In Cisgiordania l’esercito israeliano sta eliminando le poche regole di ingaggio che aveva

Yagil Levy

17 ottobre 2022 – Haaretz

Alla fine di marzo, a seguito di una serie di attacchi terroristici, l’esercito israeliano ha lanciato l’operazione Breaking the Wave, nel corso della quale ha fatto irruzione nelle città palestinesi per arrestare e uccidere sospetti terroristi. Secondo i resoconti delle Nazioni Unite dall’inizio dell’operazione fino alla fine di settembre Israele ha ucciso 74 palestinesi in Cisgiordania.

Questo numero di vittime non ha nulla di normale: è opportuno fare un paragone con operazione Critical Time (“Godel Hasha’a”) quando, da ottobre 2015 a marzo 2016, l’esercito agì per sopprimere l’”Intifada dei lupi solitari” – attacchi di palestinesi non ufficialmente affiliati ad alcuna organizzazione – contro israeliani nell’estate del 2015.

Come la modalità attuale, la prima risposta dell’esercito fu offensiva: raid nelle aree in cui avevano avuto origine gli attacchi.

Ma il comandante della Brigata Regionale di Giudea e Samaria [la Cisgiordania secondo la definizione israeliana, ndt.], Brig. Gen. Lior Carmeli, dichiarò che si era trattato di un fallimento “così palpabile, che abbiamo deciso di fermare questa azione offensiva nel giro di pochi giorni”.

L’esercito si rese conto che i suoi metodi non erano adatti ad affrontare attacchi disorganizzati e, secondo Carmeli, si rese conto che “le vittime [palestinesi] degli scontri sono il principale carburante per la loro continua intensificazione. Evitare questo è una delle lezioni più significative delle precedenti rivolte”.

Perciò fu pianificata una politica di “regole di ingaggio” più restrittiva. Il maggiore generale Roni Numa, all’epoca capo del comando centrale dell’IDF, si vantò “dello sforzo di schierare la forza tattica, con la capacità delle truppe da combattimento di neutralizzare un assalitore senza uccidere… in modo da ridurre il numero dei funerali che si trasformano in manifestazioni pubbliche di simpatia…”

Questa politica fu sostenuta dal capo di stato maggiore Gadi Eisenkot, che predicò moderazione, anche se sostiene che la maggior parte dei ministri spingeva per una risposta dura, ma furono frenati dall’allora Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dal Ministro della Difesa Moshe Yaalon. Alla fine, una terza Intifada fu scongiurata. Ciò non significa che i vertici militari fossero pacifisti, ma comprendevano i limiti dell’uso della forza.

Di questo approccio restrittivo nulla è rimasto. Sotto lo shock dell’affare Azaria [il soldato che uccise a sangue freddo un palestinese a terra ferito, ndt.], l’esercito stesso ha iniziato a compiacersi del numero delle vittime. Quando Aviv Kochavi ha sostituito Eisenkot come capo di stato maggiore dell’IDF, ha fatto eco a questa tendenza utilizzando il termine “letalità” e trasformando il conteggio delle vittime in un indicatore di esito positivo.

La maggiore influenza della destra sul governo in seguito alla rimozione di Netanyahu e le critiche al cosiddetto “abbandono” dei soldati, hanno portato a un allentamento delle regole di ingaggio verso la fine del 2021, quando è diventato lecito sparare sui palestinesi che lanciano sassi e ordigni incendiari anche dopo che hanno già lanciato i sassi o la molotov.

Sempre più prigioniero dei coloni, l’esercito israeliano ha ceduto alla loro crescente violenza nei confronti dei palestinesi. La saggezza della moderazione è svanita. Un’indicazione della facilità nell’uso delle armi da fuoco può essere ricavata dai rapporti di B’tselem, che si basano in parte sui resoconti ufficiali dell’ufficio del portavoce dell’IDF e che presentano le circostanze in cui è avvenuta ogni uccisione.

Basti una sola indicazione, relativa all’uccisione di persone che avevano lanciato pietre (esclusi i casi in cui l’esercito sostiene che il defunto aveva utilizzato anche altri mezzi di aggressione) – cioè i casi in cui i soldati avrebbero potuto reagire senza uccidere.

