Il valico di Rafah e l’angosciosa procedura per i palestinesi di Gaza

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni a causa dei periodici controlli e delle ripetute perquisizioni dei bagagli. “I funzionari egiziani non dimostrano nessun rispetto, neppure per i malati o gli anziani.”

Motasem A. Dalloul

24 agosto 2021 – Monitor de Oriente

 

Il giovane Ayman Adly si è laureato in farmacia all’università Al Azhar di Gaza nel 2009. Dato l’alto tasso di disoccupazione provocato dall’assedio e dalle ripetute offensive militari lanciate contro l’enclave costiera da parte di Israele, non ha potuto trovare lavoro.

“Mi sono connesso a internet ed ho seguito decine di account di reti social e pagine specializzate nel mettere in contatto chi cerca un impiego con datori di lavoro all’estero,” mi dice. “Non c’è voluto molto perché fossi preselezionato per un colloquio. L’azienda mi ha chiesto se potevo lavorare negli Emirati Arabi Uniti (EAU) e ho detto di sì. Lì sono iniziate le difficoltà.”

L’ostacolo successivo è stato il valico di Rafah, dal 2007 [data d’inizio dell’assedio israeliano, ndtr.] l’unica uscita verso il resto del mondo per la maggioranza dei palestinesi della Striscia di Gaza. Per utilizzarlo aveva bisogno di un passaporto, per cui ha raccolto come dovuto tutta la documentazione richiesta ed ha presentato domanda. L’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah  ci ha messo due mesi a rilasciargli il passaporto.

“Mi è stato rilasciato nel 2009 ed è scaduto nel 2014,” dice. “Il secondo è stato rilasciato in due settimane nel 2015 ed è scaduto nel 2020.” Ne ha subito chiesto un terzo e l’ha ottenuto in una settimana. Quindi Adly ha avuto tre passaporti, e non ne ha utilizzato nessuno per viaggiare.

“Con in mano il primo passaporto sono andato al valico di Rafah e, dopo aver passato sul lato egiziano circa 20 ore in una sala per immigrati strapiena di gente, un impiegato mi ha chiamato per nome, mi ha restituito il passaporto e mi ha detto che il mio nome era sulla lista nera e che avevo il divieto di ingresso o di passaggio in Egitto.”

Con quella breve frase l’impiegato egiziano ha spezzato le speranze di Adly di arrivare al suo nuovo lavoro negli EAU. Continuerà a provarci, dice, ma ci vorrà molta pazienza.

Secondo il ministero degli Interni palestinese a Gaza c’è un elenco di più di 27.000 persone che devono viaggiare passando per il valico di Rafah. Le autorità egiziane consentono il passaggio solo a 350 persone attraverso la stanza normale e a circa 100 da quella VIP al giorno quando il valico è aperto (ci sono frequenti chiusure). Quelli che devono viaggiare ci mettono mesi per passare da Rafah.

“Il numero di persone che vogliono viaggiare aumenta costantemente,” spiega Iyad Al-Bozom, portavoce del ministero dell’Interno [di Gaza, ndtr.]. “Abbiamo chiesto agli egiziani di aumentare la quota giornaliera di persone che possono passare.” La richiesta è ovviamente caduta nel nulla.

Cinque anni fa l’esercito egiziano ha creato l’impresa Ya Hala per il turismo e i viaggi. Organizza viaggi VIP per i palestinesi di Gaza che possono pagare. All’inizio lavorava dietro le quinte. Dopo le proteste della Grande Marcia del Ritorno del 2018 e gli accordi raggiunti tra Israele, Egitto e i gruppi della resistenza palestinese a Gaza, il valico è rimasto aperto regolarmente e questa impresa ha iniziato a lavorare alla luce del sole.

Si è accordata con agenzie di viaggio di Gaza che hanno cominciato a promuovere i suoi servizi. Le autorità egiziane hanno costruito una sala immigrazione speciale per i suoi clienti.

Hatem, che non ha voluto fornire il suo cognome, è un agente di un’agenzia di viaggi e turismo con sede a Gaza. “Registriamo da 100 a 150 passeggeri VIP al giorno,” dice. “Facciamo controlli di sicurezza a ognuno di loro per 100 dollari. Se la persona non è sulla lista nera pagherà tra i 400 e i 500 dollari per passare sul lato egiziano del valico e per un taxi fino al Cairo.”

Questi VIP non subiscono ulteriori controlli di sicurezza e i taxi li portano dal confine direttamente al Cairo. Non si fermano a nessuno dei controlli militari e i loro bagagli non vengono controllati. Il viaggio al Cairo dura solo 6 ore, al massimo 7 o 8. “Tutti i soldi che facciamo pagare vanno a finire a imprese egiziane, sicuramente controllate dall’esercito,” sottolinea Hatem. “Noi riceviamo solo qualche provvigione.”

Tuttavia la gente come Ayman Adly non ha denaro sufficiente per pagare così tanto e passare da Rafah come VIP. Lui e quelli come lui possono aspettare anni prima di viaggiare.

Quelli che arrivano alla sala immigrazione egiziana possono aspettare molto tempo: le 20 ore di Adly non sono rare. I servizi della sicurezza nazionale egiziana interrogano molti sulla loro appartenenza politica e sulle attività politiche e religiose.

Sameer Abu Jazar è appena tornato a Gaza dal Qatar. Descrive il suo viaggio dal Cairo a Gaza come “la via verso l’inferno”. Tutti i viaggiatori che non sono VIP devono sopportare il sole ardente per 12 ore nel posto di controllo di Al-Faradan, nei pressi del Canale di Suez.

“Le forze di sicurezza egiziane controllano i bagagli dei palestinesi e confiscano quasi tutti gli apparecchi elettronici, compresi i computer portatili e i telefonini,” spiega Abu Jazar. “Lasciano solo un telefono a viaggiatore e a volte nessun computer portatile. Confiscano profumi e molte altre cose. A volte anche cibo.”

Ha aspettato con altre centinaia di persone dalle 6 del mattino fino alle 10 di notte all’aperto. Non c’è un posto in cui proteggersi e i servizi sono scarsi. “Non ci sono gabinetti. Se hai bisogno ti devi allontanare, trovare un posto un po’ appartate e farla lì.”

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni, a causa dei controlli regolari e delle continue perquisizioni del bagaglio. “I funzionari egiziani non dimostrano alcun rispetto, neppure per malati o anziani,” afferma Abu Jazar.

Ciò è quanto aspetta i palestinesi che vogliono viaggiare da Gaza attraverso il valico di Rafah. È un percorso doloroso, che però devono sopportare se sperano di ottenere un volo che li porti al luogo di studio, di cura o a un nuovo lavoro.

“Se avessi un’alternativa per tornare a Gaza l’avrei presa,” conclude Abu Jazar. “Qualunque cosa dev’essere meglio del modo infernale in cui ci trattano gli egiziani. Qualunque cosa.”

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 

 




Rapporto OCHA del periodo 11 – 24 agosto 2020

In Cisgiordania in due distinti episodi, due palestinesi, uno di essi minore, sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane; altri tre sono rimasti feriti

Il 17 agosto, a una delle porte che conducono alla moschea di Al Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme, forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese 30enne che aveva accoltellato e ferito un ufficiale della polizia di frontiera. In seguito all’accaduto, le forze israeliane hanno limitato i movimenti all’interno della Città Vecchia; secondo fonti mediche palestinesi, tale provvedimento ha impedito loro di raggiungere l’area in cui era stato colpito l’aggressore. Anche una donna, passante palestinese, è rimasta ferita da un proiettile vagante. Il 19 agosto, a Deir abu Mash’al (Ramallah), nel secondo episodio [dei due sopra citati], un 16enne palestinese è stato ucciso ed altri due minori sono stati feriti. Le circostanze in cui il ragazzo è stato ucciso rimangono poco chiare, nondimeno fonti militari israeliane hanno asserito che i minori erano in procinto di lanciare bottiglie incendiarie e che i soldati hanno sparato quando li hanno visti sistemare a terra dei pneumatici, con l’intento di incendiarli. Secondo testimoni oculari palestinesi, nell’area non ci sono stati scontri, né incendio di pneumatici. Al momento della pubblicazione di questo Rapporto, entrambi i corpi dei palestinesi uccisi sono ancora trattenuti dalle forze israeliane. I due decessi portano a 19 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania, dall’inizio dell’anno.

Le intensificate ostilità nella Striscia di Gaza e nel sud di Israele hanno causato il ferimento di 12 palestinesi e 6 israeliani. Le tensioni sono aumentate a partire dal 12 agosto, quando palestinesi hanno lanciato palloni igniferi da Gaza verso Israele, provocando l’incendio, secondo fonti israeliane, di terreni agricoli nel sud di Israele. Gruppi armati palestinesi hanno anche lanciato una serie di razzi contro Israele: benché alcuni siano stati intercettati dal sistema di difesa “Cupola di Ferro”, sei israeliani sono rimasti feriti e proprietà sono state danneggiate. Successivamente, le forze israeliane hanno colpito diverse aree aperte e postazioni militari [di Gaza] appartenenti a gruppi armati, provocando il ferimento di quattro minori e una donna, oltre a danni ai siti presi di mira ed a proprietà civili adiacenti, comprese almeno nove abitazioni ed una scuola. Inoltre, un palestinese è stato ferito dalle schegge di un razzo [palestinese] ed altre sei persone sono rimaste ferite vicino alla recinzione, in scontri con forze israeliane. Le autorità israeliane hanno anche bloccato l’ingresso in Gaza della maggior parte delle merci, compreso il carburante che transitava dal valico di Kerem Shalom, ed hanno ridotto l’area di pesca consentita lungo la costa di Gaza, inizialmente ad otto miglia nautiche e, successivamente, a zero. Il blocco dell’ingresso di carburante ha causato, il 18 agosto, la chiusura completa della Centrale Elettrica di Gaza, determinando interruzioni di corrente fino a 20 ore al giorno in tutta Gaza, con ripercussioni sulla fornitura dei servizi di base.

