Quindici anni di separazione: i palestinesi tagliati fuori da Gerusalemme dal muro

Netta Ahituv

10 marzo 2018,Haaretz

I palestinesi lo vedono come un tentativo di Israele di espellerli da Gerusalemme; gli israeliani come una difesa contro il terrorismo. Haaretz ha indagato l’impatto della barriera di separazione sulla città e sui suoi abitanti.

Nella capitale di Israele[ per Israele ma per la comunità internazionale salvo Trump la capitale è Tel Aviv,ndt] un muro serpeggia e gira per un totale di 202 kilometri. Da una parte questo serpente di cemento incarna l’occupazione; allo stesso tempo offre un senso di sicurezza. Tra questi due poli, a volte la situazione assume una dimensione assurda. Quest’anno segna il quindicesimo anniversario da quando la costruzione del muro è iniziata – un progetto concepito come necessità securitaria che si è ingrandito fino a diventare un strumento politico molto potente. I suoi molteplici aspetti si riflettono nei diversi nomi che gli sono stati attribuiti: “barriera di sicurezza”, “recinto di separazione”, il “muro” e, denominazione ufficiale, “l’involucro di Gerusalemme”.

I suoi sostenitori si concentrano su quello che descrivono come il suo principale pregio: la sicurezza. Come prova che il muro sta funzionando bene sottolineano il notevole decremento del numero di attacchi suicidi che sono avvenuti in Israele da quando l’idea è stata approvata la prima volta (43 di questi attacchi nel 2002, zero attacchi suicidi nel 2012).

Chi critica la barriera sostiene che il suo obiettivo sotteso sia demografico: l’annessione di fatto ad Israele della maggiore estensione possibile di territorio, includendo il minor numero possibile di abitanti palestinesi. L’esistenza del muro, affermano, renderà ancora più difficile alle due parti raggiungere mai un accordo. A supporto di questa considerazione, sottolineano che solo il 15% del percorso di 470 km dell’intera barriera (non solo il suo tracciato a Gerusalemme) corrisponde alla Linea Verde [che divideva Israele e la Cisgiordania prima della guerra del ’67 e dell’occupazione israeliana, ndt.], mentre il restante 85% passa all’interno di zone palestinesi.

Sostenitori e detrattori dei benefici del muro possono essere trovati tra israeliani sia di destra che di sinistra, così come nella comunità internazionale. Un suo ammiratore è il presidente Usa Donald Trump, che vuole replicare il suo “successo” lungo il confine del suo Paese con il Messico. Tuttavia la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia non riconosce la legittimità del muro e – in una sentenza del 2004 – chiede che venga smantellato, con indennizzi da pagare ai palestinesi che sono stati danneggiati dalla sua costruzione.

Qualunque sia l’opinione, non si può negare il fatto che la presenza del muro abbia provocato non pochi sconvolgimenti nelle vite sia degli israeliani che dei palestinesi. Ha alterato l’aspetto delle comunità, è diventato il fattore dominante nelle vite di molti, ha colpito l’economia dei due popoli e si è insinuato in modo molto naturale nelle abitudini culturali di questa terra in conflitto.

Descrivendo le diverse percezioni del muro all’interno delle due Nazioni, l’avvocatessa Nisreen Alyan, una palestinese con cittadinanza israeliana che lavora per l’”Associazione per i Diritti Civili in Israele”, osserva: “I palestinesi lo vedono come una ferita in mezzo alla popolazione. Sono anche informati del fatto che, in base alle leggi internazionali, non è legittimo. Dal loro punto di vista il muro è un ulteriore simbolo dell’occupazione israeliana. Al contrario gli israeliani vedono il muro come un mezzo di protezione, una necessità legata alla sicurezza, e di conseguenza pensano che la sua legittimità o illegittimità non sia pertinente alla discussione.”

Anche i tribunali israeliani si sono occupati del problema del muro in varie occasioni (negli anni sono stati presentati circa 150 ricorsi contro di esso e contro il suo percorso). Le sentenze non hanno mai assunto la forma di decisioni contro il muro in quanto tale, al massimo hanno dato debole espressione all’opinione che questa o quella parte del suo percorso fosse sproporzionata o irragionevole in termini di sconvolgimento della vita quotidiana dei palestinesi.

