Sì, i mizrahi appoggiano la destra. Ma non per le ragioni che pensate.

Tom Mehager

27 febbraio 2020 – +972

Sostenendo i partiti di destra, i mizrahi hanno trovato soluzioni alle difficoltà che sono derivate da decenni di ashkenaziti.

Ogni elezioni politica israeliana è accompagnata dal solito dibattito pubblico sulle comunità mizrahi [lett.: orientali, ndtr.] e sul loro presunto appoggio alla destra, e più precisamente al partito di governo Likud. In Israele a sinistra molti ipotizzano regolarmente le ragioni per cui così tanti mizrahi – ebrei originari di Paesi arabi o musulmani – votano per partiti di destra, ma spesso finiscono per mancare completamente il bersaglio oppure per riciclare stereotipi razzisti.

Quindi, come possiamo capire questa scelta? Il principale contesto del problema è il conflitto israelo-palestinese. Non pretendo di fornire una risposta esaustiva e completa alla questione, ma darò invece esempi che dimostrano come le pluridecennali politiche di Israele di discriminazione e marginalizzazione dell’opinione pubblica mizrahi da parte dell’establishment ashkenazita [lett. tedeschi, ebrei originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.] abbia determinato il fatto che molti abbiano trovato nel campo nazionalista una risposta alle difficoltà economiche.

Se comprendiamo la storia della lotta dei mizrahi – e la sua repressione da parte del campo più strettamente legato oggi al movimento pacifista israeliano – da una prospettiva politica ed economica, comprenderemo meglio come i mizrahi si siano trovati in un campo molto spesso associato alla destra nazionalista. Cosa ancora più importante, una simile analisi ci consente di comprendere precisamente perché la destra abbia dato una risposta alle ristrettezze economiche dei mizrahi derivate dalla supremazia degli ashkenaziti nel contesto politico ed economico israeliano.

Terra, casa e insediamenti

In Israele la storica lotta del movimento sionista sulla terra ha posto fin dai suoi inizi le fondamenta della gerarchia basata sull’etnia e sulla classe. La guerra del 1948 è stata il culmine di questa lotta. Dopo l’espulsione e la fuga dei palestinesi – e il fatto di averne impedito il ritorno – il governo di Israele e le sue istituzioni sioniste si impossessarono delle notevoli risorse che erano state lasciate dietro di loro dai rifugiati. Alla fine della guerra solo il 13,5% della terra del Paese era di proprietà dello Stato, ma, grazie ad una rapida campagna di espropri, le istituzioni israeliane presero il controllo della maggior parte delle terre. L’effetto immediato di questa politica fu, ovviamente, la spoliazione del popolo palestinese dei propri averi e della propria patria.

La distribuzione delle terre palestinesi tra gli ebrei israeliani rifletteva una gerarchia su linee etniche tra “veterani” ashkenaziti e immigrati mizrahi appena arrivati, che giunsero in Israele dopo la guerra. È proprio in questo modo che le differenze di classe vennero inserite all’interno della costruzione della società israeliana: un’élite ashkenazita privilegiata nell’accesso alla casa ed alla terra opposta a una popolazione mizrahi deprivata. La maggior parte delle comunità arrivate dal Nord Africa, in particolare dal Marocco, vennero insediate fuori dai centri urbani del Paese, dove Israele indediò la maggior parte degli immigrati ashkenaziti.

Verbali degli incontri del ministero degli Interni e dell’Agenzia Ebraica dell’epoca rivelano il modo in cui i funzionari del governo vedevano i mizrahi. I nordafricani, dicevano i dirigenti, potrebbero essere mandati nelle regioni di frontiera, mentre agli immigrati polacchi – tra cui, affermavano, c’erano dei professionisti – dovevano essere ospitati nelle zone centrali del Paese, lungo la costa. Raramente il governo diede riserve di terreni alle misere città di sviluppo, che vennero costruite in regioni remote del Paese per gli immigrati nordafricani, spesso su terre palestinesi, così come alle comunità arabe rimaste dopo il 1948. I consigli regionali, tuttavia erano le sedi degli abitanti dei kibbutz [comunità agricole sioniste collettivizzate, ndtr.], dei moshav [comunità sioniste di tipo cooperativo, ndtr.] e di altre forme di insediamento associate con l’élite ashkenazita che aveva fondato il Paese.