Su 142 vittime nell’operazione 2015-2016, 7 sono state colpite da colpi di arma da fuoco dopo aver lanciato pietre, ovvero circa il 5%. In “Breaking the Wave” sono 9 dei 47 casi segnalati da B’tselem fino alla fine di luglio, ovvero circa il 20%. In tali circostanze aumentano le probabilità che gli scontri si espandano in un’operazione ampia e sanguinosa, e forse che l’Autorità Nazionale Palestinese collassi.

La condotta dei militari rafforza la conclusione che forse la differenza tra i due casi non è solo chi comanda, ma anche gli obiettivi: si cerca l’annessione a pezzi della Cisgiordania, a cominciare dall’Area C, mentre si rifiuta l’opzione di riannodare i colloqui [con l’ANP, ndt.]. Questa è l’interpretazione più probabile per la combinazione tra violenza proattiva, di cui la leadership israeliana dovrebbe conoscere il probabile esito, e paralisi diplomatica.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Nel caso della morte di un anziano palestinese l’esercito israeliano ignora la questione principale

Amos Harel

1 febbraio 2022 – Haaretz

Il battaglione Netzah Yehuda, i cui soldati hanno lasciato morire al freddo un uomo di 80 anni, ha un passato preoccupante ed un’ideologia estremista – e qualcosa in comune con l’incidente di fuoco amico che ha ucciso due ufficiali israeliani

Le decisioni prese lunedì dal capo di stato maggiore dell’IDF [Israeli Defence Force, le forze armate israeliane, ndt] Aviv Kochavi erano assolutamente necessarie. Sono arrivate in seguito alla morte, dopo essere stato arrestato dai soldati del battaglione Netzah Yehuda, di Omar Abdalmajeed As’ad, un anziano palestinese. I risultati delle successive indagini – da parte dei media e dell’esercito israeliano – su quanto accaduto tra As’ad e i membri del battaglione ultraortodosso richiedevano una risposta adeguata.

Kochavi ha descritto il comportamento dei soldati come “insensibile” e ha ordinato che i comandanti del battaglione fossero rimproverati. Ha anche rimosso dai loro incarichi altri due giovani ufficiali che si trovavano sul posto. Un’indagine parallela della polizia militare è ancora in corso.

Tuttavia, si può ritenere che, data la gravità dell’incidente, il capo di stato maggiore avrebbe potuto permettersi di fare qualche passo in più. Innanzitutto la rimozione dei comandanti del plotone e della compagnia contiene una strana clausola: saranno esclusi dai ruoli di comando per due anni. E poi? Se, nel frattempo, non saranno coinvolti nella morte di altri anziani, agli occhi dell’IDF saranno nuovamente idonei al comando?

E in secondo luogo, l’esercito si è astenuto dall’utilizzare la discussione sul caso per mettere in discussione l’esistenza stessa del battaglione Netzah Yehuda, anche se le sue prestazioni nel corso degli anni sono state mediocri e costellate di gravi violazioni dell’etica militare.

I risultati dell’indagine del Comando Centrale confermano quanto già riportato da Haaretz: una delle compagnie del battaglione ha allestito un posto di blocco a sorpresa nel cuore della notte fuori dal villaggio di Jiljilya, a nord di Ramallah, e ha fermato i conducenti palestinesi per perquisire i loro veicoli. As’ad, che era già agitato, quando è stato fermato si è messo a discutere con i soldati. I soldati poi lo hanno sopraffatto con la forza, lo hanno ammanettato e, per un po’ di tempo lo hanno trattenuto e gli hanno coperto la bocca.

È stato messo a terra, al freddo gelido, accanto ad altri fermati. Poco tempo dopo, quando gli altri conducenti palestinesi sono stati rilasciati, As’ad non ha risposto ed è rimasto prono a terra. I soldati, che in seguito hanno sostenuto di pensare che stesse dormendo, anche se hanno consentito agli altri di andarsene, lo hanno lasciato lì. Dopo la partenza dei soldati, gli abitanti del posto hanno chiamato un medico palestinese, che ha scoperto che As’ad era morto per un infarto.

