La lobby israeliana attacca un sopravvissuto di Auschwitz per diffamare Corbyn

Adri Nieuwhof

7 agosto 2018, Electronic Intfada

 

Nella loro campagna per diffamare in quanto antisemita il leader del partito Laburista Jeremy Corbyn, i media britannici hanno utilizzato in modo scorretto il mio defunto amico Hajo Meyer, sopravvissuto ad Auschwitz,.

Nel 2010 Corbyn ha ospitato a Londra un incontro del “Holocaust Memorial Day” [“Giorno di Commemorazione dell’Olocausto”], in cui Meyer era il principale oratore.

Negli scorsi giorni The Times ha suscitato scalpore con un articolo in cui si dichiarava che Meyer “aveva paragonato la politica israeliana al regime nazista.”

Deputati della destra laburista avversari di Corbyn sono partiti all’attacco.

Il parlamentare John Mann ha dichiarato che l’evento ha violato “qualunque forma di normale decenza”, mentre la sua collega Louise Ellman ha affermato che l’incontro l’ha portata a “chiedersi se questa è la ragione per cui il partito Laburista ha voluto attenuare tanto la definizione di antisemitismo.”

Ellman – da molto tempo apologeta delle violazioni israeliane dei diritti umani – è una funzionaria di “Labour Friends of Israel” [“Amici laburisti di Israele”], un gruppo lobbystico in stretti rapporti con l’ambasciata israeliana.

Ellman si riferiva alla definizione profondamente fallace di antisemitismo della “International Holocaust Remembrance Alliance [“Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto”] (IHRA), che cita come esempio di fanatismo antiebraico “paragoni tra l’attuale politica israeliana e quella dei nazisti”.

Sotto pressione da parte di gruppi della lobby filoisraeliana, il Comitato Esecutivo Nazionale del partito Laburista [NEC] ha adottato la definizione dell’IHRA come parte del regolamento del partito.

Ma il NEC non ha accolto uno degli esempi inclusi nella definizione dell’IHRA, secondo cui “sostenere che lo Stato di Israele è un’iniziativa razzista” è una forma di antisemitismo.

Alcuni attivisti hanno sottolineato che, se adottata dal partito, questa clausola avrebbe potuto essere usata per vietare un gran numero di critiche contro le politiche razziste di Israele e contro le violazioni dei diritti fondamentali dei palestinesi.

In un post su Twitter, Henry Zeffman, l’autore dell’articolo del Times, ha ringraziato “quanti hanno passato gli ultimi tre anni a impegnarsi per verificare cosa il possibile prossimo primo ministro ha fatto quando era un oscuro parlamentare di secondo piano” – una conferma che si tratta di una campagna di lungo corso contro Corbyn.

Zeffman segnala in particolare James Vaughan, che si autodefinisce “storico della propaganda e dei rapporti tra il Regno Unito e Israele.”

Corbyn cede

Gli ultimi attacchi contro Corbyn sottintendono che lo stesso Meyer fosse un antisemita – un’affermazione scandalosa ed assurda.

La calunnia di antisemitismo contro Meyer è disgustosa e dovrebbe essere trattata col massimo disprezzo.

Invece Corbyn ha fatto quello che continua a fare sistematicamente da quando è diventato capo del partito, cioè essere accomodante e battere in ritirata di fronte alle pressioni della lobby israeliana.

Il leader del partito Laburista ha chiesto scusa per il suo ruolo nell’evento e ha preso le distanze dalle opinioni esposte da Meyer nell’incontro, lasciando l’onere della difesa sulle spalle di Meyer.

Ma Hajo Meyer non può più difendersi perché è morto nel 2014.

Zittire un sopravvissuto

L’evento dell’” Holocaust Memorial Day” del 2010 ha avuto luogo un anno dopo l’attacco israeliano contro Gaza, che ha ucciso più di 1.400 palestinesi e ne ha ferite altre migliaia.

Meyer era molto turbato dall’attacco perché i palestinesi erano intrappolati a Gaza a causa del blocco imposto da Israele sul territorio dal 2007.

Non poteva fare a meno di fare un confronto tra gli ebrei rinchiusi dai nazisti in ghetti come quello di Varsavia e la situazione dei palestinesi intrappolati sotto l’occupazione e i bombardamenti israeliani.

L’incontro del 2010 era co-organizzato dalla IJAN, l’“International Jewish Anti-Zionist Network” [“Rete Internazionale degli Ebrei Antisionisti”].

In una dichiarazione della scorsa settimana, la IJAN ha evidenziato che un certo numero di dirigenti della lobby britannico-israeliana era presente all’incontro, ma che “la maggior parte di loro evidentemente non era andata per ascoltare.”

La maggior parte dei sionisti era chiaramente venuta per far tacere il dottor Meyer, sopravvissuto all’Olocausto,” ha scritto dopo l’evento una dei partecipanti, Yael Khan. “Appena ha iniziato a parlare si sono messi a gridare contro di lui.”

Il fanatico filoisraeliano Jonathan Hoffmanex-vicepresidente della Federazione Sionista, noto per la sua violenza, è stato uno dei molti disturbatori accompagnati fuori dalla polizia.

Secondo l’IJAN, un altro disturbatore, Martin Sugarman, è stato fatto uscire per aver gridato contro Meyer.

Mentre usciva [Sugarman] ha sbalordito tutti facendo il saluto nazista e gridando: ‘Sieg Heil’ [“Saluto alla vittoria”, slogan nazista, ndtr.],” ha affermato l’IJAN.

Non avevo mai visto un simile disprezzo e mancanza di rispetto nei confronti di un sopravvissuto all’Olocausto,” ha osservato Kahn. “Gli aggressori avrebbero etichettato un simile comportamento come antisemita, se Hajo non fosse stato un antisionista.”

Amanda Sebestyen, che aveva partecipato all’incontro del 2010, ha confermato a The Electronic Intifada che la deputata Louise Ellman era stata lì “per tutto il tempo.”

Infatti nel 2010 Sebestyen ha scritto una lettera al giornale del partito Laburista Tribune, mettendo in evidenza come Ellman e gli altri “siano rimasti seduti impassibili senza fare in minimo tentativo di calmare i loro colleghi sostenitori di Israele e per creare uno spazio di dibattito.”

Le annotazioni, registrate nel 2010, sulla presenza di Ellman sono significative, dato che otto anni dopo la deputata sostiene di aver appreso solo ora dell’evento.

Sono estremamente turbata nel sentire ora che ci sono le prove che Jeremy (Corbyn) era effettivamente presente all’incontro in cui sono state espresse simili opinioni,” ha detto Ellman a The Times la scorsa settimana.

Dato che anche Ellman era presente, perché ha aspettato fino ad ora per esprimere la propria indignazione? Potrebbe essere che tutta la vicenda sia un’altra crisi costruita ad arte per fare pressione su Corbyn per il suo tradizionale appoggio ai diritti dei palestinesi?

Ellman non ha risposto ad una richiesta di commenti inviatale via mail da The Electronic Intifada.

Lezioni dall’Olocausto

Le esperienze di Hajo Meyer con il nazismo tedesco lo hanno formato e reso sensibile alle sofferenze degli altri, soprattutto dei palestinesi.

Incontrai per la prima volta Meyer ad una riunione di “Una voce ebraica differente”, un gruppo di attivisti olandesi.

Mi presentai come figlia di genitori che avevano subito l’occupazione tedesca. Mio padre era stato obbligato a lavorare per i tedeschi e mia madre non poté terminare i suoi studi perché la sua scuola venne chiusa.

Durante la carestia olandese alla fine della Seconda Guerra Mondiale, doveva rimanere ore in coda ad una mensa per i poveri.

La lezione che ho imparato è di protestare quando viene commessa un’ingiustizia, dissi alla riunione.

Questa è la ragione per cui ho partecipato al sostegno della lotta contro l’apartheid sudafricano e di quella dei palestinesi per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza.

Meyer ed io facemmo subito amicizia. Rimanemmo in contatto e l’intervistai varie volte per The Electronic Intifada.

Auschwitz

Dopo il pogrom della Notte dei Cristalli contro gli ebrei nel novembre 1938, Meyer dovette lasciare la scuola a Beilefeld, la sua città natale nella Germania occidentale.

Fu un’esperienza terribile per un ragazzo desideroso d’imparare e per i suoi genitori,” mi ha raccontato.

All’età di 14 anni dovette scappare da solo in Olanda.

Dopo che i tedeschi occuparono l’Olanda, Meyer si nascose con una carta d’identità falsa malfatta.

Venne catturato dalla Gestapo nel marzo 1944 e deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Lì i nazisti gli tatuarono sul braccio il numero “179679”.

L’istruzione era molto importante per la famiglia Meyer ed il suo desiderio di imparare si tradusse in un dottorato in fisica teorica dopo che venne liberato da Auschwitz.

Sua madre e suo padre tentarono di lasciare la Germania, ma non ci riuscirono.

Morirono dopo essere stati spediti al campo di concentramento nazista di Terezin.

L’identificazione con la gioventù palestinese

Riflettendo sulla sua vita, Meyer mi ha detto nel 2011: “Ho molto in comune con i giovani palestinesi.”

La mia sorte è molto simile a quella che stanno vivendo i giovani palestinesi in Palestina. Non hanno libero accesso all’istruzione. Impedire l’accesso all’istruzione è un omicidio al rallentatore,” ha detto Meyer.

Sono stato un rifugiato; loro sono rifugiati,” ha aggiunto. “Ho provato ogni sorta di campi che hanno limitato la mia possibilità di muovermi, proprio come i palestinesi.”

Ma riconoscere l’ingiustizia non era abbastanza.

Meyer non temeva di protestare per le responsabilità di Israele: “Non posso assolutamente identificarmi con i criminali che rendono impossibile ai giovani palestinesi ricevere un’istruzione.”

Era anche sgomento dal fatto che l’Unione Europea non imputasse a Israele i suoi crimini, soprattutto contro i palestinesi di Gaza.

Nel suo libro del 2005 “Das Ende de Judentums, Der Verfall der israelischen Gesellschaft” – “La fine dell’Ebraismo, la decadenza della società israeliana” – Meyer avvertì il pubblico tedesco che le politiche di Israele verso i palestinesi avrebbero potuto essere paragonate alle prime fasi della persecuzione nazista contro gli ebrei.

Questa osservazione venne fatta nel 2007 anche da Tommy Lapid, il defunto ex-capo del comitato consultivo del memoriale dell’Olocausto di Israele, lo “Yad Vashem”.

