Ex presidenti e personalità latinoamericane chiedono sanzioni contro l’apartheid israeliano

4 luglio 2020 – Monitor de Oriente

Oggi più di 320 personalità pubbliche, accademici, ex-presidenti e parlamentari di tutta l’America latina hanno presentato una dichiarazione congiunta contro i piani israeliani di annessione di grandi estensioni della Cisgiordania occupata.

Tra i firmatari ci sono il premio Nobel per la Pace argentino Adolfo Pérez Esquivel; i musicisti brasiliani Chico Buarque e Caetano Veloso; gli ex-presidenti Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff (Brasile), Pepe Mujica (Uruguay), Fernando Lugo (Paraguay), Rafael Correa (Ecuador) ed Ernesto Samper (Colombia); l’ex-ministro degli Esteri del Brasile Celso Amorim; Paulo Sérgio Pinheiro, ex- segretario per i Diritti Umani del Brasile ed attuale presidente della Commissione Arns per la Difesa dei Diritti Umani. Anche più di 60 deputati brasiliani di vari partiti – che comprendono il PSOL [Partito Socialismo e Libertà, di estrema sinistra], il PT [Partito dei Lavoratori, di sinistra], il PCdoB [Partito Comunista del Brasile, estrema sinistra] e il PDT [Partito Democratico Laburista, di centro sinistra] – hanno firmato il documento.

La dichiarazione resa pubblica ieri al margine di una iniziativa della società civile sudafricana e come parte di una risposta unitaria di Africa, Asia e America latina, chiede sanzioni contro Israele e la ricostituzione del Comitato Speciale dell’ONU contro l’apartheid per bloccare le politiche israeliane di colonizzazione.

La crescente gravità delle violazioni da parte di Israele e la sua impunità ci impongono di rispondere all’appello lanciato dalla grande maggioranza delle organizzazioni della società civile palestinese…Appoggiamo la richiesta del popolo palestinese che si ponga fine al commercio di armi e alla cooperazione militare e in materia di sicurezza con Israele; che si annullino gli accordi di libero commercio con questo Stato; che si proibisca il commercio con le illegali colonie israeliane; che si chieda conto alle persone e ai soggetti che cooperano, complici di questo regime di occupazione e di apartheid. Ci impegniamo a lavorare, nei nostri rispettivi contesti nazionali, per sostenere l’applicazione di queste misure,” dice la dichiarazione.

La campagna ha ottenuto anche le firme di decine di accademici brasiliani, tra cui l’antropologo del Museo Nazionale Eduardo Viveiros de Castro, il pluripremiato scrittore Milton Hatoum e il fumettista Carlos Latuff. Altri firmatari sono l’ex-sindaco di São Paulo Fernando Haddad; Sônia Guajajara, dirigente del Coordinamento dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB); Débora Silva del Movimento delle Madri di Maggio; Guilherme Boulos, coordinatore del Movimento dei Lavoratori senza Casa (MTST); Douglas Belchior del Movimento Negro Uneafro; João Pedro Stédile del Movimento dei Lavoratori senza Terra (MST); dirigenti sindacali, come Sérgio Nobre della Central Unificata dei Lavoratori (CUT) e Carlos Prates della CSP-Conlutas; Juliano Medeiros, presidente del Partito Socialismo e Libertà (PSOL); José Maria de Almeida, presidente del Partito Socialista Unificato dei Lavoratori (PSTU); Edmilson Costa, segretario generale del Partito Comunista Brasiliano (PCB); Maria Carolina de Oliveira, segretaria dei Rapporti Internazionali dell’ Unione Nazionale degli Studenti (UNE).

Firmando il documento l’ex-primo ministro brasiliano Celso Amorim ha affermato che “l’annessione del territorio palestinese da parte di Israele non solo è una violazione delle leggi internazionali e una minaccia per la pace, ma anche un’aggressione contro gli uomini e le donne che hanno lottato contro il colonialismo e l’apartheid. La voce del Sud deve essere ascoltata.”

Inoltre anche il movimento internazionale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) in America latina ha lanciato una campagna denominata “No all’Annessione” (#NoALaaAnexación).

Il prossimo sabato attivisti sudafricani manifesteranno in rete contro i progetti di annessione e l’apartheid israeliani. Tra le personalità pubbliche che parteciperanno all’evento ci saranno Omar Barghouti, fondatore del movimento BDS; Mandla Mandela, nipote di Nelson Mandela; Rajmohan Gandhi, nipote del Mahatma Gandhi; l’attivista sudafricano Phakamile Hlubi Majola; l’ex ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorim; la deputata cilena Karol Cariola.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Il piano di annessione di Israele: una catastrofe generata da una catastrofe più grande

Azzam Tamimi

1 luglio 2020 – Middle East Eye

L’attuale crisi ha le sue radici negli accordi di Oslo, che hanno trasformato l’OLP in un’entità palestinese collaborazionista

La catastrofe cui faccio riferimento nel titolo di questo articolo non è la Nakba del 1948, quando Israele venne creato su due terzi della Palestina, né la Naksa del 1967, quando i sionisti divorarono il rimanente terzo della Palestina (la Cisgiordania e Gaza) insieme alla penisola del Sinai e alle Alture del Golan.

Sono invece gli accordi conclusi a Oslo, Norvegia, in seguito a negoziati segreti tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e Israele. La firma degli accordi di Oslo tra le due parti sul prato della Casa Bianca nel settembre 1993 è stato il maggior successo sionista dalla creazione dell’entità sionista in Palestina.

Mossa disastrosa

Perché è così? Gli accordi di Oslo furono il primo riconoscimento ufficiale della legittimità dello Stato ebraico da parte di Israele.

L’OLP, che avrebbe dovuto guidare la lotta per la liberazione della Palestina – e che era stata fondata prima che la Cisgiordania e Gaza diventassero territori occupati – venne riconosciuta dagli Stati membri della Lega Araba come l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese. Questa mossa disastrosa venne fatta durante il summit di Rabat nel 1974.

L’implicazione immediata di questa decisione fu trasformare quello che era noto come il conflitto arabo-israeliano in palestinese-israeliano. In pratica ciò significò affidare le chiavi della questione palestinese al leader dell’OLP Yasser Arafat e ai suoi sodali all’interno del movimento Fatah, che dominava l’OLP, esimendo il mondo arabo nel suo complesso da ogni responsabilità riguardo alla Palestina e al suo popolo. Da allora l’OLP ne fu responsabile.

La dichiarazione di Rabat arrivò proprio qualche mese dopo una decisione dell’assemblea non eletta dell’OLP, il Consiglio Nazionale Palestinese, di approvare quello che divenne noto come il “Programma dei Dieci Punti”, che preparò la strada per negoziare un accordo pacifico che avrebbe finito per riconoscere il diritto all’esistenza di Israele in cambio della fondazione di uno Stato palestinese confinante.

Tuttavia Israele e il suo principale alleato occidentale, gli Stati Uniti, non mostrarono alcun reale interesse nel trattare con l’OLP, nonostante il desiderio di quest’ultima, finché nel dicembre 1987 scoppiò la prima Intifada. Solo quando la legittimità dell’OLP sembrò minacciata come mai prima – non solo dalla nascita di Hamas, ma anche dalla crescente sensazione tra i palestinesi, sia localmente che nella diaspora, che l’organizzazione non parlasse più per loro né agisse per raggiungere il loro sogno di liberazione e ritorno –, americani e israeliani decisero di parlare con la dirigenza dell’OLP.

Reprimere l’Intifada

Sembrerebbe che fin dall’inizio gli israeliani e i loro alleati sapessero quello che intendevano ottenere. È molto difficile dire lo stesso dei loro interlocutori dell’OLP.

Gli israeliani avevano assolutamente bisogno di un partner palestinese per aiutarli non solo a reprimere l’Intifada, ma anche ad aprire le porte della regione e del mondo nel suo complesso per ottenere la legittimità della loro entità. Quello che in sintesi fecero gli accordi di Oslo fu di trasformare l’OLP in un organismo palestinese collaborazionista chiamato Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Concludendo gli accordi di Oslo con Israele, l’OLP ne riconobbe il diritto. Ciò non avvenne in cambio del riconoscimento da parte di Israele del dramma del popolo palestinese, della sua spoliazione ed espulsione, né fu in cambio del riconoscimento del loro diritto a tornare alla loro patria, o del riconoscimento dei crimini che erano stati perpetrati contro di loro.

È stato solo in cambio del riconoscimento dell’OLP come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese. Non eletta e senza dover rendere conto a nessuno, la dirigenza dell’OLP da allora poté fare per la causa quello che riteneva “conveniente”.

Questo accordo catastrofico venne venduto come una grande vittoria. A molti palestinesi venne fatto credere che prima o poi da lì sarebbe sorto uno Stato palestinese, che avrebbe preparato la via per il loro ritorno a casa. La comunità internazionale giocò un ruolo in questo inganno, definendo quello che stava avvenendo come un processo che avrebbe portato a quella che divenne generalmente nota come una “soluzione dei due Stati”.

Tuttavia, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno fin dal 1993, Israele è riuscito – con la collaborazione dell’ANP – a perpetuare la sua occupazione a un costo molto basso per sé, confiscando nel contempo più terre, costruendo più colonie o espandendo quelle esistenti, demolendo le case dei palestinesi, opprimendoli e perseguitandoli.

Sconfitte su sconfitte

Nel frattempo la causa palestinese ha continuato a incorrere in sconfitte su sconfitte a livello politico e diplomatico. Molte Nazioni, che in precedenza erano filo-palestinesi, colsero l’occasione del riconoscimento di Israele da parte dell’OLP per abbandonare le loro precedenti posizioni di critica o condanna di Israele per la sua occupazione e oppressione dei palestinesi.

Molte Nazioni, compresi Paesi come India e Cina, svilupparono rapporti di cooperazione commerciale, per la sicurezza e persino militare con Israele a spese della causa palestinese. “Non possiamo essere più palestinesi dei palestinesi”, era il pretesto per tali spostamenti radicali, non solo tra i Paesi dell’Asia Meridionale, africani e alcuni latinoamericani, ma anche all’interno dello stesso mondo arabo.

Qualcuno ha persino sostenuto pubblicamente: come osano i palestinesi criticare altri per “aver normalizzato” le relazioni con Israele quando il loro “unico e legittimo rappresentante” collabora in tutto e per tutto con le autorità dell’occupazione?

