L’amministrazione statunitense uscente definisce il BDS “antisemita”

Tamara Nassar

19 novembre 2020 – ELECTRONIC INTIFADA

Giovedì il segretario di Stato Mike Pompeo ha formalmente etichettato il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi come “antisemita” e ha promesso che l’amministrazione statunitense uscente lo combatterà.

Questa è l’ultima violazione della libertà di parola da parte del governo degli Stati Uniti nel suo tentativo di reprimere il sostegno ai diritti dei palestinesi.

“Come abbiamo chiarito, l’antisionismo è antisemitismo”, ha detto Pompeo, equiparando la critica nei confronti di Israele e della sua ideologia politica razzista al sionismo da un lato, al fanatismo contro gli ebrei dall’altro.

Gli Stati Uniti sono “impegnati a contrastare la campagna globale del BDS in quanto manifestazione di antisemitismo”, ha affermato Pompeo.

Giovedì, a Gerusalemme, in una conferenza stampa congiunta con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, egli ha inoltre definito il BDS un “cancro”.

Pompeo ha affermato che l’inviato del Dipartimento di Stato per l’antisemitismo avrebbe “identificato le organizzazioni che si impegnano o in altro modo sostengono” il BDS per consentire al Dipartimento di Stato di interrompere qualsiasi finanziamento governativo.

Giovedì Amnesty International ha dichiarato che gli attacchi mirati di Pompeo contro i gruppi “che, in quanto antisemiti, utilizzano strumenti pacifici, come il boicottaggio, per porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i palestinesi, violano la libertà di espressione e sono un regalo per chi cerca di mettere a tacere, perseguitare, intimidire e opprimere coloro che difendono i diritti umani in tutto il mondo”.

Le organizzazioni della società civile palestinese hanno lanciato la campagna BDS nel 2005 per fare pressione su Israele affinché rispettasse i diritti dei palestinesi e si attenesse al diritto internazionale. Si basa sul modello della campagna che ha contribuito a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

Il movimento BDS si oppone a tutte le forme di razzismo e fanatismo, compreso l’antisemitismo, e sostiene l’uguaglianza come questione di principio.

Il Comitato nazionale palestinese per il boicottaggio, il gruppo direttivo della campagna globale del BDS, ha denunciato il verificarsi della “fanatica alleanza Trump-Netanyahu” che “continua a consentire e normalizzare la supremazia bianca e l’antisemitismo negli Stati Uniti e nel mondo, diffamando contemporaneamente il BDS.”

Omar Shakir di Human Rights Watch ha affermato che l’amministrazione Trump “sta compromettendo la lotta contro l’antisemitismo equiparando quest’ultimo alle forme di boicottaggio pacifico”.

Vendita delle merci dei coloni

Pompeo ha anche dichiarato che le merci prodotte nelle colonie insediate sulla terra palestinese occupata devono essere etichettate come “Made in Israel” – nascondendo che sono state prodotte in colonie costruite nel territorio occupato in violazione del diritto internazionale.

Ciò verrà applicato a tutti i prodotti dell’Area C – il 60% della Cisgiordania sotto il pieno controllo militare israeliano secondo gli accordi di Oslo degli anni ’90. È l’area in cui si trova la maggior parte delle colonie israeliane.

Questo avviene nel momento in cui quattro senatori repubblicani hanno scritto questa settimana una lettera al presidente Donald Trump chiedendogli di cambiare la politica doganale degli Stati Uniti per consentire alle merci prodotte nelle colonie di essere etichettate come “Made in Israel”.

Pompeo ha aggiunto che le merci prodotte nelle aree della Cisgiordania occupata nominalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese saranno etichettate come prodotte in “Cisgiordania”.

Pompeo ha anche affermato che gli Stati Uniti “non accetteranno più” l’etichettatura congiunta dei prodotti della Cisgiordania occupata e di Gaza, poiché i due territori “sono separati politicamente e amministrativamente e devono essere trattati di conseguenza”.

Queste misure possono essere interpretate come un ulteriore riconoscimento da parte degli Stati Uniti dell’annessione de facto del territorio palestinese da parte di Israele, mentre negano ai palestinesi qualsiasi riconoscimento che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza costituiscano un’unica entità politica.

Il Comitato nazionale del BDS ha definito la fusione intenzionale di antisionismo e antisemitismo da parte del Dipartimento di Stato un tentativo “revisionista e fraudolento” di mettere a tacere non solo i sostenitori del BDS, ma anche le organizzazioni per i diritti umani – come Human Rights Watch – che non sostengono il BDS ma si oppongono al commercio dei prodotti delle colonie.

Il vino delle colonie

Giovedì in un tweet Pompeo ha anche attaccato la politica della UE, scarsamente applicata, volta a richiedere che le merci delle colonie israeliane siano etichettate come tali.

A quanto pare Pompeo avrebbe poco dopo cancellato il tweet per poi ripubblicarlo senza l’immagine, originariamente inclusa, di quello che sembrava il villaggio palestinese di Mukhmas [a nord-est di Gerusalemme, nella Cisgiordania centrale, ndtr.]

Ciò è avvenuto quando Pompeo e l’ambasciatore statunitense David Friedman hanno visitato le Cantine Psagot, un’azienda coloniale che opera su terre palestinesi occupate e rubate.

“Oggi ho pranzato nella pittoresca cantina Psagot”, ha scritto Pompeo.

“Sfortunatamente, Psagot e altre aziende sono state prese di mira dalle dannose iniziative della UE riguardo l’etichettatura, le quali agevolano il boicottaggio delle aziende israeliane”.

Funzionari statunitensi avevano già visitato, nel corso dell’amministrazione Trump, i territori occupati.

La sosta di Pompeo presso le cantine Psagot era tuttavia chiaramente intesa a fornire un sostegno di alto profilo alle colonie illegali di Israele.

Il vino prodotto dalle Cantine Psagot è ottenuto da uve provenienti da diverse colonie della Cisgiordania.

Le cantine sono costruite su un terreno di proprietà dei palestinesi della vicina città di al-Bireh [adiacente a Ramallah, in Cisgiordania, ndtr.], i cui abitanti hanno protestato contro la visita di Pompeo.

Alla stregua di altri colonizzatori europei Israele ha cercato a lungo di vendere all’interno del mercato vinicolo internazionale vini prodotti su terreni palestinesi e siriani rubati, come ha scritto recentemente il professore della Columbia University Joseph Massad [docente di politica araba moderna e storia intellettuale, ndtr.].

Il vino prodotto sulle alture del Golan siriano occupate sarà presto in vendita anche negli Emirati Arabi Uniti.

Durante la sua visita Pompeo ha anche esaltato la costruzione della cosiddetta Città di David, un parco a tema costruito nel quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, da dove Israele sta espellendo con la forza i residenti palestinesi.

Giovedì Pompeo ha inoltre visitato il sito battesimale vicino al fiume Giordano, al confine della Cisgiordania occupata con la Giordania.

Pompeo aveva anche in programma una sosta sulle alture del Golan. Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele sull’area nel marzo 2019, in barba al diritto internazionale.

Rafforzamento dell’alleanza anti-Iran

La visita di Pompeo ha coinciso con quella del ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif bin Rashid Al Zayani, arrivato mercoledì a Tel Aviv per la sua prima visita ufficiale da quando, a settembre, il suo paese ha accettato di normalizzare i rapporti con Israele.

Al Zayani si è unito a Pompeo e Netanyahu a Gerusalemme per una conferenza stampa congiunta.

Al Zayani ha annunciato che Israele e Bahrein si scambieranno presto le ambasciate. Dal prossimo mese, ha aggiunto, israeliani e bahreiniti potranno ottenere visti elettronici e presto potranno viaggiare con voli regolari tra i due paesi.

Gli accordi di normalizzazione tra gli stati arabi e Israele fanno parte degli sforzi degli Stati Uniti per costruire un’alleanza anti-Iran tra Israele e gli stati del Golfo sotto la supervisione americana.

Pompeo si è vantato del fatto che i recenti accordi tra Israele e gli Stati arabi abbiano reso l’Iran “sempre più isolato”, con la sua influenza “in declino”.

Ciò avviene mentre l’amministrazione Trump intensifica le sanzioni economiche contro l’Iran nel tentativo di rendere irreversibile, dopo che Joe Biden lo avrà sostituito come presidente, il ritiro di Trump dall’accordo nucleare del 2015.

Trump, ha riferito il New York Times martedì, ha persino preso in considerazione di bombardare il principale impianto nucleare iraniano nel corso delle ultime settimane della sua presidenza.

Secondo quanto riferito, dei consiglieri, tra cui Pompeo e il vicepresidente Mike Pence, lo avrebbero dissuaso da ciò.

L’accordo del 2015 raggiunto dall’amministrazione Obama e da altri stati ha visto l’Iran limitare volontariamente il suo programma di produzione di energia nucleare in cambio della revoca delle sanzioni economiche.

Israele ha incessantemente fatto pressioni per intensificare la guerra economica contro l’Iran, che causa sofferenza ai normali cittadini iraniani e devasta l’economia del paese nel corso di una pandemia.

Mercoledì Pompeo ha strombazzato la campagna dell’amministrazione contro l’Iran “Massima pressione”.

“Oggi l’economia iraniana deve affrontare una crisi valutaria, un aumento del debito pubblico e un aumento dell’inflazione”, ha affermato Pompeo. Ha ammonito sulle “conseguenze dolorose” per gli stati e le società che sfidano le sanzioni statunitensi.

Lettera del Congresso

Prima dell’arrivo di Pompeo in Israele, il membro del Congresso Mark Pocan si è fatto promotore di una lettera con la richiesta al Segretario di Stato di condanna delle recenti demolizioni di case palestinesi da parte di Israele.

Co-firmata da altri 40 membri del Congresso, la lettera si riferisce alla demolizione, il 3 novembre, della comunità di Khirbet Humsa [villaggio nella parte settentrionale della valle del Giordano, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

La distruzione ha lasciato più di 70 palestinesi senza casa, inclusi 41 bambini – la più grande demolizione di questo tipo da molti anni.

Il membro del Congresso Ilhan Omar, una dei cofirmatari, ha definito la demolizione “un crimine grave” e ha affermato che gli Stati Uniti “non dovrebbero finanziare la pulizia etnica”.

La lettera chiede se siano stati utilizzati per la demolizione strumenti forniti dagli americani – il che Omar aveva precedentemente ammonito sarebbe stato illegale.

Chiede inoltre con forza che negli ultimi due mesi del mandato di Pompeo, “le violazioni dei diritti umani e le violazioni del diritto internazionale continuino ad essere respinte con la forza dal governo americano”.

È molto chiaro, tuttavia, che Pompeo è determinato a utilizzare il suo tempo restante per incoraggiare e premiare il maggior numero possibile di violazioni da parte di Israele.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cancellando i palestinesi, le reti sociali diffondono un segnale inquietante per il nostro avvenire

Jonathan Cook

sabato 7 novembre 2020 – Middle East Eye

Facebook, Google e Twitter non sono piattaforme neutrali. Controllano lo spazio pubblico informatico per aiutare i potenti e possono cancellare da un giorno all’altro chiunque di noi

Si può percepire un crescente malessere nei confronti dell’impatto nefasto che possono avere sulle nostre vite le decisioni prese dalle imprese che guidano le reti sociali. Benché godano di un monopolio effettivo sullo spazio pubblico virtuale, queste piattaforme sfuggono da molto tempo ad ogni serio controllo e ad ogni responsabilità.

In un nuovo documentario Netflix, The Social Dilemma [Il dilemma del social], ex-dirigenti della Silicon Valley mettono in guardia contro un avvenire distopico. Google, Facebook e Twitter hanno raccolto una grande quantità di dati che ci riguardano per prevedere e manipolare meglio i nostri desideri. I loro prodotti riformulano progressivamente le connessioni dei nostri cervelli per renderci dipendenti dagli schermi e più docili alle pubblicità. Poiché siamo chiusi dentro camere digitali di risonanza ideologica, ne conseguono una polarizzazione e una confusione sociale e politica sempre maggiori.

Come a sottolineare la presa sempre più forte che queste società tecnologiche esercitano sulle nostre vite, il mese scorso Facebook e Twitter hanno deciso di interferire apertamente sulle elezioni presidenziali americane più esplosive a memoria d’uomo censurando un articolo che avrebbe potuto nuocere alle prospettive elettorali di Joe Biden, lo sfidante democratico del presidente uscente Donald Trump.

Dato che quasi la metà degli americani si informa principalmente su Facebook, le conseguenze di una simile decisione sulla nostra vita politica non sono difficili da interpretare. Scartando ogni dibattito sulle presunte pratiche di corruzione e traffico di influenze da parte del figlio di Joe Biden, Hunter, in nome di suo padre, queste reti sociali hanno giocato un ruolo di arbitro autoritario decidendo quello che siamo autorizzati a dire e a sapere.

