Israele vuole il “completo controllo ” della terra palestinese: il rapporto delle Nazioni Unite

Redazione Al Jazeera

7 giugno 2022-Al Jazeera

La commissione indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite afferma che Israele deve porre fine all’occupazione e cessare di violare i diritti umani dei palestinesi.

Una commissione d’inchiesta indipendente istituita dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dopo l’assalto israeliano del 2021 alla Striscia di Gaza assediata ha affermato che Israele deve fare di più oltre che porre fine all’occupazione della terra che i leader palestinesi vogliono per un futuro Stato.

Secondo il rapporto pubblicato martedì, in cui si sollecita l’adozione di ulteriori azioni per garantire l’uguale godimento dei diritti umani per i palestinesi, “La fine dell’occupazione da sola non sarà sufficiente”

Il rapporto produce prove di come Israele “non ha intenzione di porre fine all’occupazione”.

Israele sta perseguendo il “completo controllo” su quello che il rapporto chiama Territorio Palestinese Occupato, inclusa Gerusalemme Est, conquistata da Israele nella guerra del 1967 e successivamente annessa con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

Il governo israeliano, ha affermato la commissione, ha “agito per alterare la demografia attraverso il mantenimento di un contesto repressivo per i palestinesi e un contesto favorevole per i coloni israeliani”.

Citando una legge israeliana che nega la cittadinanza ai palestinesi sposati con cittadini israeliani, il rapporto accusa Israele di offrire “stato civile, diritti e protezione legale diversi” ai cittadini palestinesi di Israele.

Più di 700.000 coloni israeliani ora vivono in insediamenti e avamposti in Cisgiordania e Gerusalemme est, dove risiedono più di tre milioni di palestinesi. Gli insediamenti israeliani sono complessi residenziali fortificati per soli ebrei e sono considerati illegali dal diritto internazionale.

Le principali organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno equiparato le politiche israeliane contro i palestinesi all’apartheid.

Alle radici del conflitto.

L’inchiesta e il rapporto delle Nazioni Unite hanno preso avvio dall’offensiva militare israeliana di 11 giorni nel maggio 2021 durante la quale più di 260 palestinesi a Gaza sono stati uccisi e 13 persone sono morte in Israele.

Nel maggio 2021 Hamas ha lanciato razzi contro Israele dopo che le forze israeliane avevano attaccato i fedeli palestinesi nel complesso della Moschea di Al-Aqsa, il terzo luogo sacro dell’Islam, con decine di feriti e arresti. La cosa ha fatto seguito anche alla decisione del tribunale israeliano di espellere con la forza delle famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah, un quartiere a Gerusalemme est.

L’ambito dell’inchiesta includeva indagini su presunte violazioni dei diritti umani prima e dopo l’assalto di Israele contro Gaza e cercava anche di indagare sulle “cause profonde” del conflitto.

Hamas ha accolto favorevolmente il rapporto e ha esortato a perseguire penalmente i leader israeliani per quelli che ha definito “crimini” contro il popolo palestinese.

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese ha elogiato il rapporto e ha richiesto anche di chiamare Israele a rendere conto dei suoi atti, “in modo da mettere fine all’impunità di Israele”.

Il Ministero degli Affari Esteri israeliano ha definito il rapporto “uno spreco di denaro e fatica”, niente più che una caccia alle streghe.

Israele ha boicottato l’indagine, accusandola di parzialità e vietando agli investigatori l’ingresso in Israele e nei territori palestinesi, costringendoli a raccogliere testimonianze a Ginevra e in Giordania.

Il rapporto sarà discusso al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite con sede a Ginevra la prossima settimana. Gli Stati Uniti hanno lasciato il Consiglio nel 2018 per quello che hanno descritto come un “cronico pregiudizio” contro Israele e sono rientrati completamente solo quest’anno.

La commissione, guidata dall’ex capo delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay, è la prima ad avere un mandato “permanente” dall’agenzia per i diritti umani delle Nazioni Unite.

I suoi sostenitori affermano che la commissione è necessaria per tenere sotto controllo le continue ingiustizie affrontate dai palestinesi durante decenni di occupazione israeliana.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Diritto al ritorno: la Nakba torna nell’agenda palestinese

Ramzy Baroud

23 maggio 2022 – Middle East Monitor

La Nakba è tornata all’ordine del giorno nei programmi palestinesi.

Per circa trent’anni ai palestinesi è stato detto che la Nakba – o Catastrofe – apparteneva al passato. La vera pace richiede compromessi e sacrifici: perciò il peccato originale che ha portato alla distruzione della loro patria storica doveva essere integralmente rimosso da qualunque discorso politico ‘pragmatico’. Erano esortati ad andare avanti.

Le conseguenze di questo cambiamento nella narrazione sono state molto gravi. Disconoscere la Nakba, l’evento più importante che ha plasmato la moderna storia della Palestina, ha comportato più della divisione politica tra i cosiddetti radicali e i presunti pragmatici amanti della pace, come Mahmoud Abbas e la sua Autorità Nazionale Palestinese. Ha anche portato alla divisione delle comunità palestinesi in Palestina e in tutto il mondo relativamente alle impostazioni politiche, ideologiche e di classe.

Dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1993 divenne chiaro che la lotta dei palestinesi per la libertà si stava totalmente ridefinendo e ridelineando. Non si trattava più di una lotta palestinese contro il sionismo e il colonialismo di insediamento israeliano risalente all’inizio del XX secolo, ma di un ‘conflitto’ tra due parti uguali, con uguali legittime rivendicazioni territoriali, che può essere risolta solo attraverso ‘dolorose concessioni’.

La prima di tali concessioni fu l’esclusione della questione centrale del Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi dai loro villaggi e città nel 1947-48. Quella Nakba palestinese spianò la strada all’ ‘indipendenza’ di Israele, che venne dichiarata sulle macerie e il fumo di circa 500 villaggi e città palestinesi distrutti e bruciati.

All’inizio del ‘processo di pace’ ad Israele fu chiesto di onorare il diritto al ritorno dei palestinesi, anche se simbolicamente. Israele rifiutò. I palestinesi furono quindi spinti a rimandare quella questione fondamentale a ‘negoziati sullo status finale’, che non si tennero mai. Ciò significò che milioni di rifugiati palestinesi – molti dei quali vivono tuttora in campi profughi di Libano, Siria e Giordania, come anche nei territori palestinesi occupati – furono totalmente esclusi dal dibattito politico.

Non fosse stato per le costanti attività sociali e culturali degli stessi rifugiati, che insistevano sui loro diritti e insegnavano ai loro figli a fare lo stesso, termini quali Nakba e Diritto al Ritorno sarebbero stati del tutto cancellati dal lessico politico palestinese.

Mentre alcuni palestinesi rifiutarono la marginalizzazione dei rifugiati, sostenendo che il problema fosse politico e non meramente umanitario, altri furono disponibili a procedere come se questo diritto fosse irrilevante. Diversi dirigenti palestinesi legati al ‘processo di pace’ ora defunto affermarono esplicitamente che il Diritto al Ritorno non era più una priorità palestinese. Ma nessuno neppure si avvicinò al modo in cui lo stesso presidente dell’ANP Abbas configurò la posizione palestinese in un’intervista del 2012 al Canale 2 israeliano.

La Palestina oggi per me è quella dei confini del 1967, con Gerusalemme est come sua capitale. Così è ora e per sempre…Questa è per me la Palestina. Io sono un rifugiato, ma vivo a Ramallah”, disse.

Abbas aveva completamente torto, ovviamente. Che lui volesse esercitare il proprio diritto al ritorno o no, quel diritto, in base alla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è semplicemente “inalienabile”, il che significa che né Israele, né gli stessi palestinesi possono negarlo o rinunciarvi.

Tralasciando la mancanza di integrità intellettuale nel separare la tragica realtà del presente dalla principale causa che ne sta alla radice, Abbas mancò anche di intelligenza politica. Con il suo ‘processo di pace’ in difficoltà e in assenza di qualunque concreta soluzione politica, semplicemente decise di abbandonare milioni di rifugiati negando loro la speranza di vedersi restituire le proprie case, la propria terra o la propria dignità.

Da allora Israele, insieme agli Stati Uniti, ha combattuto i palestinesi su due diversi fronti: primo, negando loro ogni prospettiva politica e, secondo, tentando di annullare i loro diritti storicamente sanciti, soprattutto il Diritto al Ritorno. La guerra di Washington contro l’agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, UNRWA, rientra nella seconda categoria in quanto lo scopo era, e resta, proprio la distruzione delle infrastrutture giuridiche e umanitarie che consentono ai rifugiati palestinesi di considerarsi un insieme di persone che anelano al rimpatrio, alla riparazione e alla giustizia.

Eppure tutti questi tentativi continuano a fallire. Molto più importante delle personali concessioni di Abbas ad Israele, del bilancio dell’UNRWA in costante calo o dell’insuccesso della comunità internazionale nel ripristinare i diritti dei palestinesi, è il fatto che il popolo palestinese ancora una volta si stia riunificando in occasione dell’anniversario della Nakba, ribadendo così il Diritto al Ritorno per i sette milioni di rifugiati in Palestina e nella diaspora (shattat).

Per ironia della sorte, è stato Israele a riunificare inconsapevolmente i palestinesi intorno alla Nakba. Rifiutando di concedere neanche un metro di Palestina, per non parlare di concedere ai palestinesi di rivendicare alcuna vittoria, un proprio Stato – demilitarizzato o no – o di permettere ad un singolo rifugiato di tornare a casa, ha costretto i palestinesi ad abbandonare Oslo e le sue tante illusioni. L’argomentazione un tempo usuale che il Diritto al Ritorno fosse semplicemente ‘inapplicabile’ non conta più, né per la gente comune di Palestina, né per i suoi intellettuali o le sue elite politiche.

Secondo la logica politica, se qualcosa è impossibile, deve esserci un’alternativa praticabile. Tuttavia, mentre la realtà palestinese va peggiorando sotto il sempre più pesante sistema di colonialismo di insediamento e di apartheid israeliano, ora i palestinesi comprendono di non avere una possibile alternativa se non la loro unità e resistenza e il ritorno ai principi fondamentali della loro lotta. L’Intifada dell’Unità dello scorso maggio è stata l’apice di questa nuova consapevolezza. Inoltre le manifestazioni di commemorazione dell’anniversario della Nakba e gli eventi in tutta la Palestina e nel mondo il 15 maggio hanno ulteriormente contribuito a definire la nuova narrazione secondo cui la Nakba non è più un fatto simbolico e il Diritto al Ritorno è la richiesta collettiva e fondamentale della maggioranza dei palestinesi.