Inoltre la distinzione tra zone in cui la proprietà della terra degli ebrei nei territori palestinesi venne “formalizzata” in città come Gerusalemme e Tel Aviv e luoghi in cui gli abitanti erano definiti “invasori” corrispondeva allo stesso modo con la distinzione tra ashkenaziti e mizrahi. Mentre gli abitanti dei kibbutz, in cui la maggior parte discendeva da ashkenaziti, facevano ricorso a commissioni di ammissione per garantire la separazione abitativa, i mizrahi delle classi basse vennero relegati in case popolari fatiscenti.

Dagli anni ’50 la lotta dei mizrahi mise al centro dell’attenzione il razzismo istituzionalizzato del Mapai, il partito dominante e precursore dell’attuale partito Laburista, chiedendo una soluzione immediata alla difficile situazione dei mizrahi in Israele. Un documento pubblicato dall’“Unione dei Nordafricani” – che guidò la rivolta da parte degli abitanti mizrahi del quartiere di Wadi Salib ad Haifa nel 1959 contro le condizioni abitative degradate che erano obbligati a sopportare – chiedeva, tra le varie cose, al governo di fornire “abitazioni umane per ogni famiglia, l’immediata abolizione di ogni Ma’abarot (campi di transito gestiti dal governo per i nuovi immigrati), l’eliminazione delle baraccopoli e case per i celibi. Chiedevano anche al governo di fornire un’istruzione adeguata a tutti, la fine di ogni discriminazione, della segregazione etnica in materia religiosa, del governo militare che controllava le vite dei cittadini palestinesi di Israele, la garanzia della libertà di parola ed altre rivendicazioni.

Più di un decennio dopo le Pantere Nere [gruppo politico mizrahi che lottava contro le discriminazioni, anche a danno dei palestinesi, e si richiamava all’omonimo gruppo afro-americano, ndtr.] israeliane, che nacquero nel 1971 nel quartiere di Musrara a Gerusalemme, parlavano di “baraccopoli” per descrivere la crisi abitativa che colpiva i mizrahi di Israele. Chiesero al governo di smantellare i “ghetti per neri” in città. Attivisti del quartiere Yemin Moshe di Gerusalemme si lamentarono che gli abitanti mizrahi dichiarati “intrusi” venissero cacciati dalle loro case e sostituiti da ricchi ashkenaziti. In questo modo i militanti mizrahi definirono attivamente le proprie politiche con concetti di sinistra, per l’uguaglianza e i diritti umani.

È per questo che il rapporto tra l’arrivo al potere del Likud nel 1977 e la resistenza dei mizrahi ai privilegi materiali degli ashkenaziti – che segnarono i primi 30 anni dello Stato – sono in genere, e in modo restrittivo, visti attraverso il prisma del risentimento storico nei confronti del Mapai. Si deve considerare il risentimento di larghe frange dei mizrahi nei confronti della sinistra israeliana in questo contesto di decenni di razzismo istituzionalizzato, il rapimento di bambini [figli di mizrahi, soprattutto yemeniti, vennero tolti ai genitori, sostenendo che erano morti, e affidati a famiglie facoltose, israeliane o statunitensi, ndtr.] e l’irrorazione dei nuovi immigrati mizrahi con il pesticida DDT [che risultò in seguito essere cancerogeno, ndtr.].

Benché questi aspetti siano importanti, non raccontano tutta la storia. È fondamentale ricordare che il Likud rafforzò la posizione socio-economica dei mizrahi. Lo storico israeliano Danny Gutwein sostiene che un numero relativamente ampio di mizrahi che votano per la destra è il prodotto, tra le altre cose, del modo in cui l’impresa di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme ha compensato gli israeliani dello smantellamento dello Stato sociale negli anni ’80. In questo modo, secondo Gutwein, le politiche del Likud oltre la Linea Verde [che prima dell’occupazione separava Israele dalla Cisgiordania, ndtr.] contribuì a migliorare la posizione di classe dei mizrahi.