Meyer ha messo in chiaro che non intendeva tracciare un parallelo con l’Olocausto nazista.

Ma lui e il suo editore hanno comunque dovuto affrontare accuse di antisemitismo.

Simili accuse – soprattutto in Germania – possono far sì che le persone siano riluttanti a criticare il comportamento di Israele.

Tuttavia ciò non gli ha impedito di criticare le violazioni israeliane dei diritti dei palestinesi.

In risposta, Meyer ha pubblicato un opuscolo per controbattere all’abuso deliberato dei termini antisionismo e antisemitismo da parte dello Stato di Israele e dei suoi gruppi di pressione.

Ha chiesto la massima cautela nel sollevare accuse di antisemitismo – un termine che avrebbe dovuto essere riservato all’ostilità contro gli ebrei in quanto tali.

Eppure quelli che attaccano Corbyn oggi non hanno né ritegno né vergogna.

Chiamano antisemita persino un uomo sopravvissuto ad Auschwitz e che ha perso i propri genitori nell’Olocausto, se pensano che sia ciò che serve per difendere Israele dalle conseguenze dei suoi crimini.

Adri Nieuwhof è una sostenitrice olandese dei diritti umani ed ex-attivista contro l’apartheid del “Comitato Olandese sul Sud Africa”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché definire Israele uno Stato di apartheid o razzista non è antisemita

Ben White

giovedì 2 agosto 2018, Middle East Eye

Per i palestinesi e per i loro sostenitori una definizione di antisemitismo non può essere slegata dalla storia e dalla natura della fondazione di Israele e dalle sue politiche in corso

Il convulso dibattito sulla definizione di antisemitismo della “International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa che intende promuovere la memoria dell’Olocausto formata da 31 Paesi membri, ndtr.] – o, più precisamente, sulla definizione ed esemplificazione dell’antisemitismo – si è concentrato su quanto il documento limiti la possibilità di criticare lo Stato di Israele e delegittimi la solidarietà con i palestinesi.

Qualcuno, come Jonathan Freedland, editorialista di “The Guardian” [quotidiano inglese di centro-sinistra, ndtr.], scrivendone lo scorso venerdì, ha difeso il documento dell’IHRA dal timore che “metterà a tacere le voci a favore dei palestinesi”, dando un’interpretazione in malafede e improbabile del testo, e delle sue implicazioni.

Si può, se si vuole, dire che tutto ciò che lo Stato di Israele ha fatto dalla sua nascita è stato razzista,” ha sostenuto Freedland. “Quello che è proibito è etichettare come impresa razzista “uno Stato di Israele” – il principio per cui gli ebrei, come qualunque altro popolo sulla terra, dovrebbero avere una patria e un rifugio per sè.”

Una posizione debole

Per prima cosa, rivediamo esattamente il testo in questione, parte del quale compare nel documento IHRA come lista di esempi di antisemitismo contemporaneo: “Negare al popolo ebraico il diritto all’autoedeterminazione, ad esempio sostenendo che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista.”

Mettere in rilievo il riferimento a “uno” e non “allo” Stato di Israele è una posizione molto debole. Il documento dell’IHRA ospita nove riferimenti ad Israele in totale, e tutti chiaramente riguardanti lo Stato di Israele attualmente esistente, non uno [Stato] ipotetico (il che, ovviamente, non avrebbe alcun senso).

Allo stesso modo la definizione di antisemitismo in una bozza di lavoro diffusa (e poi lasciata cadere) dall’ormai defunto Centro Europeo di Monitoraggio su Razzismo e Xenofobia – su cui il documento dell’IHRA è in gran parte basato – mette anche in chiaro che l’esempio in questione si riferisce all’attuale Stato di Israele.

Ma non basta. Il documento dell’IHRA introduce la lista di casi affermando che essi “potrebbero” essere esempi di antisemitismo, “prendendo in considerazione il contesto generale”. Queste specificazioni vengono enfatizzate da quanti intendono minimizzare la possibilità che il documento abbia un effetto deterrente.

Tuttavia, dato che questo elenco include casi ben definiti di antisemitismo come “invocare, favorire o giustificare l’uccisione o il ferimento di ebrei” e la negazione dell’Olocausto, non c’è da stupirsi che la specificazione “potrebbero” sia spesso in pratica omessa in tutti gli esempi illustrativi.

E in pratica il documento dell’IHRA è già stato utilizzato per attaccare i palestinesi e i loro sostenitori e per sostenere che descrivere Israele nei termini di apartheid o colonialismo di insediamento sia “antisemita”.

Esempi istruttivi

L’anno scorso alcuni funzionari dell’”Università del Lancashire Centrale” hanno annullato un dibattito dell’”Israeli Apartheid Week” [Settimana contro l’Apartheid Israeliano, iniziative annuali organizzate dai movimenti filopalestinesi in tutto il mondo, ndtr.] perché avrebbe presumibilmente contravvenuto alla definizione dell’IHRA. All’inizio di quest’anno “Campagna contro l’Antisemitismo” [ong costituita dalla comunità ebraica britannica, ndtr.] ha sbandierato “successi simili” nell’ottenere la cancellazione di eventi organizzati da studenti.

Anche alcuni militanti della “Federazione Sionista del Regno Unito”, il “Centro di Comunicazione e Ricerca Britannico-Israeliano” (BICOM), insieme a parlamentari come Joan Ryan del partito Laburista e il conservatore Matthew Offord, hanno presentato una richiesta al governo per vietare eventi di “Israeli Apartheid Week” nelle università – citando di nuovo la definizione dell’IHRA.

Persino il “Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici” – sostenitore del documento dell’IHRA – ha riconosciuto che “c’è una preoccupante resistenza da parte delle università nell’adottarla (la definizione) e la libertà di parola è presentata come ragione principale della loro riluttanza.”

Proprio questa settimana un consigliere conservatore di Barnet – la prima autorità locale ad aver adottato la definizione dell’IHRA – ha presentato una mozione che intende proibire a qualunque gruppo o persino singolo individuo che appoggi la campagna guidata dai palestinesi di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) [contro Israele] di affittare strutture comunali.

Con un altro esempio istruttivo, quest’anno esponenti di organizzazioni come il “Comitato degli Ebrei Americani” e il “Congresso degli Ebrei Europei” hanno cercato di vietare all’attivista del BDS palestinese e difensore dei diritti umani Omar Barghouti di parlare al parlamento europeo.

In una lettera co-firmata le organizzazioni hanno sostenuto che “gli attivisti del BDS sono sistematicamente impegnati in pratiche considerate antisemite in base alla definizione di antisemitismo dell’ International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA),” visto che citano regolarmente l’esempio di Israele come un’“impresa razzista”.

Si noti ancora come, nella pratica, la specificazione “potrebbe” sia resa irrilevante: un palestinese che desideri porre fine alla violazione dei diritti del suo popolo è palesemente calunniato come razzista.

Impreciso e redatto male

Significativamente, anche due figure chiave che hanno partecipato alla formulazione del testo dell’IHRA riconoscono il suo impatto sulla libertà di parola, benché da prospettive molto diverse.

Kenneth Stern, uno dei principali estensori della definizione dell’EUMC, in seguito ha denunciato come i gruppi filoisraeliani abbiano utilizzato il documento “con la delicatezza di un maglio”. A novembre Stern ha detto al congresso USA che l’inserimento della definizione nel sistema giuridico avrebbe “congelato” il “discorso politico” degli studenti filopalestinesi.

Se Stern ha manifestato disappunto per come il testo dell’EUMC è stato in seguito utilizzato (pur senza riconoscere il proprio ruolo nel aver collaborato ad un simile risultato), invece l’architetto del documento dell’IHRA è assolutamente soddisfatto del suo ruolo nel censurare il punto di vista palestinese.

Mark Weitzman, che lavora al “Centro Simon Wiesenthal” con sede negli USA, è stato la “figura principale” nel riuscire a proporre e far adottare il documento dell’IHRA. Quando lo scorso anno l’”Università del Lancashire Centrale” ha annullato l’evento dell’”Israeli Apartheid Week”, Weizman ha salutato la decisione come “una chiara prova che questa definizione accettata a livello internazionale può giocare un ruolo fondamentale nella lotta contro l’antisemitismo.”

Nonostante l’evidenza, qualcuno sostiene che quelli che utilizzano il documento dell’IHRA per censurare semplicemente non lo stanno applicando “correttamente”. Ma, nel migliore dei casi, ciò conferma semplicemente le critiche sollevate da gente come David Feldman, direttore del “Pears Institute for the study of Antisemitism” [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, con sede a Londra, ndtr.], e Geoffrey Bindman, avvocato della Corona – cioè che la definizione è “imprecisa in modo sconcertante” e “redatta male”.

Non c’è niente di contraddittorio nell’affermazione che un documento impreciso possa essere utilizzato per censurare (come a quanto pare crede Freedman). Al contrario, come abbiamo visto con i tentativi di fare leggi contro l’”estremismo”, un linguaggio generico porta direttamente a preoccupazioni riguardo all’impatto sulla libertà di parola.

Stato etnico

In conclusione, torniamo all’affermazione sostenuta da Freedland ed altri, secondo cui l’esempio dell’IHRA in questione riguardi un “principio” – cioè “che gli ebrei, come qualunque altro popolo sulla terra, dovrebbero avere una patria e un rifugio per sè.”

Qui, e non per la prima volta, Freedland utilizza termini come “patria” e “rifugio” mentre quello di cui si sta realmente discutendo è uno Stato. Il documento dell’IHRA non riguarda un “principio” – riguarda l’associazione dell’autodeterminazione non solo a uno Stato, ma a uno Stato etnico.

Per i palestinesi le conseguenze di tale associazione non sono per niente teoriche: la creazione dello Stato di Israele come “Stato ebraico” ha significato pulizia etnica ed esilio forzato, e la sua continua esistenza come tale significa spoliazione, discriminazione e disumanizzazione continue.

Come hanno notato recentemente due difensori dei diritti umani palestinesi che vivono a Londra: “Per i palestinesi l’idea che sostenere che ‘l’esistenza dello Stato di Israele è un’impresa razzista’ sia in sé antisemita è slegata dalla storia e dalla natura della fondazione di Israele, e dalle sue continue politiche.”