In realtà il tribunale non ha mai scavato in profondità alla radice dell’esistenza del muro, ne ha invariabilmente discusso in superficie,” dice Alyan.

Tutti questi ricorsi e contro-ricorsi hanno assunto una maggiore intensità riguardo al tratto di muro a Gerusalemme, che va dalla comunità di Har Adar a nord fino al blocco di colonie di Gush Etzion, a sud di Betlemme. In alcune parti assume la forma di una recinzione, con sotto dei fossati, in altre parti, soprattutto nelle aree urbane, è un muro di cemento alto nove metri sormontato da filo spinato, punteggiato di torri di controllo e telecamere.

Come molti capitoli della storia israeliana, la vicenda della nascita del muro è intrisa di sangue. Una serie di attacchi kamikaze scosse il Paese alla fine degli anni ’90 e nei primi anni del nuovo secolo. Il dicembre del 2001 fu un mese particolarmente duro, iniziato con due attacchi mortali. Nel primo vennero uccisi 11 israeliani da due kamikaze nella zona commerciale pedonale di via Ben Yehuda e da un’autobomba che esplose nei pressi. Il secondo incidente avvenne il giorno dopo ad Haifa, con 15 persone uccise in un autobus. La commissione ministeriale per la sicurezza nazionale si riunì in sessione speciale e decise di mettere in atto il progetto dell’“involucro di Gerusalemme”, con l’obiettivo di regolare l’ingresso dei palestinesi in Israele.

Nell’agosto del 2002 la prima fase del muro di Gerusalemme venne pianificata ed approvata – due sezioni di 10 km l’una. La parte settentrionale avrebbe separato Ramallah da Gerusalemme; quella meridionale avrebbe diviso Betlemme dalla capitale israeliana. Il resto del percorso venne aggiunto un po’ alla volta nel corso degli anni. Il tratto finale, al momento, viene costruito sulla dorsale meridionale di Gerusalemme, nel quartiere [in realtà una colonia, ndt.] di Gilo attraverso la Linea Verde, vicino al monastero “Cremisan” (che rimane all’interno dei confini municipali di Gerusalemme a causa delle pressioni da parte del Vaticano).

Nel loro libro del 2008 “The Wall of Folly” [“Il muro della follia”] (in ebraico) il geo-demografo Shaul Arieli e l’avvocato Michael Sfard, specializzato in leggi sui diritti umani, raccontano come il primo ministro Ariel Sharon e il suo governo del Likud [partito di destra israeliano, ndt.] “cercarono in ogni modo di evitare la costruzione di un muro a Gerusalemme.” Alla fine, aggiungono, la decisione di erigerlo “fu una risposta senza alternative di fronte agli avvenimenti terroristici di cui Gerusalemme soffrì più di qualunque altro luogo in Israele.”

In effetti il terrorismo si ridusse, ma molti analisti, compreso Arieli, sostengono che la diminuzione degli attacchi non sia stata dovuta solo alla costruzione del muro, ma a un insieme di vari fattori: il colpo sferrato alle organizzazioni terroristiche nell’operazione “Scudo difensivo” dell’esercito israeliano nel 2002; una più stretta collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese in questioni relative alla sicurezza; una maggiore attività di intelligence da parte di Israele.

Inizialmente la barriera di Gerusalemme avrebbe dovuto circondare la cittadina [in realtà una colonia, ndt.] di Ma’aleh Adumim a est della città sulla strada verso il Mar Morto e annettere quella regione, nota come E-1, ad Israele. Tuttavia, in seguito a pressioni internazionali, il progetto di rendere Ma’aleh Adumim parte della conurbazione di Gerusalemme non è ancora stato messo in pratica. Per evitare un varco nella barriera di Gerusalemme, ma senza annettere quest’area sensibile, è stato costruito un muro tra Gerusalemme e l’E-1, che obbliga i 38.000 coloni ebrei nella zona ad attraversare un checkpoint per entrare a Gerusalemme.

La nostra espulsione silenziosa”

Per i palestinesi l’involucro di Gerusalemme ha creato spazi urbani totalmente diversi da quelli che esistevano nel periodo precedente il muro. Il risultato che più colpisce è la separazione di Gerusalemme sia da Betlemme che da Ramallah, che di fatto esclude dalla Cisgiordania gli abitanti palestinesi di Gerusalemme.