Il “guardiano di un monopolio” 

Il pubblico occidentale si sveglia molto in ritardo di fronte al potere antidemocratico che le reti sociali esercitano su di lui. Ma se vogliamo capire dove alla fine questo ci porta, non c’è uno studio di caso migliore del trattamento molto differenziato riservato dai giganti tecnologici agli israeliani e ai palestinesi.

Il modo in cui i palestinesi sono in rete serve da avvertimento, perché sarebbe in effetti insensato considerare queste imprese mondiali come piattaforme politicamente neutrali e le loro decisioni come puramente commerciali. Sarebbe come interpretare il loro ruolo in modo doppiamente sbagliato.

Di fatto le compagnie che guidano le reti sociali sono oggi delle reti di comunicazione monopolistiche, alla stregua delle reti elettriche, idriche o telefoniche di una ventina di anni fa. Le loro decisioni non sono quindi più delle questioni private, ma hanno enormi conseguenze sociali, economiche e politiche. È in parte la ragione per la quale il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha recentemente avviato un’azione legale contro Google, accusandolo di essere il “guardiano di un monopolio su internet”.

Google, Facebook e Twitter non hanno più diritto di decidere arbitrariamente le persone e i contenuti che ospitano sui loro siti di quanto una volta le imprese di telecomunicazioni avessero il diritto di decidere se un cliente doveva essere autorizzato a disporre di una linea telefonica.

Tuttavia, contrariamente alle compagnie telefoniche, le società alla testa delle reti sociali controllano non solo i mezzi di comunicazione, ma anche il loro contenuto. Come dimostra l’esempio dell’articolo su Hunter Biden, possono decidere se i loro clienti possono partecipare a delle discussioni pubbliche fondamentali su quelli che li governano.

Agendo in questo modo nei confronti di Hunter Biden, è come se un’azienda telefonica di una volta non solo ascoltasse le conversazioni, ma potesse anche interromperle se non le piacesse la posizione politica di un determinato cliente.

In realtà è persino peggio. Le reti sociali informano ormai gran parte della popolazione. La censura di un articolo da parte loro è simile piuttosto all’azione di una compagnia elettrica che tolga la corrente a tutti durante una trasmissione televisiva per essere sicura che nessuno la veda.

Una censura occulta

I giganti della tecnologia sono le imprese più ricche e potenti nella storia dell’umanità, la loro ricchezza si misura in centinaia, ormai migliaia, di miliardi di dollari. Ma l’argomento secondo cui sono apolitiche e hanno come solo scopo massimizzare i profitti non ha mai retto.

Hanno tutto l’interesse a promuovere responsabili politici che si schierino dalla loro parte impegnandosi a non infrangere il loro monopolio né a regolamentare le loro attività, o, meglio ancora, promettendo di indebolire gli strumenti che potrebbero impedire loro di diventare ancora più ricche e potenti.

Al contrario, i giganti della tecnologia hanno anche tutto l’interesse ad utilizzare lo spazio informatico per penalizzare e marginalizzare gli attivisti politici che rivendicano una maggiore regolamentazione delle loro attività o del mercato in generale.

A prescindere dalla spudorata eliminazione dell’articolo su Hunter Biden, che ha suscitato la collera dell’amministrazione Trump, le società alla testa delle reti sociali censurano più spesso in modo occulto. Questo potere è esercitato per mezzo di algoritmi, questi codici segreti che decidono se qualcosa o qualcuno compare nei risultati di una ricerca o sulle reti sociali. Se lo desiderano, questi titani tecnologici possono cancellare chiunque di noi da un giorno all’altro.

Non è solo paranoia politica. L’impatto sproporzionato dei cambiamenti di algoritmo sui siti “di sinistra” sul web, i più critici verso il sistema neoliberale che ha arricchito le imprese che guidano le reti sociali, è stato recentemente sottolineato dal Wall Street Journal [quotidiano USA più venduto e che si occupa principalmente di economia, ndtr.].

Il tipo sbagliato di discorso

I responsabili politici capiscono sempre di più il potere delle reti sociali, ragione per cui possono sfruttarlo al meglio per i propri fini. Dopo lo choc della vittoria elettorale di Trump alla fine del 2016, negli Stati Uniti e nel Regno Unito i dirigenti di Facebook, Google e Twitter sono stati regolarmente portati davanti a commissioni parlamentari di sorveglianza.

Queste reti sociali si vedono regolarmente rimproverare dai responsabili politici di essere all’origine di una crisi di “notizie false”, una crisi in realtà molto precedente alle reti sociali, come testimonia anche troppo chiaramente la truffa da parte dei responsabili politici americani e britannici che ha messo Saddam Hussein in relazione con l’11 settembre ed affermato che l’Iraq possedeva “armi di distruzione di massa”.

I responsabili politici hanno allo stesso modo cominciato ad accusare le società di internet di “ingerenza straniera” nelle elezioni in Occidente, rimproveri in genere rivolti alla Russia, nonostante la mancanza di prove serie che confermino la maggior parte delle loro affermazioni.

Pressioni politiche vengono esercitate non per rendere le imprese più trasparenti e responsabili, ma per spingerle ad applicare in modo ancora più assiduo restrizioni contro i discorsi sbagliati, che si tratti di razzisti violenti a destra o di detrattori del capitalismo e delle politiche dei governi occidentali a sinistra.

È per questo che diventa sempre più vuota l’immagine originale delle reti sociali come luoghi neutrali di condivisione delle informazioni, come strumenti che permettono di diffondere il dibattito pubblico e incrementare l’impegno civico, o ancora di sviluppare un discorso orizzontale tra ricchi e potenti da una parte e deboli ed emarginati dall’altra.

Diritti informatici differenti

È in Israele che i rapporti tra il settore delle tecnologie e i responsabili statali sono più evidenti. Ciò ha determinato una notevole differenza nel trattamento riservato ai diritti informatici degli israeliani e dei palestinesi. La sorte dei palestinesi in rete lascia presagire un futuro in cui quelli che sono già potenti eserciteranno un controllo sempre maggiore su ciò che dobbiamo sapere e siamo autorizzati a pensare, su chi può continuare ad essere visibile e chi deve essere cancellato dalla vita pubblica.

Israele era già in buona posizione nell’utilizzo delle reti sociali prima che la maggioranza degli altri Stati avesse riconosciuto la loro importanza in materia di manipolazione degli atteggiamenti e delle percezioni della gente. Per decenni Israele ha subappaltato un programma ufficiale di hasbara, o propaganda di Stato, ai propri cittadini e ai propri sostenitori all’estero. Con l’apparizione di nuove piattaforme informatiche, questi sostenitori non vedevano l’ora di espandere il proprio ruolo.

Israele ne poteva trarre un altro beneficio. Dopo l’occupazione della Cisgiordania, di Gerusalemme e di Gaza nel 1967, ha iniziato ad elaborare un discorso sulla vittimizzazione dello Stato, ridefinendo l’antisemitismo per far intendere che ormai questo male affliggesse in particolare la sinistra, e non la destra. Questo “nuovo antisemitismo” non prendeva di mira gli ebrei ma riguardava piuttosto le critiche nei confronti di Israele e il sostegno a favore dei diritti dei palestinesi.

Questo discorso molto discutibile si è dimostrato facile da sintetizzare in piccole frasi adatte alle reti sociali.

Israele definisce ancora correntemente “terrorismo” qualunque resistenza palestinese alla sua violenta occupazione o alle sue colonie illegali, descrivendo le dimostrazioni di sostegno da parte di altri palestinesi come “incitamento all’odio”. La solidarietà internazionale nei confronti dei palestinesi è definita “delegittimazione” ed equiparata all’antisemitismo.

Inondare internet”

Già nel 2008 si è scoperto che una lobby mediatica filo-israeliana, Camera, architettava iniziative segrete da parte di sostenitori di Israele per infiltrarsi nell’enciclopedia in rete Wikipedia per modificare delle voci e “riscrivere la storia” da un punto di vista favorevole a Israele. Poco dopo l’uomo politico Naftali Bennett [estrema destra dei coloni, ndtr.] ha contribuito a organizzare corsi di “revisione sionista” di Wikipedia.

Nel 2011 l’esercito israeliano ha dichiarato che le reti sociali costituiscono un nuovo “campo di battaglia” e ha incaricato dei “cyber-guerrieri” di condurre la battaglia in rete. Nel 2015 il ministero degli Affari Esteri israeliano ha organizzato un centro di comando supplementare per reclutare giovani ex-soldati ed esperti tecnologici all’interno dell’Unità 8200, unità di sorveglianza informatica dell’esercito, per condurre la battaglia in rete. Molti di loro hanno in seguito creato imprese di tecnologia avanzata, per cui informatici dello spionaggio hanno fatto parte integrante del funzionamento delle reti sociali.

Act.IL, un’applicazione lanciata nel 2017, ha permesso di mobilitare i sostenitori di Israele perché si “annidassero” in siti che ospitavano critiche verso Israele o sostegno per i palestinesi. Sostenuta dal ministero degli Affari Strategici di Israele, questa iniziativa era diretta da veterani dei servizi di informazione israeliani.

Secondo Forward, rivista ebrea americana, i servizi di informazione israeliani sono in stretto rapporto con Act.IL e chiedono aiuto per ottenere che le reti sociali ritirino alcuni contenuti, in particolare dei video. “Il suo lavoro offre finora un quadro impressionante del modo in cui potrebbero plasmare delle conversazioni in rete riguardo ad Israele senza mai farsi vedere”, ha osservato Forward poco tempo dopo l’implementazione dell’applicazione. Sima Vaknin-Gil, un’ex- censore dell’esercito israeliano che all’epoca era di stanza al ministero degli Affari Strategici di Israele, ha dichiarato che l’obiettivo era di “creare una comunità di combattenti” la cui missione consisteva nell’ “inondare internet” di propaganda israeliana.

Alleati volenterosi

Grazie a vantaggi in termini di effettivi e di zelo ideologico, di esperienza tecnologica e di propaganda, di influenze nelle alte sfere a Washington e nella Silicon Valley, Israele ha rapidamente potuto trasformare le reti sociali in alleati volonterosi nella sua lotta per emarginare i palestinesi in rete.

Nel 2016 il ministero della Giustizia israeliano si vantava che Facebook, Google e YouTube “si adeguano per il 95% alle richieste israeliane di eliminazione di contenuti,” questi ultimi provenienti quasi tutti da palestinesi. Le società che dirigono le reti sociali non hanno confermato questo dato.

L’Anti-Difamation League, un’associazione della lobby filo-israeliana che è solita calunniare le organizzazioni palestinesi e i gruppi ebraici critici con Israele, nel 2017 ha creato un “centro di comando” nella Silicon Valley per sorvegliare quelli che definisce “discorsi di odio in rete”. Lo stesso anno la lobby è diventata un “Trusted Flagger ” [lett. fidato segnalatore, persona o ente di cui una rete sociale accoglie le indicazioni, ndtr.] per YouTube, cosa che significa che le sue segnalazioni su contenuti da ritirare sono diventate prioritarie.

Durante una conferenza organizzata a Ramallah nel 2018 da 7amleh, un gruppo palestinese di difesa dei diritti in rete, i rappresentanti locali di Google e Facebook non hanno affatto nascosto le rispettive priorità. Per loro era importante evitare di contrariare i governi che hanno il potere di limitare le loro attività commerciali, anche se questi governi si dedicano a sistematiche violazioni del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo. In questa battaglia l’Autorità Nazionale Palestinese non ha alcun peso. Israele ha messo le mani sulle infrastrutture della comunicazione e internet dei palestinesi, ne controlla l’economia e le principali risorse.

Dal 2016 il ministero della Giustizia israeliano avrebbe eliminato decine di migliaia di post da parte di palestinesi. Attraverso un processo assolutamente oscuro, Israele individua con i propri algoritmi i contenuti che ritiene “estremisti” e poi ne chiede la cancellazione. Centinaia di palestinesi sono stati arrestati da Israele dopo che avevano pubblicato commenti sulle reti sociali, con la conseguenza di limitare l’attività in rete.

Alla fine dello scorso anno Human Rights Watch [nota Ong britannica che si occupa di diritti umani, ndtr.] ha informato che Israele e Facebook spesso non fanno alcuna differenza tra critiche legittime a Israele e istigazione all’odio. Al contrario, mentre Israele svolta sempre più a destra, il governo Netanyahu e le reti sociali non hanno bloccato l’ondata di messaggi in ebraico che incitano all’odio e alla violenza contro i palestinesi. Come ha rilevato 7anleh, contenuti razzisti o che incitano alla violenza contro i palestinesi sono pubblicati da israeliani quasi ogni minuto.

Account di agenzie di stampa chiusi

Oltre a cancellare decine di migliaia di post di palestinesi, Israele ha convinto Facebook a ritirare gli account delle agenzie di stampa e di giornalisti palestinesi di spicco.

