Quando dare del pane a Gaza costituisce un crimine

Yvonne Ridley

25 ottobre 2019 – Middle East Monitor

L’inviato del Qatar Mohammed Al-Emadi è arrivato a Gaza lo scorso weekend con 180 milioni di dollari da distribuire ai palestinesi bisognosi. Nel caso di Gaza questo significa potenzialmente l’intera popolazione, visto che essa si dibatte da una crisi umanitaria all’altra a causa del feroce assedio imposto da Israele da un lato e dall’Egitto dall’altro.

Il denaro del Qatar è disperatamente necessario per pagare il combustibile per l’elettricità, i salari e gli aiuti economici alle famiglie palestinesi che lottano per vivere sotto l’assedio. La speciale consegna non è una sorpresa per Israele, poiché già in maggio il Qatar ha annunciato che avrebbe inviato 480 milioni di dollari alla Cisgiordania occupata e a Gaza per “aiutare il popolo palestinese fratello a far fronte ai propri bisogni primari.”

Il denaro è entrato con l’appoggio (senza dubbio riluttante) di Tel Aviv, che con la mediazione dell’Egitto ha accettato una tregua “ufficiosa” con Hamas, che sostanzialmente governa ancora la Striscia di Gaza. Il denaro sarà utilizzato per pagare i dipendenti pubblici dell’Autorità Nazionale Palestinese ed ha permesso all’ONU di incrementare gli aiuti.

Comunque, il fatto stesso che questo sta accadendo ha un enorme significato e dovrebbe ora essere usato come prova per mettere fine al dramma kafkiano che ha visto cinque americani palestinesi incarcerati in quello che è stato descritto come uno dei peggiori casi di errore giudiziario negli Stati Uniti. Il dramma è iniziato nel 2004 quando l’FBI, insieme al Dipartimento del Tesoro statunitense e ad una serie di diverse forze di polizia del Texas e della California, ha arrestato dei funzionari della ‘Holy Land Foundation’ (Fondazione Terra Santa) nel corso di ispezioni a sorpresa. I “cinque HLF” erano –e sono ancora – Shukri Abu Baker, Mohammad El-Mezain, Ghassan Elashi, Mufid Abdulqader e Abdulrahman Odeh, che nel 1990 avevano fondato l’associazione musulmana di beneficienza.

I cinque sono stati accusati di aver fornito supporto materiale a Hamas e nel primo processo la giuria non ha raggiunto un verdetto. Il nuovo processo presso il tribunale federale di Dallas è iniziato nel settembre 2008 ed ha incluso una testimonianza senza precedenti fornita segretamente da una spia israeliana nota semplicemente come “Avi”. Gli avvocati della difesa non sono stati in grado di mettere in discussione il passato e le credenziali di Avi.

Il giudice Jorge Solis ha detto alla giuria che era consentito soppesare la credibilità del soggetto alla luce del suo anonimato, ma ha respinto il diritto dell’imputato, in base al Sesto Emendamento, di “confrontarsi con i testimoni contro di lui.” Fino ad allora niente nella costituzione americana aveva permesso una condanna in base ad accuse anonime, ma il tribunale è andato avanti ed ha condannato tutti i cinque uomini.

Una delle 108 accuse contenute nella condanna affermava che la ‘Holy Land Foundation’ aveva favorito gli attacchi suicidi fornendo assistenza agli orfani degli attentatori. È poi risultato che, dei 200 attentatori suicidi che hanno agito in Palestina in quel periodo, nessuno aveva dei figli. Infatti – ed in stridente contrasto – in realtà la HLF ha fornito assistenza finanziaria ai figli di persone messe a morte da Hamas per collaborazionismo con Israele.

E’ anche emerso che le ispezioni a sorpresa e l’arresto dei cinque sono stati la conseguenza di supposizioni fatte dallo Stato di Israele che l’associazione fosse il terminale di un’operazione illecita di riciclaggio di denaro, che dirottava finanziamenti ad Hamas (dichiarata organizzazione terroristica dagli USA sotto la presidenza di Bill Clinton) attraverso i Comitati Zakat [fondati in Kuwait nel 1981 per raccogliere denaro in base alla legge islamica, ndtr.] nella Cisgiordania occupata.

Simili illazioni hanno portato gli USA a definire nel 2003 la ‘British Charity Interpal’ un “ente terrorista globale”, senza che uno straccio di prova sia mai stato prodotto dal governo americano (o israeliano). Quella definizione è ancora in vigore oggi, nonostante Interpal operi legalmente in Inghilterra e fornisca tuttora aiuti ai palestinesi in difficoltà.

Nel corso del secondo processo contro HLF gli imputati sono stati accusati di aver fornito “supporto materiale” a Hamas e, nel 2009, sono stati condannati dai 15 ai 65 anni di carcere. Il processo è stato presentato come una farsa in un duro libro pubblicato l’anno scorso da Mike Peled, figlio di un famoso generale israeliano e fervente anti-sionista.

Peled ha intervistato le persone incriminate e i loro familiari e si è anche recato nei loro luoghi di nascita in Cisgiordania. Il suo resoconto dettagliato del caso della ‘Holy Land Foundation’ prova senza ombra di dubbio che si è trattato di un caso politico messo in piedi dalle lobby sioniste e da Israele per compromettere, intimidire e criminalizzare chiunque lavori o doni denaro alle associazioni di beneficienza che assistono i palestinesi bisognosi.

La questione è semplice: è impossibile distribuire denaro nella Palestina occupata senza chiedere il permesso delle autorità al potere. Nella Cisgiordania occupata i soldi confluiscono nelle associazioni di beneficienza registrate non solo presso l’Autorità Nazionale Palestinese, ma anche in Israele e in alcuni casi presso il governo giordano. I trasferimenti monetari devono essere certificati dal sistema bancario israeliano e chiunque si presenti di persona a nome di un’associazione di beneficienza deve ottenere l’autorizzazione dalle stesse autorità per entrare nel Paese. Nel caso della Striscia di Gaza questo significa il governo democraticamente eletto in mano a Hamas e tutte le associazioni di beneficienza devono essere registrate presso l’ANP e gli israeliani. Con questa procedura i soldi non passano di mano, ma le organizzazioni assistenziali e le associazioni di beneficienza operano su autorizzazione delle autorità.

Ora che sappiamo che il Qatar ha spedito un inviato con 180 milioni di dollari in contanti a Gaza con il permesso di Tel Aviv, dovrebbe esserci spazio per un ricorso da parte dei cinque di ‘Holy land Foundation’, in quanto ciò demolisce l’insensatezza dell’onnipresente argomentazione del ”supporto materiale”.

Il sistema giudiziario statunitense dovrebbe vergognarsi del fatto che questi uomini continuino a languire in carcere per non aver svolto altro che un compito umanitario. I veri criminali non sono quelli che sfamano i bambini palestinesi, ma quelli dell’amministrazione Trump che preferirebbero vedere i bambini di Gaza morire di fame piuttosto che consentire loro una sembianza di vita normale in quelle che sono circostanze del tutto anormali.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele afferma che l’uccisione di un membro di Hamas a Gaza è stata frutto di un ‘malinteso’

MEE e agenzie di stampa

11 luglio 2019 – Middle East Eye

Hamas dice che la morte di un membro del suo braccio armato, che stava seguendo altri palestinesi che si avvicinavano alla barriera, “non resterà impunita”

Giovedì un portavoce dell’organizzazione ha detto che un membro palestinese del braccio armato di Hamas è stato colpito a morte dalle forze israeliane vicino alla barriera di confine nel nord della Striscia di Gaza.