In Cisgiordania, in molteplici episodi e scontri, le forze israeliane hanno ferito 81 palestinesi [seguono dettagli]. La maggior parte (45) dei feriti si sono avuti nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), durante una dimostrazione svolta nel corso di un evento pubblico di protesta contro l’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele, annunciato il 13 agosto. Inoltre, a Gerusalemme Est, forze israeliane intervenute a disperdere un raduno all’ingresso dell’ospedale Al Maqased, nel quartiere di At Tur, hanno sparato lacrimogeni e bombe assordanti all’interno del complesso ospedaliero, provocando lesioni a 20 palestinesi appartenenti al personale medico dell’ospedale. In un episodio separato, forze israeliane hanno fatto irruzione nel medesimo ospedale per arrestare un palestinese ferito in uno scontro avvenuto durante una demolizione (vedi di seguito, al quinto paragrafo). Nei governatorati di Tulkarm, Qalqiliya e Jenin, altri dieci palestinesi sono rimasti feriti mentre tentavano di oltrepassare la Barriera attraverso varchi non autorizzati. Altri quattro palestinesi sono rimasti feriti durante altrettante operazioni di ricerca-arresto condotte nei governatorati di Tulkarm e Ramallah e a Gerusalemme Est; in Cisgiordania durante il periodo in esame sono state effettuate 153 operazioni di questo tipo. Inoltre, un palestinese è stato ferito dall’esplosione di un ordigno; questo si trovava all’interno di una scatola collocata nei pressi dell’area dove si svolgono le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed è esploso al contatto. Si tratta di uno dei tre dispositivi trovati lungo il percorso delle manifestazioni e vicino a un parco pubblico: secondo media israeliani sarebbero stati collocati dalle forze israeliane. Un palestinese è stato ferito vicino alla città di Betlemme, a quanto riferito, dopo aver lanciato una bottiglia incendiaria; ed un altro al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), perché sospettato di avere indosso un coltello. In quest’ultimo caso, l’uomo soffriva di problemi di udito e quindi potrebbe non aver sentito l’alt dei soldati; fonti di media israeliani hanno in seguito riferito che l’uomo non aveva con sé alcun coltello. Degli 81 feriti, dieci sono stati colpiti da armi da fuoco, nove da proiettili rivestiti di gomma, due sono stati aggrediti fisicamente; i rimanenti hanno dovuto essere curati per inalazione di gas lacrimogeno.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, in almeno 26 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, provocando il ferimento di un pescatore, danni a una barca e la perdita di reti da pesca. In una occasione, le forze israeliane sono entrate a Gaza, a nord di Beit-Lahiya, ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, 25 strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate, sfollando 32 palestinesi e creando ripercussioni di diversa entità su altri 160 circa [seguono dettagli]. Quindici di queste strutture sono state demolite in otto Comunità dell’Area C, comprese due nelle Comunità di Mughayyir al Abeed e Al Fakheit (entrambe a Hebron), che si trovano in “aree chiuse” dai militari per consentire l’addestramento dell’esercito israeliano; le strutture in questione erano tutte correlate al sostentamento, tranne due. Altre sei strutture di sostentamento sono state demolite nell’Area C di Al ‘Isawiya (Gerusalemme). Il resto delle strutture si trovava a Gerusalemme Est, compreso un edificio residenziale in costruzione nel quartiere di Jabal al Mukkabir; in questo caso si sono avuti scontri e un ferito [vedi sopra, al terzo paragrafo]. Cinque delle strutture di Gerusalemme Est sono state demolite dai proprietari, costretti a farlo per evitare multe. Finora, quest’anno, circa la metà di tutte le demolizioni a Gerusalemme Est (118) sono state effettuate dai proprietari, a seguito dell’emissione di ordini di demolizione da parte delle autorità israeliane.

Un palestinese è stato ferito e 650 alberi e alberelli e altre proprietà palestinesi sono stati vandalizzate da aggressori ritenuti coloni [segue dettaglio]. In un caso, a Huwwara (Nablus), coloni hanno ferito con pietre un lavoratore palestinese impegnato in un progetto di censimento di terreni. In altri quattro casi, coloni hanno sradicato 400 piantine di ulivo e mandorlo ad ‘Asira ash Shamaliya e sei piantine di vite a Qaryut (entrambi a Nablus); hanno abbattuto 244 ulivi a Khirbet at Tawamin (Hebron); hanno danneggiato 1,6 ettari coltivati a grano e orzo, pascolando le loro pecore su terreni prossimi al villaggio di Sa’ir (Hebron). Inoltre, coloni hanno danneggiato sette auto nel villaggio di Yasuf (Salfit) e una cava vicino al villaggio di Urif (Nablus), dove hanno anche imbrattato muri con graffiti mentre lanciavano pietre contro le auto [palestinesi] in transito in vicinanza degli insediamenti colonici di Yitzhar (Nablus) e Kiryat Arba’ (Hebron). Gli altri due episodi si sono verificati ad At Tuwani e nell’area H2 della città di Hebron, dove gli aggressori, ritenuti coloni, hanno danneggiato un rifugio per animali e recinzioni, ed hanno rubato proprietà. Infine, durante il periodo di riferimento di questo Rapporto, è morto un palestinese 21enne: a quanto riferito era stato investito da un veicolo guidato da un colono nei pressi del checkpoint di Kafriat, a sud di Tulkarm, mentre stava attraversando la strada 557 sul lato israeliano della Barriera (non incluso nel totale riportato sopra).

Secondo fonti israeliane, una ragazza israeliana è rimasta ferita e 17 veicoli sono stati danneggiati da pietre lanciate da palestinesi contro veicoli israeliani in transito su strade della Cisgiordania.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 26 agosto, nella città israeliana di Petah Tikva, un civile israeliano è stato pugnalato mortalmente; la polizia ha arrestato un palestinese sospettato dell’aggressione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Primo anniversario Grande Marcia del Ritorno a Gaza

Mentre la Grande Marcia del Ritorno di Gaza si avvicina al primo anniversario, l’iniziatore delle proteste, Ahmed Abu Artema, discute della costruzione di un movimento non violento

 

MondoWeiss

Allison Deger – 22 marzo 2019

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Tutto è iniziato a causa di un uccello. Ahmed Abu Artema, l’improbabile leader del più ampio movimento palestinese da decenni, un pomeriggio di febbraio dello scorso anno camminava a grandi passi lungo la barriera di separazione che divide la sua casa nella Striscia di Gaza da Israele. Al crepuscolo ha visto uccelli volare nel cielo, attraversare la barriera “e nessuno li fermava”.

È stato un momento di assoluta chiarezza. Ahmed era fisicamente intrappolato dentro un territorio non statale assediato, e nello stesso luogo c’era uno stormo di uccelli più libero di lui.

“Perché complichiamo questioni semplici? Una persona non ha il diritto di muoversi liberamente come un uccello?” si è chiesto. Guardando di nuovo la barriera, frustrato ha pensato: “Mi tarpa le ali,” “Uccide i miei sogni” e “interrompe le mie camminate serali.”

“E se uno di noi- palestinesi di Gaza – vedesse se stesso come un uccello e decidesse di arrivare fino a un albero dall’altra parte della barriera?” Ahmed ha supposto: “Se quell’uccello fosse palestinese, gli sparerebbero.”

Più tardi quella notte Ahmed ha postato su Facebook un messaggio che è diventato virale in cui chiedeva ai palestinesi di marciare verso la barriera con l’obiettivo di accamparsi a pochi chilometri dall’altra parte della barriera, un vero diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi che non possono più aspettare una soluzione dal moribondo processo di pace. Pochi mesi dopo, il 30 marzo 2018, la festa palestinese del Giorno della Terra, generalmente celebrata con manifestazioni, ha segnato l’inizio della prospettiva di Ahmed.

Denominate la Grande Marcia del Ritorno, le proteste da allora sono continuate ogni venerdì, a volte con decine di migliaia di partecipanti. Negli ultimi mesi ad intermittenza un piccolo gruppo di israeliani si è unito a loro dall’altra parte della zona cuscinetto.

“L’idea si è talmente diffusa da essere diventata nella Striscia di Gaza un movimento sociale,” mi ha detto questa settimana Ahmen durante una camminata in giro per monumenti a Washington in un tranquillo pomeriggio di primavera. Aveva una spilla con la bandiera palestinese appuntata sulla sua elegante camicia. Al mattino aveva parlato al “Carnegie Endowement for International Peace” [fondazione Carnagie per la Pace Internazionale, centro di ricerca per la pace mondiale, ndt.] nel contesto di un giro di tre settimane organizzato dall’ “American Friends Service Committee” [Comitato del Servizio degli Amici Americani, associazione religiosa quacchera che si impegna per la pace e la convivenza, ndt.]. Le sue osservazioni in questo articolo sono tratte sia dal suo discorso ufficiale che dalla conversazione con me che ne è seguita.

A 34 anni è un padre occhialuto, affabile eppure metodico, di quattro bambini con meno di 8 anni, con qualche capello grigio. È stato negli USA per circa due mesi ed è ancora stupito di alcuni degli aspetti della vita fuori dall’assedio che Gaza sta subendo nell’ultimo decennio. Il suono degli aeroplani, in particolare. “Quando senti un aereo, è un segno di vita, ma a Gaza è un segno di morte,” dice.

Ahmed aveva viaggiato all’estero solo una volta prima d’ora, un breve soggiorno in Egitto. Questo è il suo primo viaggio da adulto da qualche parte e la prima occasione in cui è stato lontano dalle proteste del venerdì. “L’ho scritto come un sogno, poi sono andato a dormire,” dice. “Non è stato il mio potere come individuo che ha fatto diffondere l’idea.”

Non c’è un confine internazionale che delimita Gaza. È stretta dalla linea armistiziale della guerra arabo-israeliana del 1948, rafforzata dopo la guerra del giugno 1967. Una zona cuscinetto si estende lungo la frontiera orientale, ed è profonda circa un chilometro. Dentro Gaza il filo spinato e la rete metallica sono visibili dalla principale autostrada che in un altro contesto sarebbe chiamata una strada di campagna. Via Saladino, che prende il nome dal fondatore del califfato degli Ayyubidi, che inaugurarono un periodo di prosperità economica in buona parte del Medio Oriente, può essere percorsa in auto in soli 30 minuti, senza andare in fretta.

In questa strada, “se tu guardi alla tua destra puoi vedere la barriera di filo spinato,” dice Ahmed, e alla tua sinistra una flotta navale israeliana nel mar Mediterraneo.

“Immagina di essere confinato in un simile spazio,” e nello stesso momento circondato dai 2,2 milioni di abitanti di Gaza, dei quali due terzi sono rifugiati originari di terre all’interno di Israele, aggiunge Ahmed.