È vero che le case popolari nelle colonie fornirono ai mizrahi una soluzione per i loro problemi economici. Eppure, nonostante le affermazioni di Gutwein, la costituzione delle colonie con agevolazioni statali non è stato il risultato dell’incapacità di uno stato sociale israeliano che non esiste più, dato che in primo luogo in Israele uno stato sociale equo non è mai esistito. La forza principale che ha spinto alla costruzione di insediamenti sociali oltre la Linea Verde è la differenza socioeconomica tra gli ashkenaziti e i mizrahi, il prodotto di un regime di privilegi per i primi messo in atto prima dell’occupazione del 1967 e che diede vita a quella che noi chiamiamo la rivolta mizrahi. La ricchezza della terra e delle risorse palestinesi venne distribuita in modo diseguale all’interno dei confini del ’48, dove gli ashkenaziti godettero di privilegi riguardo alla terra e alle condizioni abitative, però oltre la Linea Verde si può trovare una nuova ricchezza, sostenuta da finanziamenti pubblici e sussidi per le abitazioni che, per la prima volta, hanno beneficiato le famiglie mizrahi. È così che una significativa parte dei mizrahi israeliani è stata in grado di conquistarsi una posizione. 

Sia ashkenaziti che mizrahi hanno beneficiato della spoliazione dei palestinesi in fasi diverse dell’ebraizzazione della Palestina. Mentre le “conquiste” del 1948 beneficiarono solo gli ashkenaziti, i mizrahi trovarono la soluzione della crisi abitativa nelle colonie di edilizia sociale al di là della Linea Verde, a Gerusalemme e in Cisgiordania. Ognuno di questi gruppi ha i propri interessi politici ed economici specifici. Quindi non c’è da stupirsi che un gruppo come Peace Now, che è legato all’élite ashkenazita, vigili sulla costruzione di colonie al di là della Linea Verde, ma non parli mai del rapporto tra la spoliazione dei palestinesi nel 1948 e il conflitto israelo-palestinese.

Educazione e lavoro

Riguardo a educazione e lavoro, il regime di discriminazione e segregazione etnica di Israele ha spinto i mizrahi nelle braccia del sistema di sicurezza. Nel 1945 Eliezer Riger, uno dei più importanti sostenitori della formazione professionale, che in seguito diventerà ispettore generale del sistema educativo israeliano, si espresse a favore della necessità della segregazione tra mizrahi ed ashkenaziti nel sistema educativo: “Dopotutto la preminenza nell’(educazione) pre-professionalizzante potrebbe essere di grande vantaggio per la popolazione orientale…I bambini orientali, almeno gran parte di essi, non possono che apprezzare l’insegnamento semplificato e non ricavavano una reale utilità dall’istruzione teorica.” Zalman Aren, ministro dell’Educazione dell’epoca, sostenne un’opinione simile: “Ho una grande opinione delle scuole superiori di livello accademico, ma non ho alcun dubbio che nella situazione dello Stato a questo livello ci sia ancora una predilezione per le scuole professionali. Non vorrei che le città di sviluppo si attenessero a questo tipo di snobismo e mandino un ragazzino in una scuola superiore che lo danneggerebbe.”

Fino ai nostri giorni il sistema educativo utilizza una politica di monitoraggio degli studenti che indirizza molti adolescenti mizrahi nella formazione professionale, mentre molto spesso gli studenti ashkenaziti sono inviati nelle scuole superiori normali. Questa politica ha chiaramente un impatto molto maggiore sulle prospettive educative dei mizrahi, impedendo a molti di loro di continuare gli studi all’università.

Secondo un rapporto del Centro Adva, un gruppo di studio progressista israeliano che monitora le dinamiche socio-economiche, le due principali reti di scuole professionali, ORT e Amal, si trovano per lo più nella periferia geografica ed economica di Israele. Delle 159 scuole delle due reti, 113 (il 71%) si trovano in zone della fascia più bassa dello spettro socio-economico, comprese 35 scuole in zone arabe, 43 in città di sviluppo e 35 in altre località. Inoltre un nuovo studio di Yanon Cohen, Noah Levin Epstein ed Amit Lazarus sull’istruzione tra gli israeliani di terza generazione ha scoperto che le percentuali di diplomati o laureati sono di circa il 20% più alte tra gli ashkenaziti rispetto ai mizrahi.

Gli ostacoli educativi hanno spinto molti mizrahi della classe lavoratrice a cercare opportunità lavorative nell’esercito israeliano e in altre forze di sicurezza. La sociologa Orna Sasson-Levy spiega come il servizio militare, anche a livello più basso, possa fornire opportunità economiche ai mizrahi: “In quanto studenti negli istituti professionali, molti dei quali senza un diploma di scuola superiore, la maggior parte dei soldati in questa situazione non si vede continuare a studiare nelle scuole superiori, laddove la loro forza lavoro manuale e la professionalità che hanno acquisito nella scuola superiore potrebbero essere le principali risorse che hanno come garanzia dal punto di vista economico, e per questo è importante per loro sviluppare le risorse a loro disposizione dalla prima infanzia (…). I soldati che continuano a fare il militare per un certo numero di anni su base professionale lo spiegano anche principalmente con considerazioni di carattere economico. Valutano l’esercito in base a standard in genere riservati a un posto di lavoro, come l’opportunità di ricevere un addestramento professionale, vantaggi sociali, cure mediche e dentistiche ed altre.”

