questa decisione, Parigi tenta di aggirarla in spregio alle leggi.

Nel giugno 2020, pronunciando una sentenza che condanna la Francia nella causa Baldassi [militante del BDS condannato da un tribunale francese, ndtr.], la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) ha posto fine, in linea di principio, ad una lunga controversia giudiziaria sulla legalità degli inviti al boicottaggio dei prodotti che arrivano da Israele lanciati da diverse ong nel quadro della campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), avviata nel 2005 dalla società civile palestinese.

Le autorità francesi si sono distinte a livello mondiale, avendo spinto il potere giudiziario ad applicare agli inviti dei cittadini al boicottaggio di prodotti israeliani la legislazione penale relativa all’ “incitamento all’odio e alla discriminazione” (articolo 4, comma 8 della legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa). Questa politica si è concretizzata il 12 febbraio 2010 con l’adozione della “circolare Alliot-Marie (dal nome dell’allora ministra della Giustizia Alliot-Marie) che chiedeva alle procure di equiparare gli appelli al boicottaggio a “istigazioni alla discriminazione” e di avviare sistematicamente delle azioni penali.

La giurisprudenza in materia si è rivelata piuttosto controversa, alcuni giudici hanno preferito in sostanza far prevalere la libertà d’espressione sui provvedimenti repressivi. La questione è stata regolamentata dalla Corte di Cassazione, che in una sentenza del 2015 ha confermato, con una motivazione piuttosto approssimativa, la sanzione penale nei confronti dell’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani.

Libertà d’espressione

Avendo ricevuto un ricorso sulla questione, la CEDU ha ritenuto che la condanna di una serie di militanti per aver partecipato a un’azione di boicottaggio in un supermercato fosse contraria alla libertà d’espressione. La Corte ha rilevato che “secondo quanto interpretato e applicato nel caso specifico, il diritto francese vieta ogni appello al boicottaggio di prodotti in base all’origine geografica, qualunque sia il tenore di questo appello, i suoi motivi e le circostanze in cui si inscrive”, cosa che aveva portato il giudice nazionale a considerare “in linea generale che l’invito al boicottaggio costituisse un’esortazione alla discriminazione.” Ora, secondo la Corte Europea, nello specifico ci si trova in presenza di questioni relative “all’espressione politica e militante”, riguardante “un argomento di interesse generale, quello del rispetto del diritto internazionale pubblico da parte dello Stato di Israele e della situazione dei diritti dell’uomo nei territori palestinesi occupati”. Ciò implica “un notevole livello di protezione del diritto alla libertà d’espressione.”

La Corte ne ha concluso che “l’appello al boicottaggio”, anche se è “fonte di polemiche (…), non esclude l’interesse pubblico, salvo che esso degeneri in un appello alla violenza, all’odio o all’ intolleranza.” Per queste ragioni la CEDU ha stabilito che la Francia ha violato il diritto alla libertà d’espressione, in quanto il giudice nazionale non ha “applicato le norme conformi ai principi sanciti dall’articolo 10” e non si è “basato su una valutazione ammissibile dei fatti.

Parigi insiste e firma

Dopo questa sentenza ci si poteva aspettare che le autorità francesi abrogassero le circolari che raccomandavano di perseguire le azioni di boicottaggio e in cambio indicassero che in linea di principio esse sono protette dalla libertà d’espressione. Sarebbe stata così applicata la legge ordinaria riguardante ogni discorso politico: solo l’identificazione di affermazioni specifiche che degenerino nell’antisemitismo potrebbe portare all’avvio di un procedimento penale.

Invece è stata privilegiata un’altra via, che dà l’impressione che la Francia intenda minimizzare la sentenza della Corte e conservare, almeno in apparenza, il principio della perseguibilità dell’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani. Infatti il 20 ottobre 2020 il ministro della Giustizia francese Éric Dupont-Moretti ha fatto diffondere una nuova circolare (una “nota”) “relativa alla repressione degli inviti discriminatori al boicottaggio dei prodotti israeliani” con la quale si riafferma la base giuridica delle azioni penali, semplicemente accompagnata dal requisito più stringente della “motivazione delle sentenze di condanna.” In modo piuttosto contorto questa circolare spiega che si dovranno avviare azioni penali solo se “i fatti, considerati in concreto, rappresentano un invito all’odio o alla discriminazione,” verificando come il “tenore” dell’appello al boicottaggio in questione, le sue “motivazioni” e le sue “circostanze” ne svelino la natura criminosa. Precisa inoltre che il “carattere antisemita dell’appello al boicottaggio” può derivare non solo da “parole, gesti e scritti” che l’accompagnino, ma si può altresì “dedurre dal contesto”.

La circolare conclude che “le azioni di boicottaggio dei prodotti israeliani sono, a queste condizioni, sempre suscettibili di rappresentare il reato di stampa di istigazione pubblica alla discriminazione nei confronti (…) di un gruppo di persone in base alla loro appartenenza ad una Nazione.”

Il ministro dunque della sentenza della CEDU non prende in considerazione che la necessità di motivare in modo più preciso le condanne, ma non mette in alcun modo in discussione più approfonditamente il principio stesso della repressione dell’invito al boicottaggio. Ora, come si è visto, la CEDU ha condannato precisamente l’interpretazione data dal diritto francese, che ha finito per vietare ogni appello al boicottaggio di prodotti “in base alla loro origine geografica”, motivata dal desiderio che il diritto internazionale venga applicato ad Israele, che beneficia di una protezione potenziata rispetto alla libertà d’espressione.

Da questo punto di vista la circolare non spiega affatto in cosa dovrebbero consistere gli elementi di contenuto o di contesto suscettibili di rendere “discriminatorio” o “antisemita” un appello al boicottaggio dei prodotti israeliani, che la Corte europea stima assolutamente leciti, essendo solo delle affermazioni o delle azioni diverse che possano farlo “degenerare” a causa della loro dimensione violenta, piena d’odio o intollerante.