Hamas ha indicato il nominativo dell’uomo ucciso come Mahmoud al-Adham.

In una dichiarazione ha affermato che non lascerà questa morte “impunita” e che Israele “pagherà le conseguenze di questo atto criminale.”

Secondo una fonte di Hamas che ha parlato con Haaretz, il compito di Adham era di “impedire (ai palestinesi) di oltrepassare la barriera di confine.”

L’esercito israeliano lo ha confermato al sito di informazioni, dicendo che “una prima indagine evidenzia che un membro di Hamas si è avvicinato alla zona della barriera di confine seguendo due palestinesi che si avvicinavano alla barriera.”

Le truppe dell’esercito israeliano sono giunte sul luogo e hanno identificato il membro di Hamas come un terrorista armato. Hanno iniziato una sparatoria che è nata da un equivoco. Sull’incidente verranno fatte indagini.”

Il braccio armato di Hamas ha dei punti di osservazione vicino alla barriera di confine.

Da quando massicce proteste sostenute da Hamas sono iniziate lungo la barriera di confine nel marzo 2018, a Gaza sono stati uccisi dal fuoco israeliano almeno 295 palestinesi.

La maggior parte di loro è stata uccisa nel corso delle manifestazioni, ma altri sono stati uccisi da attacchi aerei o dal fuoco di carri armati. Sono stati uccisi sei israeliani.

L’enclave è sotto assedio dal 2007, il che ha causato grave penuria e stagnazione economica.

In base ad un accordo informale raggiunto a novembre, Israele avrebbe dovuto alleggerire le restrizioni in cambio di una tregua, ma da allora Hamas ha accusato Israele di non rispettare l’accordo.

lLe forniture di combustibile, che sono coordinate con le Nazioni Unite e pagate dallo Stato del Golfo del Qatar, facevano parte di quell’accordo di tregua.

Secondo l’ONU, esse hanno migliorato la fornitura di elettricità nell’enclave, dove gli abitanti attualmente usufruiscono di circa 12 ore di elettricità al giorno.

Prima dell’accordo la fornitura quotidiana di elettricità era abitualmente solo di sei ore.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gaza: come è stata strangolata l’enclave palestinese

Chloé Benoist

21 giugno 2019 Middle East Eye

Decenni di colloqui falliti con Israele e le divisioni interne hanno lasciato gli abitanti più disperati che mai e l’“accordo del secolo” non sembra in grado di modificare lo status quo

Isolata dalla Cisgiordania e da Gerusalemme est occupate; sotto assedio da oltre un decennio; sottoposta a discordie politiche interne, Gaza svolge il più complicato dei ruoli nel conflitto israelo-palestinese.

La sua posizione, sia come teatro di una catastrofica crisi umanitaria che come sede del potere di Hamas – l’organizzazione palestinese di resistenza armata definita organizzazione terroristica da Israele e dai suoi alleati – ha fatto del destino di Gaza uno dei nodi centrali di ogni trattativa che cerchi di occuparsi correttamente del futuro dei palestinesi

Questo articolo fa parte della serie “Done Deal [accordo fatto]” di Middle East Eye, che indaga su quanti degli aspetti attesi del cosiddetto “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump rispecchino una realtà che già esiste sul terreno.

Prenderà in esame come il territorio palestinese sia già stato di fatto annesso, perché i rifugiati non abbiano prospettive realistiche di tornare un giorno nella loro patria, come la Città Vecchia di Gerusalemme sia sotto dominio israeliano, come vengano usati minacce finanziarie e incentivi per indebolire l’opposizione allo status quo e come Gaza sia tenuta in uno stato di assedio permanente.

Ma Gaza è in un vicolo cieco. Il soccorso umanitario, lo sviluppo economico e l’autodeterminazione palestinese sono considerati troppo spesso nei piani di pace come incompatibili tra loro – e questo include l’ “accordo del secolo” del Presidente USA Donald Trump.

Il ruolo dell’Egitto nell’assedio israeliano

Intrappolata tra Egitto e Israele, lo status di Gaza come enclave fin dalla creazione dello Stato di Israele ha determinato molto della sua esistenza e anche della posta in gioco.

Nel 1948 la Striscia di Gaza contava circa 80.000 abitanti – ma quel numero arrivò velocemente ad una stima di 200.000, quando i rifugiati palestinesi fuggirono dalle forze israeliane. Sessant’anni dopo Gaza ha circa due milioni di abitanti e la reputazione di essere una delle aree più densamente popolate al mondo.

Alla fine degli anni ’40 Gaza era governata dall’esercito egiziano, con un breve periodo di autogoverno ampiamente simbolico, prima di essere occupata da Israele dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Come in Cisgiordania e a Gerusalemme est, Israele creò insediamenti in tutta la Striscia di Gaza contravvenendo al diritto internazionale. Fu in questo contesto che nel 1987 Hamas si impose come braccio armato della Fratellanza Musulmana nei primi giorni della prima Intifada.

Mentre nel 1993 gli Accordi di Oslo prevedevano un completo ritiro israeliano da Gaza entro un periodo di transizione di cinque anni, questa parte dell’accordo di pace – come molte altre parti – non si realizzò. Fu solo dopo la seconda Intifada, terminata nel 2005, che Israele evacuò le sue 25 colonie da Gaza: alla fine di quell’anno furono trasferiti 9.000 coloni.

Hamas vinse le elezioni legislative del 2006, ma subito dopo scoppiò il conflitto con Fatah, il partito dominante dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). La faida di fatto lasciò Gaza sotto un’ amministrazione guidata da Hamas, separata dall’ANP guidata da Fatah nella Cisgiordania occupata.

Quando Hamas ottenne il controllo della Striscia, Israele impose un rigido assedio a Gaza, sostenuto anche dall’Egitto sul confine meridionale dell’enclave.

Israele non ha più una presenza militare permanente a Gaza, ma continua ad esercitare il controllo. L’accesso all’elettricità si aggira tra le 3 e le 12 ore al giorno. Le riduzioni di combustibile mettono a rischio il funzionamento di vitali infrastrutture sanitarie. L’acqua pulita è diventata una merce rara. Oltre un milione di persone vive con 3,50 dollari, o meno, al giorno. Il mare, un tempo vitale fonte di reddito per gli abitanti di Gaza, è sottoposto a restrizioni dei diritti di navigazione e pesca che cambiano continuamente.

Dodici anni di assedio, unitamente a tre guerre, innumerevoli scoppi di violenze e la repressione di un movimento di protesta di massa dal 2018 hanno portato le Nazioni Unite a denunciare ripetutamente che Gaza è di fatto diventata “invivibile”.

L’unità dei palestinesi è andata in pezzi

A partire dalle elezioni palestinesi del 2006 Gaza è stata intrappolata tra due conflitti probabilmente irrisolvibili: quello tra palestinesi ed israeliani e quello fra gli stessi palestinesi.