Un esempio calzante è la vita di due studenti, M. e L., che vivono entrambi a Gerusalemme est ed hanno carte d’identità blu (quelle israeliane). Si sono incontrati al corso preparatorio dell’Università Ebraica di Gerusalemme, dove ancora studiano, ed hanno intenzione di sposarsi presto. Poiché la famiglia estesa di L. vive a Ramallah, lei ha presentato una richiesta per ottenere dei permessi di ingresso per i parenti in modo che possano festeggiare insieme alla coppia il giorno delle nozze. La data dell’avvenimento si avvicina, ma le autorità israeliane non hanno ancora risposto alla richiesta. Questo non era stato un problema che i genitori di L., che si erano sposati prima della costruzione del muro, dovettero affrontare quando spedirono gli inviti per il loro matrimonio.

Il secondo cambiamento importante è la separazione dalla città vera e propria di Kafr Aqab, un villaggio nel nord di Gerusalemme, e del campo profughi di Shoafat, a nordest. Il muro separa entrambe le aree dal resto della città. Per entrare a Gerusalemme – cosa per cui queste persone hanno il permesso, in quanto possiedono carte d’identità blu e sono considerati residenti di Gerusalemme – gli abitanti dei due quartieri sono obbligati ad attraversare dei checkpoint. Circa 90.000 persone, che rappresentano tra un quarto e un terzo degli abitanti palestinesi di Gerusalemme est, vivono in quartieri “lasciati” dalla parte sbagliata del muro, fuori dalla Gerusalemme vera e propria.

Per i palestinesi con status di residenti a Gerusalemme est, le barriere erano precedenti al muro. Già negli anni ’90, durante la prima Intifada, Israele eresse barriere e proibì ai palestinesi che non erano residenti a Gerusalemme di entrare in città senza un permesso – ma la separazione ora è concreta e permanente.

Molti palestinesi ricordano con nostalgia il periodo precedente il muro. Descrivono via Salah e-Din, la strada principale di Gerusalemme est, come un prospero centro commerciale, economico e culturale, una calamita per i palestinesi di ogni parte della Cisgiordania e di Israele. In seguito alla costruzione della barriera, tuttavia, l’accesso a Gerusalemme è diventato difficile e l’attività commerciale nella parte orientale della città si è ridotta. Negli anni seguenti circa 5.000 piccoli commerci a Gerusalemme est hanno chiuso per mancanza di clienti, cosa che ha ulteriormente intensificato la povertà. Se prima della costruzione dell’involucro di Gerusalemme la percentuale di poveri tra i palestinesi di Gerusalemme era del 60%, dopo è salita fino all’80%, ed è rimasta tuttora invariata.

Il quartiere Bir Naballah di Gerusalemme nord, per esempio, è stato chiuso fuori, trasformato in una enclave isolata. Nel passato il quartiere era un centro di locali da ricevimento. Oggi i palestinesi che vogliono entrare a Bir Naballah devono attraversare posti di blocco e nessuno vuole smorzare l’allegria di una festa in quel modo. La situazione ha portato alla chiusura della maggior parte dei locali da ricevimento e dei ristoranti.

E non sono state solo le attività commerciali a soffrirne – anche la vita culturale ne ha risentito. C’erano tre cine teatri popolari a Gerusalemme est, insieme al teatro nazionale palestinese, Al Hakawati; i cine teatri hanno chiuso e Al Hakawati si è spostato a Ramallah.

Quindici anni sono passati da quando è iniziata la costruzione del muro, e gli uffici ed i servizi governativi, come la polizia e i servizi fognari, in quei quartieri non stanno più funzionando,” dice Nisreen Alyan.

Il risultato è stato il dominio di delinquenti e famiglie criminali. Ci sono spaccio di droga, prostituzione e anche un mercato delle armi, e nessuno sta facendo qualcosa. I quartieri oltre il muro sono diventati il rifugio di criminali che scappano dalle leggi in Israele o dal sistema giudiziario dell’ANP.”

Si è detto e scritto molto sul campo di rifugiati di Shoafat (30.000 abitanti), che soffre per la scarsità di infrastrutture e per la povertà. Kafr Aqab (25.000 abitanti) e i quartieri limitrofi sono in una situazione simile. Ufficialmente si trovano all’interno della giurisdizione del Comune di Gerusalemme, ma in pratica ricevono dalla città servizi vergognosamente inadeguati.