Oggi Israele è uno Stato di apartheid nel vero senso del termine. L’apartheid israeliano, come ogni simile sistema di separazione razziale, mira a proteggere i frutti di quasi 74 anni di folle colonialismo, furto di terra e dominio militare. I palestinesi, ad Haifa, Gaza o Gerusalemme, ora lo comprendono appieno e stanno tornando a lottare sempre più come un’unica nazione.

E poiché la Nakba e la successiva pulizia etnica dei rifugiati palestinesi sono il denominatore comune di tutte le sofferenze dei palestinesi, il termine e le sue fondamenta tornano ad essere al centro di ogni significativa discussione sulla Palestina, come avrebbe sempre dovuto essere.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Per gli israeliani è impossibile vedere un futuro

Gideon Levy

23 maggio 2022-Middle East Eye

Una società non può andare lontano con la testa nella sabbia e sicuramente non sarà in grado di far fronte alle sfide concrete che deve affrontare

Se c’è una cosa che manca completamente nell’agenda pubblica in Israele è una visione a lungo termine. Israele non guarda avanti, nemmeno di mezza generazione.

I bambini sono importanti in Israele e il tempo e l’energia a loro dedicati di solito superano largamente ciò che è normale in gran parte delle altre società, eppure nessuno parla di ciò che attende loro o i loro futuri figli.

Non c’è un solo israeliano, nemmeno uno, che sappia dove sia diretto il suo Paese.

Chiedi a qualsiasi israeliano o a qualunque politico, giornalista o scienziato, del centro, di destra o di sinistra: dove si sta andando? Come sarà il tuo Paese tra 20 anni? O 50? Non riescono nemmeno a immaginare come potrebbe essere tra 10 anni. Pochi israeliani potrebbero dire persino dove vorrebbero che il loro paese andasse, a parte slogan vuoti su pace, sicurezza e prosperità.

Domanda inquietante

Anche molto significativa è l’unica domanda che sorge sul lungo termine: Israele esisterà ancora tra 20 o 50 anni? Solo questo sentirai chiedere in Israele sul futuro. E poi l’altra domanda: ci sarà mai la pace? – che una o due generazioni fa era onnipresente, non è più all’ordine del giorno e quasi mai viene posta.

Ci sono pochissimi posti in cui le persone si chiedono se il loro paese esisterà o meno tra qualche decennio. La gente non se lo chiede in Germania o Albania, o in Togo o in Ciad. Questa domanda potrebbe non essere pertinente nemmeno per Israele: una potenza regionale potentemente armata, straordinariamente ben piazzata nel contesto internazionale, con tali abilità tecnologiche e prosperità, beniamina dell’Occidente…

Eppure pensate a come tanti israeliani continuino a porsi questa domanda, ultimamente più che mai. Notate gli incredibili sforzi che gli israeliani fanno per ottenere un secondo passaporto per sé stessi e per i loro figli: qualsiasi passaporto! Che sia portoghese o lituano, l’importante è avere qualche opzione oltre al passaporto israeliano, come se un passaporto israeliano fosse una specie di permesso temporaneo prossimo alla data di scadenza, come se non fosse possibile rinnovarlo per sempre.

 Tutto ciò suggerisce che l’abitudine israeliana di nascondere la testa sotto la sabbia riguardo al futuro del proprio Paese mascheri una paura radicata, e forse molto realistica, su ciò che il futuro potrebbe riservare. Gli israeliani hanno paura del futuro del loro Paese. Si vantano della potenza e delle capacità del loro Paese, una nazione giusta, un popolo eletto, una luce per le nazioni; sono estremamente vanagloriosi del loro esercito, delle proprie abilità, mentre allo stesso tempo una paura primordiale rode loro le viscere.

Il futuro del loro paese gli è oscuro, avvolto nella nebbia. A loro piace parlare in termini religiosi di eternità, di “una Gerusalemme unita per l’eternità” e “l’eterna promessa di Dio a Israele”, mentre in fondo non hanno idea di cosa accadrà al loro Paese domani o, al più tardi, dopodomani.

L’autoinganno non fornisce risposte

Il gioco si chiama repressione, negazione, auto-illusione in scala sconosciuta a qualsiasi altra società possa venire in mente. Proprio come per la maggior parte degli israeliani non esiste l’occupazione, e sicuramente non c’è apartheid, nonostante la montagna di prove sia sempre più alta, così, per la maggior parte degli israeliani, il domani non è una cosa reale. In Israele il domani non è una cosa reale in termini di ambiente o cambiamento climatico; il domani non è una cosa reale in merito ai rapporti con l’altra Nazione che vive accanto a noi con il nostro ginocchio sulla gola.

Provate a chiedere agli israeliani come sarà un giorno qui con una maggioranza palestinese tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo, e nel migliore dei casi non otterrai altro che una scrollata di spalle. Dove sta andando tutto questo? Vivremo per sempre con le armi? Ne vale la pena?

Quello che scoprirete – pensate! – è che gli israeliani non si sono sinora mai posti questa domanda e peraltro nessuno gliel’ha mai chiesto. La loro espressione vi dirà che non hanno mai sentito una domanda così strana. In ogni caso non ci sarà risposta. Gli israeliani non hanno risposta.

Questa situazione è molto malsana, ovviamente. Una società non può andare lontano con la testa sepolta nella sabbia e sicuramente non sarà in grado di far fronte alle sfide che deve affrontare nella realtà. L’occupazione, che più di ogni cosa è ciò che definisce Israele oggi, presenta molte sfide – con le quali Israele rifiuta di fare i conti. Cosa accadrà con l’occupazione? Dove porterà le due società, occupante e occupata, israeliana e palestinese? Può l’occupazione andare avanti per sempre?

Fino a poco tempo fa ero convinto che l’occupazione non potesse durare per sempre. La storia ci ha insegnato che un popolo che lotta per essere libero di solito vince e che i regimi marci, come l’occupazione militare del popolo palestinese da parte di Israele, collassano su se stessi sgretolandosi dall’interno a causa della decadenza che inevitabilmente li pervade. Ma mentre l’occupazione israeliana si trascina e la sua fine si allontana continuamente, dei dubbi stanno lacerando la mia un tempo ferma convinzione che presto sarebbe sicuramente accaduto qualcosa che avrebbe fatto cadere l’occupazione, come un albero che sembra robusto ma all’interno è marcio.

Il caso più spaventoso è quello dell’America e dei nativi americani, storia di una conquista diventata permanente, con i conquistati ammassati in riserve dove hanno indipendenza e autodeterminazione solo in teoria e i loro diritti come cittadini vengono ignorati.

Occupazione senza fine

In altre parole, ci sono per davvero occupazioni che vanno avanti all’infinito, sfidando la statistica e tutte le previsioni, persistendo e durando fino a quando il popolo conquistato smette di essere una nazione e diventa una curiosità antropologica che vive nella sua gabbia in una riserva. Questo accade quando l’occupazione è particolarmente potente e i vinti sono particolarmente deboli e il mondo perde interesse per il loro destino. Un futuro del genere ora incombe sui palestinesi. Si trovano nel momento più pericoloso dalla Nakba nel 1948.

Divisi, isolati, privi di una leadership forte, sanguinanti ai margini della strada, stanno perdendo lentamente il loro bene più prezioso: la solidarietà che hanno suscitato in tutto il mondo, soprattutto nel sud del mondo.

Yasser Arafat era un’icona globale; non c’era posto sulla terra in cui il suo nome non fosse noto. Nessun leader palestinese oggi nemmeno gli si avvicina. Peggio ancora, la causa palestinese sta gradualmente scomparendo dall’agenda mondiale poiché questa ruota su questioni urgenti come la migrazione, l’ambiente e la guerra in Ucraina. Il mondo è stanco dei palestinesi, il mondo arabo si è stancato di loro molto tempo fa e gli israeliani non si sono mai interessati a loro. Ciò potrebbe ancora cambiare, ma le tendenze attuali sono profondamente scoraggianti.

Un’altra Nakba sul modello del 1948 non sembra un’opzione realistica per Israele al momento attuale; la seconda è una Nakba continua, insidiosa e strisciante ma senza drammi eclatanti. C’è certamente qualcuno in Israele che si trastulla con l’idea che dietro il paravento di una qualche guerra futura, Israele potrebbe “finire il lavoro” completato solo in parte nel 1948. Voci minacciose in questa chiave hanno risuonato più forte ultimamente, ma rimangono una minoranza nel discorso pubblico israeliano.

Continuare con gli insediamenti? Perchè no?. Alla maggior parte degli israeliani semplicemente non importa. Non sono mai stati negli insediamenti, non ci andranno mai e non gli importa proprio nulla se Evyatar viene evacuato oppure no.

La lotta si è spostata da tempo sul fronte internazionale. Il passaggio cruciale verrà solo da lì, come è successo in Sud Africa. Ma una parte del mondo ha semplicemente perso interesse, e il resto si aggrappa alla formula della soluzione a due Stati come se fosse sancita da un editto religioso. Eppure, la maggior parte dei decisori sa già che la soluzione dei due Stati è morta da tempo, se mai in effetti è stata viva e vegeta.

La strada è l’uguaglianza

L’unica via d’uscita da questa impasse sconfortante è creare un nuovo discorso, un discorso di diritti e di uguaglianza. Le persone devono smettere di ripetere gli slogan degli anni passati e abbracciare una nuova visione. Per la comunità internazionale, questo dovrebbe essere ovvio; per gli israeliani e, in misura minore, i palestinesi, l’idea è rivoluzionaria, spaventosa ed estremamente dolorosa.

Uguaglianza. Pari diritti dal fiume al mare. Una persona, un voto. Così semplice eppure così rivoluzionario. Questo percorso richiede un distacco dal sionismo e il rifiuto della supremazia ebraica, di abbandonare interamente l’autodeterminazione di entrambi i popoli, ma rappresenta l’unico raggio di speranza.

In Israele fino a pochi anni fa questa idea era considerata sovversiva e illegittima, un tradimento. È ancora vista così, ma con relativamente meno vigore. È diventata esprimibile. Ora spetta alle società civili occidentali e poi ai politici abbracciare il cambiamento. La maggior parte di loro sa già che questa è l’unica soluzione rimasta, ma ha paura ad ammetterlo per non perdere la formula magica di una continua occupazione israeliana fornita dall’ormai morta soluzione dei due Stati.