Questa è un’orribile catena di eventi che dimostra, come alti ufficiali hanno dichiarato in seguito all’evento, che questi soldati non vedevano As’ad come un essere umano. Hanno ignorato il fatto che un uomo, che avrebbe potuto essere il loro nonno, non rappresentava una minaccia, lo hanno trattato con eccessiva rudezza e poi lo hanno lasciato morire, nonostante fosse evidente che c’era un problema.

Martedì mattina, il Magg. Gen. Yehuda Fuchs, a capo del comando centrale, ha descritto la condotta dei comandanti e dei soldati sulla scena come “ottusa” e ha affermato che hanno mostrato “scarsa capacità di giudizio”. È dubbio che queste affermazioni siano adeguate alla situazione.

La versione dei fatti dei soldati – di non aver picchiato As’ad e di non aver notato il deterioramento delle sue condizioni – non sembra convincente. L’ottusità non finisce a livello di compagnia o di plotone.

Noia e “burnout”

Poiché si tratta di mantenere l’occupazione, il battaglione Nahal Haredi, come si suole definire Netzah Yehuda, si trova in fondo alla piramide. Il battaglione trascorre nove o dieci mesi all’anno in Cisgiordania e riceve un addestramento minimo; altri battaglioni di fanteria trascorrono circa la metà del loro tempo in addestramento. L’esercito evita persino di spostarlo da un’area operativa della Cisgiordania all’altra. Il risultato per le truppe è la noia e il burnout che gli ufficiali cercano di mitigare con missioni di loro iniziativa. Così è nato un posto di blocco a sorpresa nel bel mezzo di un villaggio.

Un’operazione come questa può avere senso quando l’esercito è alla ricerca di una cellula terroristica dopo un attacco a fuoco. È molto meno necessario quando tutte le persone fermate in tale operazione hanno, secondo testimoni palestinesi, più di 50 anni.

Il tentativo di variare un po’ le missioni delle truppe ha creato un altro problema: ai soldati è stato detto di agire “clandestinamente”. Per farlo, hanno dovuto far tacere As’ad. Lo hanno fatto mettendogli una striscia di tessuto sulla bocca (l’IDF dice che è stata rimossa o è caduta dopo poco tempo).

Come già riportato da Haaretz, questo non è un incidente particolarmente insolito per il battaglione. Il suo mix di giovani che hanno abbandonato le istituzioni educative Haredi [degli Haredim, ebrei ultra ortodossi, ndt] e giovani coloni della cima delle colline [gruppo di coloni particolarmente violenti, ndtr.] ha creato un clima ideologico estremista tra i soldati, che né i vertici dell’esercito né gli ufficiali del battaglione hanno fatto molto per affrontare. Ciò si è trasformato in incidenti frequenti come picchiare i palestinesi, che in alcuni casi hanno portato a incriminazioni.

Il flusso costante di incidenti ha dato origine a raccomandazioni, sia all’interno che all’esterno dell’IDF, di sciogliere il battaglione o almeno spostarlo fuori dalla Cisgiordania in un’altra area operativa. Negli ultimi anni l’IDF ha sciolto o ridotto le sue unità su base etnica, come i battaglioni beduini e drusi. Ma sembra che il ministero della Difesa e il capo di stato maggiore temano entrambi che qualsiasi cambiamento riguardante Netzah Yehuda avrebbe un prezzo politico.

Lo scioglimento del battaglione, soprattutto dopo che una commissione interna dell’IDF ha scoperto che l’esercito per anni ha visto aumentare il numero di reclute ultra-ortodosse, potrebbe far notizia alla Knesset e nel governo. D’altra parte, i gruppi di destra potrebbero vederlo come una vessazione nei confronti dei soldati per motivi ideologici.

Ma c’è un’altra considerazione sullo sfondo che l’esercito è restio ad ammettere: Netzah Yehuda è una unità molto numerosa e i suoi soldati sono altamente motivati ​​a prestare servizio in Cisgiordania. La sua presenza lì libera battaglioni di qualità superiore per l’addestramento bellico. Questa è una risorsa a cui l’IDF è restio a rinunciare, nonostante tutti i segnali di pericolo.