Leggendo una lettera, pubblicata da “The Guardian” questa settimana, di un gruppo di palestinesi-britannici, che affermano il proprio diritto ad una “dimensione pubblica” della “realtà” della loro esperienza passata e presente, mi sono ricordato di qualcosa che un docente palestinese mi aveva detto quando ero uno studente universitario

Come può essere antisemita per me oppormi alla mia spoliazione?”, ha chiesto in forma retorica. “E di conseguenza,” ha aggiunto, “come può essere antisemita per te essere solidale con me?” Infatti. Eppure questa è l’assurda equazione su cui Israele ed i suoi amici hanno sempre cercato di insistere e a cui bisogna continuamente opporsi.

Ben White è autore del recente libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe nel muro: oltre l’apartheid in Israele/Palestina]. È un giornalista e scrittore freelance e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, the Guardian’s Comment is Free ed altri.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Proteste, boicottaggio e dimissioni dalla Knesset: come rispondere alla legge di Israele sullo Stato-Nazione

Hatim Kanaaneh

Lunedì 30 luglio 2018, Middle East Eye

Si fa un gran parlare riguardo a manifestazioni, scioperi e quant’altro. Ma nulla di ciò raggiunge il livello di una vera disobbedienza civile e di una seria presa in considerazione di unirsi al [movimento] BDS

La mattina del 27 luglio sto di nuovo cogliendo fichi dai miei alberi, ascoltando il programma di notizie di Jack Khoury che dura un’ora sulla stazione radio locale araba nei pressi di Nazareth. Khoury, un cittadino di Israele arabo cristiano, funge da corrispondente per Haaretz.

Se non fosse per il suo nome, e basandosi solamente sulle sue relazioni, lo si potrebbe scambiare per un israeliano qualunque. Io non ho letto il testo della nuova legge di Israele sullo Stato-Nazione e non sono certo se ora Khoury debba portare sul braccio un contrassegno di identità razziale. Appena dopo aver citato l’argomento della nuova legge, ha trasmesso una deliziosa e malinconica canzone araba riguardo al nostro legame con la terra.

Mi domando: la nuova legge specifica la punizione per un simile reato di pensiero? O le autorità hanno fiducia nel fatto che i responsabili di Haaretz mettano in riga i loro dipendenti? Il mio amico ebreo kamikaze, Gideon Levy, accusa i media israeliani di autocensura e definisce una finzione il loro status di stampa libera.

Una questione sensibile

Il successivo argomento del programma di Khoury era la reazione dell’opinione pubblica araba alla demolizione di una casa a Sakhnin. Ha parlato al telefono con il proprietario della casa demolita, che ha messo in guardia sul fatto che la sua è stata una delle migliaia di case arabe destinate alla demolizione.

Poi c’è stata l’opinione professionale del dott. Hanna Swaid, ex membro della Knesset, urbanista e capo dell’‘Alternative Planning Center’, che ha evidenziato il fondamento giuridico dell’aggressione del governo israeliano.

Pare che nessuno si interroghi sul diretto rapporto tra la tempistica del feroce atto di cui si parlava e la nuova legge. Mi chiedo se qualcuno abbia notato una questione apparentemente secondaria: mentre tutti manifestavano a Sakhnin, l’intero villaggio beduino di Al-Araqib nel Negev veniva demolito per la 131esima volta.

Poi Khoury si è spostato su un altro argomento sensibile, almeno per quanto riguarda i drusi in Israele: l’intera comunità sembra pronta alle armi (scusate l’espressione agghiacciante– i maschi drusi servono nell’esercito israeliano e detengono armi) per il modo in cui la nuova legge ha declassato loro e la loro presunta consanguineità con il popolo ebraico.

Uno dei loro villaggi in Galilea una volta si è vantato del fatto di essere il primo per numero di soldati uccisi in combattimento in tutto Israele. Improvvisamente le cose sono cambiate e loro sono relegati al livello di normali ‘goyim’ [parola ebraica per indicare, a volte in modo spregiativo, i non ebrei, ndtr.], non migliori di altri arabi privi di valore. 

I drusi sono stati pugnalati alle spalle”, strillava un titolo di giornale. “Abbiamo dimenticato i nostri fratelli drusi”, ha ammesso Naftali Bennet, ministro e primo firmatario della nuova legge. Tre deputati drusi hanno impugnato la legge davanti alla Corte Suprema. E i capi della comunità, sia politici che spirituali, sono stati convocati ad un incontro conciliatorio con Netanyahu ed alcuni dei suoi principali ministri.

Ma all’incontro il premier è stato irremovibile, offrendo di pensare alla promulgazione di un’ulteriore “legge fondamentale” per favorire i drusi rispetto ad altri comuni ‘ goyim’, invece di recedere sulla legge o su parti di essa. Asa’ad Nafa’a, un avvocato druso di sinistra recentemente intervistato da Khoury, ha rilevato che Netanyahu, invece di prendere una scala per scendere dall’alto albero su cui si era arrampicato, ha offerto ai drusi una scaletta per salire appena al di sopra della testa degli altri arabi in Israele.

Gli arabi e la leadership drusa

Mi ha fatto venire in mente lo status intermedio dei ‘coloured’ nel Sudafrica dell’apartheid e il “test della matita” [metodo per determinare l’identità razziale: si infilava una matita tra i capelli e se rimaneva attaccata ai ricci si veniva classificati come meticci, ndtr.] per smascherare i casi limite. Alcuni giovani drusi, che devono aver discusso se andare in prigione piuttosto che fare il servizio militare nell’esercito israeliano, sono contenti dei nuovi sviluppi. “È positivo che sia venuto da loro”, si sono rallegrati insieme a Nafa’a.

Nessuno, tra i giornalisti e i loro intervistati, sembra rendersi conto della differenza nell’approccio tra la leadership drusa e quella delle altre minoranze arabe in Israele. I leader drusi (e alcuni ex generali beduini che hanno osato uscire allo scoperto e dire la propria opinione) protestano a gran voce, ma solo entro i limiti delle strutture israeliane riconosciute, affrettandosi a presentare richieste alla Corte Suprema israeliana o a scrivere lettere di protesta ai dirigenti dei rispettivi partiti politici, gli stessi che avevano fatto molta pressione per far passare la legge.

Al contrario, le due leadership parallele degli altri cittadini palestinesi di Israele, i membri della Lista Unita [ coalizione tra tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.] eletti alla Knesset e il gruppo della leadership politica rappresentata dall’Alto Comitato per i Cittadini Arabi di Israele e dal suo militante leader, Mohammad Baraki, si sono rivolte direttamente a Bruxelles e a Ginevra, invitando la comunità internazionale a assumersi le proprie responsabilità morali, ammonendo Israele perché torni sui suoi passi. Questa, a giudicare dall’esperienza, non è una prospettiva promettente.

L’unico anello mancante – finora – è quello del più vasto ambito della società civile. Si fa un gran parlare di manifestazioni, scioperi e quant’altro. Ma nulla di tutto ciò arriva a livello di una vera disobbedienza civile, come la chiusura dei municipi in tutte le comunità arabe in Israele, seguita anche da quella di rispettabili comunità ebree che simpatizzino [con i cittadini arabi di Israele, ndtr].

Un partito binazionale

Per essere efficace, deve essere palestinese ed ebrea, senza il solito balbettio della sinistra israeliana. E deve essere sostenuta per mesi se non per anni, prendendo anche seriamente in considerazione di unirsi alla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.

Ma il primo colpo d’avvertimento a Netanyahu e compagnia devono essere le dimissioni collettive di tutti i membri della Lista Unita dal parlamento israeliano e la creazione di un partito politico binazionale che auspichi un unico Stato laico e democratico ad ovest del fiume Giordano.

Sarebbe molto opportuno che un ugual numero di deputati ebrei simpatizzanti desse le dimissioni e si unisse alla lotta.

Continuiamo a sognare! Ecco la citazione su ‘Palestine Square’ [giornale di studi palestinesi, ndtr.] di Hasan Jabareen di Adalah [Centro Giuridico per i Diritti della minoranza araba in Israele, ndtr.]: “Come ha scritto Adalah nel suo documento, la legge mostra chiaramente che il regime israeliano è un regime coloniale di apartheid, che viola la Convenzione sull’apartheid, la quale lo considera un crimine contro l’umanità.”

Come può un onesto e sensato politico palestinese in Israele continuare a lavorare in questa situazione? Talvolta il suicidio per auto immolazione è la sola azione corretta. Credo che siamo a questo punto.

  • Hatim Kanaaneh è medico della sanità pubblica e cittadino palestinese di Israele, che ha vissuto e praticato la professione nel suo villaggio natale in Galilea per oltre 40 anni. È autore della raccolta di racconti brevi ‘Chief Complaint: a country doctor’s tales of life in Galilee’ (Just World Books, 2015) e di un libro di memorie, ‘A doctor in Galilee: the life and struggle of a Palestinian in Israel’ (Pluto press, 2008).

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La realtà e la sua maschera

Giorgio M., Cruciati C., Israele, mito e realtà. Il movimento sionista e la Nakba palestinese settant’anni dopo, Edizioni Alegre, Roma, 2018, 15 €.

Amedeo Rossi

Il libro di Michele Giorgio e Chiara Cruciati, giornalisti de “Il Manifesto”, rappresenta un utile strumento per fare un bilancio di 70 anni della nascita di Israele, ma soprattutto per misurare quanto la realtà storica e l’attualità siano lontane dall’opinione corrente su questa vicenda.

Il libro è strutturato in due parti e tre appendici: una cronologia fondamentale, un glossario e alcune immagini relative a questioni affrontate nei precedenti capitoli. Nella prima parte gli autori ripercorrono la storia del sionismo dalle sue origini nel XIX° secolo alla fondazione dello Stato di Israele. Nonostante le differenze tattiche tra le sue varie correnti, dal capitolo emerge una sostanziale condivisione dell’obiettivo da raggiungere, e ciò implicasse la negazione del diritto dei palestinesi alla terra su cui avevano vissuto per secoli. Anzi, nel negare la loro stessa esistenza, in quanto intralcio per la realizzazione del progetto sionista. Questa è stata una delle ragioni delle aspre critiche nei confronti del movimento da parte di intellettuali ebrei, tra cui Martin Buber, Hannah Arendt, Marek Edelman, Noam Chomsky. Oltre all’estrema coerenza e determinazione con cui i dirigenti sionisti, contro ogni ragionevolezza, hanno perseguito, realizzato ed ampliato il sogno di Herzl, emerge la spietatezza nei confronti della popolazione autoctona che ha guidato l’azione politica sionista fin dai primi tempi. Gli autori citano ad esempio Israel Zangwill, scrittore ebreo britannico: “Non esiste alcuna ragione particolare perché gli arabi debbano restare aggrappati a questi pochi chilometri di terra. Ripiegare le tende e andarsene di soppiatto è la loro proverbiale abitudine. Che lo facciano anche ora […] Dobbiamo garbatamente convincerli a mettersi in marcia.” Il brano mette in luce gli stereotipi orientalisti del suo autore e la convinzione che i palestinesi avrebbero facilmente lasciato posto ai nuovi venuti. I sionisti si resero presto conto che invece erano tenacemente legati alla propria terra, e passarono a metodi tutt’altro che “garbati”.