L’ANP vuole consolidare il proprio potere nei territori occupati, ma Hamas teme di venire emarginata sotto un governo unificato. Vi è disaccordo tra Fatah e Hamas anche sull’atteggiamento da adottare verso Israele, soprattutto riguardo al futuro del braccio militare di Hamas.

La rottura politica che dura ormai da 13 anni ha anche impedito qualunque attività diplomatica credibile tra Israele e Palestina. Come potrebbe realizzarsi un’efficace discussione sullo Stato palestinese quando la stessa dirigenza palestinese è aspramente divisa?

Innumerevoli tentativi di riconciliazione – promossi da Egitto, Arabia Saudita, Qatar e Siria – sono falliti. Ma il fallimento di questi colloqui non è dovuto soltanto ad irreconciliabili differenze tra i due partiti palestinesi. Israele ha molto da guadagnare dal continuo dissidio tra palestinesi e spesso ha fatto pressioni militari e finanziarie quando un riavvicinamento tra le parti palestinesi sembrava alla portata.

Nel 2011 il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha reagito ad un accordo di unificazione, firmato dal Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e dall’allora capo dell’ufficio politico di Hamas Khaled Meshaal, definendolo “un colpo mortale alla pace e un grande regalo al terrorismo.” Israele ha quindi sospeso il trasferimento di 80 milioni di dollari di tasse che esso raccoglie per conto dell’ANP.

Il 2 giugno 2014 Abbas promise un governo tecnocratico di unità palestinese guidato dal Primo Ministro Rami Abdallah. Dieci giorni dopo tre adolescenti israeliani furono rapiti in Cisgiordania. Le forze israeliane lanciarono una feroce caccia all’uomo, accusando Hamas del rapimento: i loro corpi furono trovati due settimane dopo.

Alla fine di luglio la polizia israeliana disse che il rapimento e le uccisioni erano opera di una “cellula isolata” – ma a quel punto Israele e Hamas da tre settimane erano coinvolti in una devastante guerra a Gaza, che causò la morte di oltre 2.000 palestinesi e 70 israeliani.

Alcuni osservatori ritengono che la ricerca dei ragazzi e il conseguente attacco ad Hamas fossero meri pretesti per vanificare gli sforzi di unificazione palestinese e, di conseguenza, la creazione di uno Stato palestinese.

Un futuro nel Sinai?

Non vi sono segnali di una duratura riconciliazione tra Fatah e Hamas – quindi questo dove condurrà Gaza?

Lo status particolarmente delicato dell’enclave – isolata tra i due governi ostili di Netanyahu e del Presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, e alle prese con una crisi umanitaria di proporzioni catastrofiche – ha spinto molti mediatori a cercare di affrontare le sue questioni separatamente da più ampie discussioni sull’autodeterminazione palestinese.

Nel 2015 l’ex Primo Ministro britannico Tony Blair incontrò in diverse occasioni Meshaal – la prima volta in cui Hamas fu il principale rappresentante palestinese in sede di colloqui.

Pare che Blair abbia offerto a Hamas una completa eliminazione del blocco di Gaza, aiuti per la ricostruzione dopo la guerra del 2014 e la possibilità di un porto marittimo e di un aeroporto. In cambio Hamas avrebbe dovuto accettare un cessate il fuoco illimitato con Israele. Alla fine tuttavia Blair non riuscì ad ottenere l’appoggio israeliano ed egiziano al suo piano.

Alla fine del 2018 sono emerse informazioni secondo cui, come parte dell’“accordo del secolo”, Washington ed Israele stavano facendo pressioni sull’Egitto perché trasformasse parti della regione del Sinai settentrionale in una zona industriale e di infrastrutture per dare lavoro ai palestinesi e aiutare Gaza.

L’amministrazione Trump ha negato il piano, ma non sarebbe la prima volta che è stata suggerita questa idea.

Negli anni ’50 l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, propose che la sovrappopolazione di Gaza potesse essere alleggerita espandendo il territorio verso sud lungo la costa tra le città egiziane di al-Arish e Port Said – un piano che all’epoca fu categoricamente respinto dai rifugiati palestinesi.

Il giornalista e ricercatore palestinese Adnan Abu Amer ha detto a Middle East Eye che vent’anni dopo, facendo seguito alla guerra arabo-israeliana del 1973, Israele tentò di convincere il Presidente egiziano Anwar al-Sadat ad annettere totalmente Gaza all’Egitto.

Per quanto storico, l’ approccio a Gaza come questione a parte durante colloqui non è piaciuto a tutti. Per Saeb Erekat, il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), gli sforzi per negoziare una tregua tra Hamas e Israele proprio mentre Israele applica misure punitive contro l’ANP stavano deliberatamente “accentuando la separazione (tra palestinesi) con tutti i mezzi possibili” nel tentativo di “distruggere il progetto nazionale palestinese consistente nella creazione dello Stato palestinese indipendente e sovrano.”

I piani finanziari falliscono

Intanto l’urgente bisogno di Gaza di soccorso economico ed umanitario è stato a lungo al centro di conferenze e colloqui di pace – ma raramente messo in pratica.

Secondo Abu Amer, nel 1991 durante la conferenza di pace di Madrid furono avanzati piani per lo sviluppo economico di Gaza . Gli Accordi di Oslo del 1993 auspicarono una cooperazione su petrolio e gas tra israeliani e palestinesi per sostenere l’industria di Gaza. Abu Amer ha detto a MEE che i progetti per un’azienda petrolifera a Gaza furono visti come un elemento centrale nella costruzione del futuro economico di un previsto Stato palestinese.

Nel corso degli Accordi di Oslo furono proposti progetti per una fabbrica, un porto marittimo ed un aeroporto a Gaza: di essi, solo l’aeroporto divenne realtà. Inaugurato dall’allora Presidente USA Bill Clinton nel 1998, l’aeroporto internazionale Yasser Arafat ebbe vita breve: nel 2000 venne distrutto dalle forze israeliane durante la seconda Intifada.

Progetti per un porto marittimo sono stati regolarmente suggeriti, anche da politici israeliani. Ma finché permane l’assedio israeliano, compreso il divieto di importazione a Gaza di prodotti “a doppio uso”, come i materiali da costruzione, le iniziative economiche possono essere solo teoriche.

Mentre Israele è stato il principale responsabile nel mantenere Gaza in condizioni di crisi umanitaria, persino personaggi israeliani hanno visto il pericolo creato da un territorio palestinese sempre più impoverito e non in grado di sopravvivere.

È stato rivelato che a settembre ufficiali della sicurezza israeliana hanno fatto pressione sul loro governo perché trovasse una fonte alternativa di aiuti per Gaza. Si temeva che la decisione di Trump di interrompere i finanziamenti all’UNRWA potesse peggiorare la situazione umanitaria dell’enclave, che poteva degenerare in una vera e propria guerra.

Intanto in Israele i politici di estrema destra, che negli ultimi anni hanno accresciuto la propria influenza nel panorama israeliano, hanno auspicato un “duro e sproporzionato” intervento militare contro Hamas.

In condizioni giudicate invivibili dalle organizzazioni internazionali e con uno stallo nei colloqui tra ANP e Israele, il futuro di Gaza e dei suoi due milioni di abitanti appare fosco.