Sulla vicenda le indagini della polizia militare non sono ancora terminate. Se il procuratore militare decidesse di processare alcune delle persone coinvolte, possiamo aspettarci che ne deriverebbe una tempesta politica. Questo è l’effetto a lungo termine del processo contro Elor Azaria [il soldato che a Hebron nel 2016 sparò in testa a un palestinese ferito a terra uccidendolo, ndt.]: ogni atto d’accusa che coinvolge la condotta dei soldati nei confronti dei palestinesi rischia di provocare uno tsunami da parte della destra indipendentemente dalla gravità delle accuse.

Ma un giorno, se Canale 12 News [televisione privata israeliana, ndt.] invitasse in studio la madre di uno dei soldati accusati per l’affare As’ad, ricordiamoci le circostanze del caso. Secondo gli stessi risultati dell’indagine dell’esercito, quei soldati hanno lasciato un uomo di 80 anni a morire al freddo con la risibile scusa che pensavano stesse dormendo.

Risposte sproporzionate

Questa non è l’unica indagine rilevante arrivata questa settimana sulla scrivania del capo di stato maggiore. Kochavi è nel mezzo di una settimana impegnativa durante la quale ha tenuto una serie di incontri sull’incidente avvenuto alla base di Nabi Musa, dove due ufficiali dell’unità Egoz sono stati uccisi accidentalmente da un collega. Un comitato di esperti guidato dal Magg. Gen. (della riserva) Noam Tibon sta indagando sull’incidente, così come la stessa Egoz, che è un reparto speciale assegnato al Comando Centrale.

Come è stato riportato dopo l’incidente, il caso di fuoco amico ha messo in luce una serie di gravi carenze. Ad esempio, l’unità ha lasciato la base senza coordinarsi e senza ricetrasmittenti. Non ha operato seguendo la procedura prescritta e l’intera esercitazione di addestramento è stata particolarmente disordinata. Si scopre inoltre, come verificato da articoli di Haaretz, che nelle settimane precedenti l’incidente c’erano stati diversi furiosi inseguimenti di persone sospettate di aver rubato attrezzature in quei campi di addestramento.

Alcuni degli informatori degli articoli non sono d’accordo sulle quali questioni siano più rilevanti: gli errori commessi all’interno dell’unità Egoz o i fallimenti più ampi riscontrati in altre unità di fanteria che indicano una cultura organizzativa problematica. C’era anche la questione di quanto i cambiamenti nei regolamenti dell’esercito su quando aprire fuoco – e la confusione riguardo alle misure da adottare – abbiano contribuito all’incidente mortale. Due maggiori – Ofek Aharon e Itamar Elharar – sono rimasti uccisi nell’incidente.

È probabile che seguiranno altre polemiche su quali modifiche dovrebbero essere apportate a livello di comando in risposta a tali eventi. Al momento sembra che il comandante di Egoz, il tenente colonnello A., rischi di essere rimosso dal suo incarico. A., che è stato descritto come un eccellente ufficiale, ha avuto una menzione per il coraggio mostrato sotto il fuoco a Gaza. La prossima estate avrebbe dovuto essere promosso colonnello e nominato comandante di un battaglione della riserva. A causa degli errori rivelati dai risultati delle indagini molto probabilmente sarà punito.

Ma, come nel caso dell’indagine su Netzah Yehuda, sembra che ci siano implicazioni più profonde nell’affare Egoz che vanno oltre l’unità stessa. Si può anche trovare un comune denominatore tra i due episodi: N., il comandante della squadra di Egoz che ha sparato i colpi, si è messo alla ricerca di ladri d’armi nel deserto della Giudea con la pallottola in canna, come se stesse preparandosi a tendere imboscate a terroristi nel Libano meridionale. I soldati di Netzah Yehuda hanno trattato l’anziano As’ad come se fosse un pericoloso terrorista. È probabile che il “segreto” che era stato loro ordinato di mantenere nell’ambito dell’operazione abbia contribuito alla sua morte.