Dal punto di vista funzionale Gaza continua ad essere un non Stato, quasi un’aberrazione storica in cui un’enclave dell’impero ottomano e in seguito del mandato britannico non ha mai conquistato l’indipendenza come Stato palestinese durante la colonizzazione di tutto il Medio Oriente che fece seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Durante gli accordi di pace di Oslo venne promesso uno Stato, ma deve ancora essere realizzato. In base alle leggi internazionali sarebbe la parte occidentale del frammentato territorio palestinese occupato. Eppure per i suoi abitanti più vecchi la Striscia è stata soggetta a un turbinio di poteri stranieri senza che se ne veda la fine. Un ottantenne palestinese ha vissuto sotto il controllo britannico, giordano ed ora israeliano. Benché i coloni e i soldati israeliani se ne siano andati da Gaza durante il disimpegno del 2005, originato da un precedente accordo di pace, Israele controlla ancora tutti i posti di blocco dentro e fuori Gaza tranne uno, e ha giurisdizione su cielo e mare.

Durante l’ultimo decennio e mezzo Gaza è stata governata dal movimento islamico Hamas. In questo periodo Gaza non solo è stata fisicamente separata dalla Cisgiordania, ma sempre più isolata politicamente da Ramallah dopo che il governo si è diviso nel 2006, pochi mesi prima che iniziasse l’assedio israeliano e un anno dopo le elezioni palestinesi, le ultime a parte le elezioni comunali. Da allora l’Autorità Nazionale Palestinese con sede in Cisgiordania ha intavolato negoziati di pace con Israele con la mediazione degli USA, promossi direttamente da John Kerry e ora dal presidente Donald Trump, con il destino di Gaza spesso messo in secondo piano.

Da quando lo scorso anno Trump ha dichiarato Israele come capitale di Gerusalemme, secondo Ahmed c’è stato un punto di svolta per i suoi amici e per lui. Da quel momento egli non conosce più nessuno che veda gli USA come un mediatore imparziale del processo di pace. “Sappiamo ovviamente che storicamente le amministrazioni americane sono state vicine ad Israele,” dice Ahmed. “La nostra esperienza non ci lasciava alcuno spazio per fidarci dell’amministrazione USA, ma Trump è l’esempio più estremo.”

Trump, dice Ahmed, è stato la ragione per cui i palestinesi si sono sentiti spinti ai margini. Protestare vicino alla barriera con Israele è sempre stato considerato da tutti come pericoloso. “Con le sue politiche che influenzano Israele ha provocato l’incendio. Le persone hanno sentito che i propri diritti fondamentali erano in pericolo.”

L’ONU dice che nelle manifestazioni iniziate lo scorso marzo le forze israeliane hanno ucciso 260 palestinesi, e ne hanno feriti più di 26.000, circa 7.000 dei quali sono stati colpiti da proiettili veri. Durante le proteste nei pressi della barriera i palestinesi hanno ucciso due soldati israeliani e ne hanno feriti quattro.

In passato Ahmed ha cercato di organizzare a Gaza un movimento nonviolento che facesse breccia negli sbarramenti con Israele. Il momento in cui ci è arrivato più vicino è stato quando aiutò a organizzare una manifestazione nel maggio 2011 in cui rifugiati palestinesi in Libano e in Siria si riunirono a migliaia sui confini con Israele e a decine entrarono in Israele. “The Guardian” [giornale inglese di centro sinistra, ndt.] all’epoca informò che le forze israeliane ne avevano uccisi 13 sul fronte settentrionale e feriti 60 a Gaza con proiettili veri. Contemporaneamente nella regione hanno avuto luogo cambiamenti drammatici.

“Quando sono iniziate le primavera arabe, soprattutto dopo la caduta di Hosni Mubarak (in Egitto), ci siamo sentiti ispirati,” dice Ahmed.

Infatti, mentre si stava svolgendo un’insurrezione in piazza Tahrir, giovani chiusi nei caffè a Gaza e Ramallah e scoraggiati come Ahmed hanno tentato una rivoluzione palestinese di quel genere. La “Coalizione della marcia del 15”, a volte chiamata Hirak Shababi [“Il movimento dei giovani”, che ha partecipato alle proteste contro la politica economica del governo giordano, ndt.], ha galvanizzato i giovani palestinesi in Cisgiordania e a Gaza per chiedere la riconciliazione tra Fatah, con base in Cisgiordania, e Gaza, governata da Hamas. È stato il primo movimento sociale dell’epoca di twitter, e il primo episodio di intenso attivismo che prendeva di mira la loro stessa dirigenza. Ma la dissidenza ha avuto vita breve, contrassegnata da divisioni interne e repressione brutale. Dopo due anni il nuovo movimento dei giovani è finito in niente.

“Avevano dei limiti politici,” dice delle proteste precedenti, “non c’era una posizione chiara riguardo alle divisioni politiche e a quale fosse la causa scatenante.”

“Hamas diceva di essere contro la divisione, Fatah diceva di essere contro la divisione. Che senso ha quando tutti dicono la stessa cosa?” Per Ahmed, il suo obiettivo aveva bisogno di un linguaggio semplice: “Vogliamo tornare alle nostre case e siamo rifugiati.”

Ahmed è ben conscio del fatto che grandi zone in cui una volta si trovavano i villaggi palestinesi in Israele distrutti nella guerra del 1948 non sono mai state economicamente sfruttate. Attivisti del gruppo israeliano “Zochrot” e urbanisti dell’organizzazione palestinese “Badil” hanno suggerito la possibilità di utilizzare le riserve naturali di Israele come luoghi per il reinsediamento dei palestinesi. Però in Israele c’è uno scarso appoggio a questa idea, tranne che da parte di qualche centinaio di persone di estrema sinistra, e questa causa non è mai stata abbracciata da alcun partito politico, compresi i partiti arabi in Israele.

Un precedente negoziato di pace tra l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Mahmoud Abbas sarebbe fallito in parte sul numero di palestinesi a cui consentire eventualmente di tornare in Israele. Olmert ne aveva accettati 5.000 e il presidente George W. Bush, che sovrintendeva ai colloqui, offrì di concedere 100.000 cittadinanze USA nel contesto di una soluzione dei due Stati. Per i palestinesi questi numeri erano bassi in modo offensivo. I rifugiati palestinesi sono più di 7 milioni.

“Se il mondo ne avesse la volontà sarebbe in grado di mettere fine alla tragedia di questi rifugiati,” dice Ahmed. “Vogliamo una soluzione basata sulle fondamenta della giustizia, dell’uguaglianza e dell’umanità,” per “coesistere con i nostri vicini ebrei in base ai valori della cittadinanza.”

“Mentre il popolo ebraico ha il diritto di vivere in pace e sicurezza, non è giusto risolvere una tragedia creandone un’altra,” dice.

Per come la vede Ahmed, parte di questa ingiustizia è dovuta al fatto che la vita a Gaza è cambiata, rapidamente. Molte case hanno l’elettricità solo per sei ore al giorno, con interruzioni che durano fino a 16 ore. Il sistema sanitario sta crollando. I tagli dell’amministrazione Trump ai servizi per i rifugiati hanno provocato la chiusura di ambulatori. Gravi malattie non possono essere trattate sul posto e i permessi per uscire per essere curati in un ospedale israeliano, egiziano o in altri luoghi sono sempre più difficili da ottenere.

Ahmed ha smesso tre anni fa di portare i suoi figli a nuotare al mare perché l’inquinamento è molto grave ed è stato messo in rapporto con alcuni decessi. Ora, durante i giorni caldi d’estate vanno ancora sulla spiaggia, ma la famiglia rimane sulla sabbia. Quando i jet israeliani passano sullo spazio aereo di Gaza, un rumore che descrive come frequente, terrorizzano suo figlio, “Abdelrahman ha molta paura ogni volta che sente un aereo.”

“So di molti bambini che sono morti alla sua età, ma io non gli ho mai parlato di questo,” dice Ahmed.

“Questa è una delle ragioni per cui sono un attivista. Cerco, non da solo, anzi, noi cerchiamo di creare un mondo migliore per i nostri bambini,” dice. “Non posso immaginare per loro la stessa vita che ha vissuto mio padre, che vivo io.”

La decadenza delle infrastrutture iniziò sul serio circa dieci anni fa, quando l’ONU avvertì che Gaza sarebbe diventata “inabitabile” entro il 2020. Il rapporto venne pubblicato in risposta al peggioramento delle condizioni dovute al blocco, ma Ahmed sostiene che “un completo collasso economico è già avvenuto” un anno prima della scadenza prevista, “rendendo Gaza una terra totalmente desolata.”

“Accetteresti una vita come questa o chiederesti qualcosa di meglio?” chiede.

“Se tu fossi un giovane di Gaza potresti arrivare a 35 anni senza avere mai avuto un lavoro,” spiega. “Essere padre a Gaza significa che ti vergogni perché non puoi provvedere alla tua famiglia.”

Con Gaza che sta diventando inabitabile, peggiorata dal fattore Trump, Ahmed si è trovato con un pubblico impaziente di cercare alternative. A Gaza i tempi erano maturi per tentare la nonviolenza su vasta scala.

Nel suo primo post su Facebook nel gennaio 2018 ha auspicato tattiche pacifiste.

“E se 200.000 manifestanti accompagnati dai media internazionali marciassero pacificamente e oltrepassassero la barriera di filo spinato a est di Gaza per entrare per qualche chilometro nella nostra terra occupata, portando la bandiera palestinese e le chiavi del ritorno [molti profughi palestinesi hanno conservato le chiavi delle case da cui sono stati cacciati da Israele, ndt.]?” Ha scritto Ahmed. “E se decine di migliaia di palestinesi erigessero un villaggio di tende all’interno di Israele e continuassero ad utilizzare metodi pacifisti rimanendo là senza fare ricorso ad alcuna forma di violenza?”

La maggioranza dei dimostranti ha rispettato l’insistenza sulle proteste pacifiche, anche se molti hanno lanciato pietre, gomme incendiate o fatto volare aquiloni incendiari che hanno bruciato ettari di terreno agricolo israeliano. Le forze israeliane hanno sparato sui dimostranti proiettili veri e lacrimogeni, gli aquiloni ora sono intercettati dai droni. Le scene sono a volte caotiche e Ahmed viene a sapere delle vittime solo quando la manifestazione del venerdì si disperde e lui ha il tempo di controllare le notizie.

Israele sostiene di avere il diritto di utilizzare una forza letale per difendere i propri confini. Rispondendo a un recente rapporto sui diritti umani pubblicato all’ONU un portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nahshon, ha affermato che le proteste sono inscenate da Hamas. Ha detto al “Christian Broadcasting Network” [Rete Televisiva Cristiana, gestita da gruppi evangelici filo-israeliani, ndt.] che “Hamas utilizza i civili a Gaza come scudi umani per i terroristi.”