Il presente è profondamente scoraggiante, il futuro non è da meno. E tuttavia persistere nel pensare che si possa ancora sperare in qualcosa, che si possa ancora intraprendere qualche azione è della massima importanza. La cosa peggiore che potrebbe accadere in questa parte del mondo sarebbe che tutti perdessero interesse per ciò che accade qui e si rassegnassero alla realtà attuale. Questo non deve succedere.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Oscenità israeliane, complicità occidentali e arabe

Alain Gresh

16 maggio 2022 – Orient XXI

Osceno. In base a quanto scrive il Dictionnaire étymologique de la langue française [Dizionario etimologico della lingua francese] di Alain Rey, l’aggettivo derivato dal latino obscenus significa “di cattivo augurio, sinistro”, ed è entrato nel linguaggio comune con il senso di “aspetto orrendo che deve essere nascosto”.

Antigone a Gerusalemme

È il primo aggettivo che viene in mente vedendo le immagini dei funerali della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh, assassinata mercoledì 11 maggio 2022 dall’esercito israeliano. Alcuni poliziotti assalgono la sua bara che rischia di essere rovesciata, manganellano i manifestanti, lanciano granate assordanti e strappano bandiere palestinesi. Anche al di là di ogni giudizio politico, questa azione mina nel più profondo la dignità umana, viola un principio sacro che risale alla notte dei tempi: il diritto ad essere sepolti con dignità, che riesuma il mito di Antigone, la quale si rivolge al re Creonte che rifiuta di seppellire suo fratello e di cui lei ha violato gli ordini:

Non ritengo che i tuoi proclami siano talmente potenti che le leggi degli dei, non scritte e sempre certe, possano essere superate da un semplice mortale.”

Israele non cerca affatto di nascondere le proprie azioni, perché non le considera oscene. Agisce alla luce del sole, con questa chutzpah, questa arroganza, questo sentimento coloniale di superiorità che caratterizza non solo la maggioranza della classe politica israeliana, ma anche gran parte dei media, allineati con la versione diffusa dai portavoce dell’esercito. Itamar Ben-Gvir ha un bell’essere un deputato fascista – come sono, con sfumature diverse, molti dei membri dell’attuale governo o dell’opposizione. Egli esprime un sentimento condiviso in Israele quando scrive: “Mentre i terroristi sparano sui nostri soldati a Jenin, essi devono rispondere con tutta la forza necessaria, anche quando ‘giornaliste’ di Al-Jazeera sono presenti nella zona in mezzo alla battaglia per ostacolare i nostri soldati.”

La sua frase conferma che l’assassinio di Shireen Abu Akleh non è un incidente, ma il risultato di una politica deliberata, sistematica, ragionata. Altrimenti come spiegare il fatto che mai nessuno dei giornalisti israeliani che informano sugli stessi avvenimenti è stato ucciso, mentre secondo Reporter Senza Frontiere (RSF) dal 2001 sono stati eliminati 35 dei loro colleghi palestinesi, in maggioranza fotografi e cineoperatori – i più “pericolosi” perché raccontano con le immagini quello che succede sul terreno? Questa asimmetria non è che una delle molteplici sfaccettature dell’apartheid all’opera in Israele-Palestina così ben descritto da Amnesty International: a seconda che siate occupante o occupato, per parafrasare La Fontaine, le “sentenze” israeliane vi renderanno bianchi o neri e la maggior parte delle volte la sentenza è la pena di morte per il più debole.

Il colpevole può indagare sul crimine che ha commesso?

L’uccisione di Shireen Abu Akleh ha suscitato per una volta qualche reazione internazionale ufficiale in più del solito. La sua notorietà, il fatto che fosse cittadina americana e di religione cristiana vi ha contribuito. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha persino adottato una risoluzione di condanna del crimine e chiesto un’inchiesta “immediata, approfondita, trasparente e imparziale”, senza peraltro arrivare ad esigere che sia internazionale, una cosa che Israele rifiuta sempre. Ora, si possono associare alla conduzione delle indagini i responsabili del crimine? Da anni le organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani come B’Tselem, o internazionali come Amnesty International o Human Rights Watch (HRW), hanno documentato il modo in cui le “indagini” dell’esercito israeliano non danno mai risultati.

Queste proteste ufficiali saranno seguite dai fatti? Si può già rispondere di no. Non ci sarà un’inchiesta internazionale, perché né l’Occidente né i Paesi arabi che hanno normalizzato i rapporti con Israele sono pronti ad andare oltre le denunce verbali che non danno fastidio a nessuno. Né a riconoscere quello che peraltro la storia recente conferma, cioè che ogni concessione fatta ad Israele, invece di provocare la “moderazione” di Tel Aviv, incoraggia la colonizzazione e la repressione. Chi ricorda che gli Emirati Arabi Uniti (EAU) sostenevano che l’apertura di un’ambasciata di Tel Aviv ad Abu Dhabi avrebbe permesso di influenzare la politica israeliana? E la compiacenza di Washington o dell’Unione Europea (UE) nei confronti del governo israeliano, “il nostro alleato nella guerra contro il terrorismo”, ha forse portato almeno a un rallentamento della colonizzazione dei territori occupati, che peraltro essi fingono di condannare?

La Corte Suprema ratifica l’occupazione

Due fatti recenti hanno da poco confermato l’indifferenza totale del potere israeliano rispetto alle “rimostranze” dei suoi amici. La Corte Suprema israeliana ha approvato il più grande spostamento forzato di popolazione dal 1967: l’espulsione di più di 1.000 palestinesi che vivono in otto villaggi a sud di Hebron scrivendo, senza alcuna vergogna, che le leggi israeliane sono al di sopra del diritto internazionale. Troppo occupati a punire la Russia, gli occidentali non hanno reagito. E lo stesso giorno delle esequie di Shireen Abu Akleh il governo israeliano ha annunciato la costruzione di 4.400 nuovi alloggi nelle colonie in Cisgiordania. Perché dovrebbe moderarsi, dato che sa di non rischiare alcuna sanzione e che le condanne, quando ci sono, finiscono nella carta straccia del ministero degli Esteri israeliano e sono compensate dal costante richiamo al sostegno per Israele?

Un sostegno rinnovato nel maggio 2022 da Emmanuel Macron, che si è impegnato a rafforzare con questo Paese “la cooperazione in tutti i campi, anche a livello europeo […] La sicurezza di Israele è al centro della nostra collaborazione.” Ha persino lodato gli sforzi di Israele “per evitare un’escalation” a Gerusalemme.

Quello che sta avvenendo in Terra Santa da decenni non è né un episodio di “guerra contro il terrorismo” né un “conflitto” tra due parti uguali, come fanno intendere certi titoli dei media e certi commentatori. I palestinesi non sono attaccati da extraterrestri come potrebbe far pensare la reazione del ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian sul suo account ufficiale di Twitter: “Sono profondamente scioccato e costernato di fronte alle inaccettabili violenze che hanno impedito che il corteo funebre della signora Shireen Abu Akleh avvenisse nella pace e nella dignità.”

Quanto a tutti quelli che danno lezioni ai palestinesi rimproverandoli per l’uso della violenza, comunque molto minore di quella degli israeliani, ricordiamo quello che scrisse Nelson Mandela, diventato un’icona imbalsamata da molti commentatori, mentre era un rivoluzionario che conduceva la lotta armata per porre fine al regime dell’apartheid di cui Israele è rimasto uno degli alleati più fedeli fino all’ultimo:

È sempre l’oppressore, non l’oppresso, che determina la forma della lotta. Se l’oppressore utilizza la violenza, l’oppresso non avrà altra scelta che rispondere con la violenza. Nel nostro caso non è stata altro che una forma di legittima difesa.”

Sicuramente non si saprà mai l’identità del soldato israeliano che ha premuto il grilletto e ucciso la giornalista palestinese. Ma quello che già si sa è che la catena di complicità è lunga. Se ha origine a Tel Aviv, essa arriva fino a Washington, entra di soppiatto ad Abu Dhabi e a Rabat, penetra a Parigi e a Bruxelles. L’uccisione di Shireen Abu Akleh non è un atto isolato, ma un crimine collettivo.

Alain Gresh

Specialista del Medio Oriente, è autore di molte opere, tra cui De quoi la Palestine est-elle le nom ? [Di cos’è il nome la Palestina?] (Les Liens qui libèrent, 2010) e, con Hélène Aldeguer, Un chant d’amour. Israël-Palestine, une histoire française, [Un canto d’amore. Israele-Palestina, una storia francese] (La Découverte, 2017). È il direttore di Orient XXI.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Cosa unisce i suprematisti americani bianchi e la brutale aggressione israeliana contro i palestinesi

David Rothkopf

16 maggio 2022 – Haaretz

Un killer razzista uccide dieci persone a Buffalo, New York. La polizia israeliana carica i partecipanti al funerale della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Due eventi, due mondi lontani, ma con molto in comune

A Buffalo, New York, un diciottenne entra in un negozio di alimentari e apre il fuoco uccidendo dieci persone. Sulla canna del suo fucile è inciso un epiteto razzista così offensivo che quasi tutti i media (anglosassoni) dicono semplicemente “n-word, [n**ro].”

La polizia israeliana aggredisce brutalmente i partecipanti al funerale della giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh. Strappa la bandiera palestinese dal suo feretro che veniva trasportato a spalla. 

Due eventi, due mondi lontani. Cosa potrebbero mai avere in comune?

Dopo tutto Payton S. Gendron, lo stragista di Buffalo, era un noto antisemita che temeva che ebrei, neri e persone di colore stessero cercando di “sostituire” i bianchi. Un altro simbolo trovato sulla sua arma, il numero 14, evoca un credo della supremazia bianca: “Dobbiamo garantire l’esistenza della nostra gente e un futuro ai bambini bianchi.” Si è trattato di un criminale. 

Secondo la polizia israeliana si stava cercando di “agevolare un funerale calmo e dignitoso. “Cosa potrebbe mai avere a che fare il suo comportamento con quello di un razzista squilibrato che considera quelli diversi da lui come un pericolo mortale e, di conseguenza, si è sentito giustificato a ricorrere alla violenza contro di loro?

Gendron è stato collegato a un manifesto di 180 pagine in cui elogiava altri killer razzisti, tra cui Robert Gregory Bowers, che [nel 2018] ha attaccato la sinagoga Tree of Life a Pittsburgh in cui morirono undici persone e sei rimasero ferite. Come potrebbe mai avere qualcosa in comune con una forza di polizia incaricata di proteggere un popolo che lui detesta?