Nel 2018 l’opinione pubblica palestinese si è talmente indignata che, con l’hashtag #FBcensorsPalestine, è stata lanciata una campagna di proteste in rete e di appelli al boicottaggio di Facebook.

Nello stesso modo negli Stati Uniti e in Europa è stato preso di mira l’attivismo solidale con i palestinesi. Le pubblicità di film, come i film stessi, sono stati ritirati ed eliminati dai siti web.

In settembre Zoom, un sito di videoconferenze che ha conosciuto un boom durante la pandemia di COVID-19, si è unito a YouTube e Facebook per censurare un webinar organizzato dall’università statale di San Francisco con la partecipazione di Leila Khaled, icona del movimento della resistenza palestinese, che oggi ha 76 anni.

A fine ottobre Zoom ha bloccato una seconda apparizione prevista di Khaled, questa volta in un webinar dell’università delle Hawaii e dedicato alla censura, come una serie di altri eventi organizzati negli Stati Uniti per protestare contro la sua cancellazione da parte del sito. Con un comunicato pubblicato riguardo alla giornata di lotta, i campus “si sono uniti alla campagna per resistere al soffocamento dei discorsi e delle voci palestinesi nelle imprese e nelle università.”

Questa decisione, che costituisce un attacco flagrante alla libertà accademica, sarebbe stata presa in seguito a forti pressioni esercitate sulle reti sociali dal governo israeliano e da gruppi di pressione antipalestinesi, che hanno giudicato “antisemita” il webinar.

Villaggi cancellati dalla mappa

Il livello in cui la discriminazione dei giganti tecnologici contro i palestinesi è strutturale e radicato è stato messo in evidenza dalla lotta condotta da molti anni dagli attivisti per includere i villaggi palestinesi nelle mappe in rete e sui GPS, ma anche per attribuire ai territori palestinesi il nome di “Palestina”, in base al riconoscimento della Palestina da parte delle Nazioni Unite.

Questa campagna segna notevolmente il passo, anche se più di un milione di persone ha firmato una petizione di protesta. Sia Google che Apple resistono strenuamente a queste richieste: centinaia di villaggi palestinesi non compaiono sulle loro mappe della Cisgiordania occupata, mentre le illegali colonie israeliane sono identificate nel dettaglio e viene loro accordato lo stesso status delle comunità palestinesi che vi si trovano.

I territori palestinesi occupati sono indicati sotto il nome di “Israele”, mentre Gerusalemme est viene presentata come la capitale unificata e indiscussa di Israele, come esso pretende, cosa che rende invisibile l’occupazione della parte palestinese della città.

Queste decisioni sono tutt’altro che neutrali sul piano politico. Da molto tempo i governi israeliani perseguono un’ideologia del “Grande Israele” che esige di cacciare i palestinesi dalle loro terre. Questo programma di spoliazione, inteso ad annettere intere parti della Cisgiordania, quest’anno è stato formalizzato dai progetti sostenuti dall’amministrazione Trump.

Nei fatti Google ed Apple sono conniventi con questa politica, contribuendo a cancellare la presenza visibile dei palestinesi nella loro patria. Come di recente hanno evidenziato George Zeidan ed Haya Haddad, due accademici palestinesi, “quando Google ed Apple cancellano dei villaggi palestinesi dal loro sistema di navigazione identificando in evidenza le colonie, si rendono complici del discorso nazionalista israeliano.”

Rapporti usciti dall’ombra

I rapporti sempre più stretti tra Israele e le imprese delle reti sociali si giocano in gran parte dietro le quinte. Ma questi legami sono usciti dall’ombra in modo decisivo lo scorso maggio, quando Facebook ha annunciato che il suo nuovo organo di vigilanza include Emi Palmor, una degli architetti della politica repressiva in rete condotta da Israele contro i palestinesi.

Questo organo di vigilanza prenderà decisioni che faranno giurisprudenza e contribuiranno a forgiare le politiche di Facebook e di Instagram in tema di censura e di libertà d’espressione. Ma in quanto ex-direttrice generale del ministero della Giustizia [israeliano], Emi Palmor non ha dimostrato alcun impegno in favore della libertà d’espressione in rete.

Al contrario: ha lavorato mano nella mano con i giganti della tecnología per censurare i post dei palestinesi e chiudere i siti d’informazione palestinesi. Ha supervisionato la trasformazione del suo dipartimento in quello che l’organizzazione per la difesa dei diritti dell’uomo Adalah ha paragonato al “ministero della Verità” orwelliano.

Le imprese tecnologiche sono ormai arbitre non dichiarate della nostra libertà d’espressione, motivate dal profitto. Non si impegnano a favore di un dibattito pubblico aperto e vivace, di una trasparenza in rete o di una maggiore partecipazione civica. Il loro unico impegno consiste nel mantenere un contesto commerciale che permetta loro di evitare che le norme decise dai principali governi danneggino il loro diritto a guadagnare dei soldi.

La nomina di Palmor evidenzia perfettamente il rapporto inficiato dalla corruzione tra il governo e le reti sociali. I palestinesi sanno benissimo come sia facile per l’industria tecnologica attenuare e far sparire le voci dei deboli e degli oppressi amplificando nel contempo quelle dei potenti.

Molti di noi potrebbero presto conoscere in rete la stessa sorte dei palestinesi.

– Jonathan Cook è un giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001. Ha scritto tre opere sul conflitto israelo-palestinese ed ha ottenuto il premio speciale del giornalismo Martha Gellhorn.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




La sospensione di Corbyn caratterizzerà Starmer come la guerra in Iraq fece con Blair

David Hearst

2 novembre 2020 – Middle East Eye

Il silenzio di Keir Starmer sulla Palestina e il modo in cui tratta il suo predecessore hanno messo il leader laburista in rotta di collisione con molti compagni di partito

Uno degli aspetti meno conosciuti dell’attacco di Keir Starmer alla sinistra del suo partito da quando è diventato leader dei laburisti è il suo crescente silenzio sulla Palestina.

Zittire la lobby palestinese nel Regno Unito è sempre stato l’obiettivo del Ministero degli Affari Strategici israeliano che ha fatto di tutto per condizionare le discussioni su Israele all’interno del Labour Party.

Nel 2017, un documentario di Al Jazeera rivelò gli sforzi di Shai Masot, l’uomo del ministero a Londra, per dar vita a un’organizzazione giovanile nel Labour Party. Masot fu anche ripreso da un reporter sotto copertura mentre diceva di aver intenzione di “far cadere” quei ministri e parlamentari che si pensava creassero “problemi” a Israele.

Quando Masot fu beccato ed espulso, fu creato un feed sugli incontri avvenuti fino a dieci anni prima fra palestinesi e Jeremy Corbyn quando era un parlamentare, ma nelle retrovie del suo partito, per provocare scalpore nei confronti dell’allora capo laburista.

Questo feed era stato costruito ad arte.

Quando Corbyn incontrò tre politici di Hamas a cui i documenti di identità di Gerusalemme era stati revocati e avevano inscenato una protesta in una tenda della Croce Rossa (all’epoca fu un caso famoso e molti israeliani andarono a manifestare la propria solidarietà), la presenza di un secondo parlamentare laburista, Andy Slaughter, non un alleato di Corbyn, ma solidale con i palestinesi, fu rimossa dai reportage britannici.

Una foto di Slaughter apparve però durante un’esclusiva dell’emittente israeliana i24 sulla “visita segreta di Corbyn” in una trasmissione del 2018, cioè otto anni dopo la visita dei parlamentari nel novembre 2010.

Il ruolo dello Shin Bet

I dettagli precisi della visita di Corbyn in Israele nel 2010, compresi i partecipanti, gli organizzatori e chi avevano incontrato, furono monitorati e registrati dallo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano.

Quando queste visite terminarono, lo Shin Bet invitò la persona di riferimento locale di Corbyn per quello che si rivelò essere un interrogatorio di cinque ore in una stazione di polizia ad Haifa.

Lo Shin Bet le disse che non aveva problemi con il suo lavoro a favore della causa palestinese, ma che non avrebbe tollerato che facesse propaganda nelle aule parlamentari del Regno Unito.

Se non avesse tenuto conto dell’avvertimento, avrebbe passato il resto dei suoi giorni in prigione come nemica dello Stato. Il suo avvocato le disse che in effetti avrebbero potuto fabbricare una simile accusa contro di lei e che, se fosse successo, un tribunale israeliano l’avrebbe mandata in prigione. Lei è cittadina israeliana.

Se non altro gli avvertimenti dati al contatto di Corbyn confermano che i servizi di sicurezza israeliani tenevano d’occhio il parlamentare almeno da cinque anni prima che diventasse il leader del Labour e molto prima che l’antisemitismo in quel partito diventasse un tema degno di nota.

Nessuno nel partito era interessato ai viaggi di Corbyn, che certo non erano un segreto. Sedeva all’opposizione, ai margini del partito. Solo lo Shin Bet ne prese atto.

La campagna diffamatoria è stata meravigliosamente efficace. Naturalmente molti gruppi vi hanno partecipato per ragioni diverse, persone indifferenti al conflitto in Palestina per il quale in precedenza non avevano mai mostrato alcun interesse.

Il materiale compromettente dei passati contatti di Corbyn non avrebbe avuto alcun peso se non ci fosse stata la volontà all’interno del partito e nel quartier generale Labour di bloccare Corbyn a tutti i costi. Ma nel complesso ha funzionato.

In un sondaggio condotto l’anno scorso Survation [agenzia londinese di sondaggi e ricerche di mercato, ndtr.] ha chiesto a cittadini britannici a conoscenza dell’antisemitismo nel Labour quale fosse la percentuale di membri del partito che avessero ricevuto accuse in merito.

La media delle risposte fu: “il 34%”. La cifra reale è meno dell’1%. La percezione dell’antisemitismo nel partito di Corbyn è stata sovrastimata di 300 volte rispetto a quella reale.

Palestina perduta

Da quando è diventato leader, Keir Starmer ha evitato contatti con leader palestinesi sia in Israele che in Inghilterra.

Starmer ha avuto due opportunità per occuparsene.

Il 26 giugno 2020, 15 membri della Knesset, il parlamento israeliano di cui fa parte la Lista Unita, hanno scritto a tutti i leader dei partiti del Regno Unito sollecitandoli a “contrastare attivamente ” i tentativi di annessione unilaterale dei territori da parte di Israele.

La Lista Unita, la principale coalizione che rappresenta i palestinesi cittadini di Israele, è il terzo gruppo per numero di parlamentari. La lettera è stata spedita da Yousef Jabareen, capo del comitato internazionale della Lista Unita.

Il primo ministro Boris Johnson ha incaricato di rispondere uno dei suoi ministri, James Cleverly, sottosegretario per il Medio Oriente e il Nord Africa.

Noi continuiamo a sollecitare Israele a non compiere questi passi. Il primo ministro ha espresso in numerose occasioni al primo ministro Netanyahu l’opposizione britannica alle annessioni unilaterali,” ha scritto Cleverly.

Starmer non ha risposto allora e deve ancora rispondere adesso. Jabareen ha ricevuto una risposta automatica dall’ufficio di Starmer in cui gli si diceva che il politico riceve centinaia di email al giorno.

Il 16 settembre, un gruppo di eminenti palestinesi britannici, molti dei quali, ma non tutti, membri del Labour, ha scritto una lettera aperta al partito insistendo sul “diritto dei palestinesi di illustrare con precisione le nostre esperienze di espropriazione e oppressione” e respingendo i tentativi laburisti di confondere anti-sionismo e antisemitismo.

La lettera era accompagnata da mail a Starmer in cui si chiedeva un incontro. È stato loro risposto che Starmer era troppo occupato per incontrarli. Gli è stato detto di rivolgersi a Lisa Nandy, ministra degli Esteri ombra, ma anche lei si è rifiutata di incontrarli.

Una ramanzina’

Comunque, quando Stephen Kinnock, appartenente alla destra del partito e feroce critico di Corbyn, ha chiesto un dibattito parlamentare perché il Regno Unito “vieti tutti i prodotti che provengono da colonie israeliane nei territori occupati”, Nandy ha trovato il tempo per intervenire.

Secondo una fonte citata da MailOnline [sito in rete del giornale britannico di destra Daily Mail, ndtr.], Nandy ha scritto al Board of Deputies of British Jews [comitato dei deputati degli ebrei britannici ndtr.] e al Jewish Leadership Council [Consiglio dei leader ebrei] che Kinnock, da lungo tempo coerente critico delle politiche di Israele verso i palestinesi, si è preso una bella “ramanzina ” per le sue affermazioni durante il dibattito ai Comuni.

“Lisa non ha nascosto il fatto che lei e il leader fossero arrabbiati con Kinnock,” secondo la fonte.

“Specialmente dopo tutto il lavoro fatto per cercare di ripristinare le relazioni del Labour con la comunità ebraica.”

Si disse che Starmer fosse “infuriato”.