Ci fu un tempo in cui la maggior parte del mondo equiparava il sionismo al razzismo. Quelli che sostennero quella posizione lo fecero per l’ammirevole risolutezza dei palestinesi nella loro lotta contro questo Stato spudoratamente razzista. Per molti decenni Israele venne paragonato al defunto regime dell’apartheid in Sudafrica, e a ragione. Tuttavia l’apartheid israeliano è riuscito dove ha fallito quello sudafricano: la creazione di un’entità indigena collaborazionista.

È su quel successo che oggi Israele costruisce. La differenza tra dove ci troviamo oggi e dove ci trovavamo 30 anni fa è l’ANP, la cui funzione è stata principalmente contribuire al controllo delle masse palestinesi e bloccare ogni minaccia che essi potessero rappresentare per le autorità dell’occupazione israeliana.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Azzam Tamimi è accademico e attivista politico anglo-palestinese. Attualmente è il direttore del canale Alhiwar [televisione satellitare in lingua araba con sede a Londra, ndtr.] e suo capo redattore.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’organizzazione razzista filo-israeliana ADL cerca di cooptare Black Lives Matter

Ali Abunimah

29 giugno 2020 – Electronic Intifada

Per quanti desiderano la fine del razzismo istituzionalizzato, questi sono tempi esaltanti, in quanto attivisti e organizzazioni dei neri guidano una protesta globale contro i simboli e le strutture della supremazia bianca.

Ma in questi giorni, nel caso in cui un’organizzazione razzista si mascheri da organizzazione per i diritti civili, rischia di essere smascherata.

È un gioco d’equilibrio che per anni ha tormentato l’Anti Defamation League [Lega contro la Diffamazione], un’importante organizzazione della lobby israeliana negli Stati Uniti.

La sua controparte nel Regno Unito sta affrontando lo stesso problema.

La crisi è particolarmente acuta proprio ora, in quanto l’ADL cerca di presentarsi come un’alleata di Black Lives Matter [Le vite dei neri contano, movimento di protesta contro la violenza della polizia e il razzismo nei confronti delle minoranze, ndtr.], difendendo nel contempo Israele dalle critiche riguardo ai suoi progetti di annettere terre palestinesi nella Cisgiordania occupata, accentuando ulteriormente il sistema di apartheid.

Una nota fatta trapelare e ottenuta la scorsa settimana dal giornalista Josh Leifer di “Jewish Currents” [rivista trimestrale ebraica USA di sinistra, ndtr.] evidenzia il dilemma dei dirigenti dell’ADL.

Questa nota illustra come il gruppo lobbystico possa, nelle parole di Leifer, “trovare il modo di difendere Israele dalle critiche senza inimicarsi altre organizzazioni per i diritti civili, rappresentanti eletti di colore e attivisti e sostenitori di Black Lives Matter.”

L’essenza della strategia è di consentire alcune tenui critiche contro Israele respingendo nel contempo descrizioni più precise e puntuali delle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele come ‘apartheid’ e ‘separati ma uguali’ – quest’ultimo è un termine a lungo utilizzato per rendere accettabili la segregazione razziale e la sottomissione imposte con la violenza e legalizzate negli Stati Uniti.

Gli autori di questa nota temono che uno scontro con le forze progressiste riguardo all’annessione possa portare l’ADL dalla “parte sbagliata” del movimento Black Lives Matter e “mettere in dubbio i rapporti tra l’ADL e molte organizzazioni e coalizioni per i diritti civili.”

È paradossale che l’ADL tema che Israele venga associato all’apartheid.

Mentre negli anni ’80 e 90’ il regime sudafricano dell’apartheid armato da Israele stava ancora distruggendo vite dei neri in quel Paese, l’ADL gestiva una rete di spionaggio negli Stati Uniti.

Oltre ad infiltrare gruppi solidali con i palestinesi, lo spionaggio dell’ADL passava agli efferati servizi segreti sudafricani documenti segreti sugli attivisti contrari all’apartheid.

L’ultima indiscrezione filtrata dall’ADL conferma timori rivelati in un rapporto privato ottenuto da Electronic Intifada nel 2017.

Quel rapporto – scritto insieme dall’ADL e dal Reut Institute, un gruppo israeliano di esperti – lamentava che gli attivisti della campagna per i diritti dei palestinesi fossero stati “in grado di inserire la lotta palestinese contro Israele come parte della lotta di altre minoranze oppresse quali gli afro-americani, i latinos e la comunità LGBTQ.”

Il rapporto raccomandava che i gruppi sionisti cercassero di ostacolare questa dinamica “collaborando con altri gruppi di minoranza sulla base di valori condivisi e interessi comuni come una riforma della giustizia penale, il diritto di immigrare o lottando contro il razzismo e i reati motivati da odio.” Oggi l’ADL vede Black Lives Matter come un’opportunità di incrementare la sua credibilità portando avanti nel contempo il suo programma anti-palestinese.

Appello per una censura più severa

L’ADL è uno dei molti gruppi lobbystici che, come il governo israeliano, hanno a lungo visto Black Lives Matter come una grave minaccia strategica.

Il suo tentativo di cooptare il movimento Black Lives Matter per controllare e disinnescare le critiche contro il duro regime razzista israeliano nei confronti dei palestinesi è attualmente in corso. L’organizzazione fa parte della campagna “Basta lucrare sull’odio”, che sta facendo pressione sulle grandi multinazionali perché nel mese di luglio tolgano la pubblicità da Facebook per protestare contro il presunto fatto che il gigante delle reti sociali non reprima i discorsi d’odio.

Nomi importanti come Unilever e Starbucks hanno già accettato di aderire.

Ci sono concreti motivi di preoccupazione riguardo a questa campagna: in effetti chiede che Facebook agisca come censore e arbitro della verità, un ruolo che nessuno vuole sia giocato da un’impresa privata senza alcun controllo.

È particolarmente preoccupante, dato che Facebook ha già nominato nel suo nuovo organismo di controllo un ex- funzionario del governo israeliano responsabile della censura. Mentre pochi potrebbero avere dei problemi riguardo al fatto di veder cancellare piattaforme pubbliche di suprematisti bianchi e nazisti, la realtà è che i palestinesi sono stati tra i principali obiettivi della censura in rete, soprattutto da parte di Facebook.

Gruppi lobbystici israeliani, compresa l’ADL, hanno promosso una definizione ingannevole e con motivazioni politiche di antisemitismo che mette sullo stesso piano da una parte le critiche alle politiche israeliane e alla sua ideologia razzista sionistica di Stato, e dall’altra il fanatismo antiebraico.

Hanno spinto governi, istituzioni e imprese di reti sociali ad adottare questa falsa definizione per far tacere i sostenitori dei diritti umani dei palestinesi.

La campagna “Basta lucrare sull’odio” chiede esplicitamente che Facebook “trovi e rimuova gruppi pubblici e privati che si concentrano su suprematismo bianco, milizie, antisemitismo, cospirazioni violente, negazione dell’Olocausto, disinformazione sui vaccini e negazionismo sul clima.”

Per quanto si debbano detestare tali punti di vista, questa è una richiesta piuttosto ampia di censura e controllo delle opinioni, che è improbabile si fermi lì.

Eppure, significativamente, non ci sono richieste di rimozione contro gruppi antimusulmani, nonostante l’incremento dell’islamofobia sulla piattaforma. Questo tipo di odio a quanto pare va benissimo!

La campagna “Basta lucrare sull’odio” fornisce anche un pretesto perché le grandi multinazionali si facciano una pubblicità positiva facendo in realtà ben poco per opporsi al razzismo strutturale. Senza dubbio queste multinazionali saranno contente di ricominciare a fare pubblicità su un Facebook ripulito da ogni opinione dissenziente.

Boicottaggio per me ma non per te

C’è anche la totale ipocrisia dell’ADL, che chiede un boicottaggio contro Facebook mentre attacca e calunnia il BDS – la campagna nonviolenta di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni per porre fine al razzismo e ai crimini di Israele contro i palestinesi.

L’Anti-Difamation League ha persino appoggiato le leggi contro il BDS, sapendo benissimo che queste norme sono incostituzionali perché violano la libertà di parola.

Indubbiamente l’ADL valorizza i propri diritti costituzionali di chiedere un boicottaggio di Facebook anche quando cerca di calpestare i diritti altrui alla libertà di parola, compresi quanti credono che ai palestinesi non dovrebbero essere negati i diritti nella loro stessa terra solo perché non sono ebrei.

Ma, appoggiando la campagna “Basta lucrare sull’odio”, l’ADL unisce le proprie forze con le principali organizzazioni nere progressiste per i diritti civili, come “Color of Change” [Colore del Cambiamento] e la storica NAACP [National Association for the Advancement of Colored People, una delle più antiche ed importanti associazioni per i diritti civili negli Stati Uniti, ndtr.], utilizzando quindi questi rapporti per conquistarsi una cedibilità totalmente immeritata come alleato antirazzista.

Attivisti neri in GB chiedono sanzioni contro Israele

Il problema rappresentato dall’ADL e dalla lobby israeliana nel suo complesso è stato messo in evidenza durante il fine settimana, quando Black Lives Matter UK, una coalizione antirazzista, ha twittato il suo sostegno alla lotta palestinese:

Mentre Israele procede verso l’annessione della Cisgiordania e la maggioranza della politica britannica mette a tacere il diritto di criticare il sionismo e prosegue il colonialismo di insediamento israeliano, noi stiamo in modo forte e chiaro con i nostri compagni palestinesi,” ha twittato l’organizzazione.

Il tweet ha avuto decine di migliaia di likes e re-twittaggi.

Black Lives Matter UK vi ha fatto seguire una serie di tweet che smascherano le affermazioni della lobby israeliana secondo cui le critiche a Israele sono antisemite.

Un tweet ha dichiarato che, in vista dell’annessione, “noi stiamo con la società civile palestinese nel chiedere sanzioni mirate in linea con le leggi internazionali contro il regime colonialista e di apartheid israeliano.”

I tweet sono stati particolarmente significativi in quanto la politica britannica rimane nella morsa di una caccia alle streghe contro chi critica Israele, soprattutto all’interno del principale partito di opposizione, quello Laburista.