In entrambi gli incidenti, i soldati e i loro comandanti diretti hanno agito in modo sproporzionato, adottando misure eccessive rispetto alle missioni di scarsa rilevanza loro assegnate. Ciò ha portato, direttamente o indirettamente, alla perdita assolutamente inutile di vite umane.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




In Israele le uccisioni a sangue freddo dei palestinesi cadono nel silenzio

Gideon Levy

17 agosto 2021 – Middle East Eye

Dal termine dell’assalto israeliano di maggio sono stati assassinati decine di palestinesi disarmati tra cui minorenni. Eppure ciò ora è talmente normale che i media e l’esercito israeliani ne accennano appena

In apparenza in questi giorni nei territori occupati da Israele le cose sono relativamente tranquille. Non ci sono vittime israeliane, quasi nessun attacco in Cisgiordania e certamente non all’interno di Israele. Dalla fine dell’ultima offensiva israeliana, l’operazione Guardian of the Walls [Guardiano delle mura], Gaza è rimasta tranquilla.

Durante questo cosiddetto periodo di quiete in Cisgiordania continua la routine disperante della vita quotidiana – il che richiama ad un contenuto decisamente sarcastico se prestiamo attenzione a questa terrificante statistica: da maggio in Cisgiordania sono stati uccisi più di 40 palestinesi.

In una sola settimana, alla fine di luglio, l’esercito israeliano ha ucciso quattro palestinesi, uno dei quali un ragazzo di 12 anni. Due dei 40 provenivano da un villaggio, Beita, che ultimamente ha perso sei dei suoi abitanti: cinque erano manifestanti disarmati e uno era un idraulico chiamato, a quanto pare, a riparare un rubinetto da qualche parte. Nessuna delle quattro persone uccise a fine luglio rappresentava una minaccia per la vita di un soldato o colono israeliano.

L’uso di munizioni vere contro ciascuna di queste persone era proibito, per non parlare dell’obiettivo di uccidere, come hanno fatto i soldati israeliani che hanno sparato su di loro. Quattro esseri umani o, se preferite, 40 esseri umani, con famiglie il cui mondo è andato in frantumi, persone con progetti, sogni e amori, tutti improvvisamente messi a tacere in modo così freddo e brutale da un giovane soldato israeliano.

Se questo non bastasse, va notato che gli organi di informazione israeliani non si sono quasi mai occupati di queste uccisioni. Nessuno dei due principali quotidiani israeliani ha menzionato l’uccisione del ragazzo di 12 anni a Beit Omar, tra Betlemme ed Hebron, e neppure una delle due più importanti emittenti televisive commerciali si è preoccupata di riferirla.

Per dirla in altri termini, l’uccisione di un ragazzo di 12 anni, Mohammed al-Alami, intento a fare shopping con suo padre e sua sorella quando i soldati israeliani hanno sparato una raffica di proiettili contro l’auto della famiglia uccidendo il ragazzo, che come il padre non aveva fatto nulla di male, è stata evidentemente ritenuta da qualcuno dei media israeliani una storia di nessuna importanza e nessun interesse.

Indifferenza verso l’omicidio

Non c’è altro modo per spiegare questa diffusa noncuranza nei confronti di un comportamento omicida. Se si considera inoltre che tutti quegli altri omicidi da maggio in poi sono stati appena riportati, figuriamoci indagati, si ottiene un’immagine, in tutto il suo squallore, della repressione israeliana e della negazione dell’occupazione attraverso la versione mediatica di una “cupola di ferro” messa gentilmente a disposizione dalla stampa libera.

Protetti da una stampa ridotta al silenzio, agli israeliani è stata risparmiata questa brutta immagine del loro esercito e del suo brutale modus operandi. Protetti da quel silenzio, da quella negazione e repressione, nemmeno i politici e i generali israeliani sono stati obbligati a spiegare o addirittura occuparsi del fatto che anche durante questo periodo relativamente tranquillo raramente nei territori occupati passa una settimana senza vittime palestinesi.

Così fino a pochi giorni fa nessun comandante dell’esercito aveva mosso critiche al comportamento di questi soldati, né tantomeno fatto menzione di denunce o di aperture di inchieste affidabili. Solo dopo una serie di articoli ed editoriali su Haaretz il comandante in capo tenente generale Aviv Kochavi, considerato una figura con principi morali, ha diffuso una richiesta di abbassare i toni”. Non un ordine: una richiesta. Nessuna accusa e nessuna inchiesta, solo una vaga dichiarazione di buone intenzioni per il futuro.