La stessa Andy ha proposto un divieto alle importazioni di merci provenienti dalle colonie illegali della Cisgiordania, ma solo se Israele avesse proceduto all’annessione.

L’unico intervento di Starmer in questo dibattito è stato quando gli è stato chiesto delle sanzioni da Jewish News [quotidiano e sito web ebraici molto noti in Gran Bretagna ndtr.] e lui ha invece sottolineato la necessità di mantenere un “buon rapporto di lavoro con Israele”.

Starmer ha detto: “Io non sono d’accordo con l’annessione e non penso sia un bene per la sicurezza nella regione, e penso che sia molto importante che noi lo diciamo.

Se ne seguiranno sanzioni è un’altra questione, ma al momento risolviamola nel modo corretto. Ma questo non è per il bene della sicurezza nella regione. Quella dovrebbe avere la massima priorità.”

Quando incalzato, ha aggiunto: “Abbiamo bisogno di un’ottima relazione di lavoro e dobbiamo essere in grado di scambiarci punti di vista con franchezza, come si farebbe con un alleato, e io penso che su alcuni di questi temi quello di cui noi abbiamo maggiormente bisogno è uno scambio franco.”

Storia del partito laburista

Lunedì 2 novembre c’è stato il 103° anniversario della Dichiarazione di Balfour che impegnava il governo britannico a sostenere un focolare ebraico in Palestina.

Il documento del 1917 precede l’emergere del Labour come forza politica negli anni successivi alla prima guerra mondiale, ma il partito ha una sua storia in Medio Oriente che nessun leader può ignorare.

Nel 1944, quando il territorio della Palestina era ancora sotto controllo britannico, il comitato esecutivo nazionale aveva presentato una mozione, approvata dalla conferenza, che diceva: “Sicuramente la Palestina è un problema per il trasferimento di popolazione, per motivi umani e per promuovere un insediamento stabile. Che gli arabi siano incoraggiati ad andarsene, mentre gli ebrei si trasferiscono. Che siano lautamente compensati per le loro terre e che il loro reinsediamento altrove sia attentamente organizzato e finanziato generosamente.”

Ma ha una storia ancora più recente di questa.

La sospensione di Corbyn la scorsa settimana dopo il rapporto sull’antisemitismo della Commissione per i diritti umani e l’uguaglianza (EHRC) contrasta con il trattamento riservato da Corbyn a Tony Blair che, in qualità di ex primo ministro laburista, fu criticato molto severamente nel 2016 dal rapporto Chilcot per la sua decisione di invadere l’Iraq nel 2003.

John Chilcot, ex alto diplomatico, fece a pezzi Blair arrivando quasi ad accusarlo di aver mentito al parlamento.

Chilcot disse che Saddam Hussein al tempo dell’invasione “non costituiva alcuna minaccia imminente” e rivelò una nota privata che Blair aveva mandato a Bush nel luglio 2002 che diceva: “Sarò comunque con te.”

In una conferenza stampa di due ore in seguito alla pubblicazione del rapporto, Blair non si dichiarò pentito. “Credo di aver preso la decisione giusta e che il mondo sia migliore e più sicuro,” dichiarò.

Sostenne di aver agito in buona fede, basandosi sulle informazioni dell’epoca che dicevano che il presidente dell’Iraq aveva armi di distruzioni di massa. Questo “si rivelò poi errato.”

Sospensione di Corbyn

Corbyn ha presentato sincere scuse da parte del partito per la decisione di invadere l’Iraq.

Ha detto: “Quindi ora presento sincere scuse da parte del mio partito per la disastrosa decisione di entrare in guerra contro l’Iraq nel marzo 2003. Queste scuse sono dovute prima di tutto al popolo dell’Iraq. Centinaia di migliaia di vite sono state perse e il Paese vive ancora le devastanti conseguenze della guerra e delle forze che ha scatenato. Sono loro ad aver pagato il prezzo più alto per il più grave disastro in politica estera negli ultimi 60 anni.”

Ha continuato: “Le scuse sono anche dovute alle famiglie di quei soldati che sono morti in Iraq o che sono ritornati a casa feriti o handicappati. Hanno compiuto il loro dovere, ma in una guerra in cui non avrebbero mai dovuto essere mandati.”

Blair all’epoca era solo un membro del partito ed era nella stessa situazione di Corbyn la scorsa settimana.

Però Corbyn non ha sospeso Blair perché non aveva chiesto scusa e pronunciato parole che andavano contro la linea del partito.

Invece è successo l’opposto. Il “partito della guerra ” nel Labour Party è andato all’offensiva contro la leadership.

I parlamentari che avevano appoggiato la guerra in Iraq e che avevano sempre votato contro le commissioni di inchiesta, si sono scagliati contro Corbyn.

Dei 71 parlamentari che votarono la sfiducia contro Corbyn nel 2016 e che erano in parlamento nel 2003, il 92% aveva votato a favore della guerra e sette contro.

Per giustificare la sua decisione di sospendere Corbyn, Starmer ha detto che l’ex leader aveva disobbedito alla sua risposta al rapporto dell’EHRC, in cui condannava chiunque tentasse di sostenere che l’antisemitismo era stato esagerato per motivi politici.

La notte precedente la pubblicazione del rapporto, Starmer ha telefonato a Corbyn per dirgli che non l’avrebbe citato nella sua dichiarazione in risposta al rapporto dell’EHRC. Corbyn e il suo team avevano ripetutamente chiesto a Starmer cosa avrebbe detto nella sua dichiarazione. Starmer aveva risposto che gli avrebbe mandato il testo.

Anche la vice segretaria Angela Rayner aveva promesso al team di Corbyn che avrebbe mandato il testo di Starmer. Nessuno dei due l’ha fatto. Le reazioni dei due uomini erano quindi in rotta di collisione.

Sembra che sia stato Corbyn a disobbedire alla leadership, anche se al momento di parlare non aveva idea di cosa Starmer avrebbe detto su un punto chiave che ha determinato il loro scontro.

Di conseguenza Corbyn non si è tirato indietro, ma c’è una possibilità che il gruppo di Starmer sapesse cosa avrebbe detto, mentre Corbyn è stato tenuto all’oscuro fino a quando era troppo tardi.

La sinistra controbatte

Corbyn non si è difeso contro le accuse di aver tollerato l’antisemitismo o di essere lui stesso un antisemita, affermazioni ripetute ancora oggi. Dato che ha permesso a questa campagna di procedere incontrastata fino all’Alta Corte, lui stesso è responsabile.

Il giorno della sospensione di Corbyn, La Campagna Contro l’Antisemitismo che ha originariamente presentato denuncia all’EHRC, ha scritto a Starmer e David Evans, il segretario generale, chiedendo di investigare 32 membri del partito laburista, inclusa Angela Rayner, l’attuale vice di Starmer, e altri 10 parlamentari. 

In risposta, sette membri di sindacati affiliati al partito laburista e uno che ha appoggiato Starmer come candidato [a segretario], hanno reso pubblica una dichiarazione in cui esprimono una “seria preoccupazione” sul modo e il motivo della sospensione di Corbyn, affermando che essa ha minato l’unità del partito e il processo democratico.

Molto diversa dalla “Clausola 4” che Tony Blair con il suo New Labour aveva usato per definire l’abbandono dello storico impegno del partito per la proprietà statale di industrie chiave, la sospensione di Corbyn potrebbe caratterizzare la leadership di Starmer come la decisione di Blair di invadere l’Iraq, gettando un’ombra su tutto quello che ha fatto un uomo eletto tre volte primo ministro. Gli spettri dell’Iraq perseguitano Blair ancor oggi.

A parte il destino di Corbyn, il sostegno alla Palestina nel partito è molto maggiore di quello che Starmer vorrebbe. La Palestina che lui conosce molto meno di Corbyn è il suo tallone di Achille.

A meno che Corbyn non venga riammesso rapidamente, la decisione di sospenderlo dal partito potrebbe macchiare permanentemente e definitivamente la leadership di Starmer.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Ha lasciato The Guardian come caporedattore esteri. Nel corso di 29 anni di carriera ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato dell’IRA contro la Thatcher il 12 ottobre 1984 con l’uccisione di 5 membri del Partito Conservatore, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sulla violenta reazione lealista in seguito all’accordo anglo-irlandese nell’Irlanda del Nord, sui primi scontri in Slovenia e Croazia dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, sul crollo dell’Unione Sovietica, sulla Cecenia, e sui conseguenti molteplici conflitti. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per la sezione europea del Guardian, poi è entrato a far parte dell’ufficio di Mosca nel 1992, prima di diventare direttore di redazione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nell’ufficio esteri, è diventato direttore per l’Europa e quindi direttore associato per gli esteri. È passato a The Guardian da The Scotsman, dove aveva lavorato come corrispondente per il settore istruzione.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La politica degli scioperi della fame

  Richard Falk

28 ottobre  2020 | Global Justice in the 21st Century  

Prima parte della mia Prefazione a A Shared Struggle: Stories of Palestinian and Irish Hunger Strikesdi Norma Hashim & Yousef M. Aljami, e pubblicata come articolo d’opinione da PoliticsToday il 27.10.20. Durante i miei 6 anni come Special Rapporteur ONU per la Palestina Occupata, trovavo fastidioso il silenzio dei media occidentali sugli scioperi della fame palestinesi, specialmente quando queste espressioni estreme di resistenza nonviolenta erano in reazione a restrizioni carcerarie attuate con decreto amministrativo, cioè senza accuse né prove per l’incriminazione.

Cogliere il senso degli scioperi della fame e della politica simbolica

Circostanze disperate danno luogo a comportamenti disperati. Se da parte di stati, i comportamenti di violenza estrema tendono ad essere razionalizzati come ‘autodifesa’, ‘necessità militare’, o ‘controterrorismo’, e le istanze di autorizzazione legale vengono trattate in modo appropriato. Qualora si tratti di atti di resistenza, addirittura nonviolenti, di persone che hanno a che fare con movimenti dissidenti, allora l’ordine stabilito e i suoi media di sostegno descrivono per routine tali atti come ‘terrorismo’, ‘criminalità’, ‘fanatismo’ criminalizzandone il comportamento, o se va bene esponendolo al disprezzo dell’ordine stabilito degli stati sovrani.


(Foto by Majdi Fathi/NurPhoto via Getty Images)

[Foto di murales ritraenti il palestinese 49enne Maher Al-Akhras carcerato da Israele, in sciopero della fame da 84 giorni (a Gaza City al 18 ott. 2020) per protesta alla sua detenzione senza processo]

Le forme statuali di lotta si basano sempre sulla violenza per sgominare il nemico, mentre la disperazione della resistenza talvolta assume la forma di infliggersi del male per indurre vergogna nell’oppressore affinché si moderi o alla fine magari smetta, non per empatia o cambiamento d’animo ma per timore di alienarsi l’opinione pubblica, intensificando la resistenza, perdendo legittimità internazionale, affrontando sanzioni.

È contro questo quadro di fondo che dobbiamo capire il ruolo dello sciopero della fame nel più ampio contest della resistenza a tutte le forme di governance oppressiva, sfruttatrice, crudele. Le lunghe lotte in Nord-Irlanda e Palestina sono fra gli esempi più amari di tali strette politiche che hanno catturato l’immaginazione morale di molte persone di coscienza fin dalla metà del secolo scorso.

Gli attivisti incarcerati che ricorrono allo sciopero della fame, individualmente o in collaborazione, sono ben consci di star imboccando un’opzione d’ultima istanza, che mostra nettamente la disponibilità a sacrificare la salute, l’integrità fisica e addirittura la vita per obiettivi ritenuti più importanti. Tali obiettivi di solito riguardano la salvaguardia della dignità o dell’onore di gente soggiogata o la mobilitazione di sostegno a una causa/lotta collettiva per la libertà, i diritti, l’uguaglianza. Uno sciopero della fame è una forma estrema di nonviolenza, comparabile solo con atti politicamente motivati di auto-immolazione, fisicamente nocivi solo a sé stessi, eppure capaci in determinate circostanze d’illimitato potenziale simbolico per mutare comportamento e dar luogo a imponenti manifestazioni di scontento di una popolazione che si crede riuscitamente repressa. Teli tattiche disperate sono integrali alle lotte per i diritti essenziali e alla resistenza a condizioni oppressive sia in Palestina sia in Nord-Irlanda.