I residenti del posto descrivono la loro condizione come “la nostra espulsione silenziosa.” Quello che vogliono dire è che, in base al fatto concreto del loro abbandono, sono convinti che il Comune di Gerusalemme e lo Stato di Israele stiano tentando di spingerli in una condizione disperata, in seguito alla quale se ne andranno, e così facendo perderanno il loro status di residenti a Gerusalemme. In questo modo non rappresenteranno più una minaccia demografica per la maggioranza ebraica della città.

Infatti la disperazione è il sentimento dilagante sia a Shoafat che a Kafr Aqab. Le ragioni di ciò non mancano, e recentemente se n’è aggiunta una nuova: il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte del presidente Trump e l’annuncio che l’ambasciata USA sarà spostata in città come omaggio a Israele per il 70° anniversario della sua indipendenza. Per i palestinesi di Gerusalemme è l’ennesima iniziativa che allontana ulteriormente le loro speranze della fine dell’occupazione e le loro aspirazioni a fare di Al-Quds – come definiscono la Gerusalemme est araba – la loro capitale. Ciò potrebbe non cambiare la loro situazione materiale, ma costituisce un colpo in più al loro morale.

Paura della partizione

Una persona che ancora non dispera di migliorare la situazione è l’avvocato Mu’in Odeh. È nato e cresciuto nel quartiere di Silwan a Gerusalemme, nei pressi della Città Vecchia. Quando si è sposato, otto anni fa, a trent’anni, ha constatato di persona la crisi abitativa del quartiere. Siccome Silwan è parte integrante di Gerusalemme, i suoi abitanti non devono attraversare posti di controllo per entrare in città, il che rende molto ricercato il fatto di abitarvi. Odeh e sua moglie non hanno avuto altra possibilità che spostarsi a Kafr Aqab, al di là del muro. Lì pagano un affitto mensile di 2.000 shekel (circa 400 €), mentre un affitto all’interno della barriera di Gerusalemme può costare due o tre volte quella somma.

L’affitto a Kfr Aqab è basso, sì, ma ci sono tre gravi problemi in questo quartiere,” dice Odeh, che ha uno studio legale privato a Gerusalemme. “Il primo è il checkpoint. Non c’è modo di sapere in anticipo se ci sarà un grande ingorgo e per attraversarlo ci vorranno due ore o se andrà veloce e potrò superarlo in un quarto d’ora.”

Il secondo problema è “l’assenza di una sensazione di sicurezza,” continua Odeh. “Non ci sono forze di sicurezza nel quartiere, né israeliane né palestinesi. L’unica istituzione che agisce qui a volte è l’esercito israeliano, che entra solo per compiere arresti legati alla sicurezza. Nessuno ci protegge.”

Odeh arriva al terzo problema: l’abbandono delle infrastrutture e della rete fognaria. Solo metà delle case sono collegate alla rete idrica, le strade secondarie non sono asfaltate e sono costellate di buche, e la spazzatura è ammucchiata dappertutto. I residenti di Kafr Aqab parlano di una carenza di aule scolastiche – secondo “Ir Amim”, un’organizzazione no profit che si dedica a creare una situazione più giusta per i palestinesi di Gerusalemme, c’è una carenza di 2.557 aule nei quartieri di Gerusalemme dall’altra parte del muro. I dati mostrano che c’è una carenza di ambulatori infantili e di centri di salute, uffici di assistenza sociale, uffici postali – e in zona non c’è neppure un parco giochi per i bambini.

Nel 2012 Odeh ha presentato una petizione contro il Comune di Gerusalemme presso il tribunale amministrativo a nome dei residenti di Kafr Aqab. Nel preparare la causa, gli abitanti hanno scoperto che il bilancio per i servizi di pulizia a Kafr Aqab ammonta a meno dell’1% del bilancio totale del Comune per quella voce. Il tribunale ha invitato le due parti a raggiungere un compromesso, e la città ha accettato di aumentare il bilancio per le pulizie all’1%.