Giocando costantemente sull’ambiguità, la direttiva ministeriale tenta di conservare immutata l’interpretazione riguardo all’intrinseca tendenza discriminatoria dell’appello al boicottaggio. Il giudice è semplicemente invitato ad esplicitare ulteriormente la sua motivazione.

Una definizione dell’antisemitismo al servizio della repressione

La circolare rinvia in particolare all’esame dei “motivi” e dell’“intenzione” dei militanti per valutare il carattere delittuoso dell’appello al boicottaggio. Nella sentenza Baldassi la Corte ha tuttavia constatato che la campagna BDS riguarda l’espressione di opinioni politiche che mirano al rispetto del diritto internazionale da parte di Israele, una questione di interesse generale. Si fa quindi fatica a comprendere quali motivi o intenzioni che animano normalmente i militanti potrebbero rendere discriminatorio l’invito al boicottaggio, o quale “contesto” lo renda antisemita, se non facendo riferimento a un giudizio generale sul movimento BDS come espressione di un soggiacente antisemitismo, sulla base della definizione di antisemitismo adottata nel 2016 da un’organizzazione internazionale, l’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (l’International Holocaust Remembrance Alliance, IHRA), che riunisce 34 Stati membri, principalmente europei. I problemi posti da questa definizione riguardo alla libertà di critica della politica d’occupazione israeliana sono stati sottolineati molto spesso, tenendo conto del fatto che una maggioranza di esempi citati come forma contemporanea di antisemitismo è legata allo Stato di Israele “percepito come una collettività ebraica”. Ciò non ha impedito che la definizione venisse adottata in diverse forme e con una certa ambiguità in particolare da diversi Stati, istituzioni europee (parlamento e consiglio) o da partiti politici.

In Francia la “risoluzione Maillard” “intesa a lottare contro l’antisemitismo” presentata all’Assemblea Nazionale il 20 maggio 2019 intendeva confermare l’idea secondo la quale “l’antisionismo è una delle forme moderne dell’antisemitismo.” Alla fine la risoluzione è stata adottata il 3 dicembre 2019, ma in una versione mitigata, che non cita più espressamente l’antisionismo; ma essa accoglie comunque la definizione “operativa” dell’IHRA, presentata come “uno strumento efficace di lotta contro l’antisemitismo nella sua forma moderna e rinnovata, in quanto essa ingloba le manifestazioni di odio nei confronti dello Stato di Israele giustificate dalla sola percezione di quest’ultimo come collettività ebraica,” e destinata a “sostenere le autorità giudiziarie e repressive nei tentativi che esse compiono per individuare e perseguire gli attacchi antisemiti in modo più efficiente ed efficace.”

Si può quindi temere che il ragionamento che si trova alla base della nuova circolare ministeriale consista nell’isolare in modo artificioso elementi del linguaggio che accompagnano la campagna o le azioni del boicottaggio per farle corrispondere a certi esempi forniti a illustrazione della definizione dell’IHRA, e individuare così una dimensione discriminatoria o motivata dall’odio dei discorsi in questione. Senza entrare in troppi dettagli, si possono menzionare alcuni elementi degli esempi della definizione dell’IHRA che potrebbero essere attivati per tentare di “rimettere sotto accusa” gli inviti al boicottaggio.

Il trattamento discriminatorio nei confronti dello Stato di Israele”

Il primo luogo, in termini molto generali, le spiegazioni date dall’IHRA riguardo alla sua definizione suggeriscono che, certo, “criticare Israele non può essere considerato antisemita,” ma a condizione che la critica sia espressa “come si criticherebbe qualunque altro Stato.” Questa esigenza estremamente vaga è illustrata da uno degli esempi citati di seguito, che definisce antisemita “il trattamento discriminatorio nei confronti dello Stato di Israele, al quale si chiede di adottare dei comportamenti che non sono né previsti né richiesti a qualunque altro Stato democratico.” Un altro esempio è quello che rinvia al fatto di affermare che “l’esistenza dello Stato di Israele è frutto di un’impresa razzista,” consapevoli del fatto che la campagna BDS è ispirata a quella messa in pratica contro il regime razzista del Sudafrica e fa riferimento al carattere di apartheid che rappresenterebbe la politica israeliana di occupazione e di gestione della popolazione palestinese.

Questi esempi della definizione dell’IHRA sono ampiamente utilizzati dai difensori dello Stato di Israele per definire antisemiti discorsi o campagne che si limitano invece a una critica perfettamente legittima delle politiche concrete che violano il diritto internazionale e i diritti della popolazione palestinese. Il movimento BDS è spesso accusato di antisemitismo sulla base della definizione dell’IHRA. In modo significativo nel maggio 2019 il Bundestag [parlamento tedesco, ndtr.] ha adottato a larga maggioranza una risoluzione che dichiara che “le argomentazioni ed i metodi del movimento BDS sono antisemiti” e condanna “ogni dichiarazione ed aggressione antisemita che sia formulata come presunta critica alla politica dello Stato di Israele, ma che in realtà sia un’espressione di odio nei confronti degli ebrei,” in riferimento alla definizione dell’IHRA. E ancor più di recente, nel novembre 2020, il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha reso pubblico un comunicato che afferma: “Come abbiamo detto chiaramente, l’antisionismo è antisemitismo. Gli Stati Uniti s’impegnano quindi ad opporsi alla campagna mondiale BDS in quanto manifestazione di antisemitismo.