Il professor Yagil Levy mostra come l’esercito possa potenzialmente contribuire a migliorare la classe socio-economica di un individuo. Il suo libro “Israel’s Materialist Militarism” [Il militarismo materialista di Israele] analizza come l’esercito abbia aiutato a legittimare le richieste sociali dei mizrahi attraverso il servizio militare. Mentre gli ashkenaziti laici hanno iniziato a essere protagonisti di un processo di smilitarizzazione e cercano altre prospettive socio-economiche, Levy ha scoperto che gruppi della periferia israeliana hanno iniziato ad utilizzare l’esercito per soddisfare le proprie necessità sociali ed economiche.

Oltre a questi studi, l’alta percentuale di mizrahi che lavorano nella polizia o nel servizio penitenziario israeliano può essere spiegata con il fatto che, in assenza di un impiego redditizio – che richiede un’educazione superiore –, il lavoro nelle forze di sicurezza offre condizioni economiche stabili. Questo tipo di lavoro può servire come rifugio rispetto ad una crisi educativa e lavorativa, proprio come le case popolari nelle colonie vengono usate da molti come un rifugio dalla crisi abitativa all’interno di Israele. Sia nell’ambito abitativo che educativo/occupazionale, i processi possono essere spiegati alla luce delle differenze di classe tra ashkenaziti e mizrahi. Quindi ambienti che sono in genere visti come di destra, nazionalisti o radicali nei confronti dei palestinesi – colonie oltre la Linea Verde o forze di sicurezza israeliane – nella società israeliana sono considerati dalle comunità mizrahi come un salvagente socio-economico.

Secondo uno studio condotto nel 1987 da Noah Levin-Epstein e Moshe Semyonov anche l’ingresso di lavoratori palestinesi a giornata dai territori occupati nel mercato del lavoro israeliano dopo l’occupazione del 1967 ha giocato un ruolo fondamentale nel miglioramento delle condizioni socio-economiche dei mizrahi. Essi hanno dimostrato che nel 1969 circa il 42% degli immigrati [ebrei] dall’Asia e dall’Africa erano impiegati in lavori non o semi qualificati; nel 1982 questo numero è sceso al 25%. Levin-Epstein e Semyonov evidenziano che “data la concentrazione di arabi dei territori occupati in un piccolo numero di impieghi al fondo della scala lavorativa, essi non solo non vengono percepiti da molti israeliani come una minaccia, ma in molti casi sono persino indicati come “liberatori” da ‘lavori disprezzati e pesanti,’” che molti israeliani non devono più fare.

Nel suo libro “In the land of Israel” [Nella terra di Israele], lo scrittore israeliano Amos Oz è andato nella città di sviluppo di Beit Shemesh, dove ha parlato con un abitante del posto su quale significato avrebbe avuto la pace con i palestinesi per i mizrahi:

Se restituiscono i territori, gli arabi smetteranno di venire a lavorare e immediatamente ci rimetterete a fare i lavori senza futuro, come prima. Anche solo per questo motivo non vogliamo lasciare che restituiate quei territori. Per non parlare dei diritti che ci vengono dalla Bibbia, o della sicurezza. Guarda mia figlia: ora lavora in una banca, e ogni pomeriggio un arabo va a pulire l’edificio. Quello che volete è sbatterla da una banca a qualche fabbrica tessile, o farle lavare il pavimento al posto dell’arabo. Come mia madre faceva le pulizie per voi. Per questo qui vi odiamo. Finché Begin sarà al potere, mia figlia è sicura in banca. Se tornano i vostri ragazzi, come prima cosa la farete tornare in basso.”

Per gli abitanti delle città di sviluppo, il governo e il controllo del Likud sui territori occupati rappresenta una garanzia contro la minaccia che i mizrahi tornino a una condizione socio-economica inferiore e vengano obbligati a competere con i cittadini palestinesi di Israele per il lavoro e le risorse. Questo è un ulteriore esempio che dimostra come le condizioni materiali, nate dai rapporti di potere tra i differenti gruppi della società israeliana e dal conflitto israelo-palestinese portino a un’“alleanza” dei mizrahi con il Likud.