(Si legga: Israeli Occupation and the Palestinian Identity)

Una verità non riconosciuta eppur vitale della storia recente è che politiche simboliche hanno spesso determinato gli esiti di lotte protratte contro attori statuali oppressivi che detengono un controllo dominante sulle zone di combattimento e una superiorità incontestata in quanto ad armi e capacità militari. E tuttavia pur con tali vantaggi in potere materiale ritenuti decisive in quel tipo di conflitto, continuano a subire alla fine una sconfitta politica. Può essere utile ricordare che l’auto-immolazione di monaci buddhisti a Saigon durante gli anni 1960 fu considerata uno spasmo della cultura in reazione all’intervento militare a guida americana. Che condusse gli studiosi vietnamiti a interpretare questi atti estremi di individui solitari, dotati della massima autorevolezza in termini di civiltà, come elementi di effettivo spostamento nell’equilibrio di forze in Vietnam in modi che allora e lì condannarono l’apparentemente irresistibile determinazione americana di controllare il futuro politico del Vietnam. Tali atti non posero fine alla guerra, ma segnalarono a coloro con antenne nella cultura vietnamita un esito contrario alle aspettative dei programmatori di guerra di Washington. Tragicamente, prima di riconoscere la sconfitta, la Guerra [USA] del Vietnam persistette per un decennio, devastando il paese e arrecando gran sofferenze al popolo del Vietnam. L’auto-immolazione, darsi fuoco come esempio irreversibile di proprio sacrificio, porta a conclusione la logica dello sciopero della fame. Secondo il suo autore e il contesto, l’auto-immolazione si può interpretare o come espressione di assoluta disperazione o come uno straziante appello a una pace giusta.

Fu l’auto-immolazione di un semplice verduriere ambulante, Mohamed Bouazizi nella città tunisina di Sidi Bouzid il 17 dicembre 2010 che richiamò l’attenzione alle deplorevoli condizioni del popolo tunisiano, innescando un’insurrezione nazionale che scacciò dal potere un dittatore corrotto, Ben Ali. Bouazizi, senza motivazione politica né l’autorevolezza spiritual dei monaci buddhisti, accese le mobilitazioni populiste che infuriarono nel mondo arabo nel 2011. In qualche modo l’auto-sacrificio del tutto personale di Bouazizi mise a fuoco l’intera regione. Una tale reazione non poteva essere predetta né fu programmata, eppure fu in seguito interpretata come generatrice di risposte rivoluzionarie a condizioni sottostanti intollerabili.

Senza dubbio, l’esempio supremo di politica simbolica trionfante in tempi moderni è stato lo straordinario movimento di resistenza e liberazione guidato da Gandhi che fuse i suoi scioperi della fame a oltranza con spettacolari forme nonviolente di azione collettiva (per esempio, la ‘marcia del sale’ del 1930), compiendo ciò che pareva impossibile al tempo, ridurre in ginocchio l’Impero Britannico, e così facendo restituire statualità indipendente e sovranità all’India.

(Si legga: Expanding Definitions of Anti-Semitism Shield Israel from Its Crimes)

Sia gli oppressi che gli oppressori imparano dai successi e dai fallimenti passati di politica simbolica. Gli oppressi ci vedono un estremo e nobilitante approccio alla resistenza e liberazione. Gli oppressori imparano che le guerre sovente non vengono decise da chi vince sui campi di battaglia bensì dal versante che si procura un vantaggio decisive simbolicamente in quelle che ho prima definito ‘guerre di legittimazione’. Con tale nozione della propria vulnerabilità, gli oppressori reagiscono, diffamano e usano violenza per distruggere con ogni mezzo la volontà di resistenza degli oppressi, specialmente ove le poste in gioco comportino cedere il livello morale e legale superiore. La dirigenza israeliana ha imparato, specialmente, dal crollo dell’apartheid sudafricana a non pendere alla leggera la politica simbolica.

Israele è stato particolarmente privo di scrupoli nelle proprie reazioni alle sfide simboliche al proprio abusivo regime di controllo apartheid. Israele, col sostegno USA, ha montato una ripulsa diffamatoria a livello mondiale contro le critiche all’ONU o da parte di difensori dei diritti umani per il mondo, giocando spudoratamente la ‘carta antisemita’ nel tentativo di distruggere gli sforzi solidali nonviolenti come la campagna pro-palestinese BDS modellata su un’iniziativa che aveva mobilitato un’opposizione mondiale all’apartheid sudafricana.

In modo evidente, nel caso sudafricano la tattica BDS fu messa in questione per l’efficacia e l’ appropriatezza, ma i suoi organizzatori e quasi tutti i sostenitori più militanti non furono mai diffamati e tanto meno criminalizzati. Questo riconoscimento d’Israele della potenzialità della politica simbolica ha ostruito le lotte di liberazione palestinesi nonostante quelle che sembrerebbero realtà vantaggiose dell’assetto post-coloniale. La versione israeliana del regime di apartheid si è evoluta come necessario effetto laterale dell’istituzione di uno stato ebraico esclusivista in uno stato non-ebraico. Tale progetto Sionista richiedeva che il popolo palestinese divenisse vittima dello spostamento colonialista operato nella sua stessa patria.  Israele ha imparato dall’esperienza sudafricana le tecniche di gerarchizzazione e repressione razziale, essendo anche conscio delle vulnerabilità degli oppressori a forme intense di nonviolenza che validavano la resistenza perseverante di quegli oppressi. Israele è ben deciso a non ripetere il crollo dell’apartheid sudafricano, e perciò gli è necessaria la sola repressione dei resistenti ma la demoralizzazione dei sostenitori.

Una realtà simile esisteva in Nord-Irlanda dove i ricordi delle colonie perse verso avversari più deboli pian piano insegnò al Regno Unito lezioni di accommodamento e compromesso, che indussero i leader di Londra a spostare il proprio punto focale dal controterrorismo alla diplomazia, con l’acme drammatico dell’Accordo del Venerdì Santo nel 1998. Israele non è il Regno Unito, e gli irlandesi non sono i palestinesi. Israele mostra nessuna disponibilità a concedere al popolo palestinese i diritti più elementari, tuttavia perfino Israele non vuole essere umiliato in modi che possono stimolare l’opinione pubblica a passare oltre la retorica della censura verso effettive sanzioni. Il Servizio Carcerario israeliano non vuole che scioperanti della fame muoiano in prigionia, non per empatia, ma per evitare cattiva pubblicità.  A tale scopo le autorità carcerarie israeliane faranno concessioni, arrivando perfino al rilascio, allorché uno scioperante della fame pare temibilmente vicino alla morte, e precedenti tentativi di alimentazione forzata sono falliti. Le prospettive palestinesi dipendono più che mai dal tentare e conseguire vittorie nell’ambito della politica simbolica, e Israele, con l’aiuto degli Stati Uniti, farà di tutto per nascondere questa sconfitta in questa che è la più lunga fra le guerre di legittimazione.

E’ su tale sfondo che sono emersi i contributi palestinese e irlandese nel sottolineare l’essenziale somiglianza di queste due epiche lotte anti-coloniali. Ciò che dà autorità e potere persuasive alle storie degli scioperanti della fame palestinesi e irlandesi è l’autenticità derivante dalle parole di questi uomini e donne coraggiosi che hanno scelto d’intraprendere scioperi della fame in situazioni di disperazione e hanno provato non solo il tormento che aguzza lo spirito ma la perdita di compagni caduti, martirizzati, delle famiglie affrante dal dolore, e il loro comune sforzo di impegnarsi nelle vaste lotte per i diritti e la libertà in corso fuori dalle mura delle loro prigioni.

Pur con le ampie differenze fra le loro rispettive lotte contro l’oppressione, le analogie della risposta hanno creato il più profondo dei legami, specialmente degli irlandesi verso i palestinesi con una realtà oppressiva più grave, legame che si è mostrato più durevole benché i sogni degli irlandesi restino ampiamente irrealizzati. Al tempo stesso, l’esempio d’ispirazione degli scioperanti della fame irlandesi che non abbandonarono la propria ricerca di giustizia elementare alle soglie della morte non è andato perduto dai palestinesi.

Richard Falk

Richard Falk è membro del TRANSCEND Network, studioso di relazioni internazionali, professore emerito di diritto internazionale all’Università di Princeton, Distinguished Research FellowOrfalea Center of Global Studies, UCSB, autore, coautore o editore di 60 libri e relatore e attivista per gli affari mondiali. Nel 2008, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC) ha nominato Falk per due periodi di tre anni come relatore speciale delle Nazioni Unite sulla «situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967». Dal 2002 vive a Santa Barbara, in California, e si è associato con il campus locale dell’Università della California, e per diversi anni ha presieduto il Board of the Nuclear Age Peace Foundation. Il suo libro più recente è On Nuclear Weapons, Denuclearization, Demilitarization and Disarmament (2019)

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis




L’UE ignora la sentenza della Corte sul diritto a boicottare Israele

David Cronin

29 ottobre 2020 – Electronic Intifada

La brama di Donald Trump di compiacere Israele è stata oscena ma divertente.

Talvolta è stato impossibile non vedere, con un insieme di orrore e diletto, come un presidente facesse a pezzi le convenzioni della diplomazia.

Nel 2017 Trump ha ammesso che non gli importa se ci sarà una soluzione a uno o due Stati, facendo questa insulsa osservazione: “Mi piace quella che piace ad entrambe le parti.”

L’anno seguente si è vantato di aver ridotto il costo dello spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme. Non importa che Trump usi le risoluzioni ONU come carta igienica, ha ancora un occhio di riguardo per le transazioni immobiliari.

E ora Trump ha messo in dubbio che Joe Biden avrebbe potuto mediato un accordo di “normalizzazione” tra Israele e il Sudan. Così come lo ha spacciato come un trionfo per la pace, Trump ha cercato (in questo caso senza successo) di tirare qualche cazzotto a “Sleepy Joe” [Sonnolento Joe, nomignolo spregiativo con cui Trump chiama Biden, ndtr.].

Parzialità

Per ragioni puramente egoistiche spero che i decisori politici dell’UE si esibiscano in alcune delle bravate di Trump. Mentre lui mi fa ridacchiare, il loro comportamento mi ha fatto diventare un incorreggibile brontolone.

La scorsa settimana è stato riportato che Frontex, l’agenzia dell’UE per il controllo dei confini, sta collaborando con l’industria bellica israeliana. L’agenzia ha concesso un totale complessivo di 118 milioni di dollari al principale esportatore israeliano di armi, Elbit System, e a un consorzio tra Israel Aerospace Industries [principale industria aeronautica israeliana, di proprietà statale, ndtr.] e alla multinazionale Airbus.

Aerei da guerra testati sui palestinesi verranno molto probabilmente utilizzati per contribuire a bloccare i rifugiati che raggiungono le coste europee, anche se questo è un dettaglio che vi sarebbe sfuggito se aveste letto l’articolo di The Guardian su questi contratti.

L’evidente parzialità delle autorità e dei media nei confronti di Israele rende il boicottaggio dei suoi prodotti ed istituzioni ancora più impellente. Il problema è che queste autorità stanno attivamente cercando di compromettere il boicottaggio.

Durante l’estate ho inviato una protesta a Margaritis Schinas, vicepresidente della Commissione Europea. La mia denuncia si concentrava su un discorso poco pubblicizzato ma significativo fatto da Schinas nel 2019, in cui ha affermato che “l’antisemitismo ha molte forme, passando dall’antisionismo alla negazione e distorsione dell’Olocausto, da un commento discriminatorio verso un collega sul posto di lavoro a gravi minacce alla vita di una persona.”

Ho chiesto che Schinas spiegasse perché stava equiparando il sionismo, un’ideologia politica sviluppata alla fine del XIX secolo, all’ebraismo, una religione molto più antica. Gli ho ricordato che il sionismo è stato utilizzato negli anni ’40 come pretesto per una espropriazione di massa dei palestinesi e che oggi è alla base di un sistema razzista contro i palestinesi.

Libertà di espressione

Inoltre ho informato Schinas di come, da quando è stato fatto il suo discorso, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo abbia emesso un’importante sentenza. Nel suo verdetto, pronunciato nel giugno di quest’anno, la Corte ha esplicitamente difeso i diritti degli attivisti che chiedono il boicottaggio di Israele.

La Corte ha persino affermato che il discorso relativo al boicottaggio di Israele richiede “una notevole protezione”.

Ho obiettato che, se il verdetto della Corte viene preso seriamente, allora le critiche all’ideologia dello Stato di Israele, il sionismo, devono essere considerate come protette dal diritto alla libertà di espressione.

Schinas non ha risposto di persona alla mia protesta. Ha incaricato Katharina von Schnurbein, la coordinatrice dell’UE contro l’antisemitismo, di farlo.

Von Schnurbein, che ha calunniato gli attivisti del movimento per il boicottaggio di Israele, non ha di fatto affrontato i punti da me sollevati. La sua lettera non fa alcuna menzione alla sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani.

Al contrario ha fatto riferimento a come l’ UE si basi sulla definizione di antisemitismo approvata dalla International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa, ndtr.]. Ha omesso il fatto che la definizione è stata concretamente stilata da organizzazioni della lobby filo-israeliana e che esse la utilizzano per cercare di proteggere Israele dal rendere conto del proprio operato.