Dietro tutto questo c’è il disprezzo per la vita dei palestinesi. Niente ha meno valore in Israele della vita di un palestinese. Esiste una linea retta che va dagli operai edili che cadono come mosche nei cantieri israeliani a causa delle morti sul lavoro senza che nessuno se ne preoccupi, fino ai manifestanti disarmati colpiti a morte dai soldati nei territori occupati mentre nessuno batte ciglio.

Un fattore comune li unisce tutti: la convinzione in Israele che la vita dei palestinesi valga poco. Se i soldati sparassero agli animali randagi con la stessa disinvoltura con cui sparano ai palestinesi ci sarebbero proteste pubbliche di indignazione e i soldati sarebbero processati e severamente puniti. Ma stanno uccidendo solo palestinesi, quindi qual è il problema?

Quando un soldato israeliano fa fuoco e colpisce alla testa un bambino, un adolescente un manifestante o un idraulico palestinesi, la società israeliana è muta e indifferente. Si accontenta delle spiegazioni inconsistenti e talvolta delle menzogne ​ fornite dal portavoce dell’esercito, omettendo ogni espressione di scrupolo morale sulla necessità di uccidere.

Tanti di questi incidenti mortali che ho approfondito e documentato e di cui ho scritto sul giornale non hanno suscitato particolare interesse.

Morte di un idraulico

Shadi Omar Lotfi Salim, 41 anni, un idraulico ben avviato che viveva a Beita, nella Cisgiordania centrale, è uscito da casa la sera del 24 luglio, dirigendosi verso la strada principale dove si trova l’impianto della fornitura idrica del villaggio, dopo che qualcuno vi aveva evidentemente riscontrato un problema.

Dopo aver parcheggiato la jeep lungo la strada si è diretto verso la valvola di chiusura con in mano una chiave inglese rossa. Erano le 22:30. Mentre si avvicinava alla valvola dei soldati nelle vicinanze hanno improvvisamente aperto il fuoco colpendolo a morte. In seguito hanno affermato che era corso verso di loro con in mano una barra di metallo. L’unica barra di metallo era la chiave inglese rossa lasciata per terra accanto al pacchetto di sigarette e a una macchia di sangue, già secca quando siamo arrivati ​​lì pochi giorni dopo la sua morte.

Una settimana dopo, nello stesso villaggio, i soldati hanno ucciso Imad Ali Dweikat, 37 anni, operaio edile, padre di quattro figlie e di un bambino di due mesi. Questo è successo durante la protesta settimanale del venerdì del villaggio. Nel corso degli ultimi due mesi circa gli abitanti di Beita avevano manifestato settimanalmente contro la creazione di un avamposto coloniale illegale sul territorio del villaggio. L’insediamento, Givat Eviatar, è stato eretto senza autorizzazione e poi fatto evacuare dei suoi abitanti da Israele, ma le 40 strutture rapidamente costruite non sono state demolite. La terra non è stata restituita ai suoi proprietari, ai quali non è permesso avvicinarsi.

Da quando più di 10 settimane fa Givat Eviatar è stato eretto cinque manifestanti palestinesi vi sono già stati uccisi dai soldati. Nessuno dei cinque si trovava tanto vicino da mettere in alcun modo in pericolo i soldati, anche se i manifestanti lanciavano pietre e bruciavano pneumatici per protestare contro l’occupazione della loro terra.

Gli abitanti sono determinati a continuare a resistere fino a quando le loro terre non saranno restituite, e nel frattempo il sangue scorre, settimana dopo settimana.

Ucciso a caso

Dweikat stava bevendo un bicchiere d’acqua quando un cecchino israeliano lo ha preso di mira, apparentemente a caso, e gli ha sparato al cuore da una distanza di diverse centinaia di metri. Il proiettile è esploso all’interno del suo corpo, danneggiando i suoi organi interni e Dweikat è morto sul colpo, con il sangue che gli usciva dalla bocca. Il suo bambino, Ali, è rimasto orfano subito dopo la sua nascita.