Ahmed sa che il suo impegno di lunga data per la nonviolenza non è condiviso da tutti. Ma vede il sostegno da gruppi come Hamas subordinato alla spinta di quelli che praticano la nonviolenza, non viceversa. La resistenza pacifica è di nuovo diffusa.

“Le nostre richieste sono semplici e oneste, vogliamo tornare, vogliamo una vita dignitosa. Persino quelli impegnati nella resistenza armata hanno iniziato a capire come può essere efficace la non violenza pacifica,” dice.

“Ci sono persone nella Striscia di Gaza che si oppongono ad Hamas, e c’è un contesto che circonda le attuali proteste nella Striscia di Gaza e ciò include la dura situazione che molte persone vivono,” dice “e molti errori che Hamas ha commesso nell’amministrare la Striscia di Gaza.”

“Ma io vorrei affermare che tutto questo dissenso con Hamas riguarda l’amministrazione e il modo di governare. Questi dissensi non riguardano l’occupazione” dice.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Essere donne a Gaza

Qamar Taha

8 marzo 2019 , +972 Magazine

Le donne di Gaza si ergono ogni giorno al di sopra del blocco israeliano e continuano a progredire nonostante l’alto tasso di disoccupazione e le infrastrutture carenti.

Negli ultimi due anni ho potuto conoscere decine di donne straordinarie provenienti dalla Striscia di Gaza: donne imprenditrici, creative, impegnate nel sociale, che sono riuscite a costruirsi carriere incredibili tra le tante difficoltà e gli ostacoli a cui sono sottoposte dalla vita e dall’assedio israeliano.

Miriam Abu-Ata ha studiato architettura. Dopo aver tentato per anni invano di trovare un impiego aveva pensato di emigrare in un altro Paese, ma alla fine ha deciso di rimanere a Gaza per servire la sua comunità. Adesso dirige il reparto di progettazione e sviluppo presso l’associazione Aisha Per La Protezione di Donne e Bambini. Hanan Khashan, laureata in informatica, ha lavorato due anni nel suo campo di studio inseguendo il suo sogno di passare al marketing digitale. Ha sviluppato un progetto con lo scopo di promuovere le donne nel settore informatico e progetta di espandersi anche negli altri Paesi arabi. Fathieh Timraz è un’artista. Quando il suo compagno è morto tre anni fa lasciandola con due figli piccoli, ha avviato un’impresa per vendere oggettistica in legno da lei intagliata.

Secondo l’Istituto Centrale di Statistica della Palestina, nel 2018 il 29.4% delle donne di Gaza era inserito nel mondo del lavoro, con un tasso di disoccupazione che restava al 74,6%. Per le donne tra i 15 e i 29 anni il tasso di disoccupazione saliva addirittura all’88,1%. Nonostante l’aumento dell’impiego delle donne nella forza lavoro negli ultimi anni, gran parte degli impieghi è ancora considerato una prerogativa maschile. Ne campo medico, ed esempio, le donne erano il 13,3%, di cui il 59,2% lavorava nel settore farmaceutico e il 47,8% in quello infermieristico. La percentuale di donne in campo giuridico era del 23,4%. Nell’agricoltura, del 6,5%. Circa due terzi delle donne lavorava nel settore privato, e il tasso di povertà tra le donne ha raggiunto il 53,8%.

A spiegare tali numeri ci sono molti fattori in gioco: le condizioni sociali, la devastazione economica, la mancanza di stabilità al valico di Rafah al confine con l’Egitto, la divisione interna della politica palestinese, ma soprattutto il blocco della Striscia da parte di Israele. Questi fattori hanno un impatto diretto significativo sulla vita delle donne e sul loro accesso al mondo del lavoro. A causa della mancanza di lavoro, molte donne sono costrette a lavorare in settori diversi da quello di specializzazione, mentre è raro per loro trovare impiego fuori dalla Striscia di Gaza.

Dal 2007 a oggi c’è stato un aumento del numero di famiglie guidate da donne, dal 7% al 9,4%. L’incremento può essere attribuito alle guerre e ai continui attacchi contro Gaza che hanno provocato molte morti. Le donne vedove a Gaza costituiscono il 4,5%.

Secondo i dati del Comitato Palestinese per gli Affari Civili, nel 2018 il numero di donne che ha ricevuto permessi di uscita da Israele ha raggiunto il 30%, meno di un terzo di tutti i permessi concessi. Le donne detengono solo il 3% di tutti i permessi per commercio, che garantiscono uscite e entrate multiple alle persone d’affari che vendono beni da e a Gaza. La maggior parte delle imprese gestite da donne sono di piccola entità e dunque il loro giro di affari non soddisfa i severi criteri di Israele per ottenerne uno. In tal modo le donne subiscono restrizioni negli spostamenti, cosicché il blocco influisce direttamente sulle loro opportunità di impiego e sulle loro vite.

Dal 2000 Israele ha impedito agli studenti di Gaza di frequentare le università in Cisgiordania. Se fosse stato loro consentito di studiare lì, proprio a poche ore dalle loro case, sicuramente gli abitanti di Gaza avrebbero avuto molte più opportunità formative e professionali. Le politiche di segregazione israeliane puntano a allontanare tra loro i palestinesi che vivono fisicamente in territori divisi, separando mariti da mogli, genitori da figli e turbando la vita familiare. Trasferirsi dalla Striscia di Gaza alla Cisgiordania è un’impresa quasi impossibile.

Bisogna infine riconoscere come ciò impatti sulla salute delle donne. Secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, nel 2018 sono stati richiesti 11.759 permessi da parte di donne per cure mediche non disponibili a Gaza, di cui 7.651 autorizzati, 740 negati e 3.368 senza risposta. Per quanto riguarda gli accompagnatori dei pazienti, la maggior parte dei quali sono donne, su 19.396 permessi richiesti sono state ricevute 10.546 autorizzazioni, 1.724 rifiuti e 7.126 richieste senza riscontro in tempi utili per le cure. La mancata risposta è una pura mancanza di rispetto verso le vite dei pazienti che necessitano cure vitali. La sofferenza si somma alle difficili condizioni di vita a Gaza, costituite da infrastrutture in rovina, carenza di energia elettrica e un sistema sanitario al collasso.

In occasione della Giornata Internazionale della Donna voglio dunque omaggiare queste donne autorevoli e di successo e dire che ho avuto l’onore di lavorare con loro e di essere coinvolta nelle loro vite. Esse sono la testimonianza dell’immenso potenziale di Gaza. È tempo di rimuovere le restrizioni alla loro libertà di movimento nonché il blocco soffocante che Israele impone sugli abitanti di Gaza, per concedere a questi uomini e donne la vita normale e sicura che meritano.

Qamar Taha è coordinatrice di ricerca a Gisha. Questo articolo è stato inizialmente pubblicato in ebraico sul Local Call.

(traduzione di Maria Monno)




Israele uccide sette palestinesi in un’incursione segreta a Gaza

12 novembre 2018, Al Jazeera

Un alto ufficiale di Hamas ucciso dalle forze speciali israeliane in un’operazione sul confine in cui è morto un soldato israeliano.

Le forze israeliane hanno ucciso sette palestinesi nella Striscia di Gaza durante un’incursione clandestina che aveva come obiettivo un comandante di Hamas e con gli attacchi aerei che hanno fornito ai militari la copertura per fuggire in Israele in automobile.

L’incursione e gli attacchi aerei israeliani hanno provocato il lancio di razzi dall’enclave controllata da Hamas domenica sera. Un alto ufficiale di Hamas ha detto che la squadra di forze speciali israeliane si è introdotta in una zona vicino alla città meridionale di Khan Younis in un veicolo civile.

Tra le persone che risultano uccise nell’attacco vi è Nour Baraka, un importante comandante delle brigate al-Qassam, l’ala armata di Hamas.

Un’operazione sul terreno all’interno della Striscia di Gaza non è usuale e probabilmente incrementerà le tensioni in modo significativo.

“Abbiamo saputo che un’unità speciale israeliana è entrata a Khan Younis ed ha assassinato Nour Baraka ed un altro (comandante)”, ha detto ad Al Jazeera Ghazi Hamad, alto ufficiale di Hamas.

“Dopodiché la vettura in cui si trovava questa unità speciale o alcuni collaboratori ha tentato di fuggire…ma è stata inseguita da Hamas e dalle brigate al-Qassam e quindi Israele ha cercato di coprire quell’auto colpendo Gaza”, ha aggiunto.

Dei testimoni hanno detto che, durante l’inseguimento, aerei israeliani hanno lanciato più di 40 missili nella zona in cui era successo il fatto, uccidendo almeno altre quattro persone.

Fawzi Barhoum, un portavoce di Hamas, ha denunciato ciò che ha definito un “vigliacco attacco israeliano”.

Scontro a fuoco

L’esercito ha dichiarato che un soldato israeliano è stato ucciso in uno scontro a fuoco durante l’operazione, mentre sta aumentando la tensione con l’enclave palestinese guidata da Hamas.

“Nel corso di un’azione operativa delle forze speciali israeliane nella Striscia di Gaza si è verificato uno scontro a fuoco”, ha affermato l’esercito in una dichiarazione.

“In questo incidente è stato ucciso un ufficiale dell’esercito ed un altro ufficiale è stato lievemente ferito”, ha aggiunto.

L’esercito ha detto che i suoi soldati sono rientrati (in Israele).

Dopo lo scoppio dello scontro si è sentito il suono delle sirene nel sud di Israele, che segnalavano il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza.

Secondo l’esercito, sono stati identificati diciassette lanci (di razzi) da Gaza verso Israele e due di essi sono stati intercettati dalla difesa missilistica israeliana. Non è del tutto chiaro dove gli altri abbiano colpito.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu, in visita ufficiale in Francia, ha annunciato il suo immediato rientro in Israele per occuparsi della crisi.

Tempismo perfetto

Harry Fawcett di Al Jazeera, inviato a Gerusalemme

La squadra delle forze speciali clandestine israeliane è penetrata per tre chilometri all’interno del territorio di Gaza oltre la barriera di confine, viaggiando su un veicolo civile. Là ha ucciso il 37enne Nour Baraka, un alto comandante delle brigate al-Qassam di Hamas, l’ala militare del gruppo.

Sono stati poi uccisi altri sei palestinesi in quello che è diventato un inseguimento in cui gli israeliani si ritiravano sotto copertura di pesanti attacchi aerei. L’esercito israeliano afferma di aver intercettato tre dei 17 razzi lanciati da Gaza dopo l’incursione.

Questa escalation arriva con un perfetto tempismo, quando vi erano stati alcuni progressi negli sforzi per raggiungere una tregua a lungo termine tra Hamas ed Israele, con la mediazione di Egitto e Nazioni Unite e il coinvolgimento di finanziamenti del Qatar.

