Perché una portavoce israeliana per la lotta all’antisemitismo diffonde la documentazione delle indagini contro un bambino palestinese?

Oren Ziv

26 aprile 2022 – +972 Magazine

La celebre attivista israeliana Noa Tishby ha diffuso foto inedite di un’indagine dell’esercito per giustificare l’arresto di un palestinese di 14 anni.

Le autorità responsabili della sicurezza israeliane stanno consegnando il materiale investigativo alle personalità di spicco online della hasbara [parola ebraica che indica la propaganda a favore dello Stato di Israele attraverso la diffusione di informazioni positive, ndtr.] per guadagnare consensi sui social media? Sembra proprio di sì.

Venerdì scorso l’attrice israeliana Noa Tishby, che questo mese è stata nominata prima portavoce speciale di Israele per la lotta all’antisemitismo e alla delegittimazione di Israele, ha pubblicato un video sulla sua pagina personale di Instagram in risposta a un post della top model palestinese-americana Bella Hadid. Hadid aveva condiviso una testimonianza su Athal al-Azzeh, un ragazzo palestinese di 14 anni arrestato due settimane fa dall’esercito israeliano con l’accusa di aver lanciato pietre, un’accusa che Athal ha categoricamente negato.

Nel suo video di risposta Tishby mostra due foto di un palestinese mascherato che fa rotolare un pneumatico, che sembra facciano parte del fascicolo investigativo dell’esercito israeliano su Athal – dato confermato da sua madre, Jinan, che afferma che le foto le sono state mostrate nel corso di un interrogatorio da agenti israeliani diversi giorni prima del post di Tishby. Il fascicolo dell’indagine, che non è pubblico, è stato molto probabilmente consegnato a Tishby dalle autorità.

Athal è stato arrestato il 15 aprile vicino al Checkpoint 300 a Betlemme, nella Cisgiordania occupata, mentre si dirigeva verso la casa di sua nonna nel campo profughi di Aida, vicino al muro di separazione. Sul luogo non erano in corso proteste ma nelle vicinanze, mentre lui passava, alcuni adolescenti stavano lanciando delle pietre contro la barriera di separazione.

Si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato”, ha detto a +972 il padre di Athal, Ahmad, che svolge la professione di avvocato. Ahmad fa presente che sono passate poche ore prima che la famiglia ricevesse finalmente la notizia dal distretto palestinese dell’Ufficio di Coordinamento e Collegamento (DCO) [Uffici di coordinamento militare israelo-palestinese istituiti nell’ambito dell’accordo Gaza-Gerico del 1994 tra Israele e l’Autorità palestinese, ndtr.] che il loro figlio era stato arrestato, dopodiché hanno ricevuto una telefonata da un investigatore militare israeliano.

“Eravamo felici che fosse vivo, che almeno non l’avessero ucciso, soprattutto in un momento in cui sentiamo costantemente parlare di uso di armi da fuoco contro adolescenti”, dice Ahmad.

L’arresto di Athal ha attirato l’attenzione internazionale dopo che Bella Hadid ha condiviso un commento sul caso da parte dell’attivista israeliano di sinistra Yahav Erez, che ha ricevuto oltre 16.000 ‘mi piace’. Il post di Erez, che mostrava una foto di al-Azzeh mentre suonava il violino e cercava di convincere le autorità israeliane a rilasciarlo, riportava che Athal era “tenuto in ostaggio dall’apartheid israeliana”.

In risposta al post di Erez, Tishby sostenitrice di Israele di vecchia data, la cui nuova posizione di portavoce ricade sotto la competenza del ministero degli Esteri ha sostenuto su Instagram che Hadid stesse “propagandando antisemitismo”.

“Non è vero”, ha detto Tishby ai suoi follower. Non è stato rapito né è tenuto in ostaggio. È stato processato il 16 [aprile], ha visto un giudice due volte e ne è previsto il rilascio il 24. Athal è stato arrestato per aver lanciato sassi e bruciato pneumatici, cosa per cui sarebbe stato arrestato negli Stati Uniti o in qualsiasi altro Paese del mondo rispettoso della legge”.

Nel condividere il post, continua Tishby, Hadid sta “diffondendo odio e disinformazione, che demonizza lo stato ebraico e fa divampare – sì, Bella – divampare l’antisemitismo”, aggiungendo che Athal dovrebbe “concentrarsi maggiormente sul suo violino piuttosto che sulla violenza contro gli ebrei.