Una discussione legittima

Si constata così la tendenza di alcuni Stati a utilizzare la definizione dell’IHRA per equiparare ogni azione di boicottaggio contro Israele a una forma di antisemitismo. In Francia non è pertanto da escludere l’utilizzazione di un argomento simile nel tentativo di conservare una forma di criminalizzazione delle campagne BDS. Questa dialettica si ritrova nei discorsi di una serie di personalità o di associazioni che difendono in modo quasi incondizionato la politica dello Stato di Israele, come il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF).

Ed è in questa prospettiva che nell’ambivalenza della circolare del ministro della Giustizia si potrebbe vedere un invito a definire “discriminatori” o “mossi dall’odio” gli inviti al boicottaggio dei prodotti israeliani, considerando che si riferiscono al “razzismo” della politica di colonizzazione praticata da Israele, o che applicano nei suoi confronti un “doppio standard”, in quanto non chiedono il boicottaggio in altre situazioni di violazione del diritto internazionale nel mondo. In linea di principio la sentenza della CEDU dovrebbe aver comportato una chiara smentita di questi concetti, ma la circolare pubblicata nell’ottobre 2020 fa il possibile per instillare qualche dubbio.

Per il momento gli effetti prodotti dalla circolare ministeriale francese del 20 ottobre 2020 rimangono incerti. Scatenerà una nuova ondata di procedimenti penali contro le azioni di boicottaggio, attraverso un adeguamento della loro motivazione giuridica fondato se del caso sulla definizione di antisemitismo dell’IHRA? O il pubblico ministero opterà per la prudenza, tenendo conto delle indicazioni della sentenza Baldassi ed accettando il principio della legittimità e della legalità dell’invito al boicottaggio dei prodotti provenienti da Israele?

Sia chiaro, non è affatto escluso che possano esserci delle azioni o delle affermazioni effettivamente antisemite durante o con il pretesto di azioni BDS, ma la legge ordinaria permette facilmente di farvi fronte senza che ci sia bisogno di una circolare interpretativa arzigogolata. La CEDU aveva espressamente indicato che il limite da non oltrepassare non viene raggiunto che quando l’invito al boicottaggio “degenera in un appello alla violenza, all’odio o all’intolleranza.

In effetti è qui che si trova il limite che permette di conciliare la necessaria lotta contro l’antisemitismo e la critica alla politica di Israele, che rientra in un dibattito legittimo protetto dalla libertà d’espressione.

FRANÇOIS DUBUISSON

Professore di diritto internazionale all’università libera di Bruxelles (ULB).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




I diritti dei palestinesi e la definizione dell’IHRA di antisemitismo

29 novembre 2020, The Guardian

Un gruppo di 122 accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi esprime le proprie preoccupazioni sulla definizione dell’IHRA

Noi sottoscritti accademici, giornalisti e intellettuali palestinesi e arabi, dichiariamo le nostre opinioni riguardo la definizione di antisemitismo da parte dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce governi ed esperti allo scopo di rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.] e il modo in cui questa definizione è stata presentata, interpretata e applicata in diversi Paesi d’Europa e del Nord America.

Negli ultimi anni la lotta contro l’antisemitismo è stata sempre più strumentalizzata dal governo israeliano e dai suoi sostenitori nel tentativo di delegittimare la causa palestinese e mettere a tacere i difensori dei diritti dei palestinesi. Dirottare l’indispensabile lotta contro l’antisemitismo per favorire un tale programma minaccia di svilire questa battaglia e quindi di screditarla e indebolirla.

L’antisemitismo deve essere smascherato e combattuto. Indipendentemente dai pretesti, nessuna espressione di odio per gli ebrei in quanto ebrei dovrebbe essere tollerata in nessuna parte del mondo. L’antisemitismo si manifesta attraverso generalizzazioni e stereotipi indiscriminati sugli ebrei, riguardanti in particolare il potere e il denaro, insieme a teorie del complotto e alla negazione dell’Olocausto. Consideriamo legittima e indispensabile la lotta contro tali atteggiamenti. Crediamo anche che le lezioni dell’Olocausto, così come quelle di altri genocidi dei tempi moderni, debbano far parte dell’educazione delle nuove generazioni contro ogni forma di odio e pregiudizio razziale.

La lotta contro l’antisemitismo, tuttavia, deve essere affrontata in modo strutturato, onde evitare di vanificare il suo scopo. Attraverso gli “esempi” che fornisce, la definizione dell’IHRA fonde l’ebraismo con il sionismo partendo dal presupposto che tutti gli ebrei siano sionisti e che lo Stato di Israele nella sua condizione attuale incarni l’autodeterminazione di tutti gli ebrei. Siamo in profondo disaccordo con questo. La lotta contro l’antisemitismo non deve essere trasformata in uno stratagemma per delegittimare la lotta contro l’oppressione dei palestinesi, la negazione dei loro diritti e l’ininterrotta occupazione della loro terra. A tale riguardo consideriamo fondamentali i seguenti principi:

1. La lotta contro l’antisemitismo deve essere applicata nel quadro delle leggi internazionali e dei diritti umani. Dovrebbe essere parte integrante della lotta contro tutte le forme di razzismo e xenofobia, compresi l’islamofobia e il razzismo anti-arabo e anti-palestinese. Lo scopo di questa lotta è garantire libertà ed emancipazione a tutte le categorie oppresse. Orientarlo verso la difesa di uno Stato oppressivo e rapace costituisce un profondo stravolgimento.

2. Esiste un’enorme differenza tra una condizione in cui gli ebrei vengono individuati, oppressi e annientati come minoranza da regimi o organizzazioni antisemite e una condizione in cui l’autodeterminazione di una popolazione ebraica in Palestina / Israele è stata realizzata sotto forma di uno Stato etnico esclusivista e territorialmente espansionista. Così com’é attualmente, lo Stato di Israele è fondato sullo sradicamento della stragrande maggioranza dei nativi – quella che palestinesi e arabi chiamano Nakba – e sulla sottomissione dei nativi che vivono ancora nel territorio della Palestina storica come cittadini di seconda classe o come popolo sotto occupazione, deprivati del diritto all’autodeterminazione.