Motasem Dalloul ha inviato corrispondenze dalla Striscia di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Alcuni rapporti svelano che negli attacchi contro Gaza sono stati deliberatamente presi di mira civili

Oren Ziv

14 giugno 2019 – +972

Due diverse inchieste di B’Tselem e Human Rights Watch hanno stabilito che l’esercito israeliano e gruppi armati palestinesi hanno illegalmente colpito la popolazione civile durante la più recente escalation a Gaza.

Secondo un nuovo rapporto di B’Tselem [organizzazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] reso noto mercoledì, nella sua ultima campagna a Gaza Israele ha ucciso 13 civili palestinesi che non erano coinvolti nelle ostilità né affiliati a gruppi di miliziani. Due delle vittime erano bambini e tre erano donne, una delle quali a fine gravidanza. “Queste morti sono il prevedibile risultato dell’illegale e immorale politica israeliana di bombardare case a Gaza,” ha stabilito B’Tselem.

In base all’inchiesta di B’Tselem, dal 3 al 6 maggio Israele ha lanciato attacchi aerei ed ha bombardato più di 350 obiettivi a Gaza, ferendo 153 persone. L’associazione per i diritti umani ha anche scoperto che nessuno degli attacchi “è stato preceduto dal alcun adeguato avvertimento che potesse dare agli abitanti l’opportunità di cercare rifugio o di salvare i propri beni.”

Durante questo periodo i gruppi di miliziani legati ad Hamas e alla Jihad Islamica hanno lanciato circa 700 razzi contro Israele, uccidendo tre persone e ferendone 123. Un razzo lanciato da uomini della Jihad Islamica ha colpito una casa a Gaza ed ha ucciso una donna incinta e la sua nipotina di un anno, e un missile anticarro sparato da quei gruppi ha ucciso un civile israeliano. Secondo il rapporto “il fatto di prendere di mira la popolazione civile in Israele è illegale e immorale,”.

Come negli attacchi precedenti, il rapporto ha rilevato che Israele ha di nuovo preso di mira edifici residenziali e uffici. Secondo le Nazioni Unite, è stato distrutto un totale di 33 unità abitative e altre 19 sono state gravemente danneggiate, lasciando senza casa 52 famiglie – 327 palestinesi, tra cui 65 bambini. Altre centinaia di abitazioni sono state parzialmente danneggiate.

B’Tselem ha sottolineato che sparare contro strutture residenziali in aree densamente popolate come la Striscia di Gaza “comporta inevitabilmente il rischio di danneggiare civili. Il pericolo non è ipotetico: negli scorsi anni Israele ha già ucciso migliaia di civili, comprese centinaia di minori, in attacchi aerei contro le loro case.” Nella sola operazione ‘Margine protettivo’ del 2014 Israele ha ucciso almeno 1.055 palestinesi – tra cui 405 minori e 229 donne – che non avevano preso parte alle ostilità.

Il rapporto evidenzia anche come questi attacchi non siano stati provocati da combattenti criminali che hanno trasgredito gli ordini militari, ma di fatto “parte di una politica formulata da personalità del governo e da importanti comandi militari.” Gli attacchi “hanno avuto l’appoggio dei corpi MAG [Military Advocate General, ufficio legale che fornisce la consulenza legale per giustificare le prassi dell’esercito israeliano, ndtr.], che emanano pareri giuridici che sostengono questa politica.”

Israele, continua il rapporto, ha giustificato questi attacchi affermando che sono conformi alla legge umanitaria internazionale, ma “quest’interpretazione è irragionevole, legalmente errata e basata su una visione del mondo moralmente distorta. Dovrebbe essere categoricamente rifiutata.”

In un altro rapporto reso pubblico anch’esso mercoledì, una ricerca di Human Rights Watch sull’escalation di maggio ha confermato i risultati di B’Tselem: “Quattro attacchi israeliani hanno colpito bersagli che non sembravano contenere alcun obiettivo militare o potrebbero aver provocato sproporzionate perdite civili in violazione delle leggi di guerra.” HRW ha anche affermato che, dato che i razzi sparati dai gruppi armati palestinesi non potevano prendere di mira un particolare obiettivo militare, il loro uso in zone civili è “intrinsecamente indiscriminato in violazione delle leggi di guerra.”

Entrambi i rapporti includono testimonianze di sopravvissuti agli o testimoni degli attacchi. Un missile sparato contro la casa della famiglia al-Madhun nel quartiere di al-‘Atatrah della città occidentale di Gaza Beit Lahiya ha ucciso quattro persone: ‘Abd a-Rahim al-Madhun, 60 anni, suo figlio ‘Abdallah al-Madhun, 21 anni, membro del braccio militare della Jihad islamica; sua nuora, Amani al-Madhun, 36 anni, madre di quattro figli che era incinta di nove mesi, e il loro vicino, Fadi Badran, di 33 anni. L’attacco ha anche ferito sei bambini.

Muhammad al-Madhun, figlio di ‘Abd a-Rahim, che era in casa al momento del bombardamento, ha detto a B’Tselem: “Sono arrivato a casa alle 14,30. Mia moglie e i bambini erano andati a dormire, perché pensavamo che non avremmo potuto chiudere occhio di notte, data l’escalation e i bombardamenti. Sono andato a dormire accanto a loro.”

“Mi sono alzato alle 17 e mi sono seduto in soggiorno a prendere un caffè con mio cugino e un vicino. Sono andato in cucina per fare il caffè per il mio vicino e quando sono tornato improvvisamente ho sentito una pesante esplosione in casa. Era fortissima, ma in un primo momento ho pensato che provenisse da qualcosa che era successo fuori. Mi ci è voluto un momento prima di capire che era avvenuta in casa. L’ho compreso quando ho visto schegge di vetro, di metallo, pietre, sabbia, polvere e fumo intorno a me. Sono rimasto lì scioccato e non mi potevo muovere. Sono semplicemente rimasto lì ed ho sentito i detriti e le macerie che cadevano giù attorno a me.

Ho chiamato i vicini e ho chiesto loro di tirare fuori da sotto i detriti i feriti – mia moglie e due dei miei bambini. Il mio vicino Muhammad al-Far è uscito dalle macerie e si è messo a camminare verso la strada portando mia figlia Fatimah di due anni e mezzo. L’ho sentita gridare e lamentarsi per il dolore.

Sono stato portato in ambulanza all’ospedale Indonesiano. Sono stato visitato ed hanno constatato che stavo bene. Sono andato ad identificare i corpi. Ho identificato quello di mia moglie Amani ed ho anche visto il corpo del feto. Poi ho identificato i corpi di Fadi Badran e di mio fratello Abdallah.”

Il padre di Mohammad è morto alla fine della giornata all’ospedale al-Shifa per le ferite riportate.

In un altro attacco due missili hanno colpito il tetto di un edificio di cinque piani, sempre a Beit Lahiya. L’esplosione ha ucciso sei persone di due famiglie, compreso un bambino di 3 mesi.

In quell’attacco Mohammad Abu al-Jidyan, 26 anni, ha perso entrambi i genitori. Stava tornando a casa quando suo padre l’ha chiamato per dirgli di affrettarsi a causa degli attacchi lanciati contro Gaza. “Circa 5 minuti dopo che mio padre aveva chiamato, sono arrivato al portone e sono entrato nell’edificio. In quello stesso momento l’appartamento in cui vivo con i miei genitori è stato bombardato,” ha detto al-Jidyan a B’Tselem.