Come prevedibile il tweet ha suscitato l’immediata ostilità da parte del Jewish Labour Movement, un gruppo lobbystico all’interno del partito Laburista che ha agito per conto dell’ambasciata israeliana.

Mike Katz, presidente del Jewish Labour Movement, ha affermato di essere “rattristato” nel vedere i tweet di Black Lives Matter UK.

Ha anche affermato che alcuni membri della sua organizzazione “rifiutano l’annessione e le colonie”.

Ciò può essere visto come un ennesimo tentativo di deviare le critiche contro Israele verso una forma “attenuata” accettabile, concentrata solo su un numero ridotto di azioni israeliane, cercando al contempo di escludere le critiche al sionismo.

Il Board of Deputies [Comitato dei Deputati], un’organizzazione ebraica britannica all’interno della Camera dei Comuni e uno dei principali gruppi filo-israeliani, ha, come prevedibile, accusato Black Lives Matter UK di avere “pregiudizi antisemiti”.

Ma il Board ha insistito che ciò “non ci impedirà di stare dalla parte del popolo nero nella sua richiesta di giustizia.”

Ma, di fatto, appoggiare Israele e il sionismo è del tutto incompatibile con ogni richiesta di giustizia. Nessuna campagna di astute manovre di diversione e pubbliche relazioni può nascondere questa semplice verità: non puoi essere un antirazzista razzista.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alexandra Ocasio-Cortez, Tlaib, Jayapal, McCollum minacciano di condizionare l’aiuto USA a Israele a causa dell’annessione

Michael Arria

29 giugno 2020 – Mondoweiss

Una lettera indirizzata al Segretario di Stato Mike Pompeo cita un Relatore Speciale delle Nazioni Unite che ha detto che l’annessione “cristallizzerebbe un’apartheid del XXI secolo, lasciandosi alle spalle la scomparsa del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi”.

Jewish Insider [sito informativo con un’ottica ebraica, ndtr.] riferisce che quattro deputate del Congresso stanno attualmente facendo circolare una lettera tra i membri della Camera che prenderebbe di mira l’aiuto militare a Israele se il Paese procedesse con il previsto piano di annettere parti della Cisgiordania.

La lettera, indirizzata al Segretario di Stato Mike Pompeo, è promossa dalle deputate Alexandra Ocasio-Cortez (Deputata –New York), Pramila Jayapal (Dep.-Washington), Betty McCollum (Dep. -Minnesota) e Rashida Tlaib (Dep.-Michigan). In essa si specifica che il piano israeliano viola il diritto internazionale e si cita il Relatore Speciale dell’ONU sul conflitto, che ha affermato che l’annessione “cristallizzerebbe un’apartheid del XXI secolo, lasciandosi alle spalle la scomparsa del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi.”

Alla fine della lettera le deputate dichiarano che si impegneranno affinché i finanziamenti militari ad Israele vengano condizionati se il Paese procedesse con i suoi piani: “Se il governo israeliano procedesse con la prevista annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.] con l’avallo di questa amministrazione, noi lavoreremo per fare in modo che [l’annessione] non venga riconosciuta e per imporre condizioni sui 3,8 miliardi di dollari del finanziamento militare USA ad Israele, includendo clausole relative ai diritti umani e il blocco dei fondi per forniture all’estero di armamenti israeliani pari o superiori all’ammontare della spesa annua israeliana per finanziare le colonie, come anche le politiche e le prassi che le appoggiano e le consentono.”

Benché la lettera non sia stata ancora pubblicata ufficialmente, l’AIPAC (la principale organizzazione lobbistica filoisraeliana americana, ndtr.) ha già inviato un tweet di condanna.

Il gruppo di esperti sul Medio Oriente dell’amministrazione Trump si è riunito la settimana scorsa e ha detto di essere in procinto di fare un annuncio riguardo all’annessione, ma non ha ancora preso una decisione ufficiale. Ieri Barak Ravid di Axios [sito web americano di informazioni, ndtr.] ha riferito che il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu si sta rivolgendo ai gruppi evangelici negli USA perché lo appoggino nel fare pressione sull’amministrazione Trump in merito alla questione. “Dirigenti israeliani dicono che Netanyahu pensa che a quattro mesi dalle elezioni USA il presidente Trump sia politicamente debole e che potrebbe perdere contro il probabile candidato democratico alla presidenza Joe Biden”, ha scritto Ravid. “Pensa che, per avere una possibilità di vincere, Trump abbia bisogno che la base degli evangelici vada a votare.

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss per gli USA. I suoi lavori sono comparsi su ‘In These Times’, ‘The Appeal’, ‘Truthout’. É autore di ‘Medium Blue: The politics of MSNBC’

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Il piano di annessione di Netanyahu è una finzione. L’apartheid è in atto da decenni

Richard Silverstein

24 giugno 2020 Middle East Eye

L’annessione è una finzione.

Non fraintendetemi: questo non significa che il proposito di annessione della Valle del Giordano da parte di Israele non causerà ulteriori espropriazioni ai palestinesi. Israele ruberà il 30% della terra riservata a uno Stato palestinese sulla base di precedenti proposte di pace fallite, causando ulteriore sofferenza ai palestinesi.

Ma questa particolare proposta di annessione, sulla quale il nuovo governo israeliano si è accordato nel suo programma di coalizione, rappresenta un diversivo, una distrazione dalla natura sistemica dell’espropriazione israeliana nei confronti dei palestinesi. Essa consente ai sionisti progressisti e alla comunità internazionale di focalizzare la loro attenzione sul come annullare questa grave ingiustizia, sollevandoli dalla responsabilità riguardo all’intero regime di apartheid sviluppato da Israele, sia all’interno che all’esterno della linea verde [linea di demarcazione fra Israele e alcuni fra i Paesi arabi confinanti esistente dalla fine della guerra arabo-israeliana del 1948 -1949 n.d.tr.].

Intolleranza religiosa

Dichiarazioni di leader ebrei britannici, membri del Congresso degli Stati Uniti, funzionari dell’Unione Europea ed esperti in diritti umani hanno ammonito sulle conseguenze dell’annessione. Hanno preso di mira il ventre molle, “moderato”, della coalizione di governo, i membri della Knesset del partito Blu e Bianco [partito di centro, ndtr.], dicendo loro con quanta riprovazione il mondo avrebbe guardato Israele se questa proposta fosse stata approvata.

Ma tutto questo lamentarsi dei progressisti distoglie da un male molto più profondo: un regime di suprematismo ebraico basato sull’intolleranza religiosa e sulla pulizia etnica.

Il problema con lo Stato israeliano non è legato ad una politica particolare, per quanto odiosa. Risale alle stesse fondamenta dello Stato e al pensiero dei suoi fondatori, in primis David Ben-Gurion. Mentre tra i primi leader sionisti esistevano alcune voci che cercavano l’integrazione, o almeno la coesistenza pacifica, con i loro vicini palestinesi, Ben-Gurion era un massimalista che nei suoi diari e lettere ha fatto propria la pulizia etnica molto prima di fondare lo Stato.

Il sine qua non dello Stato era per lui una maggioranza e la superiorità degli ebrei. Gli “arabi” avrebbero potuto rimanere all’interno dei confini della nuova Nazione, ma solo se avessero accettato la loro condizione di inferiorità.

Anche allora Ben-Gurion temeva così tanto la presenza palestinese che lui e la milizia Palmach [“compagnie d’attacco”, forze paramilitari fondate all’epoca del protettorato britannico, ndtr.] organizzarono e condussero il Piano Dalet, [“Piano D”, redatto durante la prima fase della guerra arabo-israeliana del 1948, ndtr.] che provocò la Nakba – l’espulsione di 750.000 palestinesi, in concomitanza con la fondazione di Israele nel 1948.

Le comunità palestinesi sopravvissute alla guerra rimasero sotto la legge marziale per due decenni, sebbene non rappresentassero alcuna minaccia per la sicurezza.

Bollire la rana

Come ebreo americano, sono cresciuto con il sionismo progressista. Mi è stato insegnato sin da piccolo che Israele era uno Stato ebraico e democratico. Mi è stato insegnato ad essere orgoglioso della coesistenza reciproca di quei due termini. Ma la componente religiosa dell’identità israeliana, come è stata definita, preclude la democrazia; non possono coesistere. Mi ci sono voluti decenni per rendermene conto.

Mentre sarebbe sconsigliato tentare di eliminare o reprimere la religione in uno Stato Israele-Palestina veramente democratico, la religione dovrebbe essere separata dalla governance politica se questo Stato dovesse mai diventare normale.

Le religioni dei cittadini ebrei e palestinesi di Israele rimarranno determinanti per loro e per le loro identità. Se praticate in modo appropriato, arricchirebbero il tessuto dello Stato senza pregiudicare un gruppo religioso o etnico rispetto a un altro. Ma l’attuale regime israeliano ha molto in comune con la repubblica islamica iraniana, il protettorato islamico dell’Arabia Saudita o i talebani afgani piuttosto che con la democrazia occidentale.

Uno degli aspetti astuti dell’espansionismo sionista è quello di perseguire i suoi obiettivi gradualmente, piuttosto che tutti in una volta. La povera rana non si rende conto di essere bollita nella pentola fino a quando non è troppo tardi, perché la fiamma aumenta la temperatura gradualmente e quasi impercettibilmente.

Pertanto, Netanyahu ha già rinunciato alla sua proposta originale di annettere l’intera Valle del Giordano. Ora si sta baloccando con un'”annessione leggera”, che comprenda le principali enclavi di colonie di Ariel, Maaleh Adumim e Gush Etzion, lasciando intatto il resto del territorio. Ciò nasconde il fatto che una volta che questi blocchi diverranno parte di Israele, il territorio circostante risulterà palestinese solo di nome; tutto ciò che rimarrà sarà circondato da recinzioni, strade e infrastrutture israeliane. E Israele potrebbe, in un secondo momento, annettere il resto.

L’unica cosa positiva

In un recente webinar su Middle East Eye, il professor Rashid Khalidi [noto storico americano-palestinese, ndtr.] ha descritto l’annessione come “in gran parte un diversivo”, osservando che essa è in corso in un modo o nell’altro dal 1967, con le leggi israeliane già applicate in tutti i territori occupati.