La concorrenza tra mizrahi e palestinesi sul mercato del lavoro non è un prodotto dell’immaginazione degli abitanti di Beit Shemesh, è il risultato di concrete condizioni politiche dei mizrahi in Israele. Il primo ministro israeliano David Ben-Gurion disse: “Abbiamo bisogno di persone che siano nate come lavoratori manuali. Dobbiamo prestare attenzione alla caratteristica locale tra le comunità orientali, gli yemeniti e i sefarditi, le cui qualità di vita e pretese sono più basse di quelle di un lavoratore europeo e possono competere con successo con gli arabi.”

I nostri ragazzi nel Likud

Un ulteriore esempio di come gli interessi di classe dei mizrahi siano stati realizzati attraverso il loro appoggio alla destra israeliana può essere visto nell’alta percentuale di membri mizrahi nel partito Likud. Un momento particolarmente significativo nel 2002 mostra esattamente perché. Durante un infuocato discorso di fronte a centinaia di membri del Comitato Centrale del Likud l’ex ministro dell’Educazione Limor Livant chiese in modo retorico alla folla se il gruppo dirigente del partito fosse stato “eletto per dare lavoro.”

Aspettandosi che la folla avrebbe risposto in modo massiccio di no, Livnat fu smentito quando i membri del Comitato gridarono sonoramente che sì, si aspettavano che il partito desse loro qualcosa in cambio del loro eterno appoggio.

Questo momento sintetizza come il sostegno dei mizrahi per il Likud sia parte di uno scambio: i mizrahi e i membri del Comitato Centrale appoggeranno lo Stato solo in cambio di uffici nei corridoi del potere del regime israeliano. Quindi gli interessi dei mizrahi si sono fusi con il dominio senza interruzione del Likud nella forma di nomine politiche, sindacati dei lavoratori e autorità locali.

Bisogna comprendere il contesto storico in cui il Comitato Centrale del Likud è diventato un polo dell’attivismo dei mizrahi. Quando il Mapai era al potere, il partito si impegnò in quella che è nota come protektzia, ossia la concessione di favori ai membri del partito. Questo significò che i migliori impieghi e abitazioni sarebbero rimasti nelle mani dei funzionari del partito. Ciò significò anche che molti mizrahi rimasero fuori da questo circolo nepotista. Il Comitato centrale del Likud può essere visto come una risposta dell’opinione pubblica mizrahi che la compensi dei privilegi degli ashkenaziti dovuti al controllo del Mapai sugli enti e le istituzioni dello Stato.

Contrastare i privilegi degli ashkenaziti

L’elezione di Menachem Begin nel 1977 creò un nuovo discorso etno-nazionale, che mobilitò a favore della destra gli israeliani emarginati dal punto di vista socio-economico dalla società. Nel 2003 la professoressa Sasson-Levy pubblicò uno studio sulla base di interviste con soldati israeliani di umili origini. Scoprì che i soldati che arrivavano da un contesto socio-economico modesto esprimevano in modo più veemente opinioni di destra. Dalla ricerca di Sasson-Levy:

Le (loro) opinioni di destra emergono da un discorso etno-culturale come forma di compensazione per la loro emarginazione di classe nella società israeliana, in quanto ciò permette loro di presentarsi come appartenenti al centro dell’opinione dominante in Israele per il solo fatto di essere ebrei.”

Questo discorso si può applicare all’opinione pubblica mizrahi in Israele nel suo complesso. A differenza degli storici leader del Mapai, che disprezzavano qualunque cosa assomigliasse anche lontanamente alla cultura mizrahi e araba, Menachem Begin fu abile nel portare i mizrahi nel grembo dell’identità israeliana allargando la sua definizione per includere tutti gli ebrei israeliani, invece che solo quelli che sembravano e parlavano come l’élite del partito. In un suo famoso “discorso alla plebaglia” del 1981 Begin rispose ai commenti razzisti e sprezzanti fatti da Dudu Topaz – una delle più famose personalità televisive e membro del campo progressista ashkenazita – sui soldati mizrahi [durante un comizio del Mapai disse che i mizrahi erano degli imboscati, ndtr.], promettendo di farla finita con le gerarchie tra ashkenaziti e mizrahi nell’esercito israeliano. È così che la dinamica tra ashkenaziti e mizrahi ha portato questi ultimi a cercare soluzioni alle loro difficoltà socio-economiche nelle politiche aggressive della destra israeliana. La visione di Begin, che accolse apertamente gli ebrei mizrahi, avrebbe semplicemente rafforzato la gerarchia razziale tra i cittadini ebrei e non ebrei del Paese.