La seconda parte costruisce, per lo più attraverso una serie di interviste ad intellettuali sia israeliani che palestinesi, una sorta di mosaico a partire da alcune questioni cruciali che costituiscono la narrazione prevalente sul conflitto israelo-palestinese. E’ su questi punti che si è costruito il mito citato nel titolo del volume: il rapporto tra ebrei, Olocausto e Israele; la Palestina, i palestinesi e gli ebrei prima e dopo la nascita di Israele, tra ritorno negato agli uni e “ritorno” promesso agli altri; il sionismo e i Israele come esperienze socialiste; la questione di stretta attualità dei diritti di cittadinanza e nazionalità tra ebrei e palestinesi in Israele; il rapporto tra antisemitismo e filo-sionismo; infine, l’idea di Israele come parte dell’Occidente e quindi dei palestinesi come intrusi.

I capitoli-interviste sono sintetici ma ricchi di notazioni e spunti interessanti. Per ragioni di spazio mi limiterò a citarne solo alcuni.

Lo storico palestinese Salim Tamari smentisce una delle asserzioni della narrazione sionista: il fatto che il nazionalismo palestinese sia stato una reazione tardiva al sionismo. Secondo Tamari in realtà tra la fine dell’XIX° secolo e i primi del XX° si era risvegliato tra i palestinesi un sentimento nazionale anti-turco prima e antisionista poi. In particolare divenne centrale la questione delle terre: “I sionisti compravano terreni per dare vita a colonie per ebrei e cacciavano via i contadini palestinesi che in molti casi le avevano coltivate per generazioni, sebbene per conto dei proprietari. E questo problema rappresentò un punto centrale per la mobilitazione nazionalista palestinese.” La citazione per un verso individua nel problema della terra e non nell’odio razziale o religioso la causa dei primi conflitti tra palestinesi e sionisti. Dall’altro evidenzia una delle caratteristiche costanti del progetto sionista: separare la popolazione autoctona dalla terra. Ciò ebbe in Palestina, come in altre realtà coloniali pre-capitaliste, effetti dirompenti sulla popolazione e sull’economia locali.

Il risultato di questo processo viene analizzato in un capitolo successivo, costruito con inserti di un’intervista a Wasim Dahmash, docente di lingua e letteratura araba all’università di Cagliari, che riguarda il “ritorno” degli ebrei e la contemporanea espulsione dei palestinesi. Si tratta di una situazione caratterizzata da una serie di palesi contraddizioni. Agli ebrei di qualunque Paese al mondo viene concessa l’aliyah (letteralmente la “salita”, dalla diaspora alla biblica terra degli antenati), ai palestinesi è negato questo diritto e vengono considerati “infiltrati”, ed alcuni di quelli rimasti nello Stato d’Israele sono considerati “presenti assenti”. La recentissima legge, approvata a luglio relativa allo “Stato-Nazione ebraico” attribuisce valore costituzionale alle discriminazioni cui è già soggetto il 20% della popolazione non ebraica di Israele e di cui parla un capitolo del libro.

Due capitoli si occupano invece del mito relativo ad Israele come Paese “socialista”, che in Occidente ha affascinato parte della sinistra. Il primo riguarda l’Histadrut, il sindacato sionista. Esso si adeguò a quanto affermato da Ben Gurion già nel 1934: “Se non facciamo ogni genere di lavoro, facile e difficile, specializzato e non, se resteremo dei meri proprietari, questa patria non sarà mai nostra.” Il corollario di questa affermazione è stata naturalmente l’espulsione della maggioranza dei palestinesi. Tuttavia Israele ha utilizzato prigionieri arabi della guerra del ’48 come lavoratori forzati internati in veri e propri lager, e l’Histadrut è stato un sindacato di regime. È dal sindacato che nacque la principale milizia armata sionista, l’Haganah. Dopo la fondazione di Israele, fino al 1959 ai palestinesi con cittadinanza israeliana venne negata l’iscrizione al sindacato e imposte discriminazioni salariali. Un sindacalista britannico ha affermato: “Il principale ruolo di Histadrut non era la difesa dei salari e le condizioni di lavoro dei suoi membri ma la colonizzazione della Palestina […] Histadrut fu un sindacato capitalista.” Dopo l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, ai lavoratori palestinesi nelle colonie o in territorio israeliano è stato imposto il pagamento delle quote sindacali senza però il godimento dei relativi diritti assistenziali e previdenziali.

Il secondo riguarda il modello del kibbutz, a lungo considerato come una sorta di comune. In realtà anch’esso è strettamente legato all’ideologia sionista, che esclude i palestinesi, ed anzi è stato storicamente uno degli strumenti per la loro espulsione dalle terre. È significativa a questo proposito la citazione presente nel libro dell’episodio narrato in un’intervista da Moshe Dayan, protagonista della vittoria militare del ’67: una delegazione di membri di kibbutz del nord di Israele si recò dall’allora primo ministro Levy Eshkol per intimargli di aprire le ostilità contro la Siria per occupare le fertili terre del Golan. Nel capitolo Sergio Yahni, giornalista e analista di origini argentine che ha vissuto a lungo in un kibbutz, racconta il ruolo attivo dei kibbutzim nel Palmach, reparto d’élite dell’Haganah, responsabile di massacri ed espulsioni di palestinesi. Inoltre per molti anni nei kibbutz non vennero accolti gli ebrei provenienti dai Paesi arabi. A partire dagli anni ‘80, con l’avanzare delle politiche neoliberiste, anche queste esperienze comunitarie sono diventate sempre più marginali o si sono trasformate a tutti gli effetti in aziende di tipo capitalistico.

In estrema sintesi, questo libro ricostruisce un’immagine di Israele ben lontana da quella più diffusa e mette in luce quello che hanno rappresentato e continuano a rappresentare il sionismo e il suo Stato, non solo negli anni di Netanyahu e dell’estrema destra al potere, ma fin dalle loro origini: nazionalismo, colonialismo e, con la nascita dello Stato di Israele, regime di apartheid, per certi versi peggiore di quello sudafricano. Lo denunciano, inascoltati, anche intellettuali e giornalisti israeliani, lo tacciono invece i nostri mezzi di comunicazione ed i nostri politici.

C’è da sperare che il lavoro di Giorgio e Cruciati non venga letto solo nella ridotta cerchia di chi già è impegnato nella lotta a favore dei diritti del popolo palestinese, ma soprattutto da chi continua a credere al mito dell’”unica democrazia del Medio Oriente”.




La legge sullo Stato-Nazione ebraico: perché Israele non è mai stato una democrazia

Ramzy Baroud

23 luglio 2018, Ma’an News

Il capo della coalizione “Lista Araba Unitaria” [tra partiti arabo-israeliani, ndtr.] alla Knesset (parlamento) israeliana, Aymen Odeh, ha descritto l’approvazione della razzista “Legge sullo Stato-Nazione ebraico” come “la morte della nostra democrazia.”

Veramente Odeh crede che, prima di questa legge, lui abbia vissuto in una vera democrazia? Settant’anni di supremazia degli ebrei israeliani, genocidio, pulizia etnica, guerre, assedi, incarcerazioni di massa, numerose leggi discriminatorie, tutte cose volte alla vera e propria distruzione del popolo palestinese avrebbero dovuto fornire prove sufficienti, per cominciare, che Israele non è mai stato una democrazia.

La legge per lo Stato-Nazione ebraico non è altro che la ciliegina sulla torta. Ciò fornisce semplicemente gli argomenti di cui avevano bisogno per illustrare meglio il punto a quanti sostengono da sempre che il tentativo di Israele di tenere insieme la democrazia con la superiorità etnica era razzismo travestito da democrazia.

Ora non ci sono più scuse per sfuggire all’obbligo morale. Quelli che insistono nell’appoggiare Israele devono sapere che stanno sostenendo un vero e proprio regime di apartheid.

La nuova legge, approvata dopo qualche polemica il 19 gennaio, ha separato Israele da qualunque pretesa, per quanto falsa, di essere uno Stato democratico.

Di fatto nel suo testo la legge non menziona neanche una volta la parola “democrazia”. Invece sono numerosi e predominanti i riferimenti all’identità ebraica dello Stato, con la chiara esclusione del popolo palestinese dai propri diritti nella sua patria storica:

– “Lo Stato di Israele è lo Stato-Nazione del popolo ebraico…

– “La realizzazione del diritto all’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unicamente del popolo ebraico.”

– “Lo Stato si impegnerà a garantire la sicurezza dei figli del popolo ebraico…”

– “Lo Stato agirà per preservare l’eredità culturale, storica e religiosa del popolo ebraico nella diaspora ebraica,” e via di seguito.

Ma più pericoloso di tutti è l’articolo secondo cui “lo Stato vede l’insediamento ebraico come un valore nazionale e si impegnerà a incoraggiare e promuovere la sua realizzazione e il suo sviluppo.”

È vero, le colonie ebraiche illegali già punteggiano la terra palestinese in Cisgiordania e a Gerusalemme, e all’interno stesso di Israele già esiste una segregazione di fatto. Infatti la segregazione in Israele è così profonda e radicata che negli ospedali israeliani persino i reparti maternità tengono separate le madri in base alla razza.

Tuttavia la formulazione di cui sopra accelererà ulteriormente la segregazione e consoliderà l’apartheid, rendendo il danno non solo intellettuale e politico, ma anche fisico.

Il “Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele Adalah” nella sua “Banca dati delle Leggi discriminatorie” ha documentato un elenco di oltre 65 leggi israeliane che “discriminano direttamente o indirettamente i cittadini palestinesi di Israele e/o palestinesi residenti nei Territori Palestinesi Occupati, (TPO) sulla base dell’appartenenza nazionale.”

Secondo “Adalah”, “queste leggi limitano i diritti dei palestinesi in ogni ambito della vita, dai diritti di cittadinanza al diritto di partecipazione politica, ai diritti sulla terra e abitativi, ai diritti all’istruzione, culturali e nell’uso della lingua, ai diritti religiosi e ai diritti ad un equo processo durante la detenzione.