Poche settimane prima, i soldati hanno sparato all’adolescente Muhammad Munir al-Tamimi, di un altro villaggio che protesta, Nabi Saleh, e lo hanno ucciso. Tamimi aveva 17 anni ed è diventata la quinta vittima del suo piccolo villaggio nel corso degli ultimi anni. Tutti nella comunità appartengono alla famiglia Tamimi e da anni resistono al furto delle loro terre da parte degli insediamenti coloniali circostanti.

Tutte queste morti sono state delle esecuzioni. Non c’è altro modo per descriverle. Sparare a manifestanti disarmati, adolescenti, bambini, un idraulico, un operaio edile, persone che manifestano pubblicamente nel tentativo di riconquistare la loro proprietà e la loro libertà è un crimine. Ci sono pochissimi regimi a questo mondo in cui si spari a manifestanti disarmati – a parte Israele, “l’unica democrazia in Medio Oriente”, dove la serenità interiore della gente è scossa difficilmente da un sussulto.

Anche lamentele sentite qua e là durante le uccisioni sistematiche hanno a che fare con il fatto che quelle potrebbero portare a un deterioramento della situazione complessiva. Nessuno dice una parola riguardo la questione della legalità e soprattutto della moralità dell’omicidio di innocenti.

Israele è considerato una democrazia, un beniamino del mondo occidentale con valori occidentali simili. Quaranta civili disarmati uccisi negli ultimi due mesi e mezzo, e quattro uccisi solo nell’ultima settimana di luglio, sono una testimonianza dolorosa anche se silenziosa del fatto che, sebbene sia ancora considerato una democrazia, Israele è giudicato con un metro di paragone completamente diverso rispetto a quello applicato a qualsiasi altro Paese.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Gideon Levy è un editorialista di Haaretz e membro del comitato di redazione del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982 e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha vinto il Premio Giornalista Euro-Med per il 2008; il Premio per la Libertà di Lipsia nel 2001; il Premio dell’Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; il premio dell’Association of Human Rights in Israel [Associazione per i diritti umani in Israele] per il 1996. Il suo nuovo libro, The Punishment of Gaza [La punizione di Gaza], è stato appena pubblicato da Verso.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Piani di guerra contro Gaza mostrano la brutta strada che ha preso l’esercito israeliano

Shir Hever

6 agosto 2019 – Middle East Eye

Il nuovo capo dell’esercito pare intenzionato ad assecondare l’opinione pubblica di destra

Sono stati in parte rivelati piani di guerra per una possibile futura invasione di Gaza, mentre l’esercito israeliano delinea la strategia per una di campagna ad alta intensità per danneggiare le infrastrutture civili e indebolire Hamas, pur lasciandogli la possibilità di governare.

Gadi Eizenkot, capo dell’esercito israeliano prima di Aviv Kochavi, , è stato responsabile dell’ uccisione di circa 200 manifestanti palestinesi durante la Grande Marcia del Ritorno di Gaza, ma è comunque stato criticato in quanto troppo di sinistra. Ha chiesto che il soldato Elor Azaria venisse punito per aver giustiziato un palestinese ferito a Hebron, ha segnalato al governo che una crisi umanitaria danneggerebbe gli interessi di Israele e ha insistito che le truppe israeliane facciano ricorso al minimo indispensabile di forza per evitare che i palestinesi raggiungano la barriera di Gaza.

È chiaro che invece Kochavi asseconderà l’opinione pubblica israeliana di destra piuttosto che alimentare la leggenda secondo cui l’esercito israeliano è “il più morale al mondo”.

I nuovi progetti per Gaza sono l’ultima di una serie di iniziative che dimostrano come Kochavi condurrà l’esercito israeliano su un sentiero che porterà verso un aumento della violenza.

Falciare il prato”

La prima di queste mosse è stato il suo discorso di insediamento, in cui Kochavi ha affermato che avrebbe potenziato un esercito “letale”. La seconda è stata in giugno, quando si è saputo che Kochavi si aspetta centinaia di vittime nemiche al giorno e “un’eliminazione fisica aggressiva … ogni un’unità militare dovrà dimostrare la distruzione di più del 50% delle forze nemiche: vale per il Libano come per Gaza.”

Poi, a luglio, Kochavi ha nominato il noto brigadiere generale Ofer Winter al comando della 98ttesima “divisione di fuoco” dell’esercito, già comandata dallo stesso Kochavi.