Von Schnurbein ha anche segnalato un sondaggio del 2018 pubblicato dalla Fundamental Rights Agency [Agenzia per i Diritti Fondamentali, agenzia europea che si occupa della difesa dei diritti umani, ndtr.] dell’UE. Nelle sue parole, “l’inchiesta evidenzia che l’antisemitismo legato a Israele è la forma più diffusa di discriminazione e maltrattamenti antisemiti subiti dagli ebrei europei.”

Indipendentemente da quello che pensa von Schnurbein, i sondaggi di opinione non sono di fatto un sostituto delle sentenze di un tribunale.

L’UE si prepara a inserire nella propria legislazione la Convenzione Europea per i Diritti Umani.

La Corte Europea per i Diritti Umani, che è separata dall’Unione Europea, sovrintende al rispetto di quella convenzione. Se i rappresentanti dell’UE pensano davvero quello che dicono riguardo al desiderio di rispettare una convenzione sui diritti umani, allora devono rispettare le sentenze della Corte.

I risultati di un sondaggio non forniscono loro una scusa per ignorare le sentenze che non gli piacciono.

Promuovere l’ignoranza

Oltretutto l’obiettività del gruppo che ha condotto l’inchiesta del 2018 è dubbia.

Il direttore del progetto era Jonathan Boyd, dell’Institute for Jewish Policy Research [Istituto per la Ricerca Politica Ebraica], con sede a Londra. Boyd è un petulante sostenitore di Israele, che non fa alcuna distinzione tra sionismo ed ebraismo.

Nel suo editoriale su The Jewish Chronicle [settimanale ebraico inglese filoisraeliano, ndtr.] Boyd ha riflettuto su come inculcare devozione per Israele nei giovani ebrei. Lo scorso anno, prima delle elezioni politiche in Gran Bretagna, ha affermato che il partito Laburista aveva un grave problema con il fanatismo anti-ebraico, benché ciò sia stato inventato per danneggiare l’allora segreteria di Jeremy Corbyn.

Detto questo, la ricerca del 2018 non dovrebbe essere ignorata.

Una delle sue conclusioni è stata che il 43% degli ebrei che vi hanno preso parte riteneva di essere incolpato continuamente o frequentemente per le azioni di Israele. Un altro 36% riteneva di esserlo stato occasionalmente.

Qui c’è un chiaro messaggio: l’oppressione israeliana contro i palestinesi può anche danneggiare gli ebrei europei.

Se le autorità dell’UE fossero davvero così preoccupate dell’antisemitismo come pretendono di essere, allora farebbero pressioni su Israele in modo che ponga fine ai soprusi e tutti potrebbero tirare un sospiro di sollievo.

Potrebbero abbinare questo lavoro con la crescente consapevolezza su come gli ebrei del resto del mondo non debbano essere considerati responsabili di quello che fa Israele.

Allo stato attuale, le autorità dell’UE si comportano in modo esattamente opposto.

Comprando le armi di Israele, come Frontex ha appena fatto, rendendo economicamente conveniente l’oppressione, contribuendo pertanto a che essa continui. E considerando il sionismo indistinguibile dall’ebraismo, stanno promuovendo l’ignoranza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gli USA valutano se definire “antisemite” importanti organizzazioni per i diritti umani

Nahal Toosi

21 ottobre 2020 – Politico

Secondo l’assistente di un parlamentare del Congresso in contatto con il Dipartimento di Stato, il segretario di Stato Mike Pompeo sta spingendo per questa dichiarazione.

Due persone a conoscenza della questione affermano che l’amministrazione Trump sta prendendo in considerazione di dichiarare che una serie di importanti Ong internazionali – tra cui Amnesty International, Human Rights Watch e Oxfam – sono antisemite e che i governi non dovrebbero appoggiarle.

La dichiarazione proposta potrebbe essere resa pubblica dal Ddipartimento di Stato [il ministero degli Esteri USA, ndtr.] entro questa settimana. Se ciò venisse dichiarato, probabilmente provocherebbe una rivolta da parte delle associazioni della società civile e potrebbe scatenare un contenzioso legale. Chi critica questa possibile iniziativa teme che ciò possa portare anche altri governi a reprimere ulteriormente queste associazioni. Nel contempo le organizzazioni citate negano qualunque accusa di antisemitismo.

Secondo l’assistente di un parlamentare del Congresso in contatto con il Dipartimento di Stato, il segretario di Stato Mike Pompeo sta facendo pressioni per questa dichiarazione. Pompeo pensa ad una futura candidatura presidenziale ed ha preso una serie di misure per guadagnarsi i favori degli elettori filo-israeliani ed evangelici, una componente fondamentale della base elettorale di Trump.

Ma la proposta sta provocando l’opposizione di funzionari del Dipartimento di Stato. Tra i contrari ci sono avvocati del dipartimento che avvertono che ciò ha basi incerte riguardo a problemi di libertà di parola, potrebbe portare a denunce e potrebbe persino non avere legittime basi legali dal punto di vista amministrativo.

Mercoledì nessun portavoce del Dipartimento di Stato ha al momento risposto a una richiesta di commento. Un ex- funzionario del Dipartimento di Stato con contatti interni ha confermato il fondamento della dichiarazione ed ha affermato che potrebbe essere resa pubblica a breve.

Si prevede che la dichiarazione assumerà la forma di un rapporto dell’ufficio di Elan Carr, l’inviato speciale USA per il monitoraggio e la lotta all’antisemitismo. Il rapporto citerebbe organizzazioni che includono Oxfam, Human Rights Watch e Amnesty International. Dichiarerebbe che la politica USA è di non appoggiare, anche finanziariamente, tali organizzazioni e invita altri governi a smettere di sostenerle.

Il rapporto citerebbe l’appoggio, presunto o percepito, di tali organizzazioni al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, che ha preso di mira Israele per la sua costruzione di colonie sulla terra che i palestinesi rivendicano per un futuro Stato.

Si prevede anche che punti su rapporti e comunicati stampa rilasciati da tali gruppi sull’impatto delle colonie israeliane, così come sul loro coinvolgimento o appoggio percepito a un elenco delle Nazioni Unite su imprese che operano nei territori contesi.

L’impatto concreto di tali organizzazioni non è immediatamente chiaro e potrebbe dipendere da quale branca o divisione di un gruppo venga presao in considerazione. Per esempio Human Rights Watch e Amnesty International USA non ricevono fondi dal governo USA. Oxfam America neppure, ma a seconda delle circostanze le sue sezioni all’estero potrebbero ricevere finanziamenti dagli americani.

Inoltre non tutte le associazioni citate appoggiano ufficialmente il movimento BDS o prendono posizione su di esso. Ma tutte hanno criticato in una misura o nell’altra le politiche di colonizzazione israeliana e il modo in cui vengono trattati i palestinesi, e organizzazioni filo-israeliane hanno sostenuto che le attività di queste associazioni rappresentano comunque un appoggio per il movimento e quindi sono antisemite.

Contattati da POLITICO, i rappresentanti ufficiali delle tre organizzazioni non erano a conoscenza della possibile dichiarazione del Dipartimento di Stato.

Bob Goodfellow, direttore esecutivo ad interim di Amnesty International USA, ha affermato che qualunque accusa di antisemitismo sarebbe “priva di fondamento”.

AI USA è profondamente impegnata a lottare contro l’antisemitismo e contro ogni forma di odio in tutto il mondo, e continuerà a proteggere le persone ovunque vengano negate giustizia, libertà, verità e dignità,” afferma in un comunicato. “Contestiamo risolutamente ogni accusa di antisemitismo e ci prepariamo di affrontare ogni attacco del Dipartimento di Stato.”

Anche Noah Gottschalk, responsabile della politica internazionale di Oxfam America, nega come “false” e “offensive” le accuse di antisemitismo.

Oxfam non appoggia il BDS né chiede il boicottaggio di Israele o di qualunque altro Paese,” ha affermato Gottschalk. “Oxfam e i nostri partner israeliani e palestinesi da decenni operano sul terreno per promuovere i diritti umani e contribuire alla sopravvivenza di comunità israeliane e palestinesi. Noi sosteniamo la nostra lunga storia di lavoro per proteggere le vite, i diritti umani e il futuro di ogni israeliano e palestinese.”

Il funzionario di Human Rights Watch Eric Goldstein ha notato che l’amministrazione Trump spesso si basa sul lavoro di gruppi come il suo per legittimare le sue stesse prese di posizione politiche.

  • Lottiamo contro ogni forma di discriminazione, compreso l’antisemitismo,” dice Goldstein in un comunicato. “Criticare politiche governative non equivale ad attaccare un gruppo di persone specifico. Per esempio, le nostre critiche al governo USA non ci rendono antiamericani.”

La bozza di dichiarazione del Dipartimento di Stato attinge molte delle sue informazioni da Ong Monitor, un sito filo-israeliano che controlla le attività di organizzazioni per i diritti umani e altre e spesso le accusa di essere anti-israeliane.

Lo scorso anno Israele ha espulso Omar Shakir, un ricercatore di Human Rights Watch, accusato di appoggiare il movimento BDS. Human Rights Watch e Shakir, cittadino USA, hanno negato questa accusa.

Mercoledì, alla domanda in merito alla possibile dichiarazione USA, nessun portavoce dell’ambasciata israeliana ha commentato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gal Gadot [attrice israeliana], Stephen Miller [nuovo consigliere politico della Casa Bianca] e Richard Spencer [giornalista e attivista di destra statunitense]: lo strano caso di ciò che li accomuna

Benny Blend

17 ottobre 2020 palestinechronicle

“Qualunque cosa si pensi del suo essere stata scelta come Cleopatra”, ha twittato Steven Salaita [studioso, autore e docente americano], “non si deve mai dimenticare che Gal Gadot ha servito con orgoglio (e continua a sostenere) un esercito coloniale noto per mutilare e uccidere civili”. Quasi subito, dice Salaita, Richard Spencer ha risposto al twitt postando le sue critiche, aprendo così il forum di Salaita ai suoi 80.000 seguaci nazisti.

“Per molte ore”, lamenta Salaita, “non sono riuscito a capire se gli orrendi commenti razzisti che si riversavano sulla mia pagina fossero di sostenitori dello Stato ebraico o di nazionalisti bianchi antisemiti”.

In queste parole Salaita condensa il paradosso che vede i sionisti indistinguibili dai nazionalisti bianchi antisemiti. Alla fine, i seguaci di Spencer non amano gli ebrei più di qualunque altro “diverso”, quindi questa sovrapposizione è sensata tanto quanto Gal Gadot, forte sostenitrice delle Forze di Difesa Israeliane (IDF) nei panni di Cleopatra regina egiziana (sebbene di origine greca).

In effetti, subito dopo l’approvazione della legge di Israele sullo “Stato-Nazione” nel luglio 2018, Spencer aveva twittato:

“Apprezzo molto la legge sullo Stato Nazione di Israele. Gli ebrei sono ancora una volta all’avanguardia, nel loro ripensare una politica e una sovranità rivolte al futuro, mostrando un percorso di progresso agli europei “. E continuava: “La critica dei media liberali alla legge dello Stato-Nazione come “antidemocratica” ne rivela la falsità. Quando dicono “democratico” intendono in realtà non il governo del popolo, ma un ordine sociale liberale e multiculturale”.

Proprio quell’ambiente molto “liberale e multiculturale” aveva fornito un porto sicuro a rifugiati come la mia famiglia, ma ora qualcuno lo condanna perché cozza con la nozione di Stato ebraico di Israele. Quando fu istituito nel 1948 Israele si rifiutò di riconoscere la nazionalità, facendo così una inedita distinzione tra “cittadinanza” e “nazionalità”. Sebbene tutti gli israeliani siano poi cittadini, lo Stato è definito “nazione ebraica” che appartiene solo agli ebrei israeliani e a quelli della diaspora.

Nel luglio 2018, la coalizione di governo del primo ministro Benjamin Netanyahu ha convertito in legge il decreto dello “Stato-Nazione del popolo ebraico”. A lungo il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha chiesto ai palestinesi di riconoscere l’esistenza del suo paese come “Stato-Nazione del popolo ebraico”. In effetti, si tramuta in legge ciò che era già presente nelle istituzioni e nella vita quotidiana israeliane. Dichiarando il diritto all’autodeterminazione nazionale “unicamente per il popolo ebraico”, si toglie quel diritto ai cittadini palestinesi e va in pezzi ogni parvenza di democrazia o uguaglianza fra il popolo.

In sostanza, la legge sulla nazionalità non ha cambiato molto. Però ha trasformato il razzismo de facto in razzismo de jure, esattamente quello che i nazionalisti bianchi vorrebbero accadesse qui.

“Al centro del problema”, osserva Salaita, c’è Stephen Miller, scrittore di discorsi e consigliere politico di Donald Trump. Attingendo alle ricerche finanziate da eugenetisti e a scrittori nazionalisti bianchi, Miller ha contribuito anche agli attacchi di Trump contro i messicani e musulmani che cercano di entrare nel paese.