Mentre sarebbe corretto sostenere che la legge sullo Stato-Nazione rappresenta l’ufficializzazione dell’apartheid in Israele, questa constatazione non deve ignorare la precedente situazione su cui Israele è stato fondato 70 anni fa.

L’apartheid non consiste in una singola legge, ma in un lento, doloroso accumulo di un intricato regime giuridico che è motivato dalla convinzione che un gruppo razziale sia superiore a tutti gli altri.

Non solo la nuova legge eleva l’identità ebraica di Israele ed elimina ogni impegno nei confronti della democrazia, degrada anche lo status di tutti gli altri. Gli arabo-palestinesi, i nativi della terra della Palestina storica su cui Israele è stato fondato, non figurano affatto in modo significativo nella nuova legge. C’è un solo articolo relativo alla lingua araba, ma semplicemente per ridurlo da lingua ufficiale a lingua “specifica”.

La decisione israeliana di astenersi dal redigere una costituzione scritta quando è stato fondato nel 1948 non era casuale. Da allora ha seguito un modello prevedibile in cui ha modificato la situazione sul terreno a favore degli ebrei a spese degli arabo-palestinesi.

Invece di una costituzione, Israele ha fatto ricorso a quelle che ha definito “Leggi Fondamentali”, che hanno consentito la costante formulazione di nuove leggi guidate dall’impegno dello ‘Stato ebraico’ per la supremazia razziale piuttosto che per la democrazia, le leggi internazionali, i diritti umani od ogni altro valore etico.

La legge per lo Stato-Nazione ebraico è in sé una “Legge Fondamentale”. E con questa legge Israele ha fatto cadere l’insensata pretesa di essere ebraico e democratico. Questo compito impossibile è stato spesso lasciato alla Corte Suprema che ha tentato, inutilmente, di raggiungere un qualche equilibrio convincente.

Questa nuova situazione dovrebbe, una volta per tutte, porre fine all’annoso dibattito sulla presunta unicità del sistema politico israeliano.

E dato che Israele ha scelto la supremazia razziale su qualunque pretesa, per quanto flebile, di essere una vera democrazia, anche i Paesi occidentali che hanno spesso difeso Israele devono fare la scelta se desiderano appoggiare un regime di apartheid o combatterlo.

La dichiarazione iniziale della commissaria agli Affari Esteri dell’UE, Federica Mogherini, è stata banale e debole. “Siamo preoccupati, abbiamo espresso questa preoccupazione e continueremo ad impegnarci con le autorità israeliane in questo contesto,” ha detto, rinnovando il suo impegno per una ‘soluzione dei due Stati’.

Questa non è proprio la dichiarazione adeguata in risposta a un Paese che ha appena annunciato la propria adesione al club dell’apartheid.

L’Ue deve porre fine al suo insulso discorso politico e sganciarsi dall’Israele dell’apartheid, o deve accettare le conseguenze morali, etiche e giuridiche del fatto di essere complice dei crimini israeliani contro i palestinesi.

Israele ha fatto la sua scelta ed è, inequivocabilmente, quella sbagliata. Ora anche il resto del mondo deve fare la sua, sperabilmente quella corretta: stare dalla parte giusta della storia – contro l’apartheid ebraico israeliano e per i diritti dei palestinesi.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Israele si è finalmente rivelato come Stato etno-religioso

Haidar Eid

22 luglio 2018, Al-Jazeera

L’unica cosa che rimane da fare ai palestinesi è lottare per uno Stato democratico e laico.

In Palestina stiamo affrontando una situazione complicata: abbiamo un progetto di colonialismo di insediamento che nega di esserlo, sostiene di essere una democrazia ed abbiamo le sue vittime, la cui persecuzione è stata ignorata per decenni e la cui lotta di liberazione nazionale è stata diffamata.

I colonizzatori sono riusciti a manipolare la narrazione su quello che sta avvenendo, riscrivendo la storia e occultando i propri crimini. Molti Paesi al mondo hanno creduto alle loro menzogne e adottato un atteggiamento “neutrale”, sostenendo di avere una posizione “equilibrata”.

Cosa c’è di equilibrato, quando una parte possiede uno degli eserciti più avanzati al mondo, finanziato e rifornito da una superpotenza alleata, e l’altra è stata abbandonata sia da alleati che da sostenitori e si può basare solo sulla determinazione e sulla forza del proprio popolo?

Ma queste professioni di “neutralità” ed “equidistanza” non sono più sostenibili. Israele ha smesso di giocare al gioco della finta democrazia e si è dimostrato per quello che è veramente: uno Stato di apartheid. Il 19 luglio la Knesset [parlamento] israeliana ha approvato la cosiddetta “legge per lo Stato-Nazione”, che dichiara Israele “la patria del popolo ebraico”. Ora è ufficialmente uno Stato esclusivamente etno-religioso.

Smascherare lo Stato etno-religioso di Israele

Per noi palestinesi questa legge ribadisce quello che è scontato, ossia che l’ideologia sionista è intrinsecamente razzista e antidemocratica.

L’obiettivo politico del sionismo era determinare artificialmente un cambiamento demografico in Palestina, rendendo maggioranza la minoritaria popolazione ebraica (che nel 1914 costituiva solo il 7,6% della popolazione) per mezzo di una massiccia immigrazione ebraica, la costruzione di insediamenti e l’espulsione dei palestinesi.

Inevitabilmente l’espropriazione di terre venne accompagnata dalla violazione dei diritti della maggioranza palestinese. I sionisti hanno sempre guardato ai palestinesi come invisibili, se non assenti, o piuttosto “presenti assenti” [definizione israeliana di una parte dei palestinesi rimasti o tornati nel territorio del nuovo Stato, ndtr.]. L’identità di quanti rimasero all’interno dei confini di quello che era diventato Israele venne cancellata con il termine “arabo-israeliani” e i loro diritti vennero negati da una miriade di leggi (di cui la “Legge per lo Stato-Nazione” è solo l’ultima riproposizione).

Ciò è dovuto al fatto che, contrariamente al pensiero liberale moderno, in Israele la cittadinanza e la nazionalità sono concetti separati, indipendenti. In altre parole, Israele non è lo Stato dei suoi cittadini, ma lo Stato del popolo ebraico. Quindi i palestinesi in Israele hanno passaporto israeliano ma non hanno gli stessi diritti dei cittadini ebrei.

Con la nuova “Legge per lo Stato-Nazione”, i palestinesi in Israele ora sono considerati “immigrati nativi” o stranieri nella loro stessa patria, perché Israele viene definito da questa legge “la patria storica del popolo ebraico”, ovvero non lo Stato di tutti i suoi cittadini. Questo è il risultato diretto del sionismo e della sua ideologia razzista.

È anche il risultato diretto del prevalere di opinioni antidemocratiche tra gli ebrei israeliani. La contraddizione tra ideali professati e comportamenti concreti, che è stato il meccanismo del cambiamento politico in molti luoghi nel mondo, non esiste in Israele perché nella società israeliana la fede democratica o la democrazia civica sono assenti.

Nella cultura politica e nella prassi israeliane non c’è un impegno per l’uguaglianza di tutti i cittadini. E non c’è tradizione di libertà civili in Israele perché una simile tradizione è incompatibile con il sionismo.

Quindi si può comprendere l’opposizione dell’establishment alle richieste per la creazione di un unico Stato per palestinesi ed ebrei, uno Stato democratico e laico governato con elezioni parlamentari e il governo della maggioranza nella Palestina storica. Questa idea è stata categoricamente rifiutata dalla società degli ebrei israeliani perché significherebbe di fatto la fine del sionismo.

E, dato che Israele si trasforma concretamente in uno Stato esclusivamente etno-religioso, dobbiamo porre delle domande scomode: ciò significa che anche l’Islam, il Cristianesimo, l’Induismo etc. possono essere la base di Stati moderni? E se noi insistiamo ancora che la religione dovrebbe essere separata dallo Stato, dov’è l’indignazione internazionale? Perché i principali mezzi di comunicazione non sono ossessionati dallo Stato ebraico allo stesso modo in cui lo sono dello “Stato islamico”? In cosa Israele è diverso dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che intendeva costruire uno Stato solo per i musulmani attraverso la violenza e la spoliazione?

La lotta contro l’apartheid è in corso

L’approvazione della “Legge sullo Stato-Nazione” dovrebbe eliminare qualunque dubbio che ci possa ancora essere tra gli osservatori “neutrali” che Israele è, di fatto, uno Stato dell’apartheid.

Proprio come il Sudafrica dell’apartheid diede la cittadinanza ai sudafricani bianchi e relegò i neri in “bantustan indipendenti” [enclave con limitato autogoverno della popolazione nera, ndtr.], il sionismo concede a tutti gli ebrei il diritto di cittadinanza nello Stato di Israele, mentre nega la cittadinanza ai palestinesi – i suoi originari abitanti.

Mentre il Sudafrica dell’apartheid utilizzava la razza per determinare la cittadinanza, lo Stato di Israele utilizza l’identità religiosa per definire la cittadinanza. Proprio come l’apartheid sudafricano emanò leggi che criminalizzavano la libertà di movimento dei neri sulla loro terra ancestrale, Israele controlla ogni aspetto della vita dei palestinesi attraverso le strutture di un’occupazione militare fatta di posti di blocco, strade e colonie solo per gli ebrei e il Muro, insieme a una rete di norme giuridiche.

I paralleli tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid sono infiniti. E probabilmente l’unica significativa differenza tra i due è che Israele, con un’impunità senza precedenti, non paga mai per i suoi delitti, come messo in rilievo dagli ultimi crimini di guerra a Gaza.

Cosa rimane al popolo palestinese dopo l’approvazione di questa legge palesemente razzista? Bene, non siamo sicuramente tanto sciocchi da aspettarci qualcosa dalla cosiddetta “comunità internazionale”. Anni di “negoziati” hanno creato solo bantustan in Cisgiordania e un campo di concentramento a Gaza. I palestinesi fanno ancora le spese di attacchi spietati da parte delle truppe razziste israeliane nascoste nei loro elicotteri ed F16 costruiti negli USA.

Quello che gli inviati USA nella regione hanno cercato di fare è arrivare ad una “soluzione” in linea con le condizioni di Israele, ignorando risoluzioni del Consiglio di Sicurezza [dell’ONU] e leggi internazionali. Né l’attuale amministrazione USA di destra né la codarda UE hanno un piano equo su come risolvere la crisi in Palestina.

L’unica cosa su cui noi palestinesi possiamo contare è la forza della gente, proprio come i sudafricani hanno fatto quando, attraverso una lunga campagna globale, hanno obbligato i governi a boicottare il loro regime di apartheid.