“Sono corso su per le scale per vedere cosa fosse successo. Ho visto tutti i vicini correre giù e ho temuto che la mia famiglia fosse stata uccisa. Nessuno mi ha sentito. C’è un appartamento vuoto al quarto piano. Quando sono arrivato lì ho visto che il quinto piano, dove vivevamo i miei genitori, mio fratello ‘Abd a-Rahman ed io, era crollato e caduto sul quarto. Date le condizioni in cui era tutto quanto, ero sicuro che i miei genitori e mio fratello fossero caduti come martiri.

Le mie due sorelle ed io abbiamo perso tutta la famiglia – nostro padre, nostra madre e nostro fratello – senza un avvertimento e senza la possibilità di dirci addio. L’attacco è stato così brutale che non abbiamo neppure trovato i loro corpi tutti interi. Quando abbiamo sepolto i miei genitori, il corpo del mio fratellino era disteso nella stessa tomba con mia madre. Era nato dopo dieci anni di tentativi di rimanere incinta…Mi sento solo al mondo, senza i miei genitori e senza la nostra casa, che è rimasta completamente distrutta. Spero di riuscire a trovare la forza per superare quello che ci è successo.”

L’alleggerimento del blocco contro Gaza che Israele aveva accettato di mettere in atto nell’ultima serie di negoziati deve ancora essere realizzato pienamente e, dato che è previsto che le proteste presso la barriera di confine ricomincino venerdì, probabilmente è solo questione di tempo prima che ci sia un’altra ‘escalation’ nelle ostilità. Di conseguenza sarebbe saggio per Israele riconoscere il pesante prezzo che i palestinesi della Striscia di Gaza pagano persino durante periodi di ‘calma’ mentre resistono a condizioni di vita insopportabili a causa del blocco.

Una versione in ebraico di questo articolo è già stata pubblicata su Local Call.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I palestinesi che vivono in Israele sono dimenticati dall’“accordo del secolo” di Trump

Awad Abdelfattah

11 giugno 2019 – Middle East Eye

I palestinesi all’interno dei confini israeliani devono unirsi ai rifugiati fuori da Israele per contrastare questo piano di liquidazione dei loro diritti nazionali

I palestinesi all’interno di Israele non sono mai stati considerati dalla comunità internazionale come parte del conflitto arabo-sionista, ma piuttosto come un gruppo etnico non ebraico nello Stato di Israele e che subisce discriminazioni.

L’“accordo del secolo”, che va avanti da quando il presidente USA Donald Trump ha assunto il potere, è stato preceduto da un duro colpo contro milioni di rifugiati palestinesi come il taglio agli aiuti finanziari all’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che fornisce loro servizi fondamentali.

Lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stato un ulteriore passo inteso a eliminare il più elementare principio della causa palestinese: il diritto dei rifugiati palestinesi alle proprie case nella Palestina storica.  

Pochi hanno dedicato attenzione al fatto che i rifugiati palestinesi, sparsi nei campi di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria e altri luoghi, sono parenti di primo grado dei palestinesi all’interno di Israele. Io ho parenti in campi profughi di Libano, Giordania e Siria. Nel 1992 incontrai per la prima volta un’allora settantanovenne zia che, insieme a una serie di altri familiari, era stata obbligata a scappare dal nostro villaggio nel 1948. Arrivò dal Libano dopo aver ottenuto un permesso israeliano per visitare i parenti. La sua visita ci provocò grande tristezza e pena, dopo che ci sorprese chiedendoci di cercare di sapere dalle autorità israeliane il luogo in cui si trovava il corpo di uno dei suoi tre figli, ucciso durante la brutale invasione israeliana del Libano nel 1982.

Quello che ci angosciò ulteriormente fu il suo desiderio di passare il resto della sua vita con noi, nel luogo in cui era nata e cresciuta – ma l’apartheid israeliana non l’avrebbe mai permesso, perché non era ebrea. Questa storia straziante non è che un simbolo delle sofferenze di milioni di rifugiati che stanno languendo in condizioni spaventose – comprese guerre – in attesa di tornare a casa da più di settant’anni.

La “Legge del Ritorno” israeliana concede il diritto solo agli ebrei, di qualunque parte del mondo, di immigrare, e in molti casi di vivere in case da cui questi rifugiati sono stati espulsi. Ogni conferenza o iniziativa internazionale di pace intesa a trovare una soluzione al problema palestinese ha ignorato questi diritti nazionali dei rifugiati, e persino la loro stessa esistenza.

La più deludente e frustrante tra queste furono gli accordi di Oslo del 1993, che li presero di sorpresa, insieme al resto del popolo palestinese – soprattutto i rifugiati.

Questa frustrazione derivava dall’approvazione da parte della dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) di escludere dall’accordo la comunità di 1.5 milioni di palestinesi sopravvissuti alla pulizia etnica del 1948 condotta dalle bande sioniste, e che da allora hanno vissuto sotto un sistema di discriminazioni, furto di terre, de-nazionalizzazione e altre forme di oppressione.

Aggiungere la beffa al danno

L’imminente “accordo del secolo” USA ha solo aggiunto la beffa al danno. Ma, contrariamente ad Oslo – che all’epoca sembrò a molti come una svolta fondamentale e un promettente percorso verso una vera pace – l’accordo di Trump è visto da molti palestinesi come un piano israelo-americano per liquidare definitivamente i diritti nazionali e politici di tutti i palestinesi, anche di quelli che vivono all’interno dei confini israeliani del 1948.

La cosa più umiliante riguardo a questo accordo è il modo in cui affronta come una questione economica la tragedia pluridecennale dei diritti umani dei palestinesi.

L’Arabia Saudita ha annunciato che agli uomini d’affari palestinesi con passaporto israeliano potrebbe essere concesso un permesso di residenza permanente nel regno: “Come parte di una tendenza al disgelo dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, il nuovo piano consentirà anche agli arabo-israeliani di lavorare in Arabia Saudita,” ha sottolineato un articolo sulla rivista economica israeliana “Globes”.

Questo annuncio ha sollevato tra i dirigenti politici e intellettuali palestinesi seri sospetti che si tratti di un passo nel costante processo di normalizzazione con il nemico e un mezzo per la promozione dell’“accordo del secolo” – un accordo già rifiutato ovunque dai palestinesi.

Questo approccio è in consonanza con la politica ufficiale israeliana, perseguita dal 1948, di domare e cooptare i palestinesi all’interno di Israele. Il recente cambiamento di atteggiamento dei media sauditi, degli Emirati e del Bahrain nei confronti di Israele mostra chiaramente una spinta per preparare l’opinione pubblica saudita alla normalizzazione con Israele.

Lotta contro l’apartheid        

Negli ultimi anni, dato che Israele ha virato ulteriormente verso l’estrema destra, il panorama geografico e politico della Palestina è diventato un’entità unica sottoposto a un unico sistema di separazione e colonialismo d’insediamento. Questa deriva di fatto del progetto colonialista contrasta con la soluzione dei due Stati sostenuta a livello internazionale.