Odeh dice che la risposta del Comune è sempre la stessa: non ci sono soldi ed è pericoloso mandare operai municipali in quei quartieri. Riguardo agli stanziamenti, dice, “paghiamo le tasse municipali e il bilancio dovrebbe essere ripartito in modo diverso. Invece in merito alle questioni di sicurezza, molti operai delle fognature sono di Gerusalemme est. Invece di mandarli in altre zone della città, perché non lavorano nei loro stessi quartieri? Se il Comune pensa che non sia troppo pericoloso per loro vivere lì, possono anche lavorarci.”

Nel 2015 Odeh ha presentato un altro ricorso, dato che i servizi comunali non sono migliorati. Il municipio afferma che, dato che è lo Stato che ha costruito il muro, dovrebbe partecipare alle decisioni. A questo lo Stato ha risposto criticando la città per aver trascurato i quartieri, benché abbia ricevuto fondi statali a loro favore. Per esempio, il ministero dei Trasporti ha informato il tribunale di aver concesso a Gerusalemme 423 milioni di shekel (circa 121.2 milioni di dollari) per migliorare infrastrutture come strade e servizi di autobus a Gerusalemme est, ma il Comune non ha utilizzato i soldi a quello scopo.

Nir Barkat è stato eletto sindaco di Gerusalemme per la prima volta nel 2008. Il suo predecessore, Uri Lupolianski, ha cercato di risolvere il problema dei suoi quartieri palestinesi nel 2005. Pensava che con 80 milioni di shekel (circa 17.5 milioni di dollari), si potesse creare una rete di servizi accettabile per quelli che erano stati tagliati fuori dal muro. “Prendi i soldi dai tuoi amici dell’Unione Europea, qual è il problema?” consigliò al sindaco l’allora ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu. In seguito lo stesso Netanyahu, come primo ministro, ha dovuto fare i conti con le conseguenze dell’abbandono. Un rapporto del servizio di sicurezza Shin Bet del 2008 ha fatto riferimento al crescente numero degli abitanti di Gerusalemme coinvolti nel terrorismo. C’era anche un allarme in merito alla possibilità di atti di terrorismo perpetrati da individui solitari dei quartieri di Gerusalemme est – una previsione che si sarebbe avverata qualche anno dopo.

Durante i primi anni 2000 relativamente pochi abitanti della città presero parte al terrorismo, ma il numero di attentatori residenti a Gerusalemme iniziò ad aumentare nel 2008. In un articolo di Nir Hasson nel 2014 su Haaretz, intitolato “La pericolosa anomalia imprevista di Gerusalemme est” egli ha citato palestinesi che attribuivano l’incremento a tre fattori. Il primo di questi era la barriera di separazione, che, con le parole di uno di loro, “danneggia gravemente la vita sociale ed economica a Gerusalemme.”

Un’altra proposta per risolvere il “problema dei quartieri di Gerusalemme est” è stata architettata recentemente dal ministro per Gerusalemme e il Patrimonio Nazionale, Zeev Elkin (Likud). Elkin ha fatto molte pressioni per l’approvazione di un emendamento alla “Legge Fondamentale su Gerusalemme, Capitale di Israele”. Una delle sue clausole avrebbe stabilito che i quartieri palestinesi della parte orientale della città sarebbero stati gestiti da un’autorità municipale separata rispetto a quella di Gerusalemme. L’ottobre scorso Elkin ha detto ai giornalisti di “Haaretz” Nir Hasson e Jonathan Lis che la situazione nei quartieri non potrebbe essere peggiore, ed ha proposto: “Il sistema attuale è stato un totale fallimento. È stato un errore il modo in cui hanno tracciato la barriera. Attualmente ci sono due aree municipali – Gerusalemme e i suoi quartieri – e il rapporto tra loro è molto scarso. Dal punto di vista formale l’esercito non potrebbe intervenire là, la polizia vi entra solo per (effettuare) operazioni, e la zona è diventata una terra di nessuno.”

Elkin ha anche manifestato preoccupazione per il rapido aumento della popolazione in quei quartieri, che sta disintegrando l’attuale equilibrio tra ebrei ed arabi in città, a danno della maggioranza ebraica. Il collega che ha proposto l’emendamento insieme a lui è il ministro dell’Educazione Naftali Bennett (“La casa ebraica” [partito di estrema destra, ndt]). Tuttavia molti altri deputati di destra si sono indignati all’idea di mettere i quartieri di Gerusalemme sotto l’autorità di un governo municipale a parte: essi hanno sostenuto che ciò avrebbe messo le basi per un’eventuale divisione della città, anche se solo a livello dei servizi. Ne è seguito un certo trambusto, e Elkin e Bennett sono stati obbligati a cancellare la clausola dall’emendamento. L’emendamento, il cui principale obiettivo era rendere più difficile ad ogni futuro governo rinunciare alla sovranità su una qualunque parte di Gerusalemme, è stato approvato dalla Knesset a gennaio di quest’anno, ma senza la clausola sulla “divisione”.