Continueremo ad estendere il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) e a marciare verso la barriera a Gaza finché porremo fine a questa follia. Continueremo anche a lavorare a un modello alternativo, democratico e laico, che garantisca uguaglianza e abolisca apartheid, bantustan e separazione in tutta la Palestina. Non abbandoneremo la lotta.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al-Jazeera.

(traduzione di Amedeo Rossi)




“Stato-Nazione ebraico”: come Israele introduce l’apartheid nel suo ordinamento

Ben White

giovedì 19 luglio 2018, Middle East Eye

La legge è solo il più recente tentativo di discriminare legalmente i palestinesi

Giovedì il governo israeliano ha formalmente approvato la legge “Stato-Nazione ebraico”. Con le vacanze estive della Knesset alle porte, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha cercato di far approvare la legge prima della pausa.

“Questo è un momento decisivo negli annali del sionismo e nella storia dello Stato di Israele,” ha detto Netanyahu alla Knesset dopo il voto.

L’iniziativa ha dominato il dibattito pubblico in Israele, con interventi di alto profilo da parte di oppositori e sostenitori. Lo scorso martedì in una lettera aperta il presidente Reuven Rivlin ha messo in guardia in merito a quelli che ritiene essere i pericoli insiti nella legge – soprattutto un articolo destinato a proteggere e promuovere l’esistenza di comunità esclusivamente ebraiche.

Tentativi di pressione

Prima del voto una serie di dirigenti ebreo-americani ha sollecitato con forza Netanyahu a cambiare idea, intensificando i tentativi di pressione per evitare l’approvazione della legge.

Purtroppo, ma prevedibilmente, queste reazioni sono state caratterizzate dalla mancata comprensione o dal fatto di non aver preso sufficientemente in considerazione quanto lo status di Israele come “Stato ebraico” si sia sempre tradotto in leggi e in prassi e, soprattutto, quanto ciò abbia colpito i palestinesi fin dal 1948.

Molte leggi discriminatorie sono già nei codici e in Israele esistono già sistemi legali per creare comunità segregate. Non c’è diritto all’uguaglianza, e Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini. La spesso citata “Dichiarazione di Indipendenza” non è una legge costituzionale, e la “Legge Fondamentale” [che ha valore di costituzione, ndtr.] privilegia già la protezione dello “Stato ebraico” rispetto all’uguaglianza dei cittadini non ebrei.

Come ha spiegato nel 2012 una relatrice speciale dell’ONU [Raquel Rolnik, architetta e urbanista brasiliana, ndtr.], le autorità israeliane perseguono già “un modello di sviluppo territoriale che esclude, discrimina ed espelle le minoranze.” Allo stesso modo la commissione ONU sull’Eliminazione della Discriminazione Razziale ha evidenziato “l’adozione di una serie di leggi discriminatorie su questioni relative al territorio che colpiscono in modo sproporzionato le comunità non ebraiche.”

In effetti il problema di comunità solo ebraiche, che ha dominato le recenti critiche sulla legge approvata giovedì, è spesso discusso senza riferimenti al fatto che Israele ha già centinaia di tali comunità segregate, grazie al ruolo dei “comitati di ammissione”.

Risalire fino alla Nakba

Un decennio fa Human Rights Watch ha segnalato come questi comitati “siano formati da rappresentanti del governo e della comunità locale, così come da importanti funzionari dell’Agenzia Ebraica o dell’Organizzazione Sionista, e notoriamente siano stati utilizzati per escludere arabi da comunità rurali ebraiche.”

Questa discriminazione istituzionalizzata decenni fa, che può essere fatta risalire alla Nakba, rende risibile l’affermazione da parte di Mordechai Kremnitzer, dell’“Israel Democracy Institute” [istituto di ricerche israeliano indipendente, ndtr.], secondo cui la nuova legge costituirebbe in qualche modo “la fine di Israele come Stato ebraico e democratico.”

Tuttavia, come analizzato dal centro per i diritti giuridici “Adalah” [centro israeliano/palestinese per la difesa dei cittadini arabo-israeliani, ndtr.] in un nuovo documento di sintesi pubblicato domenica, la nuova legge rappresenta un’innovazione, sia dal punto di vista giuridico che politico; godendo dello status di legge fondamentale, la legge dello Stato-Nazione ebraico inserirebbe nella costituzione prassi razziste.

L’informazione dei media occidentali ha, nel suo complesso, riproposto le lacune delle critiche israeliane alla legge. Inoltre l’omissione dell’esperienza dei cittadini palestinesi in questo Stato “ebraico e democratico” è aggravata da un’analisi che non indaga affatto in profondità sul perché questa legge sia stata proposta.

La legge dello “Stato-Nazione ebraico” non è il prodotto di uno scontro interno alla destra tra il “Likud” [partito di destra e di maggioranza del governo, ndtr.] e “Casa Ebraica” [partito di estrema destra dei coloni, anch’esso al governo, ndtr.], o tra Netanyahu [capo del governo e del “Likud”, ndtr.] e Naftali Bennett [ministro dell’Educazione e leader di “Casa Ebraica”, ndtr.]. Al contrario, seguire le origini di questa proposta di legge rivela che, nella sua essenza, si tratta di una reazione ai tentativi dei cittadini palestinesi negli ultimi due decenni di affermare la propria identità nazionale e di chiedere uno Stato per tutti i cittadini.

Raddoppiare

Poco dopo che l’ex-capo dello Shin Bet [servizio di spionaggio interno di Israele, ndtr.] Avi Dichter ha iniziato i tentativi di far approvare una legge per lo “Stato-Nazione ebraico” nel 2011, il giornalista israeliano Lahav Harkov – ora caporedattore del “Jerusalem Post” [giornale israeliano di centro-destra in inglese, ndtr.] – ha lodato l’iniziativa citando “campagne per delegittimare Israele in aumento sia all’interno che fuori dal Paese.”

Quindi la risposta dal mondo politico israeliano ai cittadini palestinesi mobilitati per chiedere una vera eguaglianza è stata raddoppiare la discriminazione, affermare provocatoriamente in modo ancora più esplicito l’esistenza dello “Stato ebraico” e proteggerla dal punto di vista giuridico.

Ma ciò presenta i suoi vantaggi, come evidenziato dallo scalpore in merito alla nuova legge. Perché quello che la proposta di legge minaccia non è l’esistenza di un Israele ‘democratico’, ma piuttosto l’idea problematica di uno Stato “ebraico e democratico” (o almeno la plausibilità di sostenere quest’idea).

Con la sua rozzezza, la legge minaccia la possibilità da parte di Israele di perpetuare una discriminazione di lunga durata, istituzionalizzata, senza costi a livello internazionale, una prospettiva segnalata dagli avvertimenti della procura generale di Israele e dal leader degli ebrei americani, il rabbino Rick Jacobs.

Guerra demografica

“La vera faccia del sionismo in Israele” ha scritto la scorsa settimana sulla rivista +972 [sito di notizie israeliano, ndtr.] Orly Noy, è “una intrinseca, continua guerra demografica contro i cittadini palestinesi. Se Israele vuole essere ebraico e democratico, deve garantire concretamente una maggioranza ebraica.”

La legge dello “Stato-Nazione ebraico” è parte di questa storica e continua guerra demografica, testimoniata dall’attivismo dei cittadini palestinesi, e un tentativo di reprimerlo.

Poiché Israele consolida lo Stato unico de facto tra il fiume [Giordano] e il mare, questo non sarà l’ultimo tentativo di vedere ulteriormente riflessa nella legislazione la realtà dell’apartheid sul terreno.

– Ben White è autore del nuovo libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe nel muro: oltre l’apartheid in Israele/Palestina]. E’ un giornalista e scrittore freelance e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, the Guardian’s Comment is Free ed altri.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Legge dello Stato-Nazione’ di Israele: “L’apartheid è un processo”

Edo Konrad

19 luglio 2018, + 972

Con l’approvazione della “Legge dello Stato-Nazione ebraico” Israele ha inserito la discriminazione nei confronti della propria popolazione palestinese a livello costituzionale. “Non dobbiamo continuare a cercare politiche che assomigliano alle ‘Leggi Jim Crow’,” dice l’avvocato Fady Koury.

Nelle prime ore di giovedì il parlamento israeliano ha approvato la “Legge dello Stato-Nazione ebraico”, definendo Israele come Stato-Nazione esclusivamente del popolo ebraico e degradando lo status ufficiale dell’arabo.

Quasi immediatamente politici palestinesi e gruppi per i diritti hanno iniziato a parlare della legge in termini inequivocabili. Il segretario generale dell’OLP [Organizzazione per la Liberazione della Palestina] Saeb Erekat ha detto che la legge “trasforma un regime di apartheid de facto in una realtà de iure per tutta la Palestina storica”.

Hassan Jabareen, presidente di “Adalah”, il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele, ha affermato che la legge “contiene elementi chiave dell’apartheid” e che approvandola Israele ha “reso la discriminazione un valore costituzionale e ha affermato il proprio impegno nel favorire la supremazia ebraica come fondamento delle proprie istituzioni.”

Secondo l’avvocato di “Adalah” Fady Khoury la legge rafforza l’identità dello Stato di Israele come Stato per il popolo ebraico, trasformandolo in titolare della sovranità, escludendo al contempo la popolazione palestinese dalla stessa definizione di sovranità.

La legge stessa non menziona neppure una volta la parola ‘democrazia’,” spiega Khoury.

Psicologicamente avrà un fortissimo impatto sugli israeliani quando saranno chiamati a definire cosa sia o non sia democratico.”

La rivista +972 ha parlato con Khoury per comprendere meglio il confronto con l’apartheid, e perché la legge in generale sia così problematica.

(La seguente intervista è stata pubblicata integralmente]

La gente la chiama la ‘legge dell’apartheid’. Perché?

L’apartheid in Sud Africa è stato un processo. Era un sistema che ci ha messo degli anni a svilupparsi ed è stato costruito con il lavoro di accademici e teologi che dovevano creare le giustificazioni per la supremazia dei bianchi. Era un sistema gerarchico, in cui c’era un gruppo con tutto il potere e un altro senza alcun potere.”

In Israele la nuova legge definisce esplicitamente il popolo ebraico come il solo gruppo con l’unico potere di autodeterminazione, mentre nega i diritti del popolo autoctono. Ciò crea un sistema di gerarchia e supremazia. Non viviamo in un tempo in cui rivendicazioni esplicite di supremazia sono legittime come lo erano in Sud Africa, ma stiamo arrivando agli stessi risultati attraverso un linguaggio diverso.”