Ora l’amministrazione Trump, attraverso l’imminente “accordo del secolo”, ha inflitto un colpo definitivo all’illusione dei due Stati. Sta legittimando la continua colonizzazione sionista di tutta la Palestina, aprendo la porta a ulteriori guerre e spargimenti di sangue.

Poiché una delle cause più serie al mondo dal punto di vista politico e umanitario viene ridotta dalla più grande potenza imperialista al mondo a un piano economico, ovunque i palestinesi – compresi quelli con la cittadinanza israeliana – si troveranno a dover affrontare una sfida enorme.

Devono cercare l’unità per ingaggiare una prolungata lotta per smantellare non solo l’assedio di Gaza, ma tutto il sistema dell’apartheid israeliana e sostituirlo con un’entità democratica ed egualitaria per tutti.

Voci che invocano l’unificazione della politica palestinese e movimenti di base su questa opzione stanno crescendo. Li ispira la lotta contro l’apartheid del Sud Africa.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Awad Abdelfattah

Awad Abdelfattah è un giornalista politico ed ex-segretario generale del partito Balad [partito arabo-israeliano antisionista e di sinistra, ndtr.]. È coordinatore della “Campagna per lo Stato unico democratico”, con sede ad Haifa, fondata alla fine del 2017.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Storie di sofferenza tragicamente normale a Gaza

Tania Hary

6 maggio 2019 +972

Ho ricevuto una mail da un uomo che mi chiedeva se avrei potuto aiutare lui e la sua famiglia a scappare da Gaza se fosse scoppiata una guerra. Sembra così ragionevole, finché non ti rendi conto che non ci sono precedenti di evacuazione di civili palestinesi in tempo di guerra.

Ieri un personaggio di Gaza popolare nei social media ha twittato che se avesse dovuto scegliere un film che assomigliasse di più alla vita nella Striscia sarebbe stato Groundhog’s Day [Ricomincio da capo]. Nella commedia del 1993 il protagonista è obbligato a rivivere in continuazione lo stesso giorno. Potrebbe sembrare un’osservazione superficiale, dato che ieri è stato il giorno più sanguinoso dello scontro tra Israele e Gaza dall’operazione militare del 2014 [“Margine protettivo”], con 27 palestinesi uccisi dalle forze israeliane e quattro cittadini israeliani uccisi dal lancio di razzi da Gaza. La morte, la distruzione e la fosca previsione di un’altra guerra vissuta da milioni di persone sono cose troppo dure per essere prese alla leggera.

  • La considerazione ovviamente riguardava qualcosa di molto più sinistro – una sensazione pervasiva di esserci già passati prima, di vedere lo stesso film. Ci alziamo, c’è un’escalation, persone (per lo più palestinesi) vengono uccise, un cessate il fuoco i cui dettagli non vengono mai del tutto resi noti entra in vigore proprio nel momento in cui pare che le cose possano scappare di mano, e poi un taglio, il film finisce.

Tuttavia, come hanno osservato giustamente molti analisti, gli accordi raggiunti in questi oscuri cessate il fuoco non sono stati posti in essere, spingendo quindi le fazioni palestinesi a prendere le armi e a rafforzare la propria posizione negoziale. Ci alziamo, c’è un’escalation, le persone (per lo più palestinesi) vengono uccise, ecc. ancora e ancora, si sa già la dinamica.

Anch’io sto guardando quel film, dalla mia prospettiva fuori dalla Striscia, per lo più dall’ufficio di Tel Aviv in cui lavoro come direttrice di un’organizzazione israeliana per i diritti umani che promuove la libertà di movimento per i palestinesi. Ma ovviamente non si tratta di un film, e le persone a Gaza stanno vivendo la vita reale – quando i media informano e quando non lo fanno.

Ieri ho sentito molte storie dai nostri amici, clienti, partner e altri contatti a Gaza. Non erano necessariamente le storie più drammatiche, non sono arrivate ai notiziari della notte. Erano le storie devastanti ma normali delle esperienze di vita di moltissime persone a Gaza. Erano le storie della normalità da “Groundhog Day” a Gaza.

Una mail con oggetto “Evacuazione in caso di guerra”, in cui un uomo chiedeva se “Gisha” [Ong israeliana per i diritti umani, ndtr.] potesse aiutare lui e la sua famiglia a scappare. Sembra così ragionevole, finché non ti rendi conto che non ci sono precedenti di evacuazione di civili palestinesi durante le ultime tre principali operazioni militari. Le uniche persone evacuate sono state alcune centinaia di possessori di passaporti stranieri e solo dopo che gli scontri erano finite.

Il nostro operatore sul campo a Gaza ha confidato di aver cercato di dire ai suoi figli che le esplosioni che sentivano non erano niente, o che erano lontane, e che non rappresentavano una minaccia, ma ha lamentato (quasi con orgoglio) che i suoi figli piccoli la sapevano troppo lunga per credergli.

Un giovane uomo di soli 29 anni, ci ha mandato foto, prima e dopo, del suo negozio di vestiti distrutto. Ha raccontato che aveva investito i risparmi della sua misera vita nel negozio e aveva ordinato vestiti per Eid-al-Fitr, la festa che segna la fine del Ramadan, quando la gente che può permetterselo si compra vestiti nuovi. Il negozio a piano terra era ridotto a un cumulo di macerie e tutte le merci erano rimaste distrutte in uno degli attacchi che hanno demolito l’intero edificio. Un attacco missilistico ha tolto il lavoro a lui e ai suoi due dipendenti e in una frazione di secondo lo ha precipitato nell’abisso di debiti insostenibili. Forse sono stati fortunati ad esserne usciti vivi, rendendo la loro storia praticamente insignificante. Non sono neanche riusciti a risultare nel macabro conteggio dei “loro” morti contro i “nostri” nei notiziari della sera.

Così tanti civili hanno pagato, stanno pagando e pagheranno il prezzo della follia di leader moralmente senza remore che ci precipitano in guerra, e poi all’improvviso ce ne allontanano. Non ci sono solo “due parti” in questa storia, ci sono molteplici modi in cui può finire e non tutti promettono guerra contro milioni di persone.

Siamo bloccati in un circolo vizioso non solo perché gli accordi di cessate il fuoco non vengono messi in pratica, ma perché Israele e molti dei suoi alleati rifiutano di comprendere che i civili rappresentano la grandissima maggioranza della popolazione della Striscia. Le loro vite e ogni aspetto della vita nella Striscia sono stati ridotti a merce di scambio – il limite della zona di pesca sarà di sei miglia o di dodici o di quindici o di nuovo di sei? La prossima stagione le fragole arriveranno in Cisgiordania? Riuscirai a vedere tuo padre malato in Cisgiordania?

Israele è il principale attore che decide se i palestinesi di Gaza vivranno o moriranno durante ogni determinata escalation, ma anche come vivranno tra una violenta escalation e l’altra – se il loro negozio otterrà i suoi prodotti, se riceveranno le cure di cui hanno bisogno, se possono pescare o coltivare la terra in sicurezza. Anche altri attori – Hamas, altre fazioni palestinesi, l’Autorità Nazionale Palestinese, l’Egitto, il Qatar e il resto della comunità internazionale – stanno giocando un ruolo.