In Hate Monger: Stephen Miller, Donald Trump, and the White Nationalist Agenda (2020, Mercanti di odio: SM, DT e il programma dei nazionalisti bianchi), Jean Guerrero traccia l’ascesa di Miller sino a diventare l’architetto delle politiche di Trump su confini e immigrazione.

E’ interessante notare che, nel 2004, ancora studente alla Duke University, Miller aveva guidato un’iniziativa dell’associazione Students for Academic Freedom fondata da David Horowitz per protestare contro l’assegnazione da parte dell’Università di un palco al Palestine Solidarity Movement, movimento palestinese centrato sulla resistenza all’occupazione israeliana con l’azione diretta e non violenta (Guerrero, p. 90).

Nel marzo del 2007 Miller organizzò un dibattito sull’immigrazione con Richard Spencer, allora studente universitario. Come scrive Guerrero, Spencer si definiva “sionista” per i bianchi, appropriandosi in tal modo di una espressione di sostegno allo Stato ebraico nonostante nella sua sfera di influenza “alternativamente bianca” (p. 101) [alt-white o anche alt-right è un movimento di subcultura politica non strutturato promosso da Spencer che sostiene ideologie di destra e suprematismo bianco, ndtr.] sia diffuso l’antisemitismo.

Contribuendo alla confusione, Guerrero definisce “sionista” un termine “ebraico”, aggravando così (almeno per me) la confusione del far coincidere il sionismo con l’ebraismo piuttosto che riconoscerlo come movimento politico separato.

In questo modo, Miller ha tempestivamente indicato ciò che Salaita chiama “fulcro”, consentendo sia ai nazionalisti bianchi che ai sionisti di lanciare insulti alle critiche di Salaita sull’ultimo ruolo da protagonista di Gadot.

A sua volta Spencer ha definito il suo obbiettivo una “sorta di sionismo bianco”, che incoraggerebbe i bianchi a costruire una patria simile a Israele, un Altneuland – un vecchio, nuovo paese, ha spiegato, usando un termine attribuito a Theodor Herzl, fondatore del sionismo moderno.

“L’ho detto ai sionisti”, conclude Salaita, “quando ai nazisti piace quello che fai, devi davvero ripensarci”.

– Benay Blend ha conseguito il dottorato in Studi Americani presso l’Università del New Mexico. I suoi lavori accademici includono ” ‘Né la patria né l’esilio sono parole’: ‘Conoscenza locale’ nelle opere di scrittori palestinesi e nativi americani” in un volume a cura di Douglas Vakoch e Sam Mickey (2017). Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Difensori dei diritti umani citano in giudizio il parlamento tedesco per una risoluzione contro il BDS

Adri Nieuwhof

5 ottobre 2020 – Electronic Intifada

Tre difensori dei diritti umani hanno presentato un ricorso in tribunale contro la risoluzione del parlamento tedesco che condanna il BDS – il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi.

I sostenitori del BDS hanno fatto causa al parlamento tedesco per violazione del loro diritto alla libertà di parola e di riunione.

Basandosi sulla definizione molto criticata dell’IHRA [organismo intergovernativo il cui scopo è conservare il ricordo dell’Olocausto, ndtr.] promossa da Israele e dalla sua lobby, la risoluzione approvata dal Bundestag [il parlamento tedesco, ndtr.] nel maggio del 2019 accusa gli attivisti del BDS di essere antisemiti.

La definizione dell’IHRA confonde deliberatamente le critiche contro le politiche antipalestinesi di Israele e l’ideologia dello Stato sionista con il fanatismo antiebraico.

La risoluzione del Bundestag equipara senza ragione gli appelli a non comprare prodotti israeliani allo slogan nazista “Non comprare dagli ebrei.”

Inoltre, dichiarando che chi “mette in discussione il diritto di esistere dello Stato di Israele ebraico e democratico o il diritto di Israele di difendersi dovrà affrontare la nostra risoluta resistenza”, essa onora il sistema razzista e di apartheid israeliano come un valore.

La risoluzione asserisce che “argomenti, caratteristiche e metodi del movimento BDS sono antisemiti.”

Di fatto le richieste del movimento BDS che Israele rispetti i diritti dei palestinesi sono profondamente radicate nel diritto internazionale.

La risoluzione del Bundestag invita anche le istituzioni tedesche e le autorità pubbliche a negare finanziamenti e strutture a organizzazioni della società civile che appoggino il movimento BDS.

Repressione in aumento

Pur non essendo vincolante, essa ha spinto le autorità di Francoforte sul Meno, Oldemburg, Monaco e Berlino a negare agli attivisti luoghi pubblici per i loro eventi.

Ma l’avvocato per i diritti umani Ahmed Abed ha rappresentato [gli attivisti] in azioni legali contro queste città, che nella maggioranza dei casi hanno dato come risultato l’annullamento delle decisioni.

Ora Abed assiste i tre querelanti nella sfida contro la stessa risoluzione del Buntestag.

Essi sono Judith Bernstein, un’attivista ebrea tedesca nata a Gerusalemme; Amir Ali, un palestinese cittadino tedesco la cui famiglia venne espulsa da Haifa durante la Nakba nel 1948; Christoph Glanz, un antirazzista e attivista per i diritti dei palestinesi.

I tre sperano di ottenere l’appoggio dell’opinione pubblica per la loro iniziativa, che include l’invito alle persone a pubblicizzare la denuncia e anche a contribuire al pagamento delle spese giudiziarie.

Nel 2017 Judith Bernstein, insieme a suo marito Rainer Bernstein, ha vinto un premio della Humanistische Union [organizzazione tedesca per i diritti civili, ndtr.] con il loro progetto “Pietre d’inciampo”, che commemora le vittime dell’Olocausto degli ebrei ponendo delle indicazioni fuori dalle case di Monaco in cui vivevano prima che il governo tedesco li deportasse e uccidesse.

Dopo l’adozione della risoluzione contro il BDS la Germania ha visto aumentare le campagne di diffamazione e di repressione contro gli scrittori, i musicisti, i giornalisti e gli accademici che hanno manifestato la propria solidarietà con i palestinesi o a favore della libertà d’espressione.

Sotto la pressione della lobby israeliana il direttore del museo ebraico di Berlino è stato obbligato a lasciare il suo incarico dopo che il museo a twittato un articolo sui 240 accademici ebrei ed israeliani che hanno firmato una petizione contro la risoluzione anti-BDS del parlamento tedesco.

#BT3P

La denuncia presentata presso il tribunale amministrativo di Berlino intende far annullare la risoluzione contro il BDS.

Il ricorso sostiene che la Germania ha il dovere di garantire la libertà di espressione dei difensori dei diritti umani.

I tre ricorrenti sperano che la loro azione contribuisca a portare un cambiamento fondamentale nel discorso pubblico tedesco su Palestina e Israele.

Nei loro tweet utilizzano l’hashtag #BT3P sulla loro campagna, che chiamano Bundestag 3 per la Palestina.

Sostengono che la risoluzione contro il BDS viola i loro diritti umani fondamentali alla libertà di espressione e riunione, protetta dalle leggi tedesche ed europee.

Essi sottolineano la storica sentenza dello scorso giugno da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo la quale l’appello al boicottaggio dei prodotti israeliani è un esercizio legittimo del diritto alla libertà d’espressione.

Sottolineano anche che la risoluzione è un’espressione del razzismo anti palestinese in Germania.

Il Centro Europeo per il Sostegno Giuridico [che difende i diritti dei militanti a favore dei palestinesi, ndtr.], i docenti di diritto internazionale Eric David, Xavier Dupré de Boulois, John Reynolds e l’ex- consulente speciale delle Nazioni Unite Richard Falk sostengono l’azione giudiziaria.

Nelle loro perizie da parte di esperti affermano che la risoluzione contro il BDS è incompatibile con le norme europee e internazionali in materia di diritti umani.

Il ruolo della lobby filo-israeliana

Prima che il Bundestag adottasse la risoluzione contro il BDS decine di accademici ebrei ed israeliani hanno messo in guardia il parlamento tedesco dal definire antisemiti i sostenitori dei diritti umani dei palestinesi.

Essi hanno dichiarato che le iniziative intese ad etichettare il BDS come antisemita sono state “promosse dal governo israeliano più a destra della storia” nel quadro di un tentativo inteso a “delegittimare ogni discorso sui diritti dei palestinesi e ogni forma di solidarietà internazionale con loro.”

Questa opinione è stata confermata da un rapporto di ricerca sulle attività dei gruppi di pressione israeliani pubblicato sul settimanale tedesco Der Spiegel, che ha rivelato l’influenza di due gruppi di pressione israeliani in merito all’adozione della risoluzione contro il BDS.

Il commissario del governo tedesco incaricato dell’antisemitismo, Felix Klein, ha tentato di mettere sotto silenzio le conclusioni dello Spiegel, accusando i giornalisti di utilizzare “degli stereotipi antisemiti come quello della onnipotente cospirazione ebraica mondiale.”

La politica dell’UE

Katharina von Schnurbein, responsabile dell’Unione Europea sull’antisemitismo, continua a promuovere la definizione dell’IHRA, lavorando a stretto contatto con i gruppi di pressione israeliani per promuovere il loro progetto e utilizzare la lotta contro l’antisemitismo come copertura pratica per reprimere la solidarietà con i palestinesi.

Con il sostegno di parlamenti, governi e autorità come l’UE, la definizione del’IHRA viene utilizzata per calunniare con false accuse di antisemitismo i militanti dei Paesi europei e del Nord America.

Una messa in discussione giudiziaria della risoluzione del parlamento tedesco contro il BDS invierebbe un messaggio chiaro ai governi europei e all’UE: smettete di censurare e di calunniare le critiche contro Israele e i difensori dei diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alla fine la lobby israeliana dovrà fronteggiare delle conseguenze

Yves Engler

2 ottobre 2020 – The Palestine Chronicle

Quanto è troppo? Quand’è che i nazionalisti israeliani in Nord America si screditeranno del tutto a causa di un uso eccessivo del loro potere per annientare coloro che difendono i palestinesi?

L’attuale spregiudicatezza della lobby israeliana è notevole. Recentemente hanno convinto Zoom ad annullare un dibattito sponsorizzato da un‘università , un importante facoltà di legge a revocare un’offerta di lavoro, un’emittente pubblica a scusarsi per aver usato la parola Palestina e alcune aziende a interrompere le consegne per un ristorante.

Una settimana fa gruppi di pressione israeliani hanno convinto Zoom a cancellare dibattito alla San Francisco State University con l’icona della resistenza palestinese Leila Khaled [membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, ndtr.] l’ex ministro sudafricano Ronnie Kasrils, la direttrice degli studi sulle donne alla Birzeit University Rula Abu Dahou [Bir Zeit è una città palestinese situata a circa 25 km a nord della città di Gerusalemme, alla periferia di Ramallah, ndtr.] e altri. Si ritiene che sia la prima volta che Zoom sopprima un dibattito sponsorizzato da un’università[vedi Zeitun]

Il mese scorso la lobby israeliana ha sollecitato la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Toronto a revocare un’offerta di lavoro per dirigere il suo Programma internazionale sui diritti umani. La pressione rivolta a bloccare la candidata della commissione per le assunzioni, Valentina Azarova, è giunta dal giudice David Spiro, che è stato a Toronto un ex co-presidente del Center for Israel and Jewish Affairs (CIJA) [organizzazione sionista di difesa ebraica e agenzia delle federazioni ebraiche del Canada, ndtr] e il cui zio Larry Tanenbaum possiede i Toronto Raptors [squadra di pallacanestro che milita nel massimo campionato professionistico statunitense e canadese, ndtr.] e la cui nonna Anne Tanenbaum ha finanziato il centro per gli studi ebraici dell’Università di Toronto. Mentre gli sforzi di Spiro erano segreti, B’nai B’rith [loggia massonica ebraica nata nel 1843 durante la presidenza di John Tyler ed ancora esistente ed attiva, ndtr.] ha apertamente invitato gli amministratori dell’Università di Toronto a bloccare la decisione del comitato di assunzione.

The Current [popolare programma radio canadese del mattino, ndtr.] della CBC si è recentemente scusato per aver utilizzato la parola “Palestina”. Il 18 agosto il presentatore ospite Duncan McCue ha presentato l’artista grafico Joe Sacco facendo riferimento al suo lavoro in Bosnia, Iraq e Palestina (Sacco ha prodotto un’opera chiamata Palestina). All’inizio dell’edizione del giorno successivo, McCue si è scusato per aver menzionato la Palestina e la Honest Reporting Canada [Honestreporting è un’organizzazione non governativa che “monitorizza i media riguardo le scorrettezze riguardanti Israele”, ndtr.] si è vantata dei propri interventi per fare pressione sull’emittente pubblica affinché non impieghi la parola P.