E’ giunta anche nel momento in cui Netanyahu era a Parigi a parlare del suo dichiarato impegno a creare una situazione più stabile a Gaza. Nello stesso Israele, Netanyahu ha subito contraccolpi politici per essersi dimostrato troppo moderato nei confronti di Hamas.

Una ripresa da parte di Israele della politica di mirare a singoli comandanti di Hamas – tattica ampiamente abbandonata negli ultimi anni – potrebbe aggravare significativamente le tensioni al confine.

Israele e i miliziani palestinesi a Gaza hanno combattuto tre guerre dal 2008 e gli ultimi mesi di disordini hanno sollevato il timore di una quarta.

Un assedio soffocante

Sono spesso scoppiate violenze sulla frontiera da quando il 30 marzo i palestinesi hanno iniziato le settimanali proteste .

I palestinesi della Striscia di Gaza hanno fatto manifestazioni lungo il confine con Israele chiedendo il diritto al ritorno alle case e alla terra da cui le loro famiglie vennero espulse 70 anni fa.

Chiedono inoltre la fine del soffocante assedio della Striscia di Gaza, che ha devastato l’economia dell’enclave costiera e privato i suoi due milioni di abitanti di molti servizi indispensabili.

Da quando sono iniziate le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno, il 30 marzo, sono stati uccisi oltre 200 palestinesi e feriti in migliaia dalle truppe israeliane dispiegate sull’altro lato della barriera (di confine).

Egitto, Qatar e Nazioni Unite hanno tentato di mediare per un cessate il fuoco a lungo termine.

Mouin Rabbani, un professore associato presso l’Istituto per gli Studi sulla Palestina, ha detto a Al Jazeera che è evidente che l’operazione sotto copertura di domenica è stata un “omicidio premeditato”.

“La domanda che sorge è: quali erano le motivazioni di Israele? Stava cercando, come tante volte in passato, di infliggere un colpo ad Hamas giusto per ricordargli chi comanda e che sarà Israele a decidere i termini in cui verrà raggiunto qualunque cessate il fuoco?

O invece sta forse cercando di affossare questa iniziativa di cessate il fuoco e forse iniziare un più ampio conflitto, come è accaduto nel 2008, 2009, 2012 e 2014?”, ha detto Rabbani.

“La mia impressione è che in questa fase Israele sia probabilmente più interessato a colpire sanguinosamente Hamas e a cercare di ricordare alla gente chi comanda e che sarà Israele a decidere fino a quando l’illegale assedio della Striscia di Gaza verrà mantenuto.”

I soldi del Qatar

Venerdì i dipendenti pubblici palestinesi nella squattrinata Gaza hanno iniziato a ricevere i salari dopo mesi di pagamenti sporadici, grazie ai 15 milioni di dollari arrivati in valigie dal Qatar all’enclave attraverso Israele.

Hamas ha risposto diminuendo l’intensità delle proteste del venerdì alla frontiera.

Le autorità di Gaza hanno detto che un totale di 90 milioni di dollari verrà distribuito in rate semestrali, soprattutto per coprire i salari dei funzionari che lavorano per Hamas.

Il Qatar ha inoltre detto che darà 100 dollari ad ognuna delle 50.000 famiglie povere, ed anche una somma maggiore ai palestinesi feriti negli scontri lungo il confine tra Gaza e Israele.

Lo Stato del Golfo ha iniziato ad acquistare altro combustibile per l’unica centrale elettrica di Gaza, consentendo che le interruzioni di corrente si riducano ai livelli più bassi da anni.

I pagamenti sono una parte di ciò che dovrebbe essere una serie di intese informali tra Israele e Hamas.

Netanyahu domenica mattina ha difeso la sua decisione di consentire al Qatar di trasferire il denaro a Gaza, nonostante le critiche all’iniziativa dall’interno del suo stesso governo, affermando di voler evitare una guerra se non necessaria.

Nella Cisgiordania occupata il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha duramente accusato Israele e gli Stati Uniti di lavorare insieme alle sue spalle per consolidare il controllo di Hamas su Gaza.

Ha anche accusato Hamas di ostacolare il suo obbiettivo di stabilire uno Stato palestinese indipendente che includa tutta la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Il piano di pace di Trump

Mike Hanna di Al Jazeera, inviato a Washington, DC.

Solo una settimana fa il rappresentante di Trump Jason Greenblatt ha avuto un incontro con Netanyahu in Israele in cui è stata discussa la questione di Gaza. L’esito di quell’incontro, come è stato comunicato, è stato che gli Stati Uniti erano molto favorevoli al ritorno della stabilità a Gaza.

Questa distensione avrebbe dovuto essere il preludio al corso dell’iniziativa di Trump per risuscitare il processo di pace da tempo latente. A settembre Trump ha detto che avrebbe portato avanti il suo piano entro due-quattro mesi, il che significa l’inizio di dicembre.

La settimana scorsa Greenblatt ha detto che il piano è pronto per essere presentato entro qualche giorno o forse qualche settimana.

La violenza a Gaza sembra essere un ostacolo, ma Trump sembra pronto a procedere col piano benché una delle parti principali, i palestinesi, non ne vogliano sapere. I palestinesi non considerano più gli USA un arbitro indipendente ed imparziale. Ritengono che lo scopo dell’iniziativa sia soprattutto garantire la sicurezza di Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Fine modulo




La “Grande Marcia del Ritorno” ha raggiunto i suoi obiettivi?

Motasem Dalloul

8 novembre 2018, Middle East Monitor

Sono passati 32 fine settimana da quando i palestinesi della Striscia di Gaza hanno lanciato massicce proteste chiedendo la rimozione del blocco israeliano e il diritto a tornare alle loro case, da cui sono stati espulsi nel 1948 per far posto alla creazione dello Stato di Israele.

Nell’arco di otto mesi tre ministeri palestinesi hanno annunciato una serie di sussidi che comprendono aiuti urgenti per un ammontare di 5 milioni di dollari da destinare a 50.000 famiglie, 200 dollari al mese per 5.000 famiglie di palestinesi uccisi o gravemente feriti durante la “Grande Marcia del Ritorno”, il pagamento del 60% dei salari di luglio per i dipendenti pubblici e la creazione di 10.000 posti di lavoro destinati ai laureati.

Nel contempo l’ambasciatore del Qatar a Gaza, Mohammed Al-Emadi, martedì ha annunciato che sta per visitare la Striscia assediata per seguire progetti che il suo governo sta finanziando e iniziarne di nuovi. Ciò avviene solo una settimana dopo che il petrolio qatariota ha iniziato ad essere immesso nell’unica centrale elettrica di Gaza, consentendo alla Striscia di avere più ore di elettricità al giorno. Fonti ufficiali hanno detto che ne arriverà dell’altro.

L’analista politico Naji Al-Zaza, vicino ai responsabili politici di Hamas, ha affermato: “Gli accordi per porre fine all’assedio hanno dato come risultato salari per 43.000 dipendenti, lavoro per 10.000 laureati, 5 milioni di dollari per 50.000 famiglie, 200 dollari mensili per le famiglie dei martiri e dei feriti, l’estensione della zona di pesca da 3 a 12 miglia e presto ce ne saranno altri.”

L’ex membro del comitato politico di Hamas e giornalista Mustafa Al-Sawwaf ha confermato che questo è “il primo passo a cui ne seguiranno altri.”

Sul terreno, il “Comitato Popolare per la Grande Marcia del Ritorno e La Fine dell’Assedio” ha già preso iniziative per ridurre le proprie attività. Ciò è risultato evidente nei suoi ordini ai manifestanti perché non si avvicinino alla barriera o non trasformino in violente le manifestazioni pacifiche.

Ciò ha dato come risultato un basso numero di vittime lo scorso venerdì. Fonti mediche di Gaza hanno informato di soli 32 feriti, compresi 25 [causati da] gas lacrimogeni e sette con ferite lievi da pallottole vere o ricoperte di gomma. Martedì sera il Canale 14 della televisione israeliana ha detto: “Sono passati sette giorni senza che da Gaza vengano lanciati palloni e aquiloni incendiari.”

L’analista israeliano di questioni arabe Zvi Bar’el ha affermato che la “Grande Marcia del Ritorno” ha mostrato che Israele ha imposto l’assedio per obbligare i palestinesi a ribellarsi contro Hamas, e invece loro si sono espressi contro l’occupazione, obbligando Israele a iniziare colloqui per una tregua.

Fatah ha comunque detto che i risultati sono parte della messa in pratica del piano americano noto come l’“accordo del secolo”. L’alto dirigente di Fatah Azzam Al-Ahmad ha detto ad una radio locale che “queste intese forniscono una chiarissima spinta all’accordo del secolo americano…Ciò dimostra che Hamas e le cosiddette fazioni della resistenza a Gaza non stanno più lottando contro Israele, ma stanno al suo fianco nella sua guerra contro la legittima rappresentante dei palestinesi – l’OLP.”

L’importante dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista della resistenza armata, ndtr.] a Gaza Rabah Muhanna ha messo in guardia “tutte le fazioni palestinesi dal cadere nella trappola dell’‘accordo del secolo’. L’occupazione israeliana e i governi arabi stanno cercando di utilizzare queste misure, annunciate la scorsa notte, per dividere Gaza dalla Cisgiordania e affossare gli obiettivi dei palestinesi prima di far approvare l’‘accordo del secolo’,” ha sottolineato.

Nel contempo il capo della Jihad Islamica Khaled Al-Batsh ha detto: “Queste agevolazioni sono frutto dei sacrifici del popolo palestinese a Gaza.” Ha ribadito che la resistenza palestinese, compreso il suo movimento, “non rinuncerà mai al tentativo di raggiungere tutte le aspirazioni dei palestinesi.”

Parlando a MEMO [Middle East Monitor, ndtr.] Ali Hussein, un abitante disoccupato di Gaza, ha detto: “Accettiamo tutte queste misure che alleviano la nostra situazione in quanto crediamo che si tratti del primo passo per rompere l’assedio israeliano. Mille miglia iniziano con un singolo passo, ma cosa ne è delle garanzie per essere sicuri che Israele rispetterà i suoi impegni?”

“Le garanzie,” ha detto a MEMO il dottor Salah Abdel-Ati [dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina a Gaza e uno dei responsabili della Grande Marcia del Ritorno, ndtr.], “sono date dall’assicurazione di Egitto e ONU che Israele deve mantenere le sue promesse.”