“Dobbiamo pensare in termini più ampi rispetto al linguaggio strettamente diplomatico che è stato utilizzato. Israele ha iniziato ad annettere, costruendo la realtà di uno Stato unico, dal 1967. Questo [attuale piano di annessione] è solo un piccolo passo nel processo”, ha detto Khalidi, osservando che la proposta più limitata di Netanyahu riguardante le tre enclavi di insediamenti coloniali equivale a una “farsa”.

“Dovremmo parlare in termini molto più essenziali dei problemi strutturali sistemici che sarà necessario affrontare se questo problema deve essere risolto su una base giusta ed equa”, ha affermato.

Se c’è un lato positivo nel piano di annessione, è che i sionisti progressisti, i quali una volta denunciavano il movimento di boicottaggio e chiunque etichettava Israele come uno Stato di apartheid, sono stati costretti a fare i conti con il fallimento della loro visione.

Benjamin Pogrund, attivista anti-apartheid sudafricano, che ha trascorso decenni a combattere l’idea che Israele sia uno Stato di apartheid, ha recentemente dichiarato in un’intervista: “Se annettiamo la Valle del Giordano e le aree coloniali, siamo un’apartheid. Punto. Non ci sono dubbi al riguardo.”

I bantustan sudafricani [enclavi di confinamento razziale del Sudafrica dell’era dell’apartheid, n.d.tr.] “erano semplicemente una forma più raffinata di apartheid per mascherare la realtà”, ha aggiunto Pogrund, osservando che le conseguenze della prevista annessione da parte israeliana “saranno ovviamente estremamente gravi. I nostri amici nel mondo non saranno in grado di difenderci ”.

Crepe e divisioni

Allo stesso modo, anche il partito tedesco pro-Israele Die Linke [La Sinistra, ndtr.] ha chiesto di sanzionare Israele se questo programma andrà avanti. “Se il governo israeliano dovesse decidere di attuare l’annessione – ha affermato in una nota – Die Linke proporrà la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele.

Questo protocollo UE è importante non solo perché offre a Israele scambi senza dazi doganali e privilegi degli Stati membri, ma anche per lo status che conferisce a Israele, sia in Europa che nel mondo. Perdere questi privilegi sarebbe un duro colpo economico e politico.

Come notato dal giornalista Ali Abunimah, la dichiarazione del partito, si avvicina all’abbandono della soluzione dei due Stati, che è il nucleo del sionismo progressista che Die Linke sostiene: “Di fronte all’apparente rifiuto del governo israeliano di un equa soluzione con due Stati, in cui i cittadini di entrambe le parti vivrebbero con pari diritti, Die Linke chiede pari diritti civili per palestinesi e israeliani “, ha affermato il partito.

“Per Die Linke, il seguente principio vale ovunque e sempre: tutti gli abitanti di ogni Paese dovrebbero godere di pari diritti, indipendentemente dalla loro religione, lingua o gruppo etnico.”

È importante non esagerare il significato di questi cambiamenti. Sicuramente segnano delle variazioni nelle fila dei sostenitori progressisti di Israele. Non vi sono, inoltre, dubbi sugli scivolamenti tettonici nella politica americana su Israele / Palestina, che hanno notevolmente ampliato il dibattito. Ma come abbiamo visto in passato, proprio come le placche tettoniche possono rompersi e dividersi, le forze geologiche possono riportarle di nuovo insieme.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, dedicato ad esporre gli eccessi dello Stato di sicurezza nazionale israeliano. I sui lavori sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, A Time to Speak Out [Un tempo per parlare a voce alta, ndtr.] (Verso) ed è autore di un altro saggio della raccolta, Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood [Israele e Palestina: punti di vista alternativi sulla governance] (Rowman & Littlefield)

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Senza il via libera USA, Netanyahu rinvia l’annessione ma non rinuncia

Michele Giorgio

1 luglio 2020, Nena News  da Il Manifesto

Oggi avrebbe dovuto essere il giorno previsto dal governo israeliano per l’avvio della cosiddetta estensione di sovranità al 30% della Cisgiordania. Ma in assenza dell’ok definitivo da Washington, scrive la stampa locale, il premier congela il piano. Previste per oggi manifestazioni di protesta nei Territori Occupati, mentre cresce la contrarietà al piano dei democratici statunitensi

Non sarà il primo luglio la data di inizio dell’annessione unilaterale a Israele del 30% della Cisgiordania, ma nei Territori occupati si svolgeranno ugualmente le previste manifestazioni di protesta del «Giorno della rabbia» palestinese.

«Stiamo lavorando (all’annessione) e continueremo a lavorarci nei prossimi giorni», ha detto ieri il premier israeliano Netanyahu dopo aver incontrato l’ambasciatore Usa Friedman e l’inviato speciale americano Berkowitz. Oggi perciò non accadrà nulla. E sarà così per il resto della settimana, scriveva ieri il Jerusalem Post citando fonti americane.

In più di una occasione Netanyahu aveva indicato il primo giorno di luglio come quello dell’avvio dell’iter legislativo per «l’estensione della sovranità israeliana» su larghe porzioni di Cisgiordania, territorio palestinese che Israele ha occupato nel 1967 al termine della Guerra dei sei giorni. Ora frena ma non rinuncia. Non lo preoccupano più di tanto le critiche dell’Onu e gli ammonimenti dell’Ue. E neppure le esitazioni del suo principale partner di governo Gantz.

Gli occorre però il via libera definitivo degli Usa all’annessione che con ogni probabilità sarà limitata nella sua prima fase – quindi senza la Valle del Giordano – e completata nei prossimi mesi, prima delle presidenziali Usa di novembre quando il suo alleato Trump rischierà di lasciare la Casa Bianca al suo rivale democratico Biden. Il premier israeliano vede crescere nel Partito democratico il dissenso verso le politiche di Israele.

Ieri anche il senatore democratico Sanders, il rappresentante più noto e autorevole della corrente socialista nel suo partito, ha aggiunto il suo nome a una lettera, «Apartheid», contro il piano di Israele di annettere parti della Cisgiordania. Fatta circolare dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, la lettera chiede di bloccare gli aiuti militari statunitensi a Israele se Netanyahu attuerà il piano di annessione che, si legge, creerebbe una realtà di apartheid in Cisgiordania.

Il testo di Ocasio-Cortez è diverso per contenuto e tono da una lettera anti-annessione più moderata diffusa all’inizio di giugno e firmata da oltre 190 deputati democratici della Camera dei rappresentanti, tra i quali persino storici alleati di Israele come Ted Deutch e Steny Hoyer. L’iniziativa non pare destinata a raccogliere un alto numero di firme. Tuttavia, assieme alla lettera diffusa all’inizio del mese scorso, conferma che tra i democratici il dibattito su Israele e palestinesi è più vivo che mai e si sta intensificando. E Joe Biden, pur rappresentando l’establishment tradizionale del partito, non potrà non tenerne conto.




Achille Mbembe: “La lotta contro l’antisemitismo fallirà se la si usa come arma per praticare il razzismo”

Hassina Mechaï – Parigi, Francia

sabato 27 giugno 2020 – Middle East Eye

Il filosofo, storico, politologo e pensatore post-coloniale camerunense è stato bersaglio di una intensa polemica in Germania. La ragione? Gli è stato rimproverato di aver tracciato un parallelo tra l’apartheid in Sud Africa e la situazione dei palestinesi.

La polemica è iniziata con una lettera aperta di Lorenz Deutsch inviata lo scorso maggio al parlamento del Nord Reno -Westfalia, nell’Est [in realtà nell’ovest, ndtr.] della Germania. In essa il portavoce della politica culturale del gruppo parlamentare FDP (partito liberal-democratico) chiedeva di impedire al filosofo Achille Mbembe di pronunciare un discorso durante la Ruhrtriennale, un importante evento culturale estivo (annullato a causa del COVID-19).

La ragione di questa richiesta? Un passaggio dell’opera di Achille Mbembe intitolata “Politiques de l’inimitié” [Politiche dell’inimicizia. Ed. it.: “Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia”, Laterza, 2019], in cui il docente di storia e scienze politiche all’università di Witwatersrand (Johannesburg, Sudafrica), evocando la politica israeliana di colonizzazione, sostiene che essa “ricorda per certi versi” l’apartheid in Sudafrica. Un parallelo che, secondo il parlamentare tedesco, riguarda l’antisemitismo e il diritto di Israele ad esistere.

Middle East Eye: Le si rimprovera di aver fatto un parallelo tra l’apartheid sudafricano e la situazione di fatto nei territori palestinesi occupati…

Achille Mbembe: No, no, no. Non è vero e molti colleghi tedeschi l’hanno chiaramente capito. Ho scritto nero su bianco, a pagina 72 di “Politiques de l’inimitié”, che la situazione nei territori palestinesi ricorda sotto molti aspetti quella che prevaleva in Sudafrica sotto l’apartheid. Subito dopo ho aggiunto che “la metafora dell’apartheid” non è tuttavia sufficiente a rendere conto di un percorso storico tutto sommato diverso. Questa è sempre stata la mia posizione. Ciò detto, che io abbia tracciato un parallelo o abbozzato un confronto, ciò non equivarrebbe affatto all’antisemitismo. Alcuni ricercatori israeliani hanno fatto anche loro questo genere di analogie. Per coloro che se ne interessano, la comparazione è parte integrante dei metodi utilizzati nelle scienze umane e nelle scienze sociali.

Quando viene fatto in modo corretto non implica alcun giudizio di valore e non ha come scopo mettere su una scala gerarchica avvenimenti diversi. Ciò è indispensabile perché ogni situazione umana e ogni avvenimento sono, per definizione, modellati da una doppia storicità, chiusa e aperta. Come metodo, la comparazione intende giustamente chiarire questa doppia dimensione e rendere più facile la comprensione mutua. Anche questo molti tedeschi lo capiscono.

Questo sordido complotto non ha dunque strettamente niente a che vedere con ciò che io ho detto o scritto, o con il mio lavoro in sé. Ancor meno con chi sono o con le cause che difendo. Tutti quelli che mi hanno anche solo minimamente letto o ascoltato sanno che non sono un propagatore di odio e che non nutro alcun pregiudizio nei confronti di nessuno. Tutto quello che ho detto e scritto e le cause per le quali mi sono battuto riguardano i temi dell’incremento dell’umanità, dell’emergere di una coscienza planetaria e del risanamento del mondo e del vivente.