Come parte del tentativo di mandare in bancarotta un piccolo ristorante di Toronto simpatizzante per la sinistra che mostra sulla propria vetrina il messaggio “I love Gaza”, la CIJA e B’nai B’rith hanno condotto con successo una campagna per bloccare i servizi di consegna da parte di Foodbenders [rinomata azienda di Toronto che provvede alla fornitura di piatti pronti, ndtr.], oltre i contratti istituzionali e gli account sui social media. Si sono alleati con l’organizzazione di estrema destra Jewish Defense League e altri che hanno vandalizzato il ristorante a luglio.

In un articolo di agosto su Walrus [rivista politico-culturale canadese, ndtr.] intitolato “L’obiettività è un privilegio concesso ai giornalisti bianchi”, l’ex giornalista della CBC Pacinthe Mattar descrive un caporedattore che interviene per sopprimere un’intervista da Gerusalemme con Ahmed Shihab-Eldin, un giornalista di origini palestinesi con una nomina agli Emmy. Molti mesi dopo a Mattar non ha ottenuto una promozione già prevista da parte deldirettore che aveva deciso di non mandare in onda l’intervista del 2017 da Gerusalemme”, il quale “aveva espresso il timore che io fossi di parte e quindi non dovessi essere promossa, opinione condivisa da alcuni altri membri del comitato di redazione. Ed è andata così.”

Le organizzazioni anti-palestinesi stanno conducendo una campagna aggressiva per far sì che Facebook adotti la definizione di antisemitismo centrata su “basta con le critiche ad Israele”, della International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [organizzazione intergovernativa che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l’educazione sull’Olocausto, ndtr.]. L’obiettivo esplicito di coloro che promuovono la definizione di antisemitismo dell’IHRA è quello di mettere a tacere o emarginare chi critica la spoliazione dei palestinesi e sostiene il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento, le sanzioni (BDS) guidato dalla società civile palestinese.

La macchina della censura della lobby israeliana procede nonostante siano sempre più palesi il razzismo, l’ occupazione e le violazioni dei diritti israeliani. Molti di coloro che sono stati presi di mira nelle vicende di cui sopra hanno sofferto emotivamente e in termini di carriera, ma l’impatto su di loro sono è insignificante rispetto alle umiliazioni quotidiane che soffrono i palestinesi. Lo Stato israeliano continua a rubare territori palestinesi in Cisgiordania, a mantenere un blocco punitivo su Gaza e a consentire agli ebrei di Toronto di emigrare mentre i palestinesi cacciati dalle loro case nel 1948 non possono nemmeno andare a visitare [il loro Paese, ndtr.], figuriamoci emigrarvi.

La lobby israeliana è una forza politica compatta. Radicata nel colonialismo europeo e negli interessi regionali dell’impero statunitense, è sostenuta da molti zelanti miliardari e da una parte sostanziale di una comunità etnico / religiosa generalmente influente. Inoltre sfrutta in modo grossolano il vittimismo. Come John Clark ha recentemente postato su Facebook, “Il sionismo è l’unica ideologia politica che conosco che sostenga che il disaccordo con essa rappresenti un crimine d’odio”.

Fortunatamente, ogni campagna di esclusione e diffamazione che intraprende allontana nuove persone e apre gli occhi ad altre. Sfortunatamente, molte altre persone ben intenzionate subiranno conseguenze emotive e finanziarie prima che la macchina della censura della lobby israeliana venga fermata.

  • Yves Engler è l’autore di Canada and Israel: Building Apartheid [Canada e Israele: la costruzione dell’apartheid, ndtr.] e una serie di altri libri. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Vittoria in tribunale per i 3 di Humboldt e per la Palestina

Qassam Muaddi

24 agosto 2020  Quds News Network

Il movimento di solidarietà con la Palestina nel mondo sta crescendo. Così come la pressione esercitata contro di esso da gruppi di lobby ed organizzazioni pro-Israele; alcune sponsorizzate dallo stesso governo d’Israele.

In Europa, dove il movimento BDS ha affrontato gravi tentativi di delegittimazione, il movimento è stato al centro di un dibattito pubblico negli ultimi anni, soprattutto in Francia e in Germania, polarizzando le posizioni intorno alla questione palestinese.

La vittoria giudiziaria dei tre attivisti nei tribunali tedeschi, due settimane fa, ha segnato un precedente in questa storia. I tre di Humboldt – Ronnie Barkan, Stavit Sinai e Majed Abusalama – hanno affrontato un’accusa per aver protestato contro la visita dell’israeliana Aliza Lavie, membro della Knesset,  a Berlino nel 2017, e la Corte tedesca ha alla fine li ha assolti, condannando solo Sinai per accuse di lievissima entità.

Il caso è particolarmente importante in Germania, un paese che ha stretti legami con lo Stato di occupazione e il cui parlamento ha condannato il movimento BDS come forma di antisemitismo.

Il Network Quds News ha intervistato Majed Abusalama, che ha condiviso le sue opinioni sul caso Humboldt 3, così come alcuni dettagli del processo, che è diventato una storia a sé quando gli attivisti lo hanno usato per dar voce al loro messaggio.

Ha condiviso anche le sue opinioni e quelle dei suoi compagni sul rapporto tra la Germania e lo Stato di occupazione, la battaglia per la narrazione storica, e il ruolo del movimento di solidarietà con la Palestina in questo momento.

Qual è l’importanza della vostra vittoria per il movimento di solidarietà con la Palestina in Europa e nel mondo?

Dovremmo considerare che il nostro caso è avvenuto in un contesto molto complicato, in cui la lobby sionista cerca continuamente di far sembrare noi, il movimento di solidarietà con la Palestina, dei perdenti senza alcuna possibilità di vincere. Siamo stati in grado di dimostrare che non lo siamo. L’abbiamo fatto nell’ambiente più ostile, perché la Germania, come Stato, è smisuratamente complice dello Stato di apartheid di Israele.

I palestinesi in Germania costituiscono la più grande comunità palestinese in Europa, ma noi siamo soffocati. Il nostro diritto di protestare ed esprimerci ci è rubato, sempre intimiditi dalle accuse di antisemitismo, fatta sparire completamente ed esclusa la nostra narrativa palestinese.

Che cosa definisce esattamente come complicità tedesca con lo Stato di apartheid, e come lo spiega?

La Germania è in prima linea nel nascondere i crimini d’Israele contro l’umanità. Attraverso il suo ruolo guida nell’Unione Europea, lo Stato tedesco impone la soppressione del movimento di solidarietà con la Palestina e la sua condanna.

La Germania ha persino venduto sottomarini nucleari allo Stato dell’apartheid. In parte ciò deriva dal senso di colpa tedesco verso la Seconda Guerra Mondiale. Ma questo uso della colpevolezza, a mio parere, non si basa sui valori umani. Si tratta più che altro di un tentativo da parte dello Stato tedesco di costruire un atteggiamento di comodo nei confronti del passato della Germania, anche se è a scapito del discorso sui diritti umani del popolo palestinese.

Credo che questo atteggiamento, e ripulitura dell’apartheid israeliana e del crimine contro l’umanità che ne deriva, dicano molto di quanto questo Stato non abbia imparato la lezione della Seconda Guerra Mondiale. Questa lezione non riguarda la protezione di un gruppo specifico o di uno Stato, ma piuttosto la protezione dei diritti umani e dei valori umani. Questo è il motivo per cui diciamo che lo Stato tedesco ha fallito sul piano dell’umanità nella questione della Palestina.

Vede qualche evoluzione nella società tedesca rispetto alla posizione verso la causa palestinese?

Recenti sondaggi mostrano che un numero crescente di tedeschi è favorevole alla causa palestinese e direi piuttosto che la maggioranza sostiene la Palestina. Questo sostegno è aumentato dopo la seconda Intifada e l’assedio e l’aggressione continua a Gaza.

Inoltre, il pubblico tedesco non poteva restare cieco di fronte all’atteggiamento di Israele verso i diritti umani degli attivisti, come la deportazione del direttore locale in Palestina di Human Rights Watch, Omar Shakir, lo scorso novembre. Il flusso di informazioni libere grazie a Internet ha mostrato troppo perché i tedeschi rimanessero ciechi e indifferenti.

Come ha reagito il pubblico tedesco al vostro caso?

C’era una solidarietà schiacciante con noi, nel tribunale e fuori di esso. Abbiamo trasformato il nostro processo in un processo in cui eravamo gli accusatori, e siamo andati con un messaggio e il pubblico tedesco lo ha ricevuto. Poiché vogliamo che lo Stato dell’apartheid sia processato in un tribunale tedesco, abbiamo deciso di ricorrere al nostro stesso processo per farlo.

Ci siamo concentrati sul membro della knesset Aliza Lavie. Eravamo sotto processo per aver protestato contro la sua visita a Berlino nel 2017. Aliza Lavie è stata direttamente responsabile dell’attacco a Gaza nel 2014 perché ha partecipato nel prendere la decisione di quell’attacco, che ha ucciso oltre 2000 palestinesi, tra cui 500 bambini.

E’ anche la presidentessa della lobby anti-BDS, che promuove la repressione del BDS e di tutti gli attivisti palestinesi. La lobby sionista ha cercato di manipolare il caso, come al solito rigirando e fabbricando la verità sul fatto che saremmo violenti, ma questo non ha avuto successo. Era un tentativo di spostare l’attenzione nostra e del pubblico, ma ci siamo concentrati sul nostro messaggio politico e morale.

Ho detto al giudice che sono di Gaza e che Lavie aveva la responsabilità criminale dell’uccisione dei miei amici e della mia gente a casa, e che era a pochi metri da me. L’ho sfidato su come si sarebbe sentito al mio posto.

I miei compagni hanno anche sfidato Lavie direttamente e le hanno detto che è una criminale e che appartiene alla prigione della Corte Penale Internazionale. Quella era l’intera discussione durante il processo. Non abbiamo deviato da essa.

Com’è stato l’atteggiamento della corte nei confronti del vostro messaggio?

Non hanno trovato niente e siamo stati assolti. Ma hanno multato Sinai per la pena minima di 450 euro, perché ha bussato alla porta tre volte, chiedendo di chiedere i dettagli di qualcuno che l’aveva assalita quando eravamo stati tirati fuori. La decisione della corte è ridicola. Era solo un tentativo di salvare la faccia del tribunale difronte alla lobby sionista e a Israele, e dice quanto le istituzioni tedesche sono prigioniere della pressione di questa lobby, e persino complici dell’occupazione e dello Stato di apartheid.

Qualcuno potrebbe dire che è un’accusa dura per le istituzioni tedesche. Perché, secondo voi, sono complici?

Il parlamento tedesco dichiarò il movimento BDS antisemita contro il sistema giudiziario tedesco. In tutta la Germania, molti tribunali hanno dichiarato il movimento BDS una forma legittima di libertà di espressione e di protesta, ma il parlamento tedesco mantiene la sua accusa diffamatoria verso di noi, cosa che mostra che quella del BDS è solo una dichiarazione politica.

Ora c’è anche una decisione giuridica europea, dopo che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata a favore dei nostri compagni in Francia, anch’essi accusati di antisemitismo nei tribunali francesi. Questa complicità è politica ai massimi livelli.

Quali lezioni si possono trarre dal vostro caso?

Vogliamo chiarire che questa storia non riguarda noi personalmente. Questa è la storia della Palestina e della solidarietà globale con essa. La nostra vittoria è una vittoria per la lotta palestinese, che è lotta di tutti gli uomini e le donne di coscienza in tutto il mondo. In secondo luogo, vogliamo potenziare la nostra comunità, in Germania, in Europa, in tutto il mondo e in Palestina. Noi non siamo soli. Tutti quelli che si oppongono al colonialismo, alle violazioni dei diritti umani e all’apartheid nel mondo intero sono dalla parte della lotta palestinese.

Quale messaggio trasmette la vostra storia al popolo palestinese, nel momento in cui alcuni Stati arabi stanno normalizzando le loro relazioni con lo Stato di occupazione, specialmente dopo gli accordi di pace tra Israele e gli Emirati?

La narrazione di Israele è rimasta così a lungo perché molte persone non conoscevano la realtà della nostra causa, ma questa narrazione sionista sta cadendo a pezzi e Israele non può più nascondere il suo vero volto criminale e di apartheid. Questo è il momento giusto per il nostro popolo di diventare più autosufficiente e contare su se stesso nella lotta.

Sappiamo troppo bene che gli Stati cercheranno di normalizzare, ma noi possiamo contare sul movimento di base di persone coscienti nei paesi arabi e su tutte le persone di coscienza nel mondo per continuare a sfidare la normalizzazione, intensificando il BDS e tutte le forme di resistenza per ritenere Israele responsabile. La causa palestinese sarà sempre sul tavolo per esaminare la coscienza delle persone in tutto il mondo ed è un movimento di cittadinanza globale che la sostiene.

Ma siamo noi, palestinesi, a dover condurre questa lotta. Noi, il popolo palestinese, e la Palestina siamo al centro della nostra lotta.

Traduzione di Flavia Lepre

da Contropiano