3. La definizione di antisemitismo dell’IHRA e le relative misure legali adottate in diversi Paesi sono state utilizzate principalmente contro le organizzazioni di sinistra e quelle per i diritti umani che sostengono i diritti dei palestinesi e contro la campagna per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), mettendo da parte la reale minaccia per gli ebrei, proveniente da movimenti nazionalisti bianchi di destra in Europa e negli Stati Uniti. La rappresentazione della campagna del BDS come antisemita è una grossolana distorsione di quello che è fondamentalmente un mezzo legittimo di lotta non violenta a favore dei diritti dei palestinesi.

4. L’affermazione della definizione dell’IHRA secondo cui un esempio di antisemitismo è “Negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è piuttosto strana. Non si preoccupa di riconoscere che, in base al diritto internazionale, l’attuale Stato di Israele costituisce una potenza occupante da oltre mezzo secolo, come riconosciuto dai governi dei Paesi in cui viene accolta la definizione dell’IHRA. Non si preoccupa di considerare se questo diritto includa il diritto di creare una maggioranza ebraica attraverso la pulizia etnica e se debba essere valutato in rapporto ai diritti del popolo palestinese. Inoltre, la definizione dell’IHRA potenzialmente scarta come antisemite tutte le visioni non sioniste del futuro dello Stato israeliano, come la difesa di uno Stato bi-nazionale o democratico laico che rappresenti nella stessa misura tutti i suoi cittadini. Un autentico sostegno al principio del diritto di un popolo all’autodeterminazione non può escludere la Nazione palestinese, né qualunque altra.

5. Crediamo che nessun diritto all’autodeterminazione debba includere il diritto di sradicare un altro popolo e impedirgli di tornare nella sua terra, o qualsiasi altro strumento per garantire una maggioranza demografica all’interno dello Stato. La rivendicazione da parte dei palestinesi del loro diritto al ritorno nella terra da cui loro stessi, i loro genitori e nonni sono stati espulsi non può essere interpretata come antisemita. Il fatto che una tale richiesta crei angosce tra gli israeliani non prova che essa sia ingiusta, né antisemita. È un diritto riconosciuto dalle leggi internazionali come dichiarato nella risoluzione 194 del 1948 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite.

6. Rivolgere indistintamente l’accusa di antisemitismo contro chiunque consideri razzista l’attuale Stato di Israele, nonostante l’effettiva discriminazione istituzionale e costituzionale su cui si basa, equivale a garantire a Israele l’impunità assoluta. Israele può così deportare i suoi cittadini palestinesi, revocarne la cittadinanza o negare loro il diritto di voto, ed essere comunque immune dall’accusa di razzismo.

La definizione dell’IHRA e il modo in cui è stata applicata vietano qualsiasi discussione sullo Stato israeliano in quanto basato su una discriminazione etnico-religiosa. In tal modo viola la giustizia elementare e le norme fondamentali dei diritti umani e del diritto internazionale.

7. Crediamo che la giustizia richieda il pieno sostegno del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, inclusa la richiesta di porre fine all’occupazione internazionalmente riconosciuta dei loro territori,alla mancanza di uno Stato e alla deprivazione dei rifugiati palestinesi. L’occultamento dei diritti dei palestinesi nella definizione dell’IHRA tradisce un atteggiamento che sostiene il privilegio ebraico, invece dei diritti ebraici, in Palestina e, invece della sicurezza ebraica, la supremazia ebraica sui palestinesi. Crediamo che i valori e i diritti umani siano inseparabili e che la lotta contro l’antisemitismo debba andare di pari passo con la lotta a nome di tutti i popoli e gruppi oppressi per la dignità, l’uguaglianza e l’emancipazione.

Samir Abdallah

Regista, Parigi, Francia

Nadia Abu El-Haj

Ann Olin Whitney Docente di Antropologia, Columbia University, USA

Lila Abu-Lughod

Joseph L Buttenwieser Docente di Scienze Sociali, Columbia University, USA

Bashir Abu-Manneh

Docente in Letteratura Postcoloniale, University of Kent, UK

Gilbert Achcar

Docente di Studi sullo Sviluppo, SOAS, University of London, UK

Nadia Leila Aissaoui

Sociologa e scrittrice su tematiche femministe, Parigi, Francia

Mamdouh Aker

Consiglio di amministrazione, Università di Birzeit, Palestina

Mohamed Alyahyai

Scrittore e romanziere, Oman

Suad Amiry

Scrittrice e architetto, Ramallah, Palestina

Sinan Antoon

Professore Associato, New York University, Iraq-USA

Talal Assad

Professore Emerito di Antropologia, Graduate Center, CUNY, USA

Hanan Ashrawi

Ex docente di Letteratura Comparata, Università di Birzeit, Palestina

Aziz Al-Azmeh

Professore emerito, Università dell’Europa centrale, Vienna, Austria

Abdullah Baabood

Accademico e ricercatore in Studi sul Golfo, Oman

Nadia Al-Bagdadi

Docente di Storia, Università Centrale Europea, Vienna

Sam Bahour

Scrittore, Al-Bireh / Ramallah, Palestina

Zainab Bahrani

Edith Porada Docente di Storia dell’Arte e Archeologia, Columbia University, USA

Rana Barakat

Assistente universitaria di Storia, Università di Birzeit, Palestina

Bashir Bashir

Professore associato di Teoria Politica, Open University of Israel, Raanana, Stato di Israele