Un sacco di cancelli”

Ahmed Sub Laban, un ricercatore di “Ir Amim”, guida la sua auto con sorprendente destrezza nel dedalo di stradine nel quartiere A-Ram di Gerusalemme. Conosce bene ogni pezzetto di asfalto ed ogni vicolo, sa chi vive dove e può raccontare la storia di ogni edificio. “Pronta?” chiede poco prima di girare a sinistra da una stretta via senza nome ad un’altra. Improvvisamente il muro si profila davanti a noi, emergendo in tutta la sua gloria in mezzo alla strada, come se fosse caduto a caso dal cielo. Ma non c’è niente di casuale nel percorso del muro. Passa qui e non in un posto più logico perché c’è una scuola cristiana nel quartiere, a cui molti diplomatici stranieri mandano i propri figli. Non vogliono aver a che fare tutte le mattine con un posto di blocco, per cui lo Stato di Israele ha accettato di far passare il muro dietro la scuola. Il muro passa anche attraverso il cortile della casa del nonno di Sub Laban. Lo stesso Sub Laban sottolinea di aver passato un’infanzia relativamente tranquilla accanto agli ebrei del vicino quartiere di Neve Yaakov, all’estremità settentrionale della città.

Dice che fin dalle prime voci sulla costruzione della barriera, tra i palestinesi si scatenò un boom immobiliare: “Sapevamo che avrebbe cambiato il quartiere, per cui la gente iniziò a costruire in tutti i modi, per creare fatti sul terreno prima che l’occupante ci dicesse cosa avesse bisogno di un permesso e cosa no. Quelli che hanno costruito qui (sul lato che alla fine è rimasto all’interno di Gerusalemme) hanno fatto un affarone, quelli che hanno costruito là (in quello che è risultato essere l’altro lato del muro) hanno perso.” La differenza di prezzo è notevole: un appartamento di tre stanze sul lato israeliano costa 1.5 milioni di shekel (oltre 430.000 dollari), sul lato palestinese circa 16.000 shekel (48.000 dollari).

La direttrice esecutiva di “Ir Amim”, Yudith Oppenheimer, anche lei nell’auto, aggiunge che il muro a Gerusalemme “non separa solo israeliani da palestinesi, ma anche Gerusalemme est dalla Cisgiordania. La sua costruzione è stata provocata da ragioni di sicurezza, ma il percorso scelto è stato sfruttato per rispondere alle ambizioni politiche, demografiche e territoriali israeliane.”

Il geografo Arnon Soffer, professore emerito dell’università di Haifa, parla dell’estetica del muro. “Tutta questa barriera è un sacco di cancelli ed ingressi,” dice, quando ne parliamo. “La sua bruttezza è spaventosa. Entrambi possiamo concordare che è un’aggiunta estremamente brutta alla nostra capitale. Ricordo fin dall’adolescenza la classica immagine della stupenda Gerusalemme. Cosa ne è rimasto? È un errore estetico madornale, che è anche un errore geografico.”

Aggiunge: “Sa quanti palestinesi vivono a Gerusalemme? Qualcuno lo sa? Nessuno lo sa esattamente. I numeri variano da 300.000 a 400.000, e si suppone che un terzo di loro siano fuori dal muro. Ma non c’è un modo effettivo per contarli, perché nessuno sa cosa stia succedendo in quei miseri quartieri. Quale futuro stiamo preparando a noi stessi in questo terribile posto?”