Ma se Israele volesse uscire dal circolo vizioso potrebbe, in qualunque momento, compiere una serie di passi per cambiare rotta a Gaza e riconoscere le vite normali di civili normali che hanno il diritto di vivere – cioè, non solo sopravvivere, ma di prosperare. Le armi tacciono, per modo di dire, ma non è il momento di guardare altrove. Non si tratta di applicare o non applicare il cessate il fuoco, si tratta di spezzare la maledizione di ripetere in continuazione lo stesso copione.

Tania Hary è la direttrice esecutiva di Gisha – Centro Legale per la Libertà di Movimento.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Israele vieta a centinaia di cristiani palestinesi di viaggiare per Pasqua

Henriette Chacar

19 aprile 2019,  +972

Con una decisione senza precedenti le autorità israeliane hanno negate a centinaia di cristiani palestinesi il diritto di andare a Gerusalemme per le feste, bloccando nel contempo ogni movimento tra la Cisgiordania e Gaza.

Per le celebrazioni pasquali si attendono che vadano a Gerusalemme migliaia di pellegrini cristiani da tutto il mondo. Tuttavia per i cristiani palestinesi che vivono a non più di qualche ora dalla Città Santa i progetti per i giorni di festa sono condizionati dai capricci dell’esercito israeliano. Quest’anno, con una decisione senza precedenti, l’esercito sta negando a centinaia di palestinesi gli spostamenti e ha vietato ogni movimento tra la Cisgiordania e Gaza.

L’esercito israeliano ha limitato la quota di viaggi per le festività a 200 cristiani di Gaza che hanno più di 55 anni e solo per spostamenti fuori da Palestina/Israele. Solo 120 dei 1.100 cristiani di Gaza rispondono a questo requisito arbitrario. I palestinesi che stavano pianificando di visitare i luoghi santi o le proprie famiglie in Cisgiordania e in Israele, di per sé un’occasione rara, non potranno farlo.

Ho fatto richiesta per un permesso negli ultimi tre anni, ma senza alcun risultato,” dice Samir Abu Daoud, 65 anni, di Gaza, che ha un figlio e nipoti a Ramallah. Benché rispetti i criteri israeliani per viaggiare, sta ancora aspettando una risposta riguardo alla sua richiesta di un permesso.

Nonostante l’esercito abbia concesso una quota doppia per i palestinesi della Cisgiordania – a cui verrà permesso di recarsi in Israele e a Gerusalemme – ciò consente solo a circa l’1% della popolazione cristiana di viaggiare per la festività. Non possono visitare i parenti a Gaza.

L’imposizione di tali radicali restrizioni agli spostamenti non può essere giustificata da necessità legate alla sicurezza,” dice Miriam Marmur, una coordinatrice per i media di “Gisha”, un gruppo israeliano per i diritti umani che si concentra sulla libertà di movimento in entrata ed in uscita da Gaza. La decisione si basa su considerazioni politiche, aggiunge Marmur, e le restrizioni sono parte della politica israeliana di “separazione”, che intende accentuare la divisione tra comunità palestinesi geograficamente non collegate tra loro.

Israele sta sempre più restringendo gli spostamenti tra Gaza e la Cisgiordania in modo da approfondire la separazione tra palestinesi in parti del territorio palestinese occupato, e così facendo prosegue e legittima l’annessione della Cisgiordania,” ha scritto questa settimana Gisha in una comunicato.

Contattato per avere una spiegazione, il “Coordinator of Government Activities in the Territories” [il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori] dell’esercito israeliano (COGAT) – l’ente militare israeliano responsabile di amministrare l’occupazione e l’assedio di Gaza – ha rinviato la rivista +976 all’ufficio del primo ministro, che ha citato indicazioni relative alla sicurezza come la ragione della decisione.

Ci sono circa 400.000 cristiani palestinesi [sparsi]nel mondo, molti dei quali sono rifugiati che sono scappati o sono stati espulsi dalle forze israeliane durante la Nakba [la pulizia etnica che ha consentito la nascita di Israele, ndt.] del 1948 e ora vivono fuori dalla Palestina e da Israele. Circa 123.000 sono cittadini israeliani e 50.000 o poco più vivono nei territori palestinesi occupati.

Mentre ufficialmente Israele si è ritirato da Gaza nel 2005, ha sottoposto la Striscia a un rigido assedio, controllando molti aspetti della vita, compreso lo spostamento delle persone e dei prodotti. I palestinesi possono entrare ed uscire in uno dei due modi seguenti: attraverso il valico di Rafah con l’Egitto o quello di Erez con Israele. Fino a poco tempo fa l’Egitto ha aperto Rafah solo in modo intermittente e in marzo, per la prima volta dal dicembre 2014, ha consentito ai musulmani di Gaza di recarsi alla Mecca per il pellegrinaggio della Umrah attraverso Rafah.

Secondo “Gisha”, già lo scorso mese il COGAT ha ricevuto una lista di persone che desideravano lasciare Gaza per Pasqua. Tuttavia solo pochi giorni fa l’esercito ha annunciato il numero di persone – anche se non chi – a cui avrebbe consentito di viaggiare durante le festività, negando la possibilità di opporsi a questa decisione ricorrendo ai tribunali.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cinque ragioni per cui votare Netanyahu è stata una scelta razionale per gli ebrei israeliani

Haggai Matar

12 aprile 2019 + 972

Sì, Netanyahu è indagato per corruzione e sta praticamente annettendo la Cisgiordania. Ma per molti ebrei israeliani, ha anche fornito una relativa sicurezza, un’economia migliore e una crescente legittimazione internazionale – il che ha reso l’ignota alternativa molto peggiore.

Martedì Benjamin Netanyahu ha vinto la sua quinta campagna elettorale, ciò che ha fatto di lui il primo ministro israeliano più longevo. La maggior parte dei cittadini israeliani e la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani preferiscono continuare con le stesse identiche politiche che il Likud ha praticato negli ultimi dieci anni. Questi elettori hanno respinto la maggior parte dei partiti estremisti e fondamentalisti che chiedono l’annessione formale; hanno trasformato la sinistra sionista in una minoranza insignificante nella Knesset, e hanno mantenuto Netanyahu al potere, nonostante le numerose accuse di corruzione politica che sta affrontando.

Perché l’hanno fatto? Perché le persone votano per qualcuno che sostiene con orgoglio odio e razzismo? Per un leader che incrementa le politiche di apartheid e l’occupazione mentre procede con l’annessione parziale e attacca ripetutamente istituzioni democratiche come i tribunali, la stampa libera e la società civile? Perché tollerano la corruzione politica?

In realtà, ci sono alcuni buoni motivi. Questo non è un tentativo di giustificare la vittoria o le politiche di Netanyahu, ma piuttosto di offrire un’analisi delle considerazioni di cui gli ebrei israeliani hanno probabilmente tenuto conto nell’interpretare la realtà politica e nel percepire i rischi da affrontare.

1. Sicurezza: i numeri dicono tutto. Secondo B’Tselem, dall’inizio della seconda Intifada alla fine del 2000 e la fine della guerra a Gaza nel 2009,1072 israeliani sono stati uccisi dai palestinesi, e 6.303 palestinesi dagli israeliani. Netanyahu è entrato in carica poco dopo la fine della guerra di Gaza del 2009. Nei dieci anni successivi, 195 israeliani sono stati uccisi dai palestinesi e 3.485 palestinesi sono stati uccisi dagli israeliani, in particolare durante l’assalto israeliano del 2014 a Gaza.