Taysir Batniji

Artista-Pittore, Gaza, Palestina e Parigi, Francia

Tahar Ben Jelloun

Scrittore, Parigi, Francia

Mohammed Bennis

Poeta, Mohammedia, Marocco

Mohammed Berrada

Scrittore e critico letterario, Rabat, Marocco

Omar Berrada

Scrittore e curatore, New York, USA

Amahl Bishara

Professore Associato e Presidente, Dipartimento di Antropologia, Tufts University, USA

Anouar Brahem

Musicista e compositore, Tunisia

Salem Brahimi

Regista, Algeria-Francia

Aboubakr Chraïbi

Docente, Dipartimento di Studi Arabi, INALCO, Parigi, Francia

Selma Dabbagh

Scrittrice, Londra, Regno Unito

Izzat Darwazeh

Docente di Ingegneria delle Comunicazioni, University College London, UK

Marwan Darweish

Professore associato, Università di Coventry, Regno Unito

Beshara Doumani

Mahmoud Darwish Docente di Studi Palestinesi e di Storia, Brown University, USA

Haidar Eid

Professore Associato di Letteratura Inglese, Università Al-Aqsa, Gaza, Palestina

Ziad Elmarsafy

Docente di Letteratura Comparata, King’s College di Londra, Regno Unito

Noura Erakat

Professore Associato, Africana Studies and Criminal Justice, Rutgers University, USA

Samera Esmeir

Professore Associato di Retorica, Università della California, Berkeley, USA

Khaled Fahmy

FBA, Docente di Studi Arabi Moderni, Università di Cambridge, Regno Unito

Ali Fakhrou

Accademico e scrittore, Bahrain

Randa Farah

Professore Associato, Dipartimento di Antropologia, Western University, Canada

Leila Farsakh

Professore associato di Scienze Politiche, Università del Massachusetts Boston, USA

Khaled Furani

Professore Associato di Sociologia e Antropologia, Università di Tel Aviv, Stato di Israele

Burhan Ghalioun

Professore Emerito di Sociologia, Sorbonne 3, Parigi, Francia

Asad Ghanem

Professore di Scienze Politiche, Università di Haifa, Stato di Israele

Honaida Ghanim

Direttore generale del Forum Palestinese per gli Studi Israeliani Madar, Ramallah, Palestina

George Giacaman

Docente di Filosofia e Studi Culturali, Università di Birzeit, Palestina

Rita Giacaman

Docente, Istituto di Comunità e Sanità pubblica, Università di Birzeit, Palestina

Amel Grami

Docente di Studi di Genere, Università Tunisina, Tunisi

Subhi Hadidi

Critico letterario, Siria-Francia

Ghassan Hage

Docente di Antropologia e Teoria Sociale, Università di Melbourne, Australia

Samira Haj

Professore Emerito di Storia, CSI / Graduate Center, CUNY, USA

Yassin Al-Haj Saleh

Scrittore, Siria

Dyala Hamzah

Professore Associato di Storia Araba, Université de Montréal, Canada

Rema Hammami

Professore Associato di Antropologia, Università di Birzeit, Palestina

Sari Hanafi

Docente di Sociologia, Università Americana di Beirut, Libano

Adam Hanieh

Docente in Studi dello Sviluppo, SOAS, University of London, UK

Kadhim Jihad Hassan

Scrittore e traduttore, Docente presso INALCO-Sorbonne, Parigi, Francia

Nadia Hijab

Autrice e Difensore dei Diritti Umani, Londra, Regno Unito

Jamil Hilal

Scrittore, Ramallah, Palestina

Serene Hleihleh

Attivista Culturale, Giordania-Palestina

Bensalim Himmich

Accademico, romanziere e scrittore, Marocco

Khaled Hroub

Professore in Residenza di Studi Medio-Orientali, Northwestern University, Qatar

Mahmoud Hussein

Scrittore, Parigi, Francia

Lakhdar Ibrahimi

Scuola di Affari Internazionali di Parigi, Istituto di Studi Politici, Francia

Annemarie Jacir

Regista, Palestina

Islah Jad

Professore Associato di Scienze Politiche, Università di Birzeit, Palestina

Lamia Joreige

Artista Visuale e Regista, Beirut, Libano

Amal Al-Jubouri

Scrittore, Iraq

Mudar Kassis

Professore Associato di Filosofia, Università Birzeit, Palestina

Nabeel Kassis

Ex Docente di Fisica ed ex Preside, Università di Birzeit, Palestina

Muhammad Ali Khalidi

Docente di Filosofia, CUNY Graduate Center, USA

Rashid Khalidi

Edward Said Docente di Studi Arabi Moderni, Columbia University, USA

Michel Khleifi

Regista, Palestina-Belgio

Elias Khoury

Scrittore, Beirut, Libano

Nadim Khoury

Professore Associato di Studi Internazionali, Lillehammer University College, Norvegia

Rachid Koreichi

Artista-Pittore, Parigi, Francia

Adila Laïdi-Hanieh

Direttore generale, Museo Palestinese, Palestina

Rabah Loucini

Docente di Storia, Università di Orano, Algeria

Rabab El-Mahdi

Professore Associato di Scienze Politiche, The American University, Il Cairo, Egitto

Ziad Majed

Professore Associato di Studi sul Medio Oriente e IR, Università Americana di Parigi, Francia

Jumana Manna

Artista, Berlino, Germania

Farouk Mardam Bey

Editore, Parigi, Francia

Mai Masri

Regista palestinese, Libano

Mazen Masri

Professore a contratto di diritto, City University of London, UK

Dina Matar

Docente in Comunicazione Politica e Media Arabi, SOAS, University of London, UK

Hisham Matar

Scrittore, Docente al Barnard College, Columbia University, USA

Khaled Mattawa

Poeta, William Wilhartz Docente di Letteratura Inglese, Università del Michigan, USA