Eppure l’impulso alla base di entrambi gli attacchi è stato l’odio alimentato dalla paura dell’ “altro.” Sì, sia Gendron che la polizia israeliana hanno agito con totale indifferenza per la vita o il senso morale umani. Sì, la polizia e Gendron stavano attivamente proteggendo una visione del mondo secondo cui le persone di razze e fedi diverse sono viste come inferiori, e negare loro le libertà fondamentali, persino privarle della vita, è diventato normale.

Sì, la teoria della sostituzione dei bianchi sostenuta da Gendron è propagandata da media di destra come Fox News di Rupert Murdoch. E sì, quando Tucker Carlson, star della Fox, è stato attaccato per aver sposato “la teoria della sostituzione dei bianchi,” in sua difesa ha citato il caso di Israele: “È irrealistico e inaccettabile aspettarsi che lo Stato di Israele sovverta volontariamente la propria esistenza sovrana e la propria identità nazionalista e diventi una minoranza vulnerabile all’interno di quello che una volta era il suo territorio.”

Per quanto ripugnanti siano le frasi di Carlson è facile capire la logica che l’ha portato a citare le opinioni israeliane sui palestinesi come simili a quelle dei suprematisti bianchi americani verso i non cristiani e i non bianchi.

Il razzismo e l’odio dei media di destra in entrambi i Paesi sono direttamente collegati a partiti politici negli USA e in Israele che hanno attinto all’odio e alle paure razziali per alimentare la propria popolarità: nel caso degli USA il GOP [il Great Old Party, il partito repubblicano, ndt.], e in particolare il movimento di Donald Trump con il suo slogan MAGA [Make America Great Again, rendiamo l’America di nuovo grande, ndt.], e nel caso di Israele le coalizioni di destra che hanno sostenuto Bibi Netanyahu e ora sostengono il primo ministro Naftali Bennett.

In effetti questi potenti movimenti politici e i loro benefattori e accoliti nei media hanno fatto da megafono e operato per istituzionalizzare la loro intolleranza. È così, sia che si manifesti negli USA, dove si fa di tutto per scoraggiare gli elettori di colore, si erige un muro lungo la frontiera o si rinchiudono i bambini in gabbie, che in Israele, con un sistema che è stato giustamente condannato perché impone un sistema di apartheid, di cittadinanza di seconda classe, di limitazione dei diritti e di violenza seriale contro i palestinesi.

No, commettendo il suo crimine Gendron non stava lavorando per lo Stato come la polizia israeliana quando ha brutalmente e ingiustificabilmente aggredito coloro che in lacrime seguivano il corteo funebre. Ma il suo razzismo è direttamente collegato a un potente movimento politico statunitense, lo stesso che gli ha messo in mano un’arma, proprio come nel caso della polizia israeliana, che ha bastonato chi trasportava la bara e negato un funerale decente a una cittadina palestinese-americana estremamente rispettata che si meritava molto di meglio.

Naturalmente è facile stabilire un legame fra questi due atti, entrambi spregevoli, ripugnanti e offensivi, secondo qualsiasi norma morale. Ma è pericoloso accostare eventi solo per la loro vicinanza temporale. Sarebbe un errore farlo se tale analogia ne minimizzasse uno o travisasse l’altro.

Detto ciò, sarebbe anche un errore non vedere le somiglianze, poiché i due atti sono in effetti associati a movimenti tossici che rappresentano una gravissima minaccia per i Paesi in questione, specialmente quando questi due Paesi, USA e Israele, sono intimamente legati.

Entrambi sono scaturiti da un odio irrazionale fomentato da politici etno-nazionalisti che hanno reso ancora più possibili tali reati, offrendo la giustificazione per gli attacchi (anche se l’orrendo comportamento era di natura molto diversa) e, in un modo o nell’altro, rendendo disponibili le armi usate per commettere questi crimini. 

(E prima di dire che nell’aggressione israeliana non è morto nessuno, quanti palestinesi innocenti sono morti senza giustificazione per mano di polizia o esercito israeliani? Non sappiamo ancora esattamente a chi appartenessero i proiettili che hanno ucciso Shireen Abu Akleh, ma è persino troppo facile citare altri casi. Sappiamo anche che le indagini sulla sua morte saranno probabilmente inconcludenti e che tali crimini continueranno, spesso in conseguenza del calcolo delle istituzioni israeliane che regolarmente valutano le vite dei palestinesi meno di quelle israeliane.)

Sono ben consapevole che alcuni incaselleranno tale analisi fra le tipiche affermazioni da ebreo americano critico di Israele o del sionismo, spesso equiparate all’antisemitismo dagli esponenti della destra israeliana. Loro, come quelli della destra americana, sono allergici al dissenso e propendono a mettere in dubbio la reputazione dei loro oppositori.

Ma se sionismo significa sostenere il tipo di razzismo di uno Stato creato per fuggirlo, allora sostenerlo e chiudere un occhio davanti alle violazioni e ai valori corrotti che lo appoggiano è in realtà il vero atto di antisemitismo.

Proprio come nel partito Repubblicano negli USA, molti appartenenti all’ala destra del governo israeliano hanno perso la strada e stanno danneggiando il proprio Paese più di quanto non potrebbero farlo i loro nemici. E proprio come negli USA la cura consiste nell’accantonare gli eufemismi, il cerchiobottismo e le scuse e riconoscere che entrambi i nostri Paesi stanno soffrendo per l’istituzionalizzazione di forme di razzismo che vanno nella direzione contraria ai nostri valori fondanti, anche se per niente contrarie alla verità effettiva della storia in entrambe le nazioni.

L’ultimo libro di David Rothkopf si intitola: ‘Traitor: A History of Betraying America from Benedict Arnold to Donald Trump’ [Traditore: una storia del tradimento in America da Benedict Arnold a Donald Trump]. È anche conduttore di podcast e amministratore delegato del Rothkopf Group.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Come la copertura mediatica americana travisa la violenza di Stato perpetrata da Israele contro i palestinesi

Laura Albast e Cat Knarr

28 aprile 2022 – Washington Post

Laura Albast, giornalista e traduttrice palestinese americana, è direttrice responsabile della strategia digitale e comunicazioni presso l’Institute for Palestine Studies-USA.

Cat Knarr, scrittrice di origini palestinesi e colombiane, direttrice della comunicazione presso l’U.S. Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi].

All’alba del 15 aprile la polizia israeliana ha attaccato i fedeli palestinesi nella sacra moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Hanno usato granate stordenti, lacrimogeni e proiettili di acciaio ricoperti di gomma e ferito oltre 150 persone. Da allora le forze israeliane hanno lanciato nuove incursioni, imprigionando oltre 300 palestinesi presso il complesso di Al-Aqsa e impedendo ai cristiani palestinesi di entrare nella chiesa del Sacro Sepolcro. Questa violenza attentamente calcolata giunge mentre i musulmani palestinesi vivono gli ultimi giorni del Ramadan.

Se si guardano le immagini di ciò che è successo, le dinamiche sono ovvie: militari con equipaggiamenti e armi contro fedeli inginocchiati in preghiera. Tuttavia i media occidentali abitualmente etichettano tali situazioni come “complicate,” ritraendo questa violenza di Stato come “scontri” e “tensioni” fra le due parti. Titoli in testate come Associated Press [agenzia di stampa USA, ndt.], New York Times, Guardian, Wall Street Journal, NBC News e altri usano un linguaggio che non descrive lo squilibrio di potere fra l’apparato militare israeliano e il nativo popolo palestinese.

Questo è uno schema che si ripete regolarmente nella copertura mediatica sulla Palestina. Noi palestinesi non veniamo ammazzati: semplicemente moriamo. Quando le forze israeliane irrompono nei nostri quartieri nel cuore della notte, tirano bombe contro i nostri bambini, demoliscono le nostre case, colonizzano le nostre terre e uccidono la nostra gente noi siamo, per certi versi e allo stesso modo, degli istigatori. Le descrizioni dei media regolarmente implicano che ci sia una falsa simmetria fra occupante e occupato, sostenendo narrazioni anti-palestinesi e islamofobiche che incolpano il popolo palestinese delle aggressioni israeliane.

Questo contrasta con la copertura della guerra in Ucraina, dove i media occidentali dicono chiaramente che la Russia è l’aggressore e che il popolo ucraino sta resistendo come farebbe chiunque se la propria patria fosse invasa. Dall’invocare sanzioni contro Mosca ad approvare l’uso di molotov contro i soldati russi a Kiev, le principali testate occidentali sostengono i tentativi di autodifesa degli ucraini.

Eppure quando si arriva all’occupazione israeliana della Palestina questi stessi organi di stampa spesso non nominano affatto l’aggressore. I civili ucraini che tirano bottiglie molotov contro i carri armati russi sono “coraggiosi,” ma il quattordicenne Qusai Hamamrah è stato rappresentato come uno che rappresentava una minaccia immediata dopo che i soldati israeliani hanno detto che aveva tirato una molotov contro di loro. Questa è una notevole differenza razzista nella copertura che ha ignorato i resoconti di testimoni oculari secondo cui il ragazzo stava correndo per nascondersi dalle pallottole israeliane dirette contro un altro palestinese.

Le redazioni non possono decidere quale violenza approvata dallo Stato sia legittima. Devono sforzarsi di raccontare le azioni dell’esercito israeliano e dei coloni israeliani nello stesso modo in cui quelle stesse violenze sono riportate dall’Ucraina e da altri Paesi. Il governo israeliano è infatti estremamente consapevole del potenziale dei media di denunciare tali violenze. Lo scorso maggio le forze israeliane hanno bombardato gli uffici dei servizi informativi nella Striscia di Gaza e ad Al-Aqsa hanno attaccato giornalisti come Nasreen Salem.

La scorsa estate oltre 500 giornalisti hanno firmato una lettera aperta denunciando le pratiche dannose e scorrette nella copertura mediatica americana sulla Palestina. La protesta non è stata ascoltata e le pratiche scorrette continuano a essere la norma.

Questo mese l’Arab and Middle Eastern Journalists Association ha ricordato ai giornalisti di stare attenti a linguaggio e contesto e ha nuovamente diffuso le linee guida sulla copertura mediatica rilasciate durante l’attacco mortale israeliano contro Gaza dell’anno scorso durante il quale furono uccisi 259 palestinesi, di cui 66 minori. Le raccomandazioni chiedono ai reporter di riconoscere che i palestinesi sono sottoposti a un sistema ingiusto e iniquo che è stato documentato come apartheid da parte di organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, Amnesty International e dall’israeliana B’Tselem [ong per i diritti umani, ndt.]. Ha anche chiesto che i giornalisti trattino con accuratezza il contesto religioso e “dicano ai lettori chi è stato ucciso o ferito, dove e da chi, usando espressioni linguistiche attive e non passive.”. In pratica ciò significa chiarire chi è l’aggressore, quali azioni ha compiuto e contro chi.