Il video di Tishby includeva foto di palestinesi mascherati che sembrano essere state scattate dalle telecamere di sicurezza israeliane posizionate lungo la barriera di separazione, presumibilmente durante gli scontri con le forze israeliane. Jinan, la madre di Athal, ha detto che mercoledì scorso, diversi giorni prima che Tishby pubblicasse il suo video, dopo essere stata condotta alla stazione di polizia di Atarot, gli agenti israeliani che la interrogavano le hanno mostrato, tra l’altro, le due foto viste nel pezzo postato da Tishby.

“Ho visto le foto che sono apparse su Instagram”, ricorda. Sono esattamente le stesse foto [che mi hanno mostrato]. Mi hanno mostrato le due immagini e volevano che dicessi che era mio figlio, ma ho detto loro che non lo era. Mi hanno chiamata bugiarda”.

Dal momento del suo arresto Athal ha affrontato quattro udienze presso il tribunale militare di Ofer, una delle quali si è svolta martedì scorso. È stato accusato di lancio di pietre e di aver dato fuoco a pneumatici. “Mio figlio non ha fatto nulla e ha negato tutte le accuse contro di lui”, afferma Jinan. “Nel corso delle indagini hanno continuato a fare pressioni su di lui con l’uso di tattiche psicologiche per costringerlo a confessare”.

Ahmad ha detto che quando ha incontrato suo figlio a Ofer Athal gli ha riferito che gli agenti che conducevano l’interrogatorio lo hanno minacciato di tenerlo in prigione “per sempre”, ma Athal si è rifiutato di ammettere le accuse. “Ciò li disturba”, ha aggiunto Ahmad. Io stesso sono un avvocato e molto spesso in casa abbiamo parlato della legge. Lui lo sa”. Athal ha anche detto ai suoi genitori che se si fosse rifiutato di confessare, anche loro sarebbero stati sottoposti ad interrogatorio. Le autorità hanno mantenuto la loro promessa e la scorsa settimana hanno convocato Jinan.

Violazione del diritto ad un procedimento equo

Non sorprende che, nonostante le affermazioni di Tishby, Athal non sia stato rilasciato il 24 aprile, ma al contrario sia stato portato per un’udienza a Ofer, dove la sua custodia cautelare è stata prolungata.

Ho visto il post [di Tishby]. Speravo che riportasse la verità e che sarebbe stato rilasciato, ma sfortunatamente non è stato così”, dice Ahmad. Non ho alcuna speranza, ma chissà. Voglio continuare a credere che Dio lo aiuti e che il giudice ordini il rilascio di [Athal]”.

Lo stesso Ahmad ha pubblicato due commenti sul video di Tishby su Instagram prima e dopo l’indicazione da parte sua della data di rilascio. Tra le altre osservazioni ha scritto (riformulato per maggiore chiarezza): Ti permetti di essere poco professionale e di parlare a nome dell’intelligence israeliana. Stai diffondendo bugie su un ragazzo innocente di 14 anni”. Trascorso il 24 aprile, ha pubblicato un’ulteriore risposta: “Athal è stato torturato dal tuo esercito e la madre di Athal è stata sottoposta a un inferno di interrogatori che volevano costringerla a condannare suo figlio – hai qualche risposta in merito? Mentre ti godi l’abbronzatura sulla spiaggia noi palestinesi veniamo torturati dal tuo governo”.

In un’udienza tenutasi martedì presso il tribunale militare di Ofer il giudice Noam Breiman ha ordinato il rilascio di Athal su una cauzione di 4.000 NIS [nuovi shekel israeliani, 1147 euro, ndtr.], nonché una cauzione sulla responsabilità di terzi di 5.000 NIS [1433 euro, ndtr.]. I procedimenti legali continueranno e Athal rischia di essere giudicato alla fine di maggio.

Il giudice ha stabilito che il lancio di pietre avvenuto durante il passaggio di Athal non era diretto ai soldati israeliani ma piuttosto a una torre di guardia e che a causa della sua taglia fisica è dubbio che le pietre possano aver causato danni significativi.