Karma Nabulsi

Docente di Politica e IR, Università di Oxford, Regno Unito

Hassan Nafaa

Professore Emerito di Scienze Politiche, Università del Cairo, Egitto

Nadine Naber

Docente, Dipartimento di Studi Femminili e di Genere, University of Illinois at Chicago, USA

Issam Nassar

Professore, Illinois State University, USA

Sari Nusseibeh

Professore Emerito di Filosofia, Università Al-Quds, Palestina

Najwa Al-Qattan

Professore Emerito di Storia, Loyola Marymount University, USA

Omar Al-Qattan

Regista, Presidente del Museo Palestinese e della Fondazione AM Qattan, Regno Unito

Nadim N Rouhana

Docente di Affari internazionali, The Fletcher School, Tufts University, USA

Ahmad Sa’adi

Docente, Haifa, Stato di Israele

Rasha Salti

Curatrice indipendente, scrittrice, ricercatrice d’arte e film, Germania-Libano

Elias Sanbar

Scrittore, Parigi, Francia

Farès Sassine

Docente di filosofia e critico letterario, Beirut, Libano

Sherene Seikaly

Professore Associato di Storia, Università della California, Santa Barbara, USA

Samah Selim

Professore Associato, Lingue e letterature A, ME e SA, Rutgers University, USA

Leila Shahid

Scrittrice, Beirut, Libano

Nadera Shalhoub-Kevorkian

Lawrence D Biele Cattedra in Legge, Hebrew University, Stato di Israele

Anton Shammas

Docente di Letteratura Comparata, Università del Michigan, Ann Arbor, USA

Yara Sharif

Docente senior, Architettura e Città, Università di Westminster, Regno Unito

Hanan Al-Shaykh

Scrittrice, Londra, Regno Unito

Raja Shehadeh

Avvocato e scrittore, Ramallah, Palestina

Gilbert Sinoué

Scrittore, Parigi, Francia

Ahdaf Soueif

Scrittrice, Egitto / Regno Unito

Mayssoun Sukarieh

Docente senior di Studi sullo Sviluppo, King’s College di Londra, Regno Unito

Elia Suleiman

Regista, Palestina-Francia

Nimer Sultany

Docente in Diritto Pubblico, SOAS, University of London, UK

Jad Tabet

Architetto e scrittore, Beirut, Libano

Jihan El-Tahri

Regista, Egitto

Salim Tamari

Professore Emerito di Sociologia, Università di Birzeit, Palestina

Wassyla Tamzali

Scrittrice, produttrice d’arte contemporanea, Algeria

Fawwaz Traboulsi

Scrittore, Beirut Libano

Dominique Vidal

Storico e giornalista, Palestina-Francia

Haytham El-Wardany

Scrittore, Egitto-Germania

Said Zeedani

Professore Associato Emerito di Filosofia, Università Al-Quds, Palestina

Rafeef Ziadah

Docente in Politiche Comparate del Medio Oriente, SOAS, University of London, UK

Raef Zreik

Minerva Humanities Center, Università di Tel Aviv, Stato di Israele

Elia Zureik

Professore Emerito, Queen’s University, Canada

Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




“Siete pionieri sionisti” –Una ministra israeliana di centro saluta così i coloni messianici

Jonathan Ofir  

1 dicembre 2020 – MondoWeiss

La pluridecennale impresa coloniale di Israele consiste nella creazione di “fatti sul campo”. I fatti si presentano tipicamente come “avamposti” costruiti da zelanti fedeli senza un’autorizzazione, sia su terreni sequestrati dai militari per lo Stato, sia semplicemente su terreni privati palestinesi. La questione è quindi come legalizzare retroattivamente il furto e come inquadrarlo. Si tende a pensare che questa attività sia principalmente un progetto della destra, ma storicamente è stata praticata sia dalla destra che dalla sinistra, in modo più o meno esplicito.

Questa settimana, una ministra centrista ha intenzionalmente sganciato una bomba. Domenica, la ministra israeliana della Diaspora Omer Yankelevich, del partito Blu e Bianco di Benny Gantz si è rivolta ai coloni durante un “Forum delle colonie”. L’ ha fatto a conferma dell’iniziativa del ministro della Difesa Gantz e del suo collega di partito Michael Biton (ministro degli Affari Strategici) di legalizzare retroattivamente 1.700 unità abitative dei coloni, considerate illegali anche dalle indulgenti leggi di Israele (che sfidano il diritto internazionale).

Yankelevitch ha invocato l'”unità” suprematista ebraica riguardo alle colonie, dicendo che “è tempo di porre fine ai discorsi di divisione e odio nei confronti dei coloni”. Condividendo il video del discorso, il giornalista Neri Zilber ha detto che l’affermazione è un tradimento. “I [parlamentari di] Blu e Bianchi sono stati votati con più di un milione di voti di centrosinistra”.

Ma davvero quei milioni di elettori sono contrari? Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot aveva già denunciato tre settimane fa la possibilità di tale mossa, che i coloni stavano ovviamente aspettando, una mossa che Peace Now [movimento israeliano contrario all’occupazione, ndtr.] ha definito “la realizzazione di una politica da coloni messianici”. E contemporaneamente Oded Ravivi, capo del consiglio regionale dei coloni di Efrat, ha detto che “l’insediamento di ebrei in Giudea e Samaria ha ottenuto il consenso”.

La giornalista Mairav Zonszein ha commentato le dichiarazioni di Yankelevitch, scrivendo su Twitter: “Non un ministro qualsiasi, ma Omer Yankelevich, ministra degli Affari della Diaspora, che sovrintende ai rapporti con gli ebrei americani, i quali in genere si oppongono alle colonie.”

Gli ebrei americani sono una cosa. Gli ebrei israeliani un’altra.