La curiosità di sapere cosa succede dall’altra parte del muro è irresistibile, ma tutto quello che si può fare è ascoltare. Dall’altra parte, alla “Tomba di Rachele”, a sud della città, si sente una guida turistica spiegare in inglese fluente il muro a un gruppo che sembra avere un accento britannico. Sul lato israeliano circa 50 scolare ascoltano i loro insegnanti raccontare la storia della matriarca biblica Rachele. Chiedo se qualcuna di loro è curiosa di sapere cosa ci sia dall’altra parte del muro. Una risponde “Sì,” un’altra dice “C’è Betlemme”; tutte le altre rispondono negativamente, non sono curiose: “È così alla Tomba di Rachele.” È sorprendente con quanta rapidità un muro fatto dall’uomo possa diventare qualcosa che la gente dà per scontato.

Sfide insormontabili

Chiedo a Soffer, che ha 82 anni, come vede il futuro del muro. “Le sfide sono così terribili che sono seriamente preoccupato che voi” – riferendosi alle generazioni più giovani – “non sarete in grado di superarle,” risponde.

Infatti, a questo punto del conflitto e dato lo spirito dei tempi, è difficile immaginare che il muro possa mai crollare. Al momento non pare che succederà nel contesto di un accordo di pace, e la sua eliminazione per obiettivi di annessione ora è una missione troppo complessa. Ma ci sono anche quelli che pensano che il muro sia in realtà un segnale di speranza. Sottolineano che comunque esiste una specie di frontiera tra palestinesi ed israeliani, per quanto frammentata e discussa. Quindi lo spazio per un accordo potrebbe essere più ampio di quanto appaia in un primo momento.

Questa è la premessa di due architetti, Karen-Lee Bar Sinai and Yehuda Greenfield-Gilat (che è anche membro del consiglio comunale di Gerusalemme, in rappresentanza del Partito dei Gerosolimitani [partito laico-religioso di centro, ndt.]). Entrambi erano studenti di architettura quando venne lanciato il progetto di separazione.

Benché le implicazioni geopolitiche, spaziali ed economiche del muro siano enormi, abbiamo rilevato che la comunità locale degli architetti non è stata coinvolta nella questione,” dice Bar Sinai. “Pensiamo che gli architetti abbiano un importante ruolo da svolgere nell’assunzione di responsabilità su come sarà il confine tra Israele e Palestina. Quello che è iniziato come una tesi di laurea è diventato la nostra professione.” I due hanno fondato lo studio “SAYA/Design for Change” ed hanno prodotto numerose mappe e simulazioni con l’obiettivo di “valorizzare la frontiera tra Israele e Palestina,” come dicono loro.

Il muro attorno a Gerusalemme rimarrà,” dice Greenfield-Gilat, “ma il suo percorso cambierà una volta che siano stabiliti i confini definitivi. Secondo noi, insieme ad un cambiamento del percorso, deve cambiare anche l’essenza del muro, in modo che diventi un collegamento e non una divisione. Deve diventare una membrana che respira e rende possibile un tessuto urbano vitale.”

Se il muro rimane, ma non com’è adesso, a cosa somiglierà? I due suggeriscono che sia integrato nelle infrastrutture municipali e mostrano con immagini e mappe come ciò possa essere fatto. Un’idea, per esempio, è di collocare un attraversamento nella stazione centrale degli autobus, in modo che il controllo di sicurezza venga effettuato all’entrata della stazione viaria ed evochi un aeroporto più che un posto di blocco. Un altro attraversamento verrebbe creato sotto la porta di Damasco della Città Vecchia, vicino al sito archeologico. Propongono anche un punto di passaggio nella forma di un ponte pedonale nei pressi dell’hotel “American Colony” a Gerusalemme est. Invece di un muro, in certi punti propongono uno spartitraffico alto, che separi due parti di una strada.

Durante la nostra conversazione dico agli architetti che, benché abbiano descritto la barriera di separazione in termini eleganti, parlando di una “membrana che respira” o di “un viale di confine” – non posso smettere di immaginare un alto muro con filo spinato.

Il nostro ruolo,” replica Greenfield-Gilat, “è proprio cambiare quello che lei sta immaginando. Stiamo proponendo una soluzione che ponga le basi soprattutto per trasformare le coscienze.” A cui Bar Sinai aggiunge: “Lei dipinge la separazione tra i popoli, e va bene – quando viene deciso di separarli per ragioni di sicurezza, lasciamo fare la separazione -, ma noi stiamo parlando della connessione. Stiamo dimostrando che è possibile mettere in connessione in modo più intelligente, farlo meglio.”

(traduzione di Amedeo Rossi)