Il membro del comitato palestinese incaricato di rompere l’assedio ha detto che il blocco israeliano contro la Striscia di Gaza è un “crimine e una forma di punizione collettiva e prima o poi deve essere totalmente eliminato.”

I palestinesi, ha sottolineato, “non rimarranno schiavi delle politiche israeliane,” evidenziando che troveranno nuovi modi per obbligare l’occupante a rimanere fedele ai suoi impegni.

“Le proteste della Grande Marcia del Ritorno hanno riportato in cima all’agenda internazionale il problema dei rifugiati palestinesi e del loro diritto a tornare alle loro case e hanno spinto un gran numero di istituzioni internazionali a prendere decisioni a favore dell’UNRWA [agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi, ndtr.], la cui esistenza significa la sostenibilità della questione dei rifugiati.”

La “Grande Marcia del Ritorno” continuerà come previsto, ha detto Abdel-Ati, cercando di raggiungere pacificamente “maggiori risultati” e di far sapere all’occupante e ai mediatori che “mai rinunceremo o torneremo indietro.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Parola d’ordine: Gaza non si inginocchia

Patrizia Cecconi

da Bethelehem 27 ottobre 2018, L’Antidiplomatico

“Gaza è salda e non si inginocchia”, questa la parola d’ordine del 31° venerdì di protesta lungo la linea terrestre dell’assedio di Gaza.

Per fermare la protesta si è parlato di mediazioni egiziane, poi di mediatori che hanno desistito, quindi di ulteriori dissidi interni tra le due principali fazioni (Hamas e Fatah) che sembrano sempre più irresolubili e che faciliterebbero la minacciata aggressione massiccia israeliana. Poi timidamente – perché di fronte a Israele le istituzioni internazionali sono sempre timide – l’Onu ed alcuni governi hanno invitato lo Stato ebraico a limitare la forza, alias la brutale violenza omicida, ma è più elegante chiamarla forza. Quindi è sceso in campo il re di Giordania per rivendicare il diritto ai “suoi” territori in West Bank prima che Israele riesca a realizzare il suo obiettivo di annetterli completamente come sa già fin troppo bene ogni osservatore onesto.

Intanto in tutta la Palestina Israele uccide (l’ultimo ragazzo ucciso in Cisgiordania, al momento, aveva 23 anni, si chiamava Mahmud Bisharat e fino a ieri viveva a Tammun, vicino Nablus), arresta arbitrariamente, ritira i permessi di lavoro ai familiari di Aisha Al Rabi, la donna palestinese uccisa dalle pietrate dei coloni fuorilegge invertendo i ruoli tra vittima e carnefici, demolisce le abitazioni palestinesi e interi villaggi, non ultimo un villaggetto poco lontano dal sempre illegalmente minacciato Khan Al Ahmar che, a differenza di quest’ultimo, non essendo salito agli onori della cronaca è rimasto invisibile e non ha creato “fastidiose” proteste all’occupante.

Israele avanza senza freni col suo bagaglio di morte e di ingiustizia, distribuite con la naturalezza di un seminatore che sparge i semi nel suo campo, e i media democratici sussurrano con discrezione, o tacciono a meno che qualcosa non sia proprio degno di attenzione per non essere scavalcati totalmente dai social e perdere audience.

Quindi, dello stillicidio quotidiano di vite e di diritti prodotto dall’occupazione israeliana difficilmente i media danno conto, solo la Grande marcia del ritorno riesce ad attirare poco poco la loro attenzione sia perché la creatività dei manifestanti, sia perché l’altissimo numero dei morti e dei feriti – regolarmente inermi – un minimo di attenzione la sollecitano. Ricordiamo che solo ieri i martiri, solo al confine, sono stati 4 e i feriti 232 di cui 180 direttamente fucilati in campo. Tra i feriti, solo ieri, si contano 35 bambini e 4 infermieri che prestavano soccorso ad altri feriti.

Ad uso di chi leggerà quest’articolo e magari non ricorda o non sa i motivi della Grande marcia, precisiamo che i gazawi chiedono semplicemente che Israele rispetti la Risoluzione Onu 194 circa il diritto al ritorno e tolga l’assedio illegale che strangola la Striscia, cioè i gazawi chiedono quello che per legge internazionale dovrebbe già essere loro.

In 31 venerdì di protesta sono stati fucilati a morte circa 210 palestinesi tra i quali si contano bambini, invalidi sulla sedia a rotelle, paramedici e giornalisti, in violazione – come sempre IMPUNITA – del Diritto internazionale, e sono stati fucilati alle gambe migliaia e migliaia di palestinesi con l’uso di proiettili ad espansione (vietati ma regolarmente usati da Israele) i quali, se a contatto con l’osso, lo frantumano portando all’invalidità permanente. Gaza ha un numero altissimo di ragazzi e uomini con una o due gambe amputate per volere di Israele.

Ma nonostante tutto questo la Grande marcia continua. La parola d’ordine di quest’ultimo venerdì non poteva essere più esplicativa, “Gaza non si inchina”, che è qualcosa di più che dire “Gaza non si arrende” perché la resa a un potere tanto forte da stritolarti potrebbe essere necessaria, ma l’inginocchiarsi davanti a quel potere non è nella natura del gazawo medio e tanto meno delle donne gazawe.

La foto di Aed Abu Amro, il ragazzo palestinese che pochi giorni fa, a petto nudo, con la bandiera in una mano e la fionda nell’altra sfidava la morte per amore della vita è la più evocativa di questa incredibile, vitale e al tempo stesso disperata volontà di vincere. La posta in gioco è la Libertà, quella per cui generazioni di uomini e di donne hanno dato la vita, non per vocazione al suicidio ma per conquistare il diritto di vivere liberi. Lo sappiamo guardando la storia antica e quella contemporanea. E Gaza non fa eccezione. I gazawi, uomini e donne che rischiano la vita per ottenere la libertà rientrano in quella categoria di resistenti che merita tutta l’attenzione e il rispetto della Storia. Ignorarlo è codardia. Confondere o invertire il ruolo tra oppresso e oppressore è codardia e disonestà.

 

Molti media mainstream stanno dando prova di codardia e disonestà. E’ un fatto.

La foto di Aed, scattata dal fotografo Mustafa Hassouna ha una carica vitale troppo forte per essere ignorata dai media e troppo pericolosa per la credibilità di Israele: rischia di attirare simpatie verso la resistenza gazawa e di ridurre il consenso alla propria narrazione mistificante e allora, veloce come la luce arriva la mano della Hasbara, il raffinato sistema di propaganda israeliano, che entra nel campo filo-palestinese per smontare, con argomentazioni apparentemente protettive verso i palestinesi, la forza evocativa di quella foto che orma è diventata virale.

Non potendo più essere fermata, va demolita. Quindi la forte somiglianza col dipinto di Delacroix titolato “La libertà che guida il popolo” viene definita impropria e l’accostamento addirittura osceno (v. articolo di Luis Staples su L’Indipendent). No, l’accostamento è assolutamente pertinente e lo è ancor di più se lo si richiama anche alla parola d’ordine dell’ultimo venerdì della Grande marcia, cioè “Gaza non si inginocchia”.

Intanto alla fine della marcia, mentre negli ospedali della Striscia si accalcavano i feriti, una mano ufficialmente sconosciuta faceva partire 14 razzi verso Sderot richiamando la rappresaglia israeliana sebbene 12 di questi razzi fossero stati distrutti dall’iron dome e altri 2 non avessero procurato danni.

Forse Israele non aspettava altro, forse quei razzi potrebbero essere frutto di una ben concertata manipolazione o forse di qualche gruppo esasperato e fuori controllo, o forse una precisa strategia ancora non ufficializzata, ancora non ci è dato di saperlo anche se la prestigiosa agenzia di stampa mediorientale Al Mayadeen, questa notte riportava parole della Jihad islamica la quale, pur non rivendicando il lancio dei razzi, dichiarava che “la resistenza non può accettare inerte la continua uccisione di innocenti da parte dell’occupazione israeliana“. Cosa significa? Che si è scelto consapevolmente di lasciare mano libera a Israele senza neanche fargli rischiare il timido rimprovero delle Nazioni Unite potendosi giocare il jolly della legittima difesa?

O significa che si sta spingendo Hamas all’angolo costringendolo a riprendere la strategia perdente delle brigate Al Qassam? C’entra forse lo scontro interno tra le diverse fazioni? Gli analisti più accreditati non si sbilanciano. Comunque Israele ha serenamente risposto come suo solito, ovvero con pesanti bombardamenti per l’intera nottata. L’ultimo è stato registrato nei pressi di Rafah questa mattina.

Al momento in cui scriviamo non si denunciano altre vittime ma solo pesanti distruzioni, rivendicate con fierezza da Israele come fosse una sfida anodina di tiro al piattello.

Le immagini trasmesse in diretta durante la notte sono impressionanti, ma più impressionante è il comportamento della maggior parte dei palestinesi di Gaza: al primo momento di terrore ha fatto seguito “l’abitudine”. L’abitudine ai bombardamenti israeliani che – i media non lo dicono – con maggiore o minore intensità, sono “compagni di vita quotidiana” di questa martoriata striscia di terra. E l’abitudine, coniugata con l’impotenza a reagire, ha fatto sì che la grande maggioranza dei gazawi, provando a tranquillizzare i bambini terrorizzati, abbia scelto di dormire confidando nella buona sorte, forse in Allah.
Del resto quale difesa per un popolo che, a parte i discutibili razzi, non ha altre armi che le pietre e gli aquiloni con la coda fiammante? E la foto che ritrae Aed come un moderno quadro di Delacroix cos’è se non fionda e bandiera contro assedio e assedianti ? Cos’è se non la sintesi fotografica della resistenza gazawa e, per estensione, della resistenza palestinese tout court a tutto ciò che Israele commette da oltre settant’anni senza mai subire sanzioni?

Non basteranno articoli come quello di Luis Staples su “L’Indipendent” e la coazione a ripetere del codazzo che si porteranno dietro a fermare la fame di Libertà e di Giustizia del popolo palestinese. La foto di Aed non farà solo la meritata fortuna professionale del fotografo Moustafa Hassuna, quella foto è diventata e resterà l’icona della Grande marcia, insieme alla parola d’ordine di ieri “Gaza non si inginocchia”.




Barche palestinesi tentano di rompere l’assedio di Gaza, la Marina israeliana apre il fuoco

Ma’an News, Palestine Chronicle, Reti Sociali

12 settembre, 2018Palestine Chronicle

Lunedì le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco contro decine di barche palestinesi che protestavano presso il porto settentrionale della Striscia di Gaza assediata, nel tentativo di rompere il blocco israeliano durato 12 anni.