Nonostante le affermazioni di esponenti di sinistra secondo cui l’opinione pubblica mizrahi vota contro i suoi stessi interessi, vale la pena di fare un bilancio dei modi in cui una serie di interessi cruciali dei mizrahi sono venuti alla luce sotto il governo della destra israeliana. Pare che quelli che credono che i mizrahi farebbero meglio a votare per la sinistra nella sua forma attuale – principalmente ashkenazita e di classe medio-alta – non siano consapevoli e non vogliano contrastare i privilegi di cui gli ashkenaziti hanno goduto fin dalla fondazione del Paese. Senza una vera discussione su questo aspetto del regime israeliano non saremo in grado di iniziare un processo di riconciliazione e compensazione, sia all’interno dell’opinione pubblica ebraica in Israele che nel contesto del conflitto israelo-palestinese.

Tom Mehager è direttore del programma del Gruppo di Globalizzazione e Sovranità all’Istituto Van Leer [centro di studi e discussioni interdisciplinari, ndtr.] di Gerusalemme, membro della Scuola di Teologia dell’università di Harvard e facilitatore del seminario “Nakba, ashkenaziti e mizrahi” di Zochrot [organizzazione israeliana che si occupa di promuovere la memoria della Nakba palestinese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele teme la presenza al suo interno degli ebrei ‘del deserto’

Countercurrents —di Jonathan Cook —23 giugno 2016

La scorsa settimana, con una mossa poco pubblicizzata, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha vietato l’ingresso in Israele di un funzionario vicino al presidente palestinese Mahmoud Abbas. Mohammed Madani è accusato di “attività sovversive” e “terrorismo politico.”

Vale la pena di riflettere sui suoi delitti, come li ha definiti Lieberman. Essi suggeriscono che il conflitto di Israele con i palestinesi sia radicato non tanto nei problemi di sicurezza, quanto piuttosto nel colonialismo europeo.

Nel suo ruolo di presidente del comitato palestinese per l’interazione con la società israeliana, Madani ha ovviamente utilizzato le sue visite in Israele per incontrare ebrei israeliani, ma ha scelto quelli sbagliati.

Ha tentato di iniziare un dialogo con quelli che in Israele sono noti come i “mizrahim”, israeliani discendenti dagli ebrei che sono emigrati dagli Stati arabi in seguito alla creazione di Israele nel 1948. Oggi questi ebrei arabi rappresentano circa la metà della popolazione di Israele. E’ noto che Abbas è intenzionato a stringere rapporti con loro.

La maggior parte dei dirigenti del Paese si identificano come ebrei europei, o ashkenaziti. Fin dall’inizio, questa elite europea ha diffidato degli ebrei arabi, visti come una popolazione “arretrata” che avrebbero potuto compromettere la pretesa di Israele di essere un avamposto dell’Occidente civilizzato in Medio oriente.

Ma, più specificamente, gli ashkenaziti temevano che un giorno gli ebrei arabi potessero fare un’alleanza politica con la popolazione nativa, i palestinesi. Allora gli ashkenaziti si sarebbero trovati in minoranza. I mizrahi, che provengono da Paesi tanto diversi come Marocco ed Iran, avevano molte più cose in comune con i palestinesi che con gli europei, arrivati di recente.

Originariamente i fondatori di Israele non avevano intenzione di includere gli ebrei arabi nel loro progetto di costruzione della Nazione. Furono obbligati a riconsiderare la questione solo perché il genocidio di Hitler in Europa li privò di un numero sufficiente di ebrei ‘civilizzati’.

Gli archivi rivelano che Israele organizzò buona parte dell’emigrazione degli ebrei arabi, inducendoli con false promesse o mettendo in atto attentati interni per fomentare sospetti nei loro confronti nei loro Paesi d’origine. Erano visti come manodopera a buon mercato, per sostituire i palestinesi che erano stati espulsi.