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Negli ultimi dieci anni non ci sono state guerre con il Libano, la guerra civile siriana non è filtrata attraverso il confine israeliano e gli attacchi israeliani contro obiettivi iraniani in Siria sono rimasti generalmente senza risposta. Netanyahu è stato in grado di gestire l’occupazione e l’assedio a Gaza, così come il fronte siriano-iraniano, in modo che costassero molte meno vite israeliane rispetto al decennio precedente – cosa che gli israeliani ricordano bene. Agli inizi degli anni 2000, i civili israeliani si trovavano di fronte alle conseguenze dell’occupazione in Israele, attraverso attacchi suicidi e missili. Sotto Netanyahu, l’occupazione passa per lo più inosservata agli ebrei israeliani, e tutti i costi sono sostenuti principalmente dai coloni nei territori occupati. Gli israeliani ne sono ben consapevoli e apprezzano questo senso relativamente maggiore di sicurezza.

2. Economia: di nuovo, lasciamo parlare i numeri. Negli ultimi 10 anni di governo del Likud, il salario minimo di base in Israele è salito di oltre il 45%. È vero, questo è avvenuto grazie ai sindacati e alle pressioni della sinistra piuttosto che alle politiche economiche neo-liberiste di Netanyahu. Ma dal punto di vista della retribuzione minima media israeliana, è facile attribuire questo cambiamento a Netanyahu. Nel frattempo, la disoccupazione è al punto più basso degli ultimi decenni, la disuguaglianza è in calo da due anni consecutivi e la crescita del PIL è quasi del 30% superiore alla media OCSE.

Sì, ci sono comunque molti aspetti negativi. Con l’aumento dei prezzi delle case, sta diventando quasi impossibile comprare un appartamento in Israele, dove c’è anche il più alto tasso di povertà e il maggior divario sociale fra i paesi dell’OCSE. La percentuale di lavoratori che vivono in povertà, senza riuscire a sbarcare il lunario, è in aumento, mentre la spesa sociale e gli investimenti nei servizi sono a un livello risibile. Anche i trasporti pubblici, il sistema educativo e l’assistenza sanitaria sono in crisi.

E però la gente vede anche le crisi economiche e l’austerità degli altri Paesi, e prova un senso di sollievo per il fatto che a Israele siano state risparmiate simili difficoltà. Di più, le due comunità più gravemente colpite dalla povertà sono i cittadini palestinesi di Israele (i palestinesi nei territori occupati non sono nemmeno contati nelle statistiche ufficiali) e gli ultra-ortodossi. Entrambe le comunità votano per i propri partiti settoriali (gli ultimi danno costantemente sostegno a Netanyahu) e sono per lo più ignorati dal resto della società israeliana. Come ha detto una volta Netanyahu, “non tenendo conto degli arabi e degli ultra-ortodossi, stiamo andando alla grande.” Israele ha ottenuto, anno dopo anno, un punteggio estremamente alto anche nel World Happiness Index (indice mondiale della felicità).

3. Relazioni estere: Probabilmente la rivendicazione di successo più cara a Netanyahu è la rete globale di alleanze che ha sviluppato; i suoi forti legami con alcuni leader, dall’indiano Modi al brasiliano Bolsonaro; la sua capacità di turbare l’UE dall’interno e azzopparne la posizione sull’occupazione allineandosi a governanti autoritari dell’Europa orientale come l’ungherese Orban; la graduale normalizzazione con gli Stati arabi, dall’Oman all’Arabia Saudita e, naturalmente, la sua stretta amicizia con Putin e Trump. Nel periodo che ha preceduto il giorno delle elezioni, entrambi i leader hanno conferito a Netanyahu i “doni” tanto attesi, come dichiarazioni di sostegno per la sua quinta candidatura.

Si aggiunga il ruolo di Netanyahu nell’abolizione dell’accordo nucleare iraniano, nelle ambasciate che si spostano a Gerusalemme, nella crescente legittimazione in tutto il mondo per lo stile di governo quasi-autoritario di Netanyahu e il concorso Eurovision che arriva a Tel Aviv dopo un record di 4,1 milioni di turisti nel 2018 e si inizia davvero a capire. Gli israeliani sono sicuramente impressionati.

È importante sottolineare che tutto questo accade in un momento in cui Israele continua a commettere crimini di guerra nei territori occupati, uccide centinaia di manifestanti disarmati a Gaza dove mantiene un brutale assedio, procede con la graduale annessione in Cisgiordania, approva la legge dello Stato-nazione ebraico e discrimina i propri cittadini palestinesi, e non fa alcuno sforzo per procedere verso la pace. Il vecchio argomento secondo cui solo la pace offrirebbe sicurezza e legittimità internazionale è volato via col vento.

4. Paura: si potrebbe obiettare che la paura non ha posto in una lista di ragioni razionali per sostenere Netanyahu, ma la paura è un sentimento potente e una forza importante nel processo delle decisioni politiche. Che è, nel contesto locale, parzialmente irrazionale. Ad esempio, la costante demonizzazione di Netanyahu dei cittadini palestinesi in Israele, la sua delegittimazione della sinistra, dei media e del sistema di giustizia contro i crimini e la sua rappresentazione dell’Iran e del trattato con l’Iran come imminenti minacce all’esistenza di Israele sono tutte basate su menzogne. Propugnano il razzismo, il sentimento anti-islamico locale e globale e fomentano la paura.

Tuttavia, Netanyahu ha il merito di identificare i pericoli che Israele affronta, siano essi reali o immaginari, in una regione seriamente destabilizzata dal 2011. Ancor di più, la paura tra gli ebrei israeliani, che la soluzione sia dei due Stati che di un solo Stato (o qualsiasi altra via di mezzo) significherebbe rinunciare almeno ad un certo grado di potere, privilegi e supremazia ebraici, è del tutto giustificata. Una vera uguaglianza per tutti coloro che vivono tra il fiume Giordano e il mare implicherebbe probabilmente una completa revisione dell’attuale regime, e susciterebbe profonde divisioni tra gli ebrei israeliani. La pace richiederebbe a Israele di pagare un prezzo – non lo status quo. Rimanere con ciò che abbiamo per paura dell’ignoto è, quindi, una scelta razionale.

5. Mancanza di un’alternativa: guardando alle recenti elezioni, pochissimi partiti hanno offerto qualcosa di significativamente diverso da Netanyahu sulle questioni suddette. Ad eccezione di Meretz, Hadash e dei partiti arabi (tutti demonizzati da Netanyahu e mai difesi dal suo sfidante, Gantz), nessuno parlava di pace sostenibile o di qualsiasi tipo di risoluzione del “conflitto”, cioè l’occupazione, l’apartheid e l’assedio. Molto poco è stato proposto nei termini di una visione alternativa nella finanza, nel sociale o nelle relazioni diplomatiche.

Quindi, se le persone godono di una relativa sicurezza, di un’economia in piena espansione, di legittimità internazionale – e tutto a costo zero – a chi importa se il primo ministro presumibilmente riceve illecite mazzette da un amico o sta pian piano riscrivendo la storia dell’Olocausto?,

(traduzione di Luciana Galliano)