Yankelevich ha detto senza mezzi termini che Gantz sostiene in pieno l’iniziativa di Biton di legalizzare le case illegali dei coloni.

In passato, simili palesi iniziative promozionali della legalizzazione dell’illegale venivano dalla destra di Benjamin Netanyahu, ad esempio dall’ex ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che nel 2017 promosse la “legge di regolarizzazione”, che analogamente forniva copertura giuridica alla legalizzazione retroattiva di circa 4.000 case illegali di coloni.

Con la sua dichiarazione, Yankelevich ha in sostanza detto che un partito di centro, Blu e Bianco, stava superando Netanyahu a destra, e andando persino oltre Shaked, poiché in particolare questa “legalizzazione” verrebbe messa in pratica anche prima che venga approvata una specifica legge in merito a quelle case. Yediot riferisce che l’intenzione è quella di approvare la mozione che viene chiamata “regolarizzazione del mercato”, che “consente all’acquirente di acquisire diritti sulla proprietà se è dimostrato che l’acquisto è stato fatto in buona fede”.

Già, “buona fede” è un termine usato spesso dai promotori di questi atti. I coloni dell’avamposto sono chiamati collettivamente “il giovane insediamento”, come li ha chiamati anche Yankelevich, piuttosto che colonialisti ladri di terre. Le affermazioni di Yankelevich sono diventate un grosso problema per Gantz, che vorrebbe almeno apparire come un centrista. Così lunedì c’è stata una discussione nel partito se questa posizione rappresenti effettivamente la linea del partito. Gantz ha detto di no, e che Yankelevich stava travisando (come riportato da Walla [portale web di una società di telecomunicazioni israeliana, ndtr.]):

Il capo di Blu e Bianco Benny Gantz ha chiarito oggi (lunedì) di non appoggiare la mozione di regolarizzazione degli avamposti, e ha preso le distanze dalle dichiarazioni della ministra della Diaspora Omer Yankelevich che ieri al raduno di protesta ha detto che Gantz li sostiene. Durante la riunione del partito Blu e Bianco Gantz ha detto: Non sosteniamo gli avamposti illegali e non importa chi vi risieda, che quella persona sia un pilota o un medico, non ha il permesso di insediarsi in aree illegali’ ”.

Tuttavia, Gantz ha sottolineato che questo non significa che si opponga alle colonie in generale, né in toto alla “regolarizzazione”. Devono solo essere fatti correttamente, per così dire:Sostengo il fatto che i blocchi [di colonie] della valle del Giordano rimangano, senza tornare ai confini del ’67 … Il Ministero della Difesa [di cui Gantz è il titolare, ndtr.] sta lavorando alla regolarizzazione di tutti gli avamposti che si trovano su aree legali esattamente secondo i regolamenti e le leggi. Qualsiasi deviazione da questa linea non è la politica di Blu e Bianco.

Questo crea un po’ di confusione, poiché gli avamposti che si trovano su aree consentite non hanno bisogno di essere legalizzati. Il punto è che si trovano in zone non ancora chiaramente definite da Israele come legali per le colonie: possono essere terre confiscate e sottoposte a “verifica”, o semplicemente terre private palestinesi.

In ogni caso, la “legalizzazione” retroattiva di tali aree è proprio il processo di “regolarizzazione” a cui si riferisce Gantz. Ma anche per chi è perplesso, il punto qui sottolineato da Gantz rivela che Israele sta operando istituzionalmente su una base espansionistica colonialista attraverso le istituzioni militari. L’unica domanda è quanto velocemente debbano andare le cose, prima che la Cisgiordania inizi a sembrare il Far West.

Durante la riunione il parlamentare di Blu e Bianco Asaf Zamir (ex ministro del Turismo) ha aggredito Yankelevich e ha detto che stava “danneggiando politicamente [il partito] nelle regioni in cui non abbiamo elettori”. Zamir ha accennato alla possibilità di elezioni imminenti: “Siamo alla vigilia di un potenziale scioglimento della Knesset [il parlamento], è meglio che ci ricordiamo chi siamo, perché queste dichiarazioni e queste iniziative non coordinate che hai compiuto allontanano la sala di comando dai nostri elettori.

Ma Yankelevich non ne ha voluto sapere. Ha mantenuto la posizione come una brava giovane colona: “La posizione del partito, come ha detto alla riunione del partito il presidente del partito, è di supporto alla regolarizzazione degli insediamenti costruiti in buona fede su terre demaniali. Questa è la posizione che ho espresso anch’io e ne sono orgogliosa. Stiamo parlando del sale della terra, di persone che vivono in condizioni inaccettabili ed è giunto il momento di fornire loro condizioni di vita onorevoli. Non credete alle false citazioni.

E dunque, Blu e Bianco si sconterà un per un po’ al suo interno e deciderà quale sia veramente la linea del partito. È un furto intenzionale e palese o è piuttosto un furto accettabile?

Due anni fa, chi scrive sostenne che il dibattito sinistra-destra in Israele è sulla velocità della colonizzazione, non su come porvi fine. Blu e Bianco è il presunto contrappeso di opposizione progressista al Likud di Netanyahu. Ma non è così, e non si riesce nemmeno a capire cosa rappresenti. Gantz dice “colonizzazione leggera”, Yankelevich dice “pionierismo sionista”. E il promemoria per gli ebrei all’estero, in particolare negli Stati Uniti, di cui Yankelevich è presumibilmente la ministra, è che non c’è forza politica in Israele che effettivamente si opponga alle colonie. La “sinistra” sionista? Quale sinistra? Non esiste. Oh, e che dire del gruppo di parlamentari della Lista Unita palestinese? È sistematicamente esclusa dal governo – sì, anche da Gantz.