I manifestanti hanno fatto salpare 55 barche al largo della costa della Striscia di Gaza; il ministero palestinese della Salute a Gaza ha detto che 49 palestinesi sono rimasti feriti, 10 dei quali sono stati portati in ospedale.

Poi le barche sono state obbligate a tornare sulla spiaggia.

Un giornalista di Ma’an [sito palestinese di notizie, ndtr.] ha affermato che sulla spiaggia nei pressi della barriera settentrionale di sicurezza con Israele i manifestanti hanno dato fuoco a dei copertoni.

Le forze israeliane hanno anche sparato contro i dimostranti gas lacrimogeni.

Come parte del blocco israeliano della fascia costiera [in atto] dal 2007, l’esercito israeliano, adducendo ragioni di sicurezza, impone ai pescatori palestinesi della Striscia di Gaza di lavorare all’interno di una ridotta “zona di pesca stabilita”, i cui limiti esatti sono decisi dalle autorità israeliane e storicamente sono stati modificati varie volte.

Nel corso degli anni sono stati fatti molti tentativi di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul continuo assedio della Striscia di Gaza e di romperlo sia con navigli che cercano di entrare a Gaza, che con altri che hanno tentato di uscire da Gaza.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Vi racconto la giornata dei martiri bambini. Reportage da Gaza est

Patrizia Cecconi

28 luglio 2018, Pressenza

Sono le 3 del pomeriggio. Il sole anche oggi brucia la pelle e fa stringere gli occhi. Qui a Malaqa a quest’ora siamo ancora pochissimi e nessuno è vicino alla rete. Si sentono tre, quattro, cinque colpi secchi. Vengono dalla parte israeliana. Ma non c’è ancora nessuno, che fanno i killer? Scaldano i fucili?

Roger, il ragazzo che mi accompagna, uno degli skater più bravi di Gaza e, quando può, anche studente di italiano, mi dice che oggi sarà una giornata molto rischiosa anche se ci saranno molti bambini perché il tema della Grande marcia oggi è l’omaggio ai martiri bambini che Israele ha ucciso in questi mesi. Tutti i venerdì mi dicono che è molto pericoloso e lo so. Staremo attenti. Come sempre del resto. Oggi non vorrei rilasciare interviste ma farne. Comincio proprio con Roger chiedendogli “Ma tu perché sei qui?” la sua risposta è precisa, formata da tre frasi “Per condividere con gli altri il mio desiderio di libertà” poi gira la testa verso il confine e aggiunge “la mia libertà è oltre la rete, dove c’è la nostra terra che abbiamo il diritto di recuperare”. Bene, in tre frasi ha citato la risoluzione Onu 194 e la necessità di rompere l’assedio, praticamente gli obiettivi per cui è nata la grande marcia del ritorno.

Intanto i cecchini seguitano a sparare. L’orecchio ormai è abituato e sa distinguere il rumore dei colpi sparati dalle jeep da quello dei fucili degli snipers. Forse veramente si stanno allenando al tirassegno perché non c’è motivo di sparare, le migliaia di persone arriveranno dopo.

A fine giornata si conteranno lungo tutto il confine due morti e circa 160 feriti. I martiri sono Ghazi Abu Mustafa, un uomo di 43 anni che camminava sulle stampelle, perché già ferito in precedenza da questi soldati, e che voleva avvicinarsi alla recinzione. Sua moglie, un’infermiera che partecipava alla marcia occupandosi dei feriti lo aveva dissuaso, ma deve essere stato un boccone molto ghiotto per il killer con la divisa dello Stato ebraico che lo ha mirato alla testa. Succedeva più a sud, al border di Khan Younis e la notizia è arrivata tramite gli altoparlanti proprio mentre a Malaqa un cecchino colpiva un ragazzo a pochi metri dalla rete e i soccorsi correvano verso di lui caricandolo in ambulanza. Poi, più tardi, arrivava la notizia del secondo martire, quasi un bambino, al border di Rafah, Madj Ramzi Al Sarri, quattordici anni. I cecchini hanno sparato alla testa anche a lui.

I cecchini israeliani possono farlo, nessuno li accuserà per questo. Insieme al bambino e all’uomo uccisi vengono scarnificati piano piano i principi base della moderna democrazia, ma il mondo sembra non accorgersene e seguita a tenere regolari rapporti con questo Stato di Israele, ormai per sua propria legge Stato Ebraico, quindi etnico-religioso, rendendo impunito ogni crimine che oltre a massacrare il popolo palestinese ferisce, portando gradualmente al suo annichilimento, il Diritto internazionale.

A Malaqa è andata meglio che a al sud. Si pensava a un morto ma era “solo” gravemente ferito. I colpi secchi hanno accompagnato l’intero pomeriggio, intervallati da quelli più gonfi e più sordi sparati dalle jeep e provocando diversi feriti, sia per proiettili vivi che per inspirazione di tear gaz. I copertoni bruciati, il cui fumo nero e tossico ha sollecitato l’attenzione ecologista di alcuni sionisti nostrani, hanno salvato anche oggi parecchie vite, ma le ambulanze hanno fatto comunque molti viaggi.
Le ambulanze! Sì, una delle cose impressionanti di questa Grande marcia è il numero delle ambulanze. Un numero altissimo perché è dato per scontato che ci saranno ogni volta centinaia di feriti. Lo sanno le organizzazioni internazionali e sovranazionali, lo sanno e ne conoscono l’essenza criminale ma sono impotenti. O conniventi.

A Malaqa i tear gaz, oggi, sono arrivati da terra e dal cielo ed hanno colpito anche il personale di un’ambulanza. La scena sembrava da film: l’ambulanza corre nel budello sterrato che dal confine porta alla strada principale, è il percorso normale. Ma si ferma e si buttano fuori, sdraiandosi a terra, gli operatori sanitari. Stanno male, hanno inspirato il gas tossico dei lacrimogeni israeliani. Arrivano le barelle di altre ambulanze che caricano i più gravi e partono al volo verso l’ospedale. Intanto in cielo si sono levati gli aquiloni. Alcuni hanno la fiammella in fondo alla coda. I ragazzi che ne manovrano il filo li lasceranno al vento quando saranno sulla rete dell’assedio. Da quel momento andranno liberi e porteranno il loro messaggio attraverso quella fiammella. Forse bruceranno qualche stoppia e gli agricoltori chiederanno il rimborso alle assicurazioni dichiarando danni esagerati. Ormai le compagnie assicuratrici hanno scoperto il gioco, ma a Netanyahu è più utile far credere che siano stati gli aquiloni a bruciare ettari di campi. Se così fosse Gaza avrebbe un’arma semplice e imbattibile e forse Israele sarebbe costretto, finalmente, a rispettare la legalità internazionale come mandano a dire proprio quegli aquiloni che vorrebbero tornare ad essere solo un gioco.

Ma qui di voci straniere che rinforzino il messaggio degli aquiloni non ce ne sono, solo oggi finalmente ho visto un altro internazionale, rispondeva ai giornalisti palestinesi. Stampa e Tv era in grande abbondanza oggi. Ma tutta informazione interna. Per l’estero è routine e quindi non ci sono inviati. Quelli che ne parlano – a parte pochissime eccezioni – le notizie le ricevono normalmente dall’IDF e non corrono rischi di carriera nel trasmetterle in quella versione.

Oggi non voglio rilasciare interviste ma farne e mi dirigo verso un gruppo di donne. In realtà sono stata catturata dall’attenzione che loro mi hanno rivolto e vogliono farmi delle domande. In fondo è normale, gli stranieri sono una rarità. Faremo delle interviste incrociate. Una delle donne porta il niqab ed ha una gruccia alla quale si appoggia per camminare. E’ stata ferita due settimane fa ma appena ha potuto è tornata alla Great march. Si chiama Samia, Samia Jaber e non ha problemi a darmi il suo nome intero. Suo marito è stato imprigionato dagli israeliani per 12 anni. Ha 7 figli e il più grande, 13 anni, partecipa regolarmente alla marcia. Tutte le donne del gruppo mi danno il loro nome e mi raccontano qualcosa della loro storia. Etaf, Ilaf, Tagreed, Nabila, Ridah, Nashreeem, tutte sono passate per l’ospedale in uno di questi 18 venerdì, ma tutte stanno qui. Sono “hard” le donne di Gaza! Tutte vogliono foto ricordo, le facciamo. Mi chiedono di portare la loro voce in Italia. Ecco, lo sto facendo, anche se la mia non è una voce molto alta. Mi dicono di mettere anche il loro nome, non hanno problemi ad essere pubblicate, vogliono solo che si sappia cosa significa vivere a Gaza e cosa significa chiedere la pace e avere come risposta l’esercito pronto a uccidere. Tra loro c’è una donna più avanti negli anni, una donna molto magra, con un viso ossuto e volitivo. Porta un cappello con la visiera parasole sopra l’ijiab e parla, parla ininterrottamente e non lascia quasi il tempo a Roger di tradurre. E’ Etaf e tutte la rispettano riconoscendola come “l’organizzatrice del caucciù”, un vero boss che coordina l’arrivo e la distribuzione dei copertoni che ormai possono essere chiamati salvavita dato che disorientano la mira dei cecchini. Chiedo loro quale futuro prevedono per la grande marcia. Le risposte sono comuni, “la grande marcia non si può fermare”, ok, ma questo non è il futuro. Mi rispondono ancora che non si fermeranno allora devo cambiare domanda, chiedo se sono affiliate a qualche fazione politica e ridono. Una di loro risponde che la politica che le interessa è il recupero della libertà dall’assedio. Le altre annuiscono. In un’altra intervista una giovane donna, quella che in realtà mi avvicina per intervistarmi ma, appunto, è una giornata di interviste incrociate, mi dice che lei è di Giaffa. Avrà al massimo 35 anni e quindi non è possibile sia nata a Giaffa, ormai israeliana fin dal 1948. Ma la marcia del ritorno è per il rispetto della Risoluzione 194, quella che appunto riconosce il diritto a tornare nelle case da cui sono stati cacciati i palestinesi nel “48, e la sua famiglia è stata cacciata da Giaffa. Quella è la sua origine. Mi presenta le sue amiche, due giornaliste e una docente universitaria. Il loro inglese non è migliore del mio ma ci si intende. Dove l’inglese arranca usano l’arabo e Roger traduce. Faccio anche a loro la stessa domanda che faccio a tutti: cosa vi aspettate dal futuro della grande marcia. Tutte e tutti mi sembra abbiano chiaro che con la grande marcia, sul breve periodo, non otterranno nulla. Eppure, e qui c’è un’altra prova della straordinarietà di questo popolo, eppure si fa. Si fa perché ci sono dei principi irrinunciabili. Si fa perché farla sedimenta il diritto a far riconoscere i propri diritti.