I giornalisti hanno la responsabilità di riportare i fatti senza parzialità. Il giornalismo tratta di persone: delle loro vicende, della loro storia, della loro realtà. Ciò include anche il popolo palestinese. Il racconto dei fatti deve comprendere la ricerca delle voci dei palestinesi, ponendo in discussione le dichiarazioni delle fonti ufficiali prima di riferirle come verità.

Trascurando di contestualizzare la violenza di Stato perpetrata da Israele, i media hanno dato il via libera al governo israeliano, permettendogli di continuare impunemente la pulizia etnica del popolo palestinese. È ora che le testate affrontino i danni fatti. Dovrebbero tentare di assumere giornalisti palestinesi concentrandosi sulle voci palestinesi invece di cancellarle sistematicamente dal loro racconto. Gli infiniti filmati di violenze documentate contro i palestinesi non dovrebbero restare confinate ai feed dei social media (che devono affrontare una forma diversa di censura).

Invece di trasmettere narrazioni incomplete che lasciano il campo libero all’aggressione israeliana, i media devono cominciare a raccontare il quadro completo della situazione.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché una portavoce israeliana per la lotta all’antisemitismo diffonde la documentazione delle indagini contro un bambino palestinese?

Oren Ziv

26 aprile 2022 – +972 Magazine

La celebre attivista israeliana Noa Tishby ha diffuso foto inedite di un’indagine dell’esercito per giustificare l’arresto di un palestinese di 14 anni.

Le autorità responsabili della sicurezza israeliane stanno consegnando il materiale investigativo alle personalità di spicco online della hasbara [parola ebraica che indica la propaganda a favore dello Stato di Israele attraverso la diffusione di informazioni positive, ndtr.] per guadagnare consensi sui social media? Sembra proprio di sì.

Venerdì scorso l’attrice israeliana Noa Tishby, che questo mese è stata nominata prima portavoce speciale di Israele per la lotta all’antisemitismo e alla delegittimazione di Israele, ha pubblicato un video sulla sua pagina personale di Instagram in risposta a un post della top model palestinese-americana Bella Hadid. Hadid aveva condiviso una testimonianza su Athal al-Azzeh, un ragazzo palestinese di 14 anni arrestato due settimane fa dall’esercito israeliano con l’accusa di aver lanciato pietre, un’accusa che Athal ha categoricamente negato.

Nel suo video di risposta Tishby mostra due foto di un palestinese mascherato che fa rotolare un pneumatico, che sembra facciano parte del fascicolo investigativo dell’esercito israeliano su Athal – dato confermato da sua madre, Jinan, che afferma che le foto le sono state mostrate nel corso di un interrogatorio da agenti israeliani diversi giorni prima del post di Tishby. Il fascicolo dell’indagine, che non è pubblico, è stato molto probabilmente consegnato a Tishby dalle autorità.

Athal è stato arrestato il 15 aprile vicino al Checkpoint 300 a Betlemme, nella Cisgiordania occupata, mentre si dirigeva verso la casa di sua nonna nel campo profughi di Aida, vicino al muro di separazione. Sul luogo non erano in corso proteste ma nelle vicinanze, mentre lui passava, alcuni adolescenti stavano lanciando delle pietre contro la barriera di separazione.

Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, ha detto a +972 il padre di Athal, Ahmad, che svolge la professione di avvocato. Ahmad fa presente che sono passate poche ore prima che la famiglia ricevesse finalmente la notizia dal distretto palestinese dell’Ufficio di Coordinamento e Collegamento (DCO) [Uffici di coordinamento militare israelo-palestinese istituiti nell’ambito dell’accordo Gaza-Gerico del 1994 tra Israele e l’Autorità palestinese, ndtr.] che il loro figlio era stato arrestato, dopodiché hanno ricevuto una telefonata da un investigatore militare israeliano.

“Eravamo felici che fosse vivo, che almeno non l’avessero ucciso, soprattutto in un momento in cui sentiamo costantemente parlare di uso di armi da fuoco contro adolescenti”, dice Ahmad.

L’arresto di Athal ha attirato l’attenzione internazionale dopo che Bella Hadid ha condiviso un commento sul caso da parte dell’attivista israeliano di sinistra Yahav Erez, che ha ricevuto oltre 16.000 ‘mi piace’. Il post di Erez, che mostrava una foto di al-Azzeh mentre suonava il violino e cercava di convincere le autorità israeliane a rilasciarlo, riportava che Athal era “tenuto in ostaggio dall’apartheid israeliana”.

In risposta al post di Erez, Tishby sostenitrice di Israele di vecchia data, la cui nuova posizione di portavoce ricade sotto la competenza del ministero degli Esteri ha sostenuto su Instagram che Hadid stesse “propagandando antisemitismo”.

“Non è vero”, ha detto Tishby ai suoi follower. Non è stato rapito né è tenuto in ostaggio. È stato processato il 16 [aprile], ha visto un giudice due volte e ne è previsto il rilascio il 24. Athal è stato arrestato per aver lanciato sassi e bruciato pneumatici, cosa per cui sarebbe stato arrestato negli Stati Uniti o in qualsiasi altro Paese del mondo rispettoso della legge”.

Nel condividere il post, continua Tishby, Hadid sta “diffondendo odio e disinformazione, che demonizza lo stato ebraico e fa divampare – sì, Bella – divampare l’antisemitismo”, aggiungendo che Athal dovrebbe “concentrarsi maggiormente sul suo violino piuttosto che sulla violenza contro gli ebrei.

Il video di Tishby includeva foto di palestinesi mascherati che sembrano essere state scattate dalle telecamere di sicurezza israeliane posizionate lungo la barriera di separazione, presumibilmente durante gli scontri con le forze israeliane. Jinan, la madre di Athal, ha detto che mercoledì scorso, diversi giorni prima che Tishby pubblicasse il suo video, dopo essere stata condotta alla stazione di polizia di Atarot, gli agenti israeliani che la interrogavano le hanno mostrato, tra l’altro, le due foto viste nel pezzo postato da Tishby.

“Ho visto le foto che sono apparse su Instagram”, ricorda. Sono esattamente le stesse foto [che mi hanno mostrato]. Mi hanno mostrato le due immagini e volevano che dicessi che era mio figlio, ma ho detto loro che non lo era. Mi hanno chiamata bugiarda”.

Dal momento del suo arresto Athal ha affrontato quattro udienze presso il tribunale militare di Ofer, una delle quali si è svolta martedì scorso. È stato accusato di lancio di pietre e di aver dato fuoco a pneumatici. “Mio figlio non ha fatto nulla e ha negato tutte le accuse contro di lui”, afferma Jinan. “Nel corso delle indagini hanno continuato a fare pressioni su di lui con l’uso di tattiche psicologiche per costringerlo a confessare”.

Ahmad ha detto che quando ha incontrato suo figlio a Ofer Athal gli ha riferito che gli agenti che conducevano l’interrogatorio lo hanno minacciato di tenerlo in prigione “per sempre”, ma Athal si è rifiutato di ammettere le accuse. “Ciò li disturba”, ha aggiunto Ahmad. Io stesso sono un avvocato e molto spesso in casa abbiamo parlato della legge. Lui lo sa”. Athal ha anche detto ai suoi genitori che se si fosse rifiutato di confessare, anche loro sarebbero stati sottoposti ad interrogatorio. Le autorità hanno mantenuto la loro promessa e la scorsa settimana hanno convocato Jinan.

Violazione del diritto ad un procedimento equo

Non sorprende che, nonostante le affermazioni di Tishby, Athal non sia stato rilasciato il 24 aprile, ma al contrario sia stato portato per un’udienza a Ofer, dove la sua custodia cautelare è stata prolungata.

Ho visto il post [di Tishby]. Speravo che riportasse la verità e che sarebbe stato rilasciato, ma sfortunatamente non è stato così”, dice Ahmad. Non ho alcuna speranza, ma chissà. Voglio continuare a credere che Dio lo aiuti e che il giudice ordini il rilascio di [Athal]”.

Lo stesso Ahmad ha pubblicato due commenti sul video di Tishby su Instagram prima e dopo l’indicazione da parte sua della data di rilascio. Tra le altre osservazioni ha scritto (riformulato per maggiore chiarezza): Ti permetti di essere poco professionale e di parlare a nome dell’intelligence israeliana. Stai diffondendo bugie su un ragazzo innocente di 14 anni”. Trascorso il 24 aprile, ha pubblicato un’ulteriore risposta: “Athal è stato torturato dal tuo esercito e la madre di Athal è stata sottoposta a un inferno di interrogatori che volevano costringerla a condannare suo figlio – hai qualche risposta in merito? Mentre ti godi l’abbronzatura sulla spiaggia noi palestinesi veniamo torturati dal tuo governo”.

In un’udienza tenutasi martedì presso il tribunale militare di Ofer il giudice Noam Breiman ha ordinato il rilascio di Athal su una cauzione di 4.000 NIS [nuovi shekel israeliani, 1147 euro, ndtr.], nonché una cauzione sulla responsabilità di terzi di 5.000 NIS [1433 euro, ndtr.]. I procedimenti legali continueranno e Athal rischia di essere giudicato alla fine di maggio.

Il giudice ha stabilito che il lancio di pietre avvenuto durante il passaggio di Athal non era diretto ai soldati israeliani ma piuttosto a una torre di guardia e che a causa della sua taglia fisica è dubbio che le pietre possano aver causato danni significativi.

L’arresto di minori palestinesi, compresi adolescenti, è una pratica israeliana comune nella Cisgiordania occupata. Secondo Addameer, un’organizzazione impegnata a favore dei diritti dei prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e palestinesi, Israele detiene attualmente in prigione 160 minori palestinesi.

Proprio questa settimana Haaretz ha riferito che, secondo i dati dell’esercito, tra il 2018 e l’aprile 2021, il 96% dei processi nei tribunali militari israeliani si è concluso con una condanna e il 99,6% di tali condanne è stato ottenuto tramite un patteggiamento. Questa tendenza dominante è evidente nel caso di Athal, poiché l’esercito e il sistema giudiziario militare cercano chiaramente di fare pressioni su di lui affinché confessi le accuse durante gli interrogatori, aprendo la strada a un patteggiamento.