E se dici che è un comportamento razzista, beh, fai attenzione, la definizione IHRA di antisemitismo potrebbe essere pronta ad acchiapparti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Per lo Stato ebraico, l’Olocausto è uno strumento da manipolare

Orly Noy

20 novembre 2020 – +972 magazine

Se prima il sionismo ha giustificato i suoi crimini contro i palestinesi in nome dell’Olocausto, oggi lo usa come strumento per giustificare persino l’antisemitismo.

Nella stessa settimana in cui una commissione interna del governo israeliano ha approvato la nomina di Effi Eitam, ex-generale delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] e politico di estrema destra, a presidente dello Yad Vashem, il museo israeliano dell’Olocausto, è successo qualcosa di significativo. In un incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, il segretario di Stato USA uscente Mike Pompeo ha annunciato che il presidente Donald Trump intende dichiarare antisemita il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

La contiguità tra i due annunci simbolizza la fase finale della metamorfosi manipolatoria che l’antisemitismo e l’Olocausto hanno subito per mano del sionismo.

Effi Eitam, un falco di destra e un razzista, nel 2006, durante la cerimonia in commemorazione del tenente Amichai Merhavia, ucciso nella Seconda Guerra del Libano, ha fatto le seguenti dichiarazioni:

“Noi dovremo fare tre cose: espellere la maggior parte degli arabi di Giudea e Samaria (la Cisgiordania) da qui. È impossibile con tutti quegli arabi ed è impossibile lasciare il territorio, perché abbiamo già visto quello che stanno facendo là. Alcuni potrebbero essere in grado di rimanere in base a certe condizioni, ma la maggior parte dovrà andarsene. Dovremo prendere un’altra decisione, e cioè buttar fuori gli arabi israeliani dal sistema politico. Anche qui le cose sono lampanti: abbiamo creato una quinta colonna, un gruppo di traditori di primo livello, per cui non possiamo continuare a consentire una così vasta presenza ostile nel sistema politico israeliano. Terzo, di fronte alla minaccia iraniana, dovremo agire in modo diverso da tutto quanto abbiamo fatto finora. Queste sono tre cose che richiederanno un cambiamento della nostra etica di guerra.”[corsivo ndtr]

L’espulsione dalla propria terra di una popolazione nativa occupata da parte della potenza occupante è un crimine di guerra. Impedire la partecipazione di cittadini al sistema politico in base all’appartenenza etnica o nazionale è simile al fascismo. Il futuro presidente dello Yad Vashem non si vergogna di aver espresso opinioni che rappresentano crimini di guerra per portare avanti le sue ambizioni politiche.

Come ha scritto su queste pagine Libby Lenkinski [vice presidentessa per l’impegno pubblico del gruppo contrario all’occupazione New Israel Fund, ndtr.], Trump è l’uomo che ha riportato alla moda negli Stati Uniti l’antisemitismo classico, essendo nel contempo calorosamente accolto dal primo ministro dello Stato ebraico.

La predilezione dello Yad Vashem per i fascisti e i criminali di guerra non è certo un segreto. Da quando nel 1976 lo visitò il primo ministro del Sudafrica dell’apartheid John Worster, membro di un’organizzazione filo-nazista durante la II guerra mondiale, il museo ha ospitato una delegazione della giunta militare del Myanmar responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità.

Ha aperto le sue porte al presidente brasiliano Jair Bolsonaro, l’uomo che ha lodato Hitler e appoggia apertamente lo sterminio fisico delle persone LGBTQ, della popolazione indigena brasiliana e una serie di altre atrocità, compresi lo stupro, la tortura e la dittatura militare. Ha ospitato persino il primo ministro ungherese Viktor Orban, che ha espresso appoggio per Miklós Horthy, il leader ungherese durante la II Guerra Mondiale, e Anthony Lino Makana del Sud Sudan, un importante esponente politico di un governo responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità.

Se prima il sionismo ha giustificato i suoi crimini contro il popolo palestinese in nome dell’Olocausto, oggi lo utilizza come strumento per giustificare persino l’antisemitismo in cambio di vantaggi politici. Ancor peggio: consente a un antisemita di definire cosa sia l’antisemitismo. Questa è la peggiore verità che oggi ci troviamo davanti: per lo Stato di Israele ufficiale, i concetti di Olocausto e antisemitismo sono semplicemente mezzi politici, e come tali possono essere manipolati, distorti e travisati, come qualunque altro strumento politico.

Dopo aver spogliato i palestinesi con il pretesto dell’Olocausto, ora i dirigenti israeliani stanno adottando un antisemita come Trump che perseguiterà i discendenti di quegli stessi palestinesi spossessati in nome della lotta contro l’antisemitismo. E non solo loro, ma anche gli innumerevoli ebrei che mostrano solidarietà con la lotta palestinese per la giustizia. Tuttavia, finché ci saranno persone con una coscienza, che rabbrividiscono di fronte a questo orribile sfruttamento della memoria dell’Olocausto, sarà difficile farlo.

È per questo che Effi Eitam, un razzista e un fautore di crimini di guerra, è stato nominato per custodire la memoria della tragedia ebrea, in modo che l’Olocausto rimanga per sempre soggetto alla manipolazione politica utilitaristica. È così che Israele onora i morti nel 2020.

Orly Noy è editorialista di Local Call [edizione in ebraico di +972, ndtr.], attivista politica e traduttrice di poesie e prose dal farsi [lingua ufficiale in Iran, ndtr.]. Fa parte del comitato esecutivo di B’Tselem ed è un’attivista del partito politico Balad [partito politico israeliano a maggioranza araba, ndtr.]. I suoi scritti riguardano i percorsi che incrociano e definiscono la sua identità come mizrahi [ebrei di origine orientale, ndtr.], donna di sinistra, donna, migrante temporanea, che vive all’interno di una continua immigrazione, e il costante dialogo tra di esse.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)