“Si fa perché i figli non abbiano da vergognarsi dei genitori” mi dice Tagreed. Si fa perché a Gaza non si può vivere così,” i nostri giovani vogliono scappare. Viviamo di sussidi. I nostri giovani hanno un livello di istruzione generalmente molto alto ma sono disoccupati perché l’economia di Gaza è morta.” Vogliamo la libertà, come aveva detto Etaf, “la boss del caucciù” con aria definitoria “o libertà o morte” e Ridah aveva aggiunto “raggiungeremo una delle due”.

Intanto i cecchini sparano, le ambulanze corrono, i gas si infittiscono. Ci avviciniamo un po’ al border, restando sempre a non meno di cento metri. I ragazzini sono tanti, onorano i loro coetanei caduti ma in realtà per loro è quasi un gioco. Roger scruta sempre il cielo e a un certo punto dice che dobbiamo allontanarci e tornare nella zona delle tende. Mi dice una cosa incomprensibile sia in arabo, e questo è abbastanza normale, che in inglese. Ho imparato, in questi tanti venerdì passati al border, a dare ascolto ai miei accompagnatori, tutti nel ruolo affettuoso di bodyguard. Ho fatto bene e l’unico danno riportato è stata qualche leggera inalazione di gas. Non riesco a capire cosa mi dice indicando il cielo, credo voglia mostrarmi un aquilone e invece ora lo vedo, è un puntino lontano, sembra un ragno, è un drone che si sta avvicinando. I droni possono portare la morte e comunque qui porteranno i gas lanciati dal cielo che si sommeranno a quelli delle jeep. Ora lo vedono anche gli altri. Tutti provano a capire dove si dirige per allontanarsi. Riesco a prendere qualche foto mentre lancia i gas. Torniamo alle tende.

Sotto il grande tendone delle conferenze i bambini hanno le foto dei loro coetanei uccisi appese ai palloncini che lasceranno volare. Non portano fiammelle, non sono pericolosi. Portano una condanna morale ma i soldati dell’IDF “rispettano gli ordini” e quindi non si sentono condannabili, non conoscono né scrupolo, né rimorso. Sono la perfetta rappresentazione di cui Hanna Arendt ha dato magistrale spiegazione ne “La banalità del male”. Comunque i palloncini volano con i loro ritratti appesi andando verso il cielo.

Sul palco si alternano bambini e adulti e infine un bambino di una decina d’anni considerato un enfant prodige per la sua voce canterà. Lo avevo conosciuto in un’altra occasione, si chiama Mohammad e canta una canzone ritmata e coinvolgente. Chiedo a Roger cosa significhino alcune strofe che sembrano coinvolgere più di altre. “Al Gazaw alh soet” mi scrive sul mio blocco. Mi dice che la traduzione non rende e mi aggiunge un’altra frase. Nell’insieme il significato sembra essere più o meno questo: “Alziamo le nostre voci, i gazawi non hanno paura, solleviamo le nostre voci, non abbiamo paura di Israele”. Già, questo è il clima che in tutti questi venerdì ho respirato lungo il border. A Rafah o a Khuza’a o ad Abu Safia o a Malaqa o ad Al Bureji il clima sostanzialmente è stato questo. Le parole iniziali di Roger alla mia domanda “perché stai qui” completano la canzone del bambino sul palco: “per condividere col popolo il mio sogno di libertà”.

Ancora due morti uccisi per pura crudeltà ancora tanti feriti, ma la marcia continua. Sotto una sola bandiera: quella palestinese. Perché, come canta il piccolo Mohammed, i gazawi non hanno paura.




Israele ha tre opzioni riguardo a Gaza

Israele ha tre opzioni riguardo a Gaza

Israele potrebbe rioccupare Gaza, scatenare un altro massiccio attacco militare, oppure togliere l’assedio.

Al Jazeera

Di Adnan Abu Amer

20 giugno 2018

Quando i palestinesi hanno indetto la ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo, Israele ha intuito un’opportunità di scontro. Ha cominciato ad abbattere a fucilate un manifestante disarmato dopo l’altro, sparando nel contempo a tutto volume la versione propagandistica sul fatto che questi palestinesi costituivano una ‘minaccia’ alla sua sicurezza e che quindi aveva il “diritto di difendersi”.

Ad oggi i soldati israeliani hanno ucciso oltre 120 manifestanti palestinesi pacifici. Ma gli israeliani non si sono fermati qui.

Dato che l’opinione pubblica internazionale si stava volgendo pericolosamente contro di loro, le forze di occupazione israeliane hanno incominciato a reagire alle manifestazioni pacifiche prendendo di mira i gruppi della resistenza armata a Gaza, bombardando le loro aree di esercitazione, i depositi di armi, i tunnel e le infrastrutture logistiche, ed assassinando anche parecchi dei loro membri.

L’esercito israeliano non ha giustificazioni per questi attacchi; ha voluto semplicemente stabilire una nuova situazione di fatto sul terreno: la resistenza pacifica verrà affrontata con la forza bruta ed ogni escalation porterà ad un più esteso attacco militare.

Dopo qualche discussione, da Gaza è stata lanciata una risposta militare. Molti all’interno dei gruppi della resistenza armata erano convinti che Israele non avrebbe potuto imporre questa nuova  situazione sul terreno e che si doveva dimostrare che ci sarebbe stata una reazione ai suoi attacchi militari.

Ciò che questo episodio dimostra, tuttavia, è che è sempre più difficile per Israele mantenere lo status quo. La sua strategia, secondo cui “Gaza non vivrà e non morirà”, non sembra più funzionare. Esso teme che i palestinesi non si accontenteranno più di piccole concessioni e aggiustamenti.

Ed è in questo contesto che Israele sembra trovarsi di fronte a tre opzioni riguardo a Gaza: la rioccupazione, un’altra guerra o la fine dell’assedio.

Rioccupazione

Ci sono state alcune voci dell’estrema destra nel governo israeliano, nell’esercito e nell’elite intellettuale che hanno auspicato la rioccupazione di Gaza. Ritengono che stabilire nuovamente il controllo militare sulla Striscia potrebbe rimuovere la minaccia che essa costituisce.

Chiedono di occupare l’intera Striscia con truppe sul terreno e operare un radicale smantellamento dei gruppi armati di Gaza. Dopo che ciò sarà avvenuto, Gaza dovrebbe presumibilmente essere consegnata ad una parte terza, come l’Autorità Nazionale Palestinese o un organismo internazionale, che si occupi ed amministri i bisogni umanitari della popolazione.

Coloro che perorano questa soluzione sanno benissimo che stanno prevedendo un sanguinoso disastro. Israele troverà senza dubbio una forte resistenza a Gaza, che causerà decine, se non centinaia, di morti tra i soldati israeliani. Non c’è niente di più doloroso per Israele del ritorno dei suoi soldati dal campo di battaglia in neri sacchi per cadaveri.

Se rioccuperà la Striscia, lo Stato di Israele dovrà fornire livelli minimi di cibo, acqua ed elettricità alla popolazione economicamente sfinita. Ciò imporrebbe un notevole peso sul bilancio statale.

Il numero di vittime che una simile operazione militare causerebbe alla popolazione civile di Gaza  rappresenterebbe per la narrazione israeliana una catastrofe sul piano internazionale. L’indignazione internazionale per i crimini israeliani sta aumentando di giorno in giorno ed alla fine raggiungerà un punto di rottura.

È importante ricordare che questa opzione non è molto apprezzata nelle sfere decisionali di Tel Aviv, sia all’interno del governo che dell’esercito o dell’intelligence, poiché si rendono semplicemente conto di quanto esorbitante sarebbe il prezzo che dovrebbero pagare.

Un nuovo attacco militare

Questa opzione di un nuovo importante attacco militare a Gaza è popolare tra i personaggi politici e militari influenti in Israele, in quanto viene vista come meno onerosa rispetto ad una rioccupazione. Sembra corrispondere all’impellente necessità di trovare un nuovo deterrente contro Hamas dopo i suoi recenti lanci di razzi sugli insediamenti israeliani vicini a Gaza.

Israele si è abituato a scatenare un attacco a Gaza ogni pochi anni, all’interno della sua politica del  “falciare l’erba”. Ogni volta che le risorse di Hamas – sia umane che logistiche – crescono, sorge la necessità di eliminarle con attacchi aerei o uccisioni sul campo che ripristinino la deterrenza di Israele per qualche altro anno.

Dopo le diverse operazioni che Israele ha scatenato tra il 2006 e il 2014, potrebbe ben essere in procinto di scatenarne un’altra. Nonostante la loro convinzione che questa opzione sia urgentemente necessaria, i generali di alto grado sono dubbiosi in proposito perché sanno che nel corso degli ultimi quattro anni i gruppi armati palestinesi hanno ricostituito le loro risorse e addestrato le loro fila.

Una guerra a Gaza non sarebbe una scampagnata, ma loro la vedono come un male necessario o una “guerra senza altra scelta”.

Togliere l’assedio

Questa opzione vedrebbe Israele togliere l’assedio alla Striscia di Gaza sul piano economico ed amministrativo. Implicherebbe anche la costruzione di un porto o di un aeroporto sotto stretto controllo di sicurezza israeliano e con garanzie internazionali.

Questa opzione porrebbe sulle spalle di Israele l’onere di sostenere i due milioni di abitanti di Gaza, ma le sue implicazioni strategiche portano la leadership israeliana ad evitarla. Essa renderebbe possibile la creazione di un’entità palestinese con caratteristiche simili ad uno Stato, senza che debba fornire ad Israele le consuete “garanzie di obbedienza”, come avviene per la Cisgiordania.

Inoltre non vi sarebbero sufficienti garanzie che Hamas non tragga vantaggio da queste nuove strutture portuali per far entrare armi che potrebbero sovvertire lo status quo militare.

Poiché la situazione sul terreno a Gaza si modifica e le minacce di Israele contro i palestinesi aumentano, tutte e tre le opzioni sono possibili. Israele farà i suoi accurati calcoli per ognuna di esse, ma alla fine saranno gli sviluppi sul terreno a determinare quale strada prenderanno gli eventi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Il dottor Adnan Abu Amer è direttore del Dipartimento di Scienze Politiche all’università palestinese Ummah di Gaza

 

(Traduzione di Cristiana Cavagna)