L’analogia tra Israele e Sud Africa non riguarda solo comunità o strade separate, riguarda un modo di pensare. Riguarda l’idea di classificare gruppi diversi. È l’idea di un regime di supremazia che favorisce gli interessi di un gruppo, anche se ciò avviene a spese dei più basilari diritti di un altro gruppo. Non dobbiamo continuare a cercare politiche che assomiglino alle ‘Leggi Jim Crow’ [leggi segregazioniste applicate nel Sud degli USA contro i neri, ndtr.] – quel modo di pensare non esiste solo ai margini della politica israeliana, ma anche nella sua parte maggioritaria.”

La formulazione originaria della legge includeva un articolo che consentiva alle comunità di essere segregate in base a criteri religiosi o ‘nazionali’. Cosa dice la versione finale in merito alla segregazione?

La precedente versione della legge includeva un articolo che consentiva allo Stato di autorizzare nuove comunità sulla base della religione o della nazionalità. Si basava sul principio di ‘separati ma uguali’, espresso nell’idea che così facendo sarebbe stato un bene per tutti – ebrei e palestinesi. Il linguaggio è stato cambiato in quanto era troppo vicino al tipo di palese segregazione che abbiamo visto negli USA. Hanno riscritto l’articolo in modo che lo Stato possa ‘promuovere insediamenti ebraici’. Ciò crea un tipo di paradigma segregazionista totalmente diverso, di ‘separati ma diseguali’.

Pensalo in questo modo: immagina se gli Stati Uniti abbiano approvato una legge che promuove ‘insediamenti di bianchi’ – ci farebbe rabbrividire. Ma dopo 70 anni di Stato ebraico e democratico, l’idea di insediamenti ebraici è diventata così diffusa che non sembra un problema. In questo senso il cambiamento è di facciata. Ma quello che la Destra vuole raggiungere è la stessa cosa: ebraicizzare il Paese incentivando la costruzione di comunità solo per cittadini ebrei.”

Quali sono gli effetti potenziali che questa legge potrebbe avere sul sistema giuridico?

Questa è una legge che definirà l’identità costituzionale dello Stato. Finora è stata la Corte Suprema che ha avuto il ruolo di interpretare quale fosse il vero significato della frase ‘ebraico e democratico’. Ora abbiamo una legge che assegna status costituzionale all’identità ebraica dello Stato.”

(La legge) sarà fondativa. Diventa una fonte di interpretazione delle leggi e del sistema giuridico. Le implicazioni non saranno limitate a pochi settori: avranno conseguenze sul sistema giuridico dalla radice, soprattutto se la Destra continua a nominare alla Corte Suprema giudici conservatori che utilizzeranno questa nuova norma costituzionale per interpretare le leggi.”

La nuova legge rappresenta l’accelerazione di un processo che ha avuto luogo recentemente o sancisce un regime discriminatorio che qui è sempre esistito?

Penso che stiamo assistendo a un’escalation che non inizia con la nuova Legge Fondamentale, ma è piuttosto il risultato della contraddizione tra le identità fondamentali dello Stato come ebraico e democratico. Quello a cui stiamo assistendo ora è che l’identità ebraica sta invadendo sempre più la vita sociale e politica dei cittadini di Israele, mentre l’identità ‘democratica’ dello Stato sta sperimentando una regressione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I cambiamenti nei rapporti tra palestinesi dalle due parti del muro

Rami Younis

15 luglio 2018, +972

Nonostante la separazione fisica e le divisioni interne, i palestinesi di entrambi i lati della Linea Verde stanno nuovamente parlando del futuro della loro lotta e del ruolo che i palestinesi cittadini di Israele vi possono giocare.

Lontano dagli occhi dell’opinione pubblica israeliana, anche se sotto lo sguardo attento del governo, si è scatenato un dibattito interno alla società palestinese sugli effetti devastanti della separazione fisica e delle divisioni interne che l’affliggono.

Due recenti proteste, una ad Haifa in solidarietà con Gaza e un’altra – a cui hanno partecipato anche palestinesi cittadini di Israele – a Ramallah contro il ruolo giocato dall’Autorità Nazionale Palestinese nell’assedio [di Gaza] hanno contribuito a rafforzare il confronto sul rapporto tra palestinesi dei due lati del muro di separazione e sul ruolo dei palestinesi cittadini di Israele nella lotta contro l’occupazione.

La dottoressa Huneida Ghanem, che dirige “Madar” – il Centro Palestinese di Studi Israeliani -, ha studiato questo problema per anni. Nelle sue ricerche Ghanem, che divide il suo tempo tra Israele e Ramallah, ha scoperto che, nonostante le divisioni, la maggioranza dei palestinesi concorda su una serie di punti fondamentali: che la divisione è stata loro imposta, che li indebolisce e che consente ad Israele di controllarli più facilmente.

Le divisioni non iniziano e finiscono con il muro e l’occupazione. Per anni Fatah e Hamas sono stati incapaci di riconciliarsi, nonostante le esortazioni del loro popolo. I palestinesi all’interno di Israele affrontano divisioni al proprio interno, per cause anche religiose, dispute politiche e differenze geografiche che generano divari culturali.

Nel corso degli anni tutti questi fattori hanno creato in ogni comunità situazioni politiche, sociali ed economiche diverse, portando a differenti necessità e problemi che richiedono differenti approcci e politiche. In seguito a ciò, secondo Ghanem, ogni gruppo ha sviluppato un proprio programma politico per affrontare l’occupazione.

Nei territori occupati la lotta si concentra sulla fondazione di uno Stato attraverso mezzi sia violenti che non violenti, compresi la lotta popolare e il movimento BDS. Quella in Cisgiordania si concentra sulle colonie e l’apartheid; a Gaza il fulcro è sulle difficoltà create dall’assedio, così come sulla violenza e sulle distruzioni causate dalle guerre con Israele ogni paio d’anni e sulla ricostruzione tra uno scoppio di violenza e l’altro.

I palestinesi cittadini di Israele stanno lottando per una cittadinanza uguale attraverso partiti politici e organizzazioni extraparlamentari, concentrandosi soprattutto sulla discriminazione e sulle leggi [israeliane] razziste. E fuori dalla Palestina milioni di rifugiati stanno lottando per il diritto al ritorno nelle proprie terre.

Secondo Ghanem, le due Intifada hanno rappresentato un cambiamento per i palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [la linea di confine tra il territorio israeliano e la Cisgiordania e Gaza, ndtr.]. Durante la Prima Intifada, nel corso della quale centinaia di migliaia di palestinesi nei territori occupati protestarono contro l’occupazione, i palestinesi all’interno di Israele tennero manifestazioni non violente di solidarietà, chiedendo al contempo uguaglianza per tutti i cittadini israeliani. La Seconda Intifada, tuttavia, fu un punto di svolta: intere comunità palestinesi vennero coinvolte indipendentemente dalla loro collocazione geografica, e i palestinesi improvvisamente in quel momento percepirono che il destino di Giaffa [in Israele, ndtr.] era legato a quello di Gerusalemme e di Jenin [nei territori occupati, ndtr.].

Arabi o palestinesi?

Nonostante la separazione fisica e le varie divisioni, sempre più arabi in Israele si definiscono come palestinesi. Più Israele insiste a utilizzare il termine “arabi israeliani” e cerca di imporre loro un’identità, più essi dimostrano orgoglio per la propria identità nazionale. Dopotutto, l’identità è parte della lotta.

Un anno e mezzo fa ho pubblicato una serie di video reportage su Social TV relativi alla storia dell’identità nazionale tra gli arabi cittadini di Israele, e soprattutto su come il “Giorno della Terra” del 1976 [in cui 6 palestinesi cittadini israeliani vennero uccisi durante proteste contro l’esproprio di terre, ndtr.] e gli avvenimenti dell’ottobre 2000 [quando durante proteste e scontri con civili ebrei la polizia israeliana uccise 13 dimostranti palestinesi con cittadinanza israeliana, ndtr.] furono cruciali nello spingerli ad adottare un’identità palestinese.

Una delle persone da me intervistate, il dottor Marwan Darweish, docente di Studi per la Pace all’università di Coventry in Gran Bretagna, spiegò il fenomeno:

Le divisioni interne palestinesi, l’assedio, le colonie, il muro – tutto ciò ha creato diverse situazioni e divisioni tra i vari gruppi di adolescenti palestinesi. Penso sia uno degli obiettivi della politica israeliana: che le persone si definiscano palestinesi, ma che ci siano divisioni interne e differenze e in qualche modo un conflitto tra di loro, creando differenti rappresentazioni l’una dell’altra. Come i palestinesi di Gaza vedono i palestinesi di Gerusalemme o all’interno di Israele. Queste rappresentazioni e la creazione di identità differenti in un certo senso sono funzionali allo Stato, all’occupazione e al controllo israeliano sui palestinesi.

L’attivista Qamer Taha all’epoca disse: “Ci sono vari studi che mostrano come negli ultimi anni tra il 30 e il 40% degli adolescenti si sia autodefinito “palestinese” senza comprendere veramente la complessità della situazione.” Taha ha sostenuto che la generazione più giovane potrebbe aver adottato un’identità palestinese in risposta alle divisioni etniche all’interno della società palestinese in Israele. Invece che musulmani o cristiani, ci sono soltanto palestinesi.

L’uovo e la gallina

Tuttavia, nonostante il senso e l’orgoglio della loro identità palestinese, negli ultimi anni sempre meno cittadini palestinesi hanno inscenato proteste, e in qualche modo sono molto meno coinvolti politicamente.

Ci sono varie ragioni per cui meno palestinesi sono scesi in piazza. Una delle principali è la mancanza di una visione politica e di una strategia chiare,” ha detto Muhammad Younis, un attivista che vive ad Haifa. (Nessun rapporto con chi scrive). Younis è uno dei fondatori di un nuovo movimento che appoggia la costituzione di un unico Stato democratico in Israele-Palestina sulla base dell’uguaglianza tra arabi ed ebrei.

Aggiungi a ciò quello che sta succedendo in Siria e ti renderai conto della disperazione e della frustrazione collettive,” ha continuato Younis. “C’è frustrazione anche nei confronti dei nostri dirigenti – la “Lista Unitaria” [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] e l’“Alta Commissione Araba di Monitoraggio” [composto da rappresentanti politici palestinesi sia locali che nazionali cittadini israeliani, ndtr.]. Quest’ultima ha completamente perso la fiducia dell’opinione pubblica.”