Per anni Eizenkot ha ignorato Winter per la sua eccessiva aggressività contro i civili. Costui ha descritto l’invasione di Gaza nel 2014 come una guerra di religione contro gli “empi” palestinesi. Winter è stato anche responsabile dell’attacco contro Rafah noto come “venerdì nero” [le truppe israeliane attaccarono i civili palestinesi durante una tregua, causando decine di morti, ndtr.].

Non è un caso che la furia di Kochavi sembri concentrata su Gaza. Ai generali israeliani piace l’espressione “falciare il prato” in riferimento ai periodici attacchi contro Gaza, come se fosse un terreno incolto da tenere sotto controllo (al costo di migliaia di vittime) affinché non diventi una minaccia per la sicurezza di Israele.

Ma trasformare Gaza in un campo di sterminio serve anche agli interessi delle industrie belliche israeliane, che vi possono testare le proprie armi, e consente alle truppe israeliane di placare la sete di sangue e recuperare fiducia in se stesse.

Sollevare il morale

Nel 2006, dopo la fallita invasione del Libano, il morale tra le truppe israeliane era basso. In previsione delle elezioni del febbraio 2009 il governo israeliano volle ottenere una facile vittoria con il minimo di vittime da parte israeliana. Nel dicembre 2008 Israele lanciò un attacco di tre settimane contro Gaza, uccidendo più di 1.400 palestinesi.

In questi giorni il morale dell’esercito è di nuovo basso, in quanto la resistenza non violenta dei palestinesi ha obbligato le truppe israeliane ha mostrare moderazione. Negli ultimi anni i livelli di reclutamento sono scesi sotto il 50%, il che suggerisce che, anche se il servizio militare è obbligatorio, sia facile ottenere l’esonero. Le reclute si aspettano un servizio militare “gratificante”, la possibilità di “sentirsi uomini” e di usare armi letali. I mezzi di comunicazione di destra descrivono i soldati che evitano di sparare ai civili come soggetti a un’“umiliazione”.

Molti soldati hanno espresso solidarietà con Azaria, che ha infranto le regole ed ha ucciso un uomo indifeso, e disprezzo per Eizenkot, che si è rifiutato di fargliela passare liscia. Sulle reti sociali alcuni hanno manifestato la propria frustrazione nei confronti di ordini che impediscono loro di usare armi letali contro manifestanti palestinesi.

L’esercito e il ricercatore per i diritti umani Avihai Stollar hanno fatto luce sulle orrende ferite, che hanno provocato disabilità e morte, patite dai palestinesi lungo la barriera di Gaza. Stollar ha spiegato che i cecchini sono equipaggiati con due tipi di fucili, e se scelgono di utilizzare da vicino un fucile a lunga gittata possono volontariamente provocare danni e sofferenze eccessivi a manifestanti disarmati.

Reclamare a gran voce di agire

Ogni comandante militare impara che vittoria e sconfitta sono termini relativi, da misurare rispetto agli obiettivi strategici stabiliti all’inizio del conflitto. È quindi degno di nota che il piano di battaglia di Koshavi manchi di obiettivi strategici. Non c’è nessuna volontà di ristabilire il controllo diretto su Gaza, o di spodestare Hamas. È un piano per una incursione rapida, che semini morte e distruzione, per poi ritirarsi velocemente.

Credo che due obiettivi non dichiarati siano testare nuove armi e ricostituire la disciplina militare.

Per le compagnie di armamenti ogni attacco contro Gaza è un’opportunità per esibire le proprie tecnologie eperciò Kochavi ha detto alla stampa che nella sua nuova battaglia contro Gaza è incluso l’acquisto di nuove armi.

Ancor più importante, dare alle reclute l’opportunità di impegnarsi in una sanguinosa operazione militare – anche unilaterale – è fondamentale per mantenere la disciplina di un esercito israeliano indisciplinato che chiede di agire.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Shir Hever

Shir Hever è un membro del direttivo di “Jewish Voice for a Just Peace in the Middle East” [Voci Ebraiche per una Giusta Pace in Medio Oriente, organizzazione di ebrei contrari all’occupazione attiva in Germania, ndtr.].

(traduzione di Amedeo Rossi)