La verità è che un politico locale, Lorenz Deutch, che pare utilizzi l’antisemitismo come un filone della sua carriera politica, mi ha calunniato senza sapere chi fossi realmente e senza aver letto i miei scritti. La calunnia è stata trasmessa senza alcun esame critico né ricerca seria da un burocrate federale, Felix Klein, che dubito conosca qualcosa dei pensieri – mondo che vengono dal Sud [del mondo].

E il burocrate e il politico hanno visto un negro. Si saranno detti che, nel contesto dell’irrigidimento nazionalista che prevale in Germania, un negro e in più antisemita dovesse necessariamente portare loro dei bei vantaggi politici o di carriera.

Mentre dei veri specialisti nei campi più diversi come gli studi ebraici, gli studi sull’Olocausto, specialisti di studi sui genocidi e sul colonialismo comparato hanno fermamente condannato questa volgare strumentalizzazione dell’antisemitismo, quelli che mi perseguitano hanno messo insieme, pezzo per pezzo, degli argomenti falsi le cui basi non hanno smesso di cambiare, alimentando così una controversia infinita.

MEE: Come ha reagito a questa accusa?

AM: All’inizio ho creduto che si trattasse di una bufala. Ma molto presto ho capito che era un sordido complotto in cui l’antisemitismo non era che un falso pretesto destinato a nascondere dei disegni inconfessabili e, ora ce ne sono prove sufficienti, sostanzialmente razzisti.

Sono profondamente convinto che la lotta contro l’antisemitismo e contro i razzismi sia una causa etica universale. In Germania sono molti coloro che capiscono che questa lotta non è monopolio di chi, avendo commesso i crimini peggiori, vogliono ora presentarsi di fronte al mondo come gli ultimi epigoni del pentimento virtuoso.

Molti sanno anche, nel loro intimo, che non potremo affatto portare a termine questa lotta se la si usa come strumento al servizio della politica di potenza degli Stati.

Inoltre la lotta contro l’antisemitismo fallirà se, coscientemente o senza rendersene conto, se ne fa un’arma per praticare apertamente o di nascosto il razzismo, o un volgare strumento per sporadiche cacce alle streghe. Anche se il loro passato e un pesante senso di colpa impediscono loro di dire tutto ciò a voce alta e in questi termini, alcuni in Germania la pensano proprio così.

Non dovendo rispondere direttamente del passato nazista e avendo per giunta subito le atrocità coloniali dei tedeschi, noi altri siamo nella posizione che ci autorizza a dire due o tre cose essenziali che un tedesco qualunque non si permetterebbe forse di dire. La prima è che la lotta contro l’antisemitismo e i razzismi deve essere messa al servizio della verità, della giustizia e della riparazione del nostro mondo comune.

Secondo, è possibile pensare al rapporto tra i ricordi della sofferenza umana non in modo gerarchico, non in termini di rivalità e di concorrenza, non sulla base delle proprie priorità, ma in termini di risonanza mutua, di condivisione e di solidarietà.

La terza è che se si continua a utilizzare l’antisemitismo come uno strumento per soffocare il grido di quanti ancora aspirano alla giustizia, o per ridurre al silenzio coloro contro cui si provano sentimenti di ostilità di carattere razzista, si finirà per rafforzare i veri antisemiti il cui numero non cessa di aumentare in Germania e altrove in Europa.

MEE: Ma siccome ogni situazione è diversa…

AM: Ancora una volta, ho parlato di “richiamo”, e a ragion veduta. Ricordare o evocare qualcosa o una situazione non significa confrontarla ad altre situazioni. Non significa stabilire dei paralleli. Evocare riguarda la rimembranza. Non riguarda neppure la descrizione. Ricordare è chiamare e far apparire alla mente qualcosa o un avvenimento, ma attraverso le immagini o in modo figurato.

Devo peraltro insistere sul fatto che la comparazione è un esercizio riconosciuto e legittimo in tutti i campi della produzione del sapere. Bisogna davvero ricordare che la comparazione non ha come obiettivo classificare e gerarchizzare delle situazioni e degli avvenimenti, o proclamare che hanno le stesse proprietà e sono identiche?

Ogni situazione ha una storicità sua propria, una propria traiettoria, anche se questa non si forgia che nell’intersezione di relazioni complesse con altre situazioni e traiettorie anch’esse particolari. La questione non è dunque sapere se ho tracciato una comparazione o meno tra la situazione nei territori palestinesi e l’apartheid in Sudafrica. D’altronde se l’avessi fatto non avrei nessuna intenzione di scusarmene.

La vera questione è sapere a cosa si debba la paura della comparazione. Bisogna sapere chi ha interesse a fabbricare degli antisemiti immaginari in un Paese in cui il neonazismo ha il vento in poppa, un Paese in cui l’antisemitismo reale non si limita più agli estremisti, ma tende a diventare la foglia di fico per ogni sorta di sordidi compromessi politici.

Infine ricordo che nessuno dei miei due critici è un esperto o uno specialista in qualcuno dei campi del sapere coinvolti. Da un punto di vista strettamente accademico, non hanno alcuna autorità per giudicare i miei lavori. Questa autorità non la riconosco che ai miei pari che, in base alle norme internazionali in vigore, l’hanno esercitata ogni volta che ho pubblicato articoli sulle riviste scientifiche o libri con editori universitari.

Bisogna che si stia perdendo l’essenziale dei nostri punti di riferimento se, in un Paese democratico, è ormai di competenza dei politici e dei burocrati pronunciarsi in merito ai lavori di ordine scientifico o occuparsi in modo intempestivo della programmazione culturale e artistica.

MEE: Come analizza il meccanismo politico, intellettuale, mediatico che a portato a una simile accusa?

AM: A dire la verità, il meccanismo è relativamente noto e alquanto cinico. Bisogna piuttosto insistere sul contesto globale che rende possibile questa sorta di complotto. Dopo tutto quello di cui l’umanità ha fatto esperienza si sarebbe potuto pensare che nel XXI secolo non sarebbe più stato necessario ripetere che tutte le memorie della Terra, quelle degli esseri umani come di tutti i viventi in generale, senza alcuna distinzione, sono indispensabili per la costruzione di un mondo comune.

Purtroppo c’è chi pensa ancora che non tutti i popoli abbiano diritto alla memoria. Ai giorni nostri c’è ancora chi è convinto che ce l’abbiano solo certi popoli, che non tutte le memorie abbiano lo stesso diritto alla narrazione e ad essere riconosciute. Si sa che questo continuum coloniale, dopo l’epoca moderna, è stato ancorato al razzismo. È così non solo in Germania, ma anche altrove.

Inoltre siamo entrati in pieno in un’epoca in cui contano solo i rapporti di forza e di potere. Ci troviamo ormai a pensare che solo i vincitori abbiano ragione.

In molti contesti prevale l’idea secondo cui si può combattere una causa giusta con metodi perversi, come se combattere una causa etica solo con mezzi immorali non finisse sempre per corrompere la causa stessa. Molti trovano normale porre rimedio a un crimine, se necessario, commettendone un altro a spese di qualcun altro o di qualche altra entità. È questo continuum coloniale e razzista che la Germania deve rompere se, contrariamente ad altre zone d’Europa, vuole contribuire utilmente al dialogo interculturale e universale.

Riguardo al resto, e trattandosi del lato sordido del meccanismo, uno dei rischi in cui incorriamo oggi è la cattura e lo sviamento della lotta contro l’antisemitismo per scopi razzisti, nello stesso momento in cui l’antisemitismo e il razzismo hanno il vento in poppa. Il rischio è che ogni volta che gli ex-colonizzati e i popoli che soffrono tentano di raccontare la propria storia nella propria lingua e si sforzano di interpretarla nelle proprie parole, vengono intimiditi o fatti tacere con l’accusa di paragonare le loro catastrofi all’Olocausto o di essere antisemiti. Il rischio di castrazione di tali memorie non è immaginario.

È la ragione per la quale, per limitarmi alla mia esperienza, le funzioni come quella che occupa Felix Klein esigono da chi le ricopre un massimo di rigore morale, di comprovata competenza intellettuale e di un’alta integrità personale.

In particolare il signor Klein non è sicuramente l’ultimo venuto. Ha una storia. Ha vissuto qualche anno nel mio Paese, il Camerun. Sarebbe utile sapere come ha trattato i camerunensi durante il suo soggiorno in Africa. Avrebbe scritto una tesi – poco nota agli specialisti dell’Africa – sul matrimonio tradizionale in Camerun. La si può leggere? Siccome il concetto di “tradizione” ha giocato un ruolo centrale nell’etnologia colonialista, la tesi di Felix Klein è indenne dai cliché razzisti veicolati da questa disciplina?

MEE: Lei ha ricevuto sostegno accademico e intellettuale. Ciò le sembra sufficiente?

AM: Circa 400 accademici, studiosi, ricercatori, scrittori e artisti di più di una quarantina di Paesi hanno condannato questa manovra. In poche settimane circa 800 intellettuali e scrittori africani hanno firmato una petizione e scritto alla cancelliera tedesca (Angela Merkel) per denunciare queste calunnie. Degli studiosi ebrei e israeliani hanno chiesto le dimissioni di Felix Klein.

Questo giudizio dei miei colleghi pesa ben di più delle parole di un politicante e di un burocrate. In Germania anche voci molto importanti si sono fatte sentire. Alcune persone, a volte con cariche pubbliche, hanno rischiato il proprio posto e mi hanno difeso perché sono convinte che, al di là del mio caso personale, siano in gioco alcune questioni fondamentali. Tutto ciò non solo è importante, è più che mai necessario.

MEE: A parte il suo caso specifico, questo sostegno accademico non è la presa di coscienza di una possibile riduzione della libertà d’espressione e della ricerca su soggetti resi “intoccabili”?

AM: In effetti non si tratta solo del mio caso. Ce ne sono stati molti altri. I bersagli, guarda caso, sono per lo più scrittori e intellettuali originari di Paesi ex-colonizzati o artisti che sono all’avanguardia sulle questioni della giustizia razziale, della brutalità della polizia, dell’inclusione delle minoranze, dell’uguale diritto alla memoria o ancora della decolonizzazione e della riparazione. Si cerca in modo evidente di farli tacere. Si è arrivati fino al punto di accusare eminenti colleghi ebrei di antisemitismo.