Riham Nassra, un avvocato che rappresenta i detenuti palestinesi nei tribunali militari, ha affermato che la pubblicazione di materiale investigativo prima che venga emessa un’accusa, come ha fatto Tishby, è illegale e indica che il materiale è effettivamente trapelato. “Anche se quei materiali sono stati in qualche modo presentati all’udienza del tribunale, era illegale che venissero diffusi: ciò viola il diritto a un processo equo, soprattutto quando si tratta di un minore la cui udienza si tiene a porte chiuse e può anche interrompere o danneggiare l’indagine”.

Il ministero degli esteri israeliano, che sovrintende al ruolo di Tishby come portavoce speciale per la lotta all’antisemitismo, ha dichiarato: “Il video di Noa Tishby è stato pubblicato in risposta a un video ingannevole pubblicato sui social media con informazioni deliberatamente false sull’arresto di un giovane palestinese, al fine di offuscare l’immagine di Israele e delegittimare le sue azioni. In coordinamento con vari organismi abbiamo condotto un esame dei fatti che hanno costituito la base per la risposta di Noa Tishby. Le foto pubblicate non rivelano il volto del detenuto e quindi non vi è alcun impedimento alla loro pubblicazione. In particolare, il ministero degli Esteri non ha negato esplicitamente di aver consegnato i materiali per la pubblicazione da parte di Tishby.

Il portavoce dell’IDF [esercito israeliano, ndtr.] deve ancora rispondere alla nostra richiesta di commento.

Oren Ziv è un fotoreporter e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [organizzazione internazionale di fotografi e fotoreporter che utilizzano l’immagine fotografica come strumento contro ogni forma di oppressione, razzismo e discriminazione, in particolare nel territorio palestinese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Peter Beinart. “Un quarto degli ebrei americani considera Israele uno Stato di apartheid”

Sylvain Cypel – Sarra Grira – Peter Beinart

11 aprile 2022 – Orient XXI

In occasione del Forum di Doha (26-27 marzo 2022) abbiamo incontrato Peter Beinart, direttore della rivista progressista ebraica Jewish Currents per evocare con lui l’evoluzione dell’opinione negli Stati Uniti e di quella della comunità ebraica riguardo a Israele.

Il 15 marzo 2022 l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la lobby ufficiale filoisraeliana nel Congresso americano, ha divulgato l’elenco dei beneficiari del suo sostegno finanziario per le elezioni della Camera dei Rappresentanti e di parte dei senatori del novembre 2022 negli Stati Uniti. Tra essi sono presenti 40 candidati repubblicani della frangia più estremista, che tuttora contestano l’elezione alla presidenza del democratico Joe Biden e soprattutto rifiutano di prendere le distanze dai rivoltosi fedeli a Trump che il 6 gennaio 2021 hanno invaso il Campidoglio nella speranza di impedire l’insediamento del nuovo presidente. Il sostegno finanziario fornito dalla lobby filoisraeliana a questi candidati ha suscitato reazioni indignate negli Stati Uniti, anche all’interno della comunità ebraica.

Richard Haass, un noto diplomatico oggi presidente del Consiglio per le Relazioni Estere, il principale gruppo di esperti specializzato nelle questioni internazionali, ha espresso l’opinione che il sostegno dell’AIPAC a politici che aprono all’idea di “minare la democrazia” segna la “sconfitta morale” della lobby. Abe Foxman, per lungo tempo presidente dell’Anti-Defamation League, la principale organizzazione americana di contrasto all’antisemitismo, ha affermato che l’organizzazione ha commesso “un deplorevole errore”. “Non è il momento per il movimento filoisraeliano di compiere una selezione tra i propri amici”, ha replicato la lobby. In altri termini, non se ne parla per Israele di privarsi del sostegno di persone motivate dalla preservazione della supremazia bianca, anche a costo di abbandonare la democrazia.

Sono queste le questioni che abbiamo affrontato con Peter Beinart, le cui considerazioni abbiamo raccolto qui di seguito sotto forma di editoriale.

Fine dell’orientamento bipartisan della lobby filoisraeliana

“Gli Stati Uniti sono una democrazia molto giovane. Fino agli anni ’60 questo Paese non era realmente tale, poiché vi dominava la segregazione razziale. In seguito questa è stata abolita, ma l’America continua a mantenere una grande quantità di norme sociali appartenenti al passato. Ora la popolazione diventa ogni giorno meno bianca e meno cristiana. Il dibattito che emerge in questo Paese è il seguente: è in grado di diventare una vera democrazia multirazziale? Sessant’ anni fa il movimento per i diritti civili aveva dato inizio a questo cambiamento. Fu favorita dal fatto che a partire dal 1965 nuove leggi sull’immigrazione hanno consentito che un grande numero di immigrati si stabilisse negli Stati Uniti1, di cui il 90% non era europeo. Ciò ha condotto alla vittoria di Barack Obama nel 2008. Ma in quel momento non si poteva immaginare la reazione che questo processo avrebbe suscitato. Essa ha seguito un percorso sempre più chiaramente accolto: se la democrazia deve comportare la perdita del dominio dei bianchi, allora si può fare a meno di una tale democrazia. Ciò ha condotto all’elezione di Donald Trump e questo movimento reazionario prosegue tuttora, forse ancor più potentemente.

“Per molto tempo gli Stati Uniti sono stati governati da due partiti che in fondo non erano profondamente diversi. Certo c’erano delle differenze, ma erano anche molto simili. Se si considera la rielezione di Bill Clinton contro il repubblicano Bob Dole nel 1996, la distanza tra loro non era poi troppo ampia. Ma nel corso di una generazione il partito democratico è diventato “il partito della diversità”, più aperto alle rivendicazioni delle donne, delle minoranze razziali e degli immigrati, mentre il partito repubblicano è diventato quello dei maschi bianchi cristiani. Trent’anni fa c’erano democratici contrari all’aborto e repubblicani che sostenevano la libertà delle donne di poter decidere. Oggi questo sarebbe impossibile. Abbiamo due partiti completamente polarizzati in uno scontro diretto radicale.

“Qual è il legame tra questa evoluzione e il rapporto con Israele? Se prendiamo il caso dell’AIPAC, storicamente questa lobby ha sempre agito allo scopo di mantenere un accordo bipartisan della classe politica nel sostenere Israele. Ma nel contesto che ormai prevale negli Stati Uniti è tale la divisione tra l’adesione senza riserve dei repubblicani alla destra e all’estrema destra israeliana e le critiche formali dei democratici nei confronti della politica israeliana di colonizzazione, che un sostegno bipartisan diventa sempre meno possibile. La decisione dell’AIPAC di sostenere dei parlamentari favorevoli ai rivoltosi del 6 gennaio 2020 è la conseguenza della crescente distanza tra i due campi. E questa distanza non si delinea solo a livello politico. Essa attraversa tutta la società americana. Quando ero ragazzo la differenza tra essere democratico e repubblicano non era questione di identità. Ormai ciascuno ha la sensazione che la posta in gioco sia esistenziale; ognuno percepisce il campo avverso come una minaccia alla propria identità e integrità.

“Il giorno in cui è stata ufficializzata la vittoria di Joe Biden, dopo tutti i riconteggi dei voti, è stata una follia: a New York, dove abito, la gente apriva le finestre e gridava di gioia. Non era altro che l’elezione di Biden, ma la si viveva come fosse una rivoluzione! L’incubo Trump era finito. Ma altrove i sostenitori repubblicani erano sia depressi che rabbiosi, convinti che le elezioni gli fossero state rubate. In breve, il centro della scacchiera politica è quasi scomparso. È per questo che la decisione dell’Aipac di sostenere i parlamentari che contestano il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 e rifiutano di prendere le distanze dai rivoltosi è particolarmente importante. Significa che la sua linea “bipartisan” è finita. Ormai la lobby si allea con il campo che sostiene Israele in ogni circostanza e poco importa che questo schieramento conduca una battaglia contro la democrazia negli Stati Uniti. L’AIPAC lo sa e vi si unisce con piena cognizione di causa.

Americani ebrei piuttosto che ebrei americani

“Parallelamente si assiste ad una crescente polarizzazione nell’ambito dell’ebraismo americano. Negli anni ’50 nella comunità ebraica c’era un grande schieramento “centrista”. Era costituito dagli ebrei afferenti a due correnti religiose: quella chiamata “riformata” e quella detta “conservatrice”. Queste due tendenze non seguivano rigorosamente le regole religiose dell’ebraismo e speravano di inserirlo nella modernità. La maggior parte degli ebrei seguiva una di queste due tendenze. Che ne è oggi? L’affiliazione conservatrice è quasi scomparsa. Gli ebrei riformati restano maggioritari, ma l’obbedienza detta “ortodossa” (o “ultra-ortodossa”) da diversi decenni vive una formidabile crescita. Per la generazione che oggi ha meno di dieci anni essa sarà indubbiamente maggioritaria. Di contro, l’altra tendenza che cresce notevolmente tra gli ebrei è quella di svincolarsi da ogni corrente religiosa.

“Questo si avvicina molto a ciò che avviene in Israele, con una palese differenza: tra gli ebrei americani i non religiosi sono molto più di sinistra di quelli israeliani. Oggi nella comunità ebraica ultra-ortodossa non trovereste nessuno che abbia votato per Joe Biden. D’altro canto, la vera religione degli ebrei laici americani è il progressismo. Questo schieramento si allontana sempre più da Israele. E i giovani ebrei progressisti non si percepiscono come ebrei americani, bensì come americani ebrei. A differenza della generazione precedente, la loro identità americana è più forte di quella ebraica. Non è che detestino Israele, è che Israele non costituisce la loro principale preoccupazione.

“Detto ciò, anche tra i non religiosi si trovano giovani che ancora si identificano molto chiaramente come ebrei e che sono i più feroci critici di Israele, perché hanno una visione molto più universalista dell’ebraismo. Se ne trovano in J-Street (una piccola lobby progressista filoisraeliana), ma ancor di più in Jewish Voice for Peace (JVP)2. Se ne trovano anche molti tra i lettori di Jewish Currents [rivista ebraica laica americana progressista, ndtr.]. Il loro ruolo è crescente. Questa categoria di ebrei americani è sempre più inserita all’interno della sinistra radicale in senso ampio: è legata alle lotte a favore dei neri, degli immigrati e dei palestinesi.