Recenti sondaggi mostrano che i cittadini palestinesi di Israele si concentrano sulle violenze (intercomunali) che infuriano nelle nostre strade, e ben a ragione. Ci stiamo concentrando sui nostri problemi immediati, per cui come possiamo portare migliaia di persone a protestare per Gaza? Ciò pone un dilemma strategico: occuparci della violenza o continuare ad opporci all’occupazione, dato che (quest’ultima) consente e trae beneficio dalla violenza? È una situazione da uovo e gallina. Cosa viene prima, la violenza o l’occupazione?

Younis dice di credere che i cittadini palestinesi di Israele si stiano allontanando dai palestinesi della Cisgiordania, catalizzati sia dagli avvenimenti nel mondo arabo, che dall’effetto a valanga della hasbara israeliana. “I palestinesi guardano alla Primavera Araba e dicono ‘forse le cose vanno meglio in Israele’. Alcuni di loro stanno iniziando a recepire gli ingannevoli discorsi sionisti contro la “Lista Unitaria”, che non farebbe niente per affrontare i problemi della società araba all’interno di Israele. Ovviamente succede a causa della violenza incontrollata. Gran parte della nostra opinione pubblica sta iniziando a fare una distinzione tra l’occupazione ed i problemi della nostra società, senza comprendere come l’occupazione approfitti di questi problemi.”

Un anno e mezzo fa ero seduto nell’ufficio della dottoressa Ghanem a Ramallah, proprio mentre l’ANP aveva iniziato a imporre sanzioni contro gli abitanti di Gaza bloccando il pagamento della loro elettricità. “La gente è terrorizzata,” ha detto Ghanem, spiegando perché praticamente nessuno fosse sceso in piazza. “Non è che gli piacciano (le politiche dell’ANP), o che non stiano male. Sono feriti e frustrati, eppure non protestano perché vedono cosa sta succedendo in Siria. In un certo modo la mancanza di opposizione ad Abbas è simile all’accettazione del male minore.”

Forse le cose comunque stanno cambiando. Negli ultimi mesi ci sono state manifestazioni di alto profilo ad Haifa (nonostante il numero relativamente basso di partecipanti) e a Ramallah (nonostante il timore a protestare contro l’ANP). È possibile che i manifestanti di Ramallah fossero ispirati da quelli di Haifa e dalle recenti proteste antigovernative in Giordania? Il fatto che attivisti di Haifa si siano uniti alle manifestazioni a Ramallah è foriero di una cooperazione da entrambi i lati del muro? Può essere che a Ramallah i timori di una Primavera Araba stiano iniziando a svanire? Il tempo lo dirà.

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta in ebraico su “Local call” [sito israeliano di notizie affiliato a +972, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un affronto alla Storia: il Giro d’Italia usato per nascondere l’apartheid israeliana.

Ramzy Baroud

17 maggio 2018, Counterpunch.org

Per la prima volta dal suo debutto nel 1909, il 4 maggio [di quest’anno, n.d.t.] il Giro d’Italia, leggendaria gara ciclistica italiana, è iniziato fuori dall’Europa e, stranamente, dalla città di Gerusalemme.

Le contraddizioni che questa decisione porta con sé sono inevitabili. L’Italia è un Paese che sa bene cosa sia una crudele occupazione straniera e che è stato devastato dal fascismo e dalla guerra. È terrificante che oggi abbia un ruolo nei continui tentativi di Israele di “nascondere con un’imbiancata” o, in questo caso, di “nascondere con lo sport” l’occupazione militare e la violenza quotidiana contro il popolo palestinese.

Tutti i tentativi di convincere gli organizzatori della gara a non essere parte della propaganda politica israeliana sono falliti. A quanto pare, i milioni di dollari pagati agli organizzatori del Giro d’Italia, RCS Sport, sono stati molto più convincenti delle esperienze culturali condivise, della solidarietà, dei diritti umani e del diritto internazionale.

Il famoso scrittore italiano Dino Buzzati, negli anni ‘40, ha scritto sui giornali italiani diversi racconti in cui descriveva il simbolismo della gara nel contesto di una nazione malridotta che risorgeva dalle ceneri di una gigantesca distruzione.

Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, gli organizzatori del Giro d’Italia si trovarono di fronte al compito apparentemente impossibile di organizzare una gara con poche biciclette e ancor meno atleti. Le strade erano state completamente distrutte durante la guerra, ma era più forte la determinazione a farcela.

Il Giro d’Italia del 1946, e soprattutto la leggendaria rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali, divennero la metafora di un Paese che si rialzava dopo gli orrori della guerra, ridando vita alla propria identità nazionale, rappresentata dallo scontro finale tra atleti eroici che pedalavano tra tortuose strade di montagna per raggiungere il traguardo.

Conoscendo questa storia, Israele l’ha sfruttata in ogni modo possibile. Il governo israeliano, infatti, ha recentemente concesso al compianto Gino Bartali la cittadinanza onoraria, come riconoscimento del retaggio anti-nazista dell’atleta. L’ironia, ovviamente, è che il trattamento che gli israeliani riservano ai palestinesi – occupazione militare, razzismo, apartheid e violenze aberranti – ricorda proprio quella realtà che Bartali e altri milioni di italiani hanno combattuto per anni.

Quando, lo scorso settembre, i dirigenti israeliani hanno annunciato che il Giro d’Italia sarebbe partito da Gerusalemme, si sono dati da fare per collegare l’evento alle celebrazioni israeliane per i 70 anni di indipendenza.

Sono passati 70 anni anche da quando i palestinesi vennero cacciati dalle loro terre da milizie sioniste, il che ha portato alla Nakba, distruzione catastrofica della Palestina, e alla nascita di Israele come Stato ebraico. È allora che Gerusalemme Ovest divenne parte di Israele, mentre il resto della Città Santa, Gerusalemme Est, venne conquistata con la guerra del 1967, prima dell’annessione, ufficiale ma illegale, del 1981, a dispetto del diritto internazionale.

RCS Sport non può dire di non sapere quando si parla di come la decisione di collaborare e avvalorare l’apartheid israeliana segnerà per sempre la storia della gara. Quando hanno annunciato sul sito che la competizione sarebbe partita da “Gerusalemme Ovest”, la risposta israeliana è stata immediata e furente. Il Ministro dello Sport israeliano, Miri Regev, e quello del Turismo, Yariv Levi, hanno minacciato di interrompere la collaborazione, lamentando che “a Gerusalemme, la capitale di Israele, non ci sono Est o Ovest. Esiste solo un’unica Gerusalemme”.

Purtroppo, gli organizzatori del Giro d’Italia hanno chiesto scusa pubblicamente e hanno rimosso la parola “Ovest” dal sito e dai comunicati stampa.

Secondo il diritto internazionale, Gerusalemme Est è una città palestinese occupata. Questo fatto è stato ripetutamente ribadito da risoluzioni ONU, tra cui la più recente, la Risoluzione 2334 del 23 dicembre 2016, che condanna la costruzione di insediamenti illegali israeliani nei Territori occupati, inclusa Gerusalemme Est.

La realtà dei fatti contraddice palesemente le argomentazioni degli organizzatori del Giro d’Italia, secondo cui la gara sarebbe una celebrazione della pace. In realtà, è un modo di avallare l’apartheid, la violenza e i crimini di guerra.

Il fatto che la gara si sia svolta secondo il programma, nonostante fosse in corso l’assassinio di manifestanti palestinesi a Gaza, dimostra anche il livello di corruzione morale di chi sta dietro tutto questo. Oltre 50 palestinesi disarmati sono stati uccisi dal 30 marzo, dall’inizio cioè delle manifestazioni pacifiche al confine di Gaza, note come ”Grande Marcia del Ritorno”. Secondo il Ministero palestinese per la Gioventù e lo Sport, sono oltre 7.000 i feriti, e tra loro 30 atleti.

Uno dei feriti è Alaa al-Dali, 21 anni, ciclista, a cui è stata amputata una gamba, colpita da un proiettile il primo giorno delle proteste.

Sylvan Adams, filantropo ebreo canadese e uno dei maggiori finanziatori della gara, ha sostenuto che il proprio contributo sia motivato dal desiderio di promuovere Israele e sostenere il ciclismo come ”ponte tra i popoli”.

I palestinesi come Alaa, la cui carriera ciclistica è finita, sono, ovviamente, esclusi da questa sublime e selettiva definizione. I 12 milioni di dollari che gli organizzatori hanno ricevuto da Israele e dai suoi sostenitori sono stati un prezzo sufficiente per ignorare la sofferenza dei palestinesi e per agevolare la normalizzazione dei crimini israeliani contro il popolo palestinese?

Purtroppo, nel caso di RCS Sport, la risposta è sì.

Molte persone in Italia e ancor più nel mondo, ovviamente, non sono d’accordo. Nonostante il ruolo dei media nello “sport-washing” israeliano, centinaia di italiani hanno protestato durante le varie tappe della gara.

La quarta tappa del Giro d’Italia, a Catania, in Sicilia, è stata ritardata dalla protesta contro una competizione ”sporca di sangue palestinese”, secondo le parole dell’attivista Alfonso Di Stefano.

Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione Italiana Allenatori, è stato una delle prime voci italiane importanti a contestare la decisione di tenere la gara in Israele. “Avrei potuto rimanere indifferente, ma temo che sarei stato disprezzato dalle persone che stimo. Viva il popolo palestinese, libero sulla sua terra”, ha scritto in un post su Facebook.

RCS Sport ha causato al Giro, al ciclismo e agli italiani un danno imperdonabile in cambio di pochi milioni di dollari. Accettando di far partire la gara da un Paese colpevole di pratiche di apartheid e prolungata occupazione militare, [gli organizzatori, ndt.] hanno marchiato a vita la competizione.

Comunque, la generale ondata di indignazione provocata da questa decisione irresponsabile pare indicare che gli sforzi israeliani per normalizzare i propri crimini contro i palestinesi non stiano riuscendo a cambiare l’opinione pubblica e la percezione di Israele come potenza occupante, che merita di essere boicottata, non accettata.

  • Romana Rubeo, scrittrice italiana, ha contribuito a questo articolo.


Il Dr. Ramzy Barud scrive di Medio Oriente da oltre vent’anni. Editorialista di livello internazionale, esperto in comunicazione, è autore di diversi libri e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è ”My father was a freedom fighter: Gaza’s Untold Story (Pluto Press, Londra). Sito web: ramzybaroud.net

(Traduzione di Elena Bellini)