Non si tratta solo del fatto che sono in gioco la libertà d’espressione, la libertà accademica e la libertà artistica. È anche la libertà di coscienza che è calpestata. Al ritmo a cui vanno le cose, la Germania sta segnalando che d’ora in avanti il dialogo intellettuale, artistico e culturale tra lei e il resto del mondo si farà soltanto con chi non ha mai criticato alcuni Stati o che rinuncia al principio di comparazione che tuttavia è così fondamentale nelle scienze umane e sociali, e nell’esperienza umana in generale?

MEE: Come interpreta lei, che è un lettore del filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, il fatto che questa polemica avvenga in Germania?

AM: Non sono solo un lettore di Walter Benjamin. In realtà sono uno dei pochi intellettuali africani a essersi concentrato con un certo livello di approfondimento su alcune tradizioni del pensiero ebraico.

Durante vari anni ho studiato attentamente testi come quelli (dei filosofi) Hermann Cohen, Franz Rosenzweig, Gershom Scholem, Martin Buber o Emmanuel Levinas. Ciò non fa di me uno specialista del pensiero ebraico. Ma chi mi ha letto attentamente sarà il primo a riconoscere che una parte della mia riflessione si nutre di questa eredità, come di altre eredità del mondo, che faccio dialogare con l’esperienza negra.

La polemica avviene in Germania perché, al di là del suo successo economico, questo Paese attraversa una crisi culturale molto più grave di quanto si voglia riconoscere. Non si può negare che abbia compiuto significativi tentativi di affrontare il suo passato nazista e le sue responsabilità specifiche riguardo all’Olocausto.

Tuttavia, e molti tedeschi sono i primi a dirlo, rimangono altri lati cruciali della sua memoria che si devono affrontare se si vuole davvero arrivare ad essere in sintonia con il mondo. È il caso della memoria del colonialismo e del suo rapporto con le altre catastrofi di questi ultimi due secoli. Del resto questa esortazione non vale solo per la Germania. Riguarda la maggior parte delle potenze europee.

D’altra parte, se vuole davvero dialogare con le altre Nazioni della terra in una posizione di parità, e quindi liberarsi di ogni pregiudizio e altre questioni non precisate, la Germania deve capire una cosa: riconoscere che si è stati il criminale per antonomasia e pentirsi è una buona cosa, ma ciò non concede all’ex-criminale alcuno status morale particolare.

Ciò sicuramente non autorizza a fare mea culpa percuotendo il petto di qualcun altro, o legiferare universalmente su quello che devono essere, ovunque e sempre, i rapporti tra la memoria e la giustizia. Ciò che, per esempio, vale per la Germania non vale necessariamente per il Sud Africa, per la Francia o la Danimarca.

MEE: Più in generale la Germania, come la Gran Bretagna o la Francia (altri Paesi europei), ha adottato la definizione (e gli esempi) di antisemitismo dell’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto (IHRA) che suppone che l’antisemitismo, nelle sue forme moderne, arrivi fino all’antisionismo, persino alla critica della politica dello Stato di Israele. Pensa che questa polemica sia anche la conseguenza di questa definizione estesa?

Am: Non posso che ripetermi. Se si vuole gettare discredito su una lotta contro l’antisemitismo a livello planetario è sufficiente metterla al servizio della politica di potere degli Stati. Peraltro non si vinceranno né l’antisemitismo né il razzismo moltiplicando i capri espiatori, per giunta stranieri.

MEE: Questa “sacralizzazione di Israele” non è in fondo la risposta a un antisemitismo europeo rimosso che si risveglia non solo in Germania, ma ovunque in Europa e negli Stati Uniti?

AM: Nessuno mette in discussione il diritto dello Stato di esistere in quanto forma sociale e politica. Ma lo Stato, almeno in un regime democratico, non è un’entità divina. In democrazia, non esiste uno Stato per diritto divino.

La democrazia consiste proprio nella nostra capacità di rimettere continuamente in discussione i fondamenti stessi delle nostre convinzioni e dei nostri atti, del nostro stare insieme e del nostro agire insieme. Ogni Stato può, per definizione, essere sottoposto a una critica e dovrebbe esserlo, perché in materia di genealogia degli Stati l’Immacolata Concezione non vuol dire un granché.

MEE: In Francia gli studi postcoloniali sono a volte sospettati di negare la specificità del genocidio ebraico sollevando la questione di altri genocidi dovuti agli europei nei Paesi del Sud. Perché questo sospetto?

AM: Di cosa si parla esattamente? Di quali autori si parla in particolare? Chi si cerca di criminalizzare e con quale scopo? È un’epoca di confusione e ignoranza volontarie. È attaccata la stessa capacità di verità. Si inventa ogni sorta di mulini a vento e si gioca a spaventarsi. Perché la paura giustifica quasi tutto, compreso il peggio.

MEE: Più in generale, non è anche l’irruzione del Sud nella “narrazione” del mondo e della storia mondiale che è messa in dubbio?

AM: Se è così, allora prima il Nord si sveglierà, meglio sarà senza dubbio per tutti. Il centro di gravità del mondo si sta spostando. Contrariamente a quello di ieri, il mondo del futuro non si costruirà senza di noi. Né contro di noi. O noi lo costruiremo insieme o non durerà. Chi pensa che lo costruirà da solo si sbaglia di grosso.

L’ultima opera di Achille Mbembe, “Brutalisme” [Brutalismo] è stato pubblicato nel febbraio 2020 dalle edizioni La Découverte.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




I pericoli della guida sotto l’apartheid israeliano

Izzy Mustafa

26 giugno 2020 – +972 Magazine

“Non mandare su di giri il motore. Tieni le mani sul volante. Non guardare bruscamente negli occhi i soldati di fronte a te. Abbassa la musica. Tieni pronto il tuo documento d’identità per il controllo. Tieni il piede sul pedale del freno. Assicurati, quando il soldato ti fa un cenno con le braccia, di non premere per sbaglio il pedale dell’acceleratore.”

Questo fa parte della lista delle cose da fare che mi viene in mente ogni volta che attraverso un posto di blocco militare israeliano in Palestina. È la routine che mio padre mi ha insegnato a 17 anni, quando ho guidato per la prima volta con lui attraverso il famigerato checkpoint di Za’atara [teatro di numerose uccisioni e ferimenti di palestinesi, n.d.tr.], vicino al villaggio della mia famiglia di Jamma’in, nella Cisgiordania occupata.

Per più di 10 anni, da allora, ho familiarizzato con le strade che collegano tutte le principali città palestinesi in Cisgiordania, dalle dolci colline di Hebron a sud, al maestoso paesaggio agricolo della Valle del Giordano, agli infiniti uliveti di Jenin a nord. Ricordo di aver schivato le buche e la gente per le strade di Kufr Aqab nei miei viaggi avanti e indietro tra Ramallah e Gerusalemme. È durante i miei viaggi da un villaggio di famiglia a un altro che ho assistito alla vorace espansione degli insediamenti ebraici nel corso degli anni.

Tuttavia ogni chilometro di queste strade comporta per i palestinesi dei rischi eccezionali.

Dobbiamo condividere le nostre strade con soldati israeliani e coloni armati. Ogni volta che percorriamo la strada, non siamo solo preoccupati di incorrere in un incidente – le corsie sono strette e non ci sono barriere sparti-traffico – ma siamo anche profondamente consapevoli che la minima mossa sbagliata da parte nostra potrebbe farci uccidere dai nostri colonizzatori.

Il regime israeliano di apartheid impone ai palestinesi nei territori occupati di guidare auto con targhe bianche o verdi, in modo da consentire agli israeliani di monitorare e controllare il movimento dei palestinesi prima ancora di rilevarne l’identità.

I cittadini israeliani, al contrario, guidano auto con targa gialla, il che permette loro di vagare liberamente in Cisgiordania e all’interno di Israele, sulla terra che lo Stato ha rubato ai palestinesi nel 1948. Anche i cittadini palestinesi di Israele e quelli che risiedono a Gerusalemme guidano auto con la targa gialla, ma sono comunque schedati sul versante razziale e sottoposti a maltrattamenti ai posti di blocco.

In un’auto con targa bianca o verde devi prendere ulteriori precauzioni e rimanere vigile in questo ambiente sottoposto a controllo razziale. Non esiste una guida piacevole nella tua terra militarizzata e occupata. Non puoi lasciare che la tua mente vaghi nella leggerezza della vita quotidiana. Non puoi fare una svolta sbagliata o finirai all’ingresso pattugliato di un insediamento coloniale israeliano. Non puoi lasciare che la tua mente ceda al torpore o potresti accidentalmente premere l’acceleratore invece del pedale del freno mentre ti trovi ad un posto di blocco.

I ricordi dei miei viaggi in Palestina si sono riaccesi quando ho saputo che Ahmed Erakat, un palestinese di 27 anni, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco dai soldati israeliani dopo che la sua auto ha sterzato finendo contro una guardiola in un posto di blocco a Gerusalemme est.

Non è ancora chiaro cosa sia successo esattamente, ma sappiamo che Ahmed stava andando a prendere i suoi familiari presso il salone di un parrucchiere a Betlemme nel giorno del matrimonio di sua sorella.

Posso solo immaginare l’ansia e la tensione che Ahmed deve aver provato. Aveva il compito di assicurarsi che tutti arrivassero agli appuntamenti in tempo, e per di più nel giorno delle nozze, quando lo stress tra i familiari non può non essere particolarmente intenso. Questi compiti diventano ancora più stressanti quando si deve avere a che fare con i posti di controllo che è necessario attraversare prima di assicurarsi che tutto vada per il meglio.

So quanto può essere intensa questa esperienza, perché è successa a me.

Il giorno del matrimonio di mio fratello, due anni fa, io, come Ahmed, ero incaricato delle commissioni. Usando un’auto a noleggio con targa verde che mi aveva prestato mio padre, quel giorno dovevo guidare tra Nablus e Ramallah più volte – un tragitto per cui si impiegano almeno 40 minuti per ciascuna direzione – per trasportare i familiari nei luoghi dei loro vari impegni. Durante tutto quel tempo il mio telefono non smetteva di squillare: o venivo sgridato per essere in ritardo o incaricato di un altro compito. L’ ansia e lo stress avevano raggiunto il massimo, divorando la mia mente.