Wes hall overcome” ad un posto di blocco

“Su quest’ultimo punto la differenza tra J-Street e JVP è molto grande. J-Street rappresenta coloro che affermano: “Noi siamo gli ebrei buoni che vogliono salvare Israele da sé stesso”. JVP ha una strategia che mi pare più sensata: per loro si tratta di essere alleati dei palestinesi, come i bianchi progressisti sono alleati dei neri. Sono anche più interessanti. Negli anni 2010 un gran numero di giovani ebrei passati per J-Street l’hanno lasciata per diventare più radicali aderendo a ‘If not Now’ [‘Se non ora’], un’associazione la cui ambizione è rappresentare gli ebrei che lottano contro l’occupazione della Palestina. Ma stanno cominciando ad andare in crisi. Perché, più semplicemente, non passare dalla parte dei palestinesi? Dato che questo movimento che ha il vento in poppa oggi non intende più esprimersi in nome dei “valori ebraici”, ma dei valori universali, dell’antirazzismo e dell’anticolonialismo.

“Questa svolta dei giovani ebrei si inserisce in un cambiamento più generale che si delinea negli Stati Uniti. Il movimento Black Lives Matter ha ripreso le fila della lotta antirazzista degli anni ’60. Negli anni tra il 1980 e il 2000 quella lotta si era parecchio indebolita. Ma le figure emergenti nella lotta dei neri sono più radicali. Il loro legame con i palestinesi è passato attraverso le immagini delle violenze delle forze di occupazione contro di loro, della brutalità quotidiana di questa occupazione. La serie di crimini compiuti dalla polizia negli Stati Uniti in questi ultimi anni, dall’uccisione di David Brown a Ferguson, a quella di Eric Garner3 a New York nel 2014, ha avuto un grande ruolo nello spingere i neri americani a stabilire un nesso con la situazione dei palestinesi. Ormai iniziano a percepire i palestinesi come vittime di un’identica sorte: noi abbiamo la nostra apartheid, loro hanno la loro. Ovviamente ciò fa impazzire i dirigenti delle organizzazioni ebraiche americane, che gridano all’insulto e denunciano l’ignoranza di questa analogia. Ma la loro posizione non passa, perché la sensazione è che i neri negli Stati Uniti siano tuttora discriminati e che i palestinesi lo siano in Palestina.

“L’AIPAC ad un certo punto ha investito molto per trovare alleati di Israele all’interno della comunità nera americana, del resto con un certo successo. Ma oggi, quando dei neri visitano Israele e si recano nei territori occupati, l’identificazione con la sorte riservata ai palestinesi è quasi immediata. Qualche anno fa delle deputate nere americane che erano in visita in Israele sono state condotte ad un posto di blocco. Sono rimaste talmente sconvolte che si sono messe a cantare “We shall overcome”, la più famosa canzone di protesta americana, cantata tra gli altri da Pete Seeger e Joan Baez. Queste persone, una volta rientrate negli Stati Uniti, sono spesso le più denigrate da parte dei sostenitori di Israele, perché testimoniano ciò che hanno visto e quanto ciò le abbia sconcertate. Per chi ha fatto questa esperienza il legame con la lotta dei palestinesi diventa molto forte.

Una nuova alleanza tra ultra-ortodossi e evangelici

“Dove porta tutto ciò? Io sono relativamente ottimista, ma molto dipenderà dall’evoluzione della società americana. Temo che la destra repubblicana abbia buone possibilità di vincere le elezioni legislative di novembre 2022. Ma i tempi lunghi non giocano a suo favore. Alle elezioni presidenziali i repubblicani non hanno più guadagnato un solo voto dal 2004. E l’evoluzione demografica non favorisce i bianchi. Lo stesso vale per la società ebraica negli Stati Uniti. Un recente sondaggio d’opinione mostra già ora che un quarto degli ebrei americani considera Israele “uno Stato di apartheid”4. Certamente il conflitto israelo-palestinese non fa più parte delle questioni principali negli Stati Uniti. Ed ogni volta che scoppia un conflitto armato tra Israele e Hamas si crea una mobilitazione in favore di Israele. Ma il fenomeno saliente è che la critica a Israele cresce molto di più.

“Se si verificheranno in Medio Oriente eventi così gravi da riempire i titoli dei principali giornali, se le immagini di Israele che bombarda edifici civili a Gaza si moltiplicheranno, il processo di divisione all’interno dei democratici si approfondirà. Durante gli ultimi scontri a Gaza nella primavera 2021 anche un incrollabile sostenitore di Israele come il senatore democratico di New York Chuck Schumer è stato costretto a prendere le distanze dai bombardamenti israeliani. Fate un giro all’AIPAC. Riscontrerete che tutte le persone di più di 60 anni sono laiche; il loro ebraismo si riduce al sionismo. Ma i loro figli non sono membri dell’AIPAC. Chi li ha sostituiti? Dei giovani “timorati di Dio” (altro termine che indica gli ebrei ultra-ortodossi) [sinonimo dei nazionalisti religiosi israeliani, ndtr.]. Andate a vedere la parata annuale a favore di Israele sulla quinta strada di New York e troverete una grande maggioranza di questi giovani. Non stupisce che l’Aipac sia diventata la sede di una nuova alleanza: quella tra gli ebrei ultra-ortodossi e gli evangelici [molte denominazioni degli evangelici si definiscono sioniste cristiane, ndtr.].

“Nel loro sostegno incondizionato ad Israele i repubblicani sono molto più sinceri dei democratici. È per questo che l’AIPAC non punta più su una politica di sostegno “bipartisan” ad Israele. Di fatto molti dei rappresentanti democratici esprimerebbero opinioni molto diverse da quelle che sostengono oggi se ritenessero che la loro posizione nei confronti di Israele non costasse loro cara in termini politici. Questo fenomeno è ancor più vero per una parte dei dirigenti della comunità ebraica americana. Quando nel 2020 ho scritto i miei articoli su Jewish Currents e sul New York Times auspicando la creazione di un solo Stato comune per ebrei e palestinesi5 mi sono imbattuto in reazioni piuttosto inquietanti. Ma erano imparagonabili a quelle che si erano scatenate contro (lo storico anglo-americano) Tony Judt quando nel 2003 aveva pubblicato il suo famoso articolo che invocava per la prima volta la formazione di un solo Stato che riunisse palestinesi ed israeliani6. Allora Judt è stato quasi escluso dal dibattito accettabile. Non è stato quello che è successo a me. Ciò dimostra l’evoluzione che è avvenuta nella società americana riguardo ad Israele. Vent’anni fa non erano i conservatori ad affossare Judt ed il suo testo, ma gli ebrei progressisti! All’epoca erano le figure di punta nel sostegno ad Israele.

“Oggi il loro peso è considerevolmente diminuito. Le principali voci di sostegno ad Israele sono ormai quelle dei conservatori. A questo fenomeno si aggiunge la nota evoluzione dei grandi media. Oggi quando guardate MSNBC [canale televisivo statunitense, ndtr.] o quando leggete il New York Times, The New Republic o il Washington Post, quando andate su Slate [rivista in rete liberale statunitense, ndtr.], i palestinesi vengono ormai presentati sotto una luce molto più favorevole. Di modo che quando ho pubblicato i miei articoli le cose erano cambiate. Molti possono essere in disaccordo con me, ma le mie parole non sono illegittime. In fin dei conti Tony Judt era ebreo7, ma parlava in nome di una filosofia universalista, in difesa dei diritti umani, non in nome di una visione specificamente ebraica. Quanto a me, rivendico il mio legame con l’ebraismo e con una forma di etica ebraica. Forse per questo sono più accettabile.”

Sylvain Cypel

E’ stato membro della redazione di Le Monde e precedentemente direttore di redazione del Courrier International.

Sarra Grira

Giornalista, laureata in letteratura francese. Responsabile delle pagine in arabo di Orient XXI.

Peter Beinart

Scrittore, direttore della rivista progressista ebraica Jewish Currents.

Note

1 Tra il 1965 e il 2015 60 milioni di stranieri si sono stanziati negli Stati Uniti e da allora il ritmo è rimasto più o meno uguale.

2Organizzazione ebraica antisionista che sostiene il movimento internazionale per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) contro Israele. I membri della direzione di JVP includono figure note come il linguista Noam Chomsky, il drammaturgo e sceneggiatore Tony Kushner, la filosofa Judith Butler, la saggista Naomi Klein, la scrittrice Sarah Schulman, l’attore e sceneggiatore Wallace Shawn e altri.

3 E’ stato il primo, nel 2014, a ripetere, sottoposto alla violenza dei poliziotti, “non posso più respirare” prima di morire, come ha fatto in seguito George Floyd nel 2020 a Minneapolis.

4 Studio realizzato dal Jewish Electorate Institute [Istituto dell’Elettorato Ebraico]. Lo stesso sondaggio mostrava che il 34% degli ebrei americani riteneva che il trattamento riservato da Israele ai palestinesi sia simile al razzismo esistente negli Stati Uniti.

5 Peter Beinart, « Yavneh : A Jewish case for equality in Israel-Palestine » [Yavneh: una causa ebraica per l’uguaglianza in Israele-Palestina], Jewish Currents, 7 luglio 2020, e « I no longer believe in a Jewish State » [Non credo più nello Stato ebraico], The News York Times, 8 luglio 2020.

6 Tony Judt : « Israel, the Alternative »[Israele, l’alternativa], The New York Review of Books, 23 ottobre 2003

7 É morto nel 2010.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Due donne e un minore tra 6 palestinesi uccisi

Tamara Nassar

11 aprile 2022 – The Electronic Intifada

Un minore palestinese e due donne sono tra i sei palestinesi uccisi negli attacchi delle forze israeliane da venerdì.

Domenica sera i soldati hanno sparato all’addome al sedicenne Muhammad Hussein durante un raid nella città occupata di Jenin, in Cisgiordania.

“I medici hanno trovato numerosi frammenti di proiettili nel bacino e nelle natiche di Muhammad”, ha dichiarato lunedì la Defense for Children International-Palestine. Muhammad è stato dichiarato morto poco dopo le 7 di questa mattina.

È il sesto minore palestinese ucciso dalle forze israeliane quest’anno.

Israele ha affermato che il ragazzo ha aperto il fuoco sulle forze israeliane che stavano facendo irruzione a Jenin in quel momento.

Dopo l’annuncio della sua morte il gruppo di resistenza della Jihad islamica lo ha rivendicato come un suo membro.

Tuttavia il racconto israeliano è contraddetto da un testimone oculare che ha dichiarato a Defense for Children International-Palestine che un veicolo militare israeliano è entrato a Jenin intorno alle 17:00 di domenica e ha iniziato a inseguire un’auto civile.

Secondo l’organizzazione per i diritti umani Muhammad “ha iniziato a correre dietro il veicolo militare israeliano e sembra stesse cercando per terra pietre da lanciargli contro”.