David Ben Gurion, un polacco che diventò il primo capo del governo, descrisse i mizrahi in termini esclusivamente negativi, come “gentaglia” e “polvere umana”. Essi erano “un prodotto del deserto.” Gli immigranti mizrahi furono sottoposti ad un programma di “de-arabizzazione”, la loro presunta arretratezza venne trattata non diversamente dalle malattie che si supponeva si portassero dietro. Furono ricoperti di DDT sui voli verso Israele.

I documenti mostrano che l’esercito discuteva animatamente se i nuovi coscritti ebrei arabi fossero mentalmente ritardati, facendone casi senza speranza, o semplicemente primitivi, una condizione che avrebbe potuto essere sradicata con il tempo.

Secondo Ben Gurion, la lotta di Israele era “contro lo spirito del Levante, che corrompe individui e società…Non vogliamo che gli israeliani diventino arabi,”

Questa missione era diventata più ardua perché, nonostante una campagna aggressiva di espulsione nel 1948, Israele includeva ancora una significativa popolazione di palestinesi che erano diventati cittadini.

Israele li tenne separati dai mizrahi attraverso la segregazione, comunità e sistemi educativi separati. Ai bambini mizrahi venne proibito di parlare arabo nelle loro scuole ebraiche, e si fece in modo che si vergognassero dell’arretratezza dei loro genitori.

Ci furono sempre quelli che resistettero agli stereotipi negativi. Negli anni ’70 alcuni organizzarono persino una versione locale delle “Pantere nere”, prendendo il nome dal gruppo militante afro-americano negli Stati uniti e riecheggiando le loro richieste per un cambiamento rivoluzionario.

Oggi è una storia vecchia. Un piccolo numero di mizrahi si è unito nell'”Arcobaleno democratico”, che si concentra sulla giustizia sociale per gli ebrei arabi. Altri hanno trovato conforto nel fondamentalismo religioso.

Molti altri ancora hanno interiorizzato l’odio per se stessi coltivato nei loro confronti dallo Stato. Molti ora votano per l’estrema destra, compreso il Likud di Benyamin Netanyahu, il rivale ufficiale dei padri fondatori del partito laburista.

Il programma zelantemente antipalestinese del Likud ha dimostrato di essere attraente. L’allarme di Netanyahu durante le elezioni, secondo cui “gli arabi stanno andando in massa a votare”, ha mobilitato i votanti mizrahi attorno al Likud e probabilmente lo hanno riportato al potere.

Mizrahi che odiano i palestinesi e che scandiscono “Morte agli arabi” si vedono ogni fine settimana sulle gradinate del principale club di pallone di Gerusalemme.

Uno di loro, Elor Azaria, un medico militare israeliano, ha messo in pratica lo slogan dei tifosi. In marzo è stato ripreso da una videocamera in una via di Hebron mentre giustiziava un palestinese steso a terra ferito. Netanyahu e Lieberman gli hanno offerto il loro appoggio.

Tuttavia ashkenaziti più “moderati, compreso il comandante dell’esercito, hanno preso le distanze da Azaria, temendo il danno che la sua azione molto pubblicizzata avrebbe potuto causare alle credenziali “occidentali” di Israele.

Ma il loro odio nei confronti di tutto ciò che è arabo non è meno intenso di quello dei fondatori del Paese.

La scorsa settimana un gruppo di ex-generali dell’esercito e politici ashkenaziti che appoggiano la soluzione dei due Stati ha diffuso un video. Hanno ipotizzato lo “scenario da incubo” dei palestinesi che mettono via le loro armi e vanno ai seggi per eleggere uno di loro come sindaco di Gerusalemme.

E’ stato proprio questo tipo di “terrorismo politico” che ha portato la scorsa settimana Lieberman a bandire Madani da Israele. Con gli ebrei arabi dalla parte dei palestinesi, al conflitto con Israele si potrebbe porre fine nelle cabine elettorali. Ora che potrebbe essere veramente sovversivo.

Jonathan Cook ha vinto il premio speciale “Martha Gellhorn per il giornalismo” [premio inglese per i giornalisti che scrivono in lingua inglese. Ndgr.]. I suoi ultimi libri sono “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridisegnare il Medio oriente”] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [“Palestina scomparsa: esperimenti di Israele nella disperazione umana”] (Zed Books).

(traduzione di Amedeo Rossi)

** Per un approfondimento della questione si veda il libro  di Ella Shoat “Le vittime ebree del sionismo”  a cura di Cinzia Nachira , 2015 edizione Q, Roma