Giunto al posto di controllo di Za’atara, invece di rallentare, ho accidentalmente premuto l’acceleratore e ho quasi invaso la fermata dell’autobus dove si trovavano alcuni coloni israeliani. Fortunatamente, sono stato in grado di azionare rapidamente i freni prima che fosse troppo tardi. So che quell’errore avrebbe potuto costarmi la vita attraverso la canna di una pistola. Sarei potuto finire come un altro “terrorista”, accusato della mia morte, dipinto come un palestinese che avesse intenzionalmente spinto la sua auto contro degli ebrei israeliani.

Agli occhi dei nostri colonizzatori e dei loro sostenitori, ai palestinesi non è mai permesso compiere un errore umano. Non possiamo permetterci il lusso di sbagliare. Per loro, cerchiamo solo la morte e la distruzione; non siamo esseri umani che hanno la stessa gamma di emozioni, stress, ansie, preoccupazioni e difetti che potrebbero causare tali incidenti. In questo sistema di apartheid, i colonizzatori devono sempre giustificare la loro occupazione militare e il furto di terra demonizzando i colonizzati.

Ogni volta che sto per mettermi in viaggio dopo aver visitato mia nonna, lei mi chiede e supplica di guidare con attenzione. So che le sue parole sono più una preghiera che una raccomandazione. Una preghiera che io non finisca coll’essere un’altra vittima come Ahmed Erakat e innumerevoli altri condannati a morte per la guida in quanto palestinesi.

Izzy Mustafa è un organizzatore [di campagne a favore dei diritti umani in Palestina n.d.tr.] palestinese che vive a Brooklyn, New York.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




Comunicato Relatori speciali ONU contro l’annessione,l’apartheid e l’occupazione

Ginevra 16 giugno 2020

Comunicato Esperti Onu

L’annessione israeliana di parti della Cisgiordania palestinese violerebbe il diritto internazionale – gli esperti dell’ONU chiedono alla comunità internazionale che ne paghi le conseguenze.

GINEVRA (16 giugno 2020) – Oggi esperti dell’Onu hanno detto che l’accordo del nuovo governo di coalizione di Israele per annettere dopo il 1° luglio ampie zone della Cisgiordania palestinese occupata violerebbe un principio fondamentale del diritto internazionale e deve essere contrastato in modo efficace dalla comunità internazionale. Quarantasette degli inviati indipendenti per le procedure speciali nominati dalla Commissione per i diritti umani hanno rilasciato la seguente dichiarazione:

L’annessione dei territori occupati è una grave violazione della Carta delle Nazioni Unite e delle Convenzioni di Ginevra ed è contraria alle norme fondamentali più volte affermate dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, secondo cui l’acquisizione di territori con la guerra o con la forza è inammissibile.

La comunità internazionale ha vietato l’annessione proprio perché incita a guerre, devastazioni economiche, instabilità politica, sistematiche violazioni dei diritti umani e diffuse sofferenze.

I piani dichiarati da Israele per l’annessione estenderebbero la sovranità su gran parte della Valle del Giordano e su tutti gli oltre 235 insediamenti israeliani illegali in Cisgiordania. Ciò equivarrebbe a circa il 30% della Cisgiordania. L’annessione di questo territorio è stata approvata dal Piano Americano di Pace per la Prosperità, reso noto alla fine di gennaio 2020.

Le Nazioni Unite hanno dichiarato in molte occasioni che l’occupazione israeliana, che risale a 53 anni fa, è fonte di gravissime violazioni dei diritti umani contro il popolo palestinese. Queste violazioni includono confisca di terre, violenza dei coloni, leggi di pianificazione urbanistica discriminatorie, confisca delle risorse naturali, demolizione delle case, trasferimento forzato della popolazione, uso eccessivo della forza e tortura, sfruttamento del lavoro, violazioni estese dei diritti alla privacy, restrizioni sui media e sulla libertà di espressione, prendere di mira le donne attiviste e i giornalisti, detenzione di minorenni, avvelenamento da esposizione a rifiuti tossici, sfratti ed espulsioni forzate, deprivazione economica e povertà estrema, detenzione arbitraria, mancanza di libertà di movimento, insicurezza alimentare, applicazione discriminatoria delle leggi e imposizione di un sistema a due livelli di diritti politici, legali, sociali, culturali ed economici diversi in base all’etnia ed alla nazionalità. I difensori dei diritti umani palestinesi e israeliani, che portano pacificamente l’attenzione dell’opinione pubblica su queste violazioni, sono calunniati, criminalizzati o etichettati come terroristi. Soprattutto, l’occupazione israeliana ha significato la negazione del diritto all’ autodeterminazione dei palestinesi.

Dopo l’annessione queste violazioni dei diritti umani non farebbero che intensificarsi. Ciò che rimarrebbe della Cisgiordania sarebbe un Bantustan palestinese, isole di territorio completamente scollegate, circondate da Israele e senza alcun legame territoriale con il mondo esterno. Recentemente Israele ha promesso che manterrà il controllo permanente della sicurezza tra il Mediterraneo e il fiume Giordano. Quindi il giorno dopo l’annessione sarebbe la cristallizzazione di una realtà già di per sé ingiusta: due popoli che vivono nello stesso spazio, governati dallo stesso Stato, ma con diritti profondamente disuguali. Questa è la visione di un’apartheid del XXI secolo.

Già per due volte in precedenza Israele ha annesso territori occupati – Gerusalemme Est nel 1980 e le Alture del Golan siriane nel 1981. In entrambe le occasioni il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha immediatamente condannato le annessioni come illegali, ma non ha preso alcuna contromisura significativa per opporsi alle azioni di Israele.

Allo stesso modo, il Consiglio di Sicurezza ha ripetutamente criticato le colonie israeliane in quanto flagrante violazione del diritto internazionale. Tuttavia, la sfida di Israele a queste risoluzioni e il suo continuo rafforzamento delle colonie è rimasto senza risposta da parte della comunità internazionale.

Questa volta deve essere diverso. La comunità internazionale ha la grave responsabilità giuridica e politica di difendere un ordine internazionale basato su regole, di opporsi alle violazioni dei diritti umani e dei principi fondamentali del diritto internazionale e di dare attuazione alle sue numerose risoluzioni che criticano la condotta da parte di Israele durante questa prolungata occupazione. In particolare, gli Stati hanno il dovere di non riconoscere, aiutare o assistere un altro Stato in qualsiasi forma di attività illegale, come l’annessione o la creazione di insediamenti civili in territorio occupato. Le lezioni del passato sono chiare: le critiche senza conseguenze non impediranno l’annessione né porranno fine all’occupazione.

La responsabilizzazione e la fine dell’impunità devono diventare una priorità immediata per la comunità internazionale. Essa ha a sua disposizione un’ampia gamma di misure di responsabilizzazione che sono state ampiamente applicate e con successo dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU in altre crisi internazionali negli ultimi 60 anni. Le misure di responsabilizzazione che vengono selezionate devono essere prese in piena conformità con il diritto internazionale, essere proporzionate, efficaci, soggette a revisione periodica, coerenti con i diritti umani, umanitari e con il diritto dei rifugiati, progettate per annullare le annessioni e por fine all’occupazione e al conflitto in modo giusto e duraturo. I palestinesi e gli israeliani non meritano di meno.

Esprimiamo grande rammarico per il ruolo degli Stati Uniti d’America nel sostenere e incoraggiare i piani illegali di Israele per l’ulteriore annessione dei territori occupati. Negli ultimi 75 anni in molte occasioni gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo importante nel promuovere i diritti umani a livello mondiale. In questa occasione dovrebbero opporsi decisamente all’imminente violazione di un principio fondamentale del diritto internazionale, piuttosto che favorirne concretamente la violazione”.

(*) Gli esperti:

Mr. Michael Lynk, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian Territory occupied since 1967; Ms. Agnès Callamard, Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions; Mr. Ahmed Reid (Chair), Ms. Dominique Day, Mr. Michal Balcerzak, Mr. Ricardo A. Sunga III, and Mr. Sabelo Gumedze, Working Group of experts on people of African descent;Ms. Alena Douhan, Special Rapporteur on the negative impact of the unilateral coercive measures on the enjoyment of human rights; Ms Alice Cruz, Special Rapporteur on the elimination of discrimination against persons affected by leprosy and their family members, Ms. Anaïs Marin, Special Rapporteur on the situation of human rights in Belarus; Mr. Aristide NONONSI, Independent Expert on the situation of human rights in the Sudan; Mr. Alioune Tine,Independent Expert on the situation of human rights in Mali; Mr. Balakrishnan Rajagopal, Special Rapporteur on adequate housing as a component of the right to an adequate standard of living, and on the right to non-discrimination in this context; Mr. Baskut Tuncak, Special Rapporteur on human rights and hazardous substances and wastes; Ms. Catalina Devandas-Aguilar, Special Rapporteur on the rights of persons with disabilities; Ms. Cecilia Jimenez-Damary, Special rapporteur on the human rights of internally displaced persons; Mr. Chris Kwaja (Chair), Ms. Jelena Aparac, Ms. Lilian Bobea, Mr. Saeed Mokbil,Ms. Sorcha MacLeod, Working Group on the use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the exercise of the right of peoples to self-determination; Ms. Claudia Mahler, Independent Expert on the enjoyment of all human rights by older persons; Mr. Clément Nyaletsossi Voule, Special Rapporteur on the right to peaceful assembly and association; Mr. Dainius Pūras, Special Rapporteur on the right to physical and mental health; Mr. David Kaye, Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of expression; Mr. David R. Boyd, Special Rapporteur on human rights and the environment; Mr. Diego García-Sayán, UN Special Rapporteur on the independence of judges and lawyers; Ms. Dubravka Šimonovic, Special Rapporteur on violence against women, its causes and consequences; (Chair) Ms. Elizabeth Broderick (Vice Chair) Ms. Melissa Upreti, Ms. Alda Facio, Ms. Ivana Radačić, Ms. Meskerem Geset Techane, Working Group on discrimination against women and girls; Mr. Fernand de Varennes, Special Rapporteur on minority issues; Ms. Fionnuala D. Ní Aoláin, Special Rapporteur on the promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism; Mr. Githu Muigai (Chair), Ms. Anita Ramasastry (Vice-chair), Mr. Dante Pesce, Ms. Elżbieta Karska, and Mr. Surya Deva, UN Working Group on Business and Human Rights; Ms. Isha Dyfan, Independent Expert on the situation of human rights in Somalia; Mr. Joe Cannataci, Special Rapporteur on the right to privacy; Mr. José Francisco Calí Tzay, Special Rapporteur on the rights of indigenous peoples;Mr. José Antonio Guevara Bermúdez (Chair), Ms. Elina Steinerte (Vice-Chair), Ms. Leigh Toomey (Vice-Chair), Mr. Seong-Phil Hong, and Mr. Sètondji Adjovi, Working Group on Arbitrary Detention; Ms. Karima Bennoune, Special Rapporteur in the field of cultural rights; Ms. Kombou Boly Barry, Special Rapporteur on the right to education; Mr. Léo Heller,Special Rapporteur on the human rights to water and sanitation; Mr. Livingstone Sewanyana, Independent Expert on the promotion of a democratic and equitable international order; Ms. Mama Fatima Singhateh, Special Rapporteur on sale and sexual exploitation of children; Ms Maria Grazia Giammarinaro, Special Rapporteur on trafficking in persons, especially women and children; Ms. Mary Lawlor, Special Rapporteur on the situation of human rights defenders; Mr. Michael Fakhri, Special Rapporteur on the right to food; Mr. Nils Melzer, Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment; Mr. Obiora C. Okafor, Independent Expert on human rights and international solidarity,Mr. Olivier De Schutter, Special Rapporteur on extreme poverty and human rights; Mr. Saad Alfarargi, Special Rapporteur on the right to development; Ms. E. Tendayi Achiume, Special Rapporteur on Contemporary Forms of Racism; Mr. Thomas Andrews. Special Rapporteur on the situation of human rights in Myanmar; Mr. Tomás Ojea Quintana, Special Rapporteur on the situation of human rights in the Democratic People’s Republic of Korea; Mr. Tomoya Obokata, Special Rapporteur on contemporary forms of slavery, including its causes and consequences; Mr. Victor Madrigal-Borloz, Independent Expert on protection against violence and discrimination based on sexual orientation and gender identity; Ms. Yuefen LI, Independent Expert on the effects of foreign debt and other related international financial obligations of States on the full enjoyment of all human rights, particularly economic, social and cultural rights; Mr. Yao Agbetse, Independent Expert on the situation of human rights in Central African Republic

Gli osservatoti speciali fanno parte di quelle che sono note come le Procedure Speciali della Commissione per i Diritti Umani. Procedure Speciali, l’ente più grande di esperti indipendenti nel sistema dell’ONU per i Diritti Umani, è il nome complessivo del sistema di accertamento dei fatti e dei meccanismi di controllo che si occupano sia della situazione di Paesi specifici sia di questioni tematiche in ogni parte del mondo. Gli esperti delle Procedure Speciali lavorano su base volontaria: non fanno parte del personale dell’ONU e non ricevono uno stipendio per il loro lavoro. Non dipendono da nessun governo o organizzazione e prestano servizio nell’ambito delle loro competenze individuali.

(Traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Mentre lo Stato ebraico si lancia in un baratro, la temibile lobby dell’AIPAC non fa assolutamente niente

PHILIP WEISS e JAMES NORTH

17 giugno 2020 – Mondoweiss

Di tutti i drammi che stanno avvenendo nel contesto del piano del governo israeliano di annettere grandi aree della Cisgiordania a partire da luglio, è passato in buona misura sotto silenzio un prodigio politico: l’American Israel Public Affairs Committee [Comitato Americano per le Questioni Pubbliche di Israele] (AIPAC), la temibile lobby israeliana a Washington, non ha avuto niente da dire e di conseguenza con il suo silenzio potrebbe avere preannunciato il suo stesso declino.

Ciò in quanto l’iniziativa israeliana è senza dubbio una grande minaccia per il futuro dello “Stato ebraico”, sicuramente la maggiore crisi che Israele abbia affrontato almeno negli ultimi 10 anni, e ciononostante l’organizzazione, il cui unico scopo è garantire il futuro di Israele, è stata assolutamente silenziosa. Il sito tweet dell’AIPAC è pieno di pubblicità del genere camera di commercio (“L’innovazione israeliana ci rende più sicuri e più sani”), e neppure una parola sull’annessione.

Ma se ci si mette in contatto con singoli importanti sionisti negli Stati Uniti, progressisti o conservatori, sono tutti contrari all’annessione. Persone come Jeremy Burton, Dennis Ross, Robert Satloff, Martin Indyk, Jeremy Ben-Ami, Jeffrey Goldberg, persino Daniel Pipes. Essi si rendono conto della minaccia rappresentata dall’annessione per il futuro dello Stato ebraico. La minaccia è molteplice e ovvia: l’annessione isolerà Israele nel mondo e farà sì che gli europei impongano sanzioni contro Israele; l’annessione minaccia il trattato di pace con la Giordania; l’annessione minerà così tanto il movimento palestinese da rendere possibile una terza Intifada, tanto che persino i sionisti laburisti prevedono una “rivolta” come risposta naturale di un popolo messo all’angolo; l’annessione frammenterà e inizierà a dissolvere il sostegno del partito Democratico a Israele; l’annessione renderà l’apartheid ufficiale e innegabile, persino agli occhi di molti ebrei americani che hanno resistito a rendersene conto per anni; l’annessione darà forza alla campagna per il boicottaggio.

L’unica obiezione a questa sfilza di argomenti è l’illusione messianica: dio (o i britannici) hanno promesso la terra agli ebrei, perciò, di cosa vi preoccupate? Se sei una persona seria che crede nella necessità di uno Stato ebraico, questo è davvero un periodo veramente pericoloso. Un governo israeliano con un limitato appoggio dell’opinione pubblica sta per lanciare una nuova era che potrebbe produrre anni e anni di isolamento e di violenza in Israele. Persino uno dei beniamini dell’AIPAC, che fa parte del movimento dei coloni, è contrario!

Ancora una volta la domanda è: dov’è l’AIPAC? È la maggiore organizzazione filoisraeliana, che in una notte può avere 76 firme del Senato su un tovagliolo e riunire ogni anno in un centro congressi di Washington 20.000 sostenitori di Israele. È talmente famoso che chiunque lo conosce anche solo dalle sue iniziali. E oggi tutta questa potenza di fuoco è silenziosa. Durante una vera e propria crisi per lo Stato ebraico, l’AIPAC non ha niente da dire.

Ci sono un paio di spiegazioni plausibili per questo silenzio. Primo, l’AIPAC, per sua stessa politica, non ha mai criticato il governo israeliano. Va bene, ma cosa succede se questo governo sta per spingere lo Stato ebraico in un baratro? L’AIPAC è talmente condizionato da un ragionamento tattico da non poter vedere una reale minaccia quando si presenta? Forse.

Ma in questo caso la lobby ha dimostrato di aver esaurito la sua utilità per Israele ed è una vittima della sua stessa irresponsabilità. Per decenni ha affermato che non avrebbe mai criticato Israele mentre colonizzava la terra di un altro popolo ed ora, quando Israele è sul punto di fare un enorme passo in quella direzione, non si può smentire.

O forse l’AIPAC pensa di non poter criticare un presidente USA, di non poter danneggiare il suo accesso alla carica più alta del Paese. Trump è assolutamente pronto all’annessione. Pensa che ciò possa fargli avere i milioni di Sheldon Adelson [miliardario americano che finanzia Trump, Israele e le colonie, ndtr.] e forse la Florida in novembre, e l’AIPAC non può essere minimamente critico con un presidente o potrebbe perdere la possibilità di avervi accesso.

Ma di nuovo: il portabandiera della lobby israeliana ha sacrificato la sua stessa missione a una tattica burocratica. Ha costruito una potenza mostruosa e malefica a Washington per appoggiare Israele ed ora, in un momento di crisi, non dice niente.

Il fallimento dell’AIPAC ha chiaramente rafforzato altre organizzazioni sioniste. J Street [associazione di sionisti progressisti contrari all’occupazione, ndtr.] sta conducendo la lotta contro l’annessione insieme ad “Americans for Peace Now [Americani per la pace adesso, organizzazione sionista statunitense a favore della soluzione dei due Stati, ndtr.]. La graduale conquista della lobby israeliana da parte di J Street che abbiamo visto più o meno nell’ultimo anno sembra ormai inevitabile, data l’abdicazione dell’AIPAC. Di fatto l’unico commentatore ad evidenziarlo è il nuovo presidente di APN, Hadar Suskind, che ha scritto su Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] che le principali organizzazioni della lobby israeliana hanno consentito a Israele di sacrificare il suo futuro “sull’altare dell’etno-nazionalismo”.

Con una disperata richiesta di aiuto, Suskind ha scritto che è a rischio nientemeno che lo Stato ebraico: “Quando questo futuro sarà minacciato, noi ci esprimeremo a voce alta, denunceremo apertamente e lotteremo per una prospettiva che rifletta l’opinione sia dei fondatori di Israele che della grande maggioranza degli ebrei americani. Chiediamo a tutti i nostri colleghi di unirsi a noi per proteggere un Israele ebraico e democratico opponendoci chiaramente e fortemente all’annessione. Non aspettate che sia troppo tardi.”

Qualunque cosa si pensi del progetto sionista – e noi siamo contrari – da una prospettiva politica, l’abdicazione dell’AIPAC è sia mistificatoria che patetica, e potrebbe portare a una caotica lotta generazionale all’interno della lobby israeliana in cui i giovani ebrei di IfNotNow [SeNonOra, organizzazione di ebrei statunitensi contraria alle politiche israeliane, ndtr.] e Open Hillel [Hillel Aperto, associazione universitaria ebraica con posizioni critiche, ndtr.] stanno improvvisamente contendendo la leadership all’American Jewish Committee [Comitato Ebraico Americano, storica organizzazione ebraica statunitense filosionista, ndtr.].

Come in un atto di spontanea autodistruzione politica, il silenzio dell’AIPAC è un prodigio, proprio come in primo luogo l’accumulazione di potere della lobby.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)