“Improvvisamente, senza alcun preavviso, un soldato israeliano ha sparato tre proiettili dal lunotto del veicolo militare, colpendo Muhammad all’addome da una distanza di circa quattro metri “.

Le ultime violenze israeliane arrivano dopo che i palestinesi hanno effettuato diversi attacchi in Israele e Cisgiordania in apparente risposta all’occupazione militare in corso e al sistema di apartheid israeliano.

Ansioso di mostrare all’opinione pubblica israeliana la sua durezza, il governo israeliano si è impegnato in una serie di uccisioni e arresti in tutta la Cisgiordania occupata.

Sullo sfondo delle recenti tensioni c’è il primo anniversario della rivolta dell’anno scorso nella Palestina storica, quando l’esercito israeliano ha effettuato un assalto di 11 giorni nella Striscia di Gaza assediata e in tutta la Cisgiordania occupata.

Madre di sei figli uccisa a colpi di arma da fuoco

Domenica, l’esercito di occupazione israeliano ha effettuato l’esecuzione extragiudiziaria una donna nella città palestinese di Husan, a ovest di Betlemme, sempre in Cisgiordania.

Le forze israeliane hanno detto che Ghada Sbatin si stava comportando in modo “sospetto” mentre si avvicinava, quindi le hanno sparato.

Secondo i media israeliani la donna era disarmata.

I soldati israeliani hanno affermato di aver avviato una “procedura di arresto” sparando in aria. Sbatin non si è fermata e allora hanno aperto il fuoco direttamente contro di lei.

Le forze israeliane spesso affermano di aver tentato una procedura di arresto quando uccidono palestinesi.

I media hanno diffuso filmati dell’incidente.

Il video mostra tre soldati, due in piedi dietro barriere di cemento e un terzo accanto a loro. La donna si avvicina ai soldati che le sparano a bruciapelo.

Poi si vede Sbatin sdraiata a terra, ricoperta di cartone.

All’arrivo in un vicino ospedale aveva perso molto sangue, secondo il ministero della salute dell’Autorità Palestinese, ed è stata dichiarata morta. Sbatin era una madre vedova di sei figli.

Più tardi lo stesso giorno le forze israeliane hanno sparato e ucciso una donna palestinese vicino alla moschea Ibrahimi nella città di Hebron, in Cisgiordania. Sostengono che aveva accoltellato e ferito lievemente un ufficiale della polizia paramilitare di frontiera israeliana.

È stata identificata dal ministero della salute come la 24enne Maha Kathem al-Zaatari.

Sempre domenica, le forze di occupazione israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco il diciannovenne Muhammad Ali al-Ghunaim nella città palestinese di al-Khader, un villaggio vicino a Husan.

Sparare nel mucchio

Lo stesso giorno, un comandante militare israeliano ha sparato e ucciso un uomo nella città di Ashkelon, nel sud di Israele, che avrebbe cercato di rubare l’arma di un soldato.

L’esercito israeliano ha detto di averlo “neutralizzato”.

L’uomo si è rivelato essere un cittadino ebreo israeliano che era scappato da un reparto psichiatrico, non un palestinese.

“Inizialmente si riteneva trattasse di un terrorista ucciso sul posto a colpi di arma da fuoco”, ha spiegato il sindaco di Ashkelon Tomer Glam.

“Poco fa è risultato chiaro che si trattava di un cittadino ebreo ad aver commesso l’atto, ed è stato sollevato il sospetto che potesse essere malato di mente “, ha aggiunto, suggerendo che l’esercito avrebbe potuto rispondere diversamente se avesse saputo che l’autore era un ebreo israeliano piuttosto che un palestinese.

Questo incidente illustra il livello di tensione in cui praticamente chiunque può essere sommariamente ucciso per “sospetto” di “terrorismo”.

Ma dimostra anche la natura razzista del sistema di apartheid israeliano, in cui ogni palestinese che resiste a quel sistema viene automaticamente bollato come “terrorista”, senza indagare su motivazioni o condizioni, mentre agli ebrei israeliani sono concesse le malattie mentali.

Guerra a Jenin

Sabato le forze di occupazione israeliane hanno invaso il campo profughi di Jenin nella Cisgiordania occupata settentrionale per fare irruzione nella casa del palestinese armato accusato di aver sparato e ucciso due israeliani giovedì.

Raed Hazem, 28 anni, è stato accusato di aver ucciso due israeliani e feriti altri 10 nella vivace Dizengoff Street di Tel Aviv, nel quarto attacco mortale in Israele delle ultime settimane.

È stato ucciso in uno scontro a fuoco con le forze israeliane mentre si nascondeva vicino a una moschea nella città portuale di Jaffa venerdì mattina, ha riferito il quotidiano di Tel Aviv Haaretz.

Hazem proveniva dal campo profughi di Jenin.

Sabato durante l’irruzione nella casa della sua famiglia, palestinesi armati hanno difeso il campo dall’invasione israeliana e un combattente della resistenza palestinese è stato ucciso.

Si chiamava Ahmad Naser al-Saadi, 23 anni, comandante sul campo della brigata Jenin del gruppo di resistenza della Jihad islamica.

Almeno altri 13 sono stati feriti con proiettili veri, ha affermato il ministero della salute dell’Autorità palestinese.

La brigata Jenin è stata costituita nel settembre 2021, quando sei palestinesi sono fuggiti da una delle prigioni più fortificate di Israele ma sono stati successivamente catturati.

Jenin rimane un centro della resistenza armata palestinese all’occupazione militare israeliana in Cisgiordania, nonostante tutti gli sforzi di Israele e dell’Autorità Palestinese per reprimere tale resistenza.

La città è diventata punto focale dei recenti scontri tra palestinesi armati e forze israeliane.

Le autorità israeliane stanno pianificando la demolizione delle case dei familiari di Raed Hazem e Dia Hamarsheh, entrambi residenti nell’area di Jenin, accusati di attacchi mortali in Israele.

Questa è una forma di punizione collettiva che Israele usa esclusivamente contro le famiglie dei palestinesi accusati di violenza, ma mai contro le famiglie degli ebrei.

Domenica le truppe israeliane hanno aperto il fuoco su un veicolo che trasportava i due fratelli di Hazem, compreso un bambino, e la loro madre, ha detto il fratello maggiore ai media.

I soldati israeliani hanno prima cercato di scontrarsi frontalmente contro l’auto, ma, quando il fratello di Hazem è riuscito a evitare lo scontro, i soldati hanno lasciato il loro veicolo militare e si sono avvicinati all’auto “direttamente” con “l’intenzione di uccidere, non di arrestare”, ha detto il fratello.

Durante questo attacco le forze israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco il sedicenne Muhammad Qassim.

Punizione collettiva

Sabato le autorità israeliane hanno annunciato una serie di punizioni collettive dirette non solo alle famiglie dei sospetti aggressori, ma contro l’intera popolazione di Jenin.

Includono la revoca dei permessi di lavoro, il divieto per i cittadini israeliani di visitare Jenin e il divieto ai residenti di Jenin di visitare le famiglie in Israele.

“Ci si aspetta che tali restrizioni infliggano un duro colpo all’economia locale”, ha affermato il quotidiano di Tel Aviv Haaretz, osservando che la stragrande maggioranza del potere d’acquisto della città proviene dai cittadini palestinesi di Israele.

Quando punisci tutta Jenin, impedisci il commercio e di recarsi al lavoro metti le persone con le spalle al muro. Aspettati che facciano qualsiasi cosa”, ha detto al Times of Israel il sindaco di Jenin, Akram al-Rajoub.

Due decenni fa, in questo mese, l’esercito israeliano massacrò almeno 52 palestinesi e ne ferì dozzine nel campo profughi di Jenin, secondo un rapporto compilato all’epoca dal segretario generale delle Nazioni Unite.

Le forze israeliane hanno bombardarono anche 150 edifici lasciando 450 famiglie senza casa. Secondo il rapporto 23 soldati israeliani morirono durante l’operazione.

L’escalation di Israele non mostrò in alcun modo di produrre la pacificazione dei palestinesi e la tranquilla occupazione a cui aspira Israele.

L’esercito israeliano ha dichiarato che due israeliani, entrati lunedì nella città occupata di Nablus, in Cisgiordania, sono stati leggermente feriti in una sparatoria da parte di palestinesi.

Gli israeliani stavano andando alla tomba di Giuseppe, un sito archeologico considerato sacro da musulmani, cristiani ed ebrei, situato nel cuore della città.

I coloni israeliani effettuano regolarmente visite al sito scortati pesantemente dall’esercito israeliano.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il Consiglio per i Diritti Umani adotta la prima risoluzione a favore della Palestina

31 marzo 2022 – Middle East Monitor

Martedì il Consiglio per i Diritti Umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha approvato [quasi, n.d.t.] all’unanimità una risoluzione per accertare le responsabilità e per il conseguimento della giustizia in Palestina.

37 Paesi hanno votato a favore della risoluzione, 7 si sono astenuti e 3 hanno votato contro.

Il ministero palestinese per gli Affari Esteri e per gli Emigrati ha accolto positivamente la risoluzione dell’UNHRC, ringraziando gli Stati membri che hanno votato a favore della bozza di risoluzione presentata dallo Stato di Palestina.

In una dichiarazione il ministero ha affermato che il voto unanime riflette “la salda posizione degli Stati membri sull’importanza della responsabilità del regime coloniale e di apartheid israeliano”.

Secondo il comunicato, 37 Nazioni hanno votato a favore della risoluzione, tra cui Paesi arabi ed europei, la Cina e importanti Nazioni in Africa e in Asia, mentre sette si sono astenute, cioè Ucraina, Regno Unito, Camerun, Isole Marshall, India, Nepal e Honduras. Malawi, Brasile e Stati Uniti hanno votato contro la risoluzione.

Il ministero ha affermato che “il consenso internazionale e il voto in favore della risoluzione sulla Palestina è una forma di protezione per il popolo palestinese e per preservare i suoi diritti, il che condurrebbe in ultima istanza allo smantellamento del regime israeliano di apartheid,” aggiungendo che il voto è una prova “dell’impegno di queste Nazioni nel garantire che sia chiesto conto a coloro che si sono macchiati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità a danno del popolo palestinese.

Il ministero ha sollecitato la comunità internazionale a “chiedere conto allo Stato di Israele e ai criminali di guerra israeliani” e ha sottolineato che “la politica dei doppi standard e del carattere selettivo nell’implementazione delle leggi del diritto internazionale rischia di indebolire l’ordine internazionale basato sul diritto.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)