L’arresto di minori palestinesi, compresi adolescenti, è una pratica israeliana comune nella Cisgiordania occupata. Secondo Addameer, un’organizzazione impegnata a favore dei diritti dei prigionieri politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e palestinesi, Israele detiene attualmente in prigione 160 minori palestinesi.

Proprio questa settimana Haaretz ha riferito che, secondo i dati dell’esercito, tra il 2018 e l’aprile 2021, il 96% dei processi nei tribunali militari israeliani si è concluso con una condanna e il 99,6% di tali condanne è stato ottenuto tramite un patteggiamento. Questa tendenza dominante è evidente nel caso di Athal, poiché l’esercito e il sistema giudiziario militare cercano chiaramente di fare pressioni su di lui affinché confessi le accuse durante gli interrogatori, aprendo la strada a un patteggiamento.

Riham Nassra, un avvocato che rappresenta i detenuti palestinesi nei tribunali militari, ha affermato che la pubblicazione di materiale investigativo prima che venga emessa un’accusa, come ha fatto Tishby, è illegale e indica che il materiale è effettivamente trapelato. “Anche se quei materiali sono stati in qualche modo presentati all’udienza del tribunale, era illegale che venissero diffusi: ciò viola il diritto a un processo equo, soprattutto quando si tratta di un minore la cui udienza si tiene a porte chiuse e può anche interrompere o danneggiare l’indagine”.

Il ministero degli esteri israeliano, che sovrintende al ruolo di Tishby come portavoce speciale per la lotta all’antisemitismo, ha dichiarato: “Il video di Noa Tishby è stato pubblicato in risposta a un video ingannevole pubblicato sui social media con informazioni deliberatamente false sull’arresto di un giovane palestinese, al fine di offuscare l’immagine di Israele e delegittimare le sue azioni. In coordinamento con vari organismi abbiamo condotto un esame dei fatti che hanno costituito la base per la risposta di Noa Tishby. Le foto pubblicate non rivelano il volto del detenuto e quindi non vi è alcun impedimento alla loro pubblicazione. In particolare, il ministero degli Esteri non ha negato esplicitamente di aver consegnato i materiali per la pubblicazione da parte di Tishby.

Il portavoce dell’IDF [esercito israeliano, ndtr.] deve ancora rispondere alla nostra richiesta di commento.

Oren Ziv è un fotoreporter e membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [organizzazione internazionale di fotografi e fotoreporter che utilizzano l’immagine fotografica come strumento contro ogni forma di oppressione, razzismo e discriminazione, in particolare nel territorio palestinese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Una rara opportunità”: palestinesi attraversano un varco nella barriera di separazione per godersi il mare

Ahmad Al-Bazz e Oren Ziv 

11 agosto 2020 – +972

Migliaia di famiglie palestinesi stanno passando attraverso grandi buchi nella barriera della Cisgiordania per visitare la costa, mentre l’esercito israeliano per lo più fa finta di niente.

Nelle ultime due settimane decine di migliaia di palestinesi della Cisgiordania hanno viaggiato liberamente nelle città e paesi al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndtr.] attraverso brecce nella barriera di separazione israeliana, e la maggior parte di loro si è diretta verso le spiagge.

Questo attraversamento di massa, avvenuto mentre i soldati israeliani stavano a guardare, ha coinciso con la festa musulmana del Eid al-Adha [festa del sacrificio], che dura quattro giorni ed è iniziata il 30 luglio. Ogni anno i palestinesi che celebrano la ricorrenza in occasione della festa presentano domanda per avere permessi, che a volte il ministero della Difesa concede in base a condizioni molto restrittive.

Quest’anno Israele non ha concesso permessi festivi, apparentemente a causa della crisi da COVID-19, ma il varco nella barriera di separazione ha consentito ai palestinesi di andare comunque verso la costa, in genere a loro vietata, per festeggiare i giorni di festa.

I buchi nella barriera si trovano soprattutto lungo la parte centro-settentrionale della Cisgiordania, benché ce ne siano alcuni anche nei pressi di Hebron [Al-Khalil in arabo] e Modi’in [nella zona centro-meridionale, ndtr.]. Uno dei principali punti di passaggio si trova nei pressi del villaggio cisgiordano di Far’oun, a ovest di Tulkarem, dove sono stati usati dai viaggiatori locali almeno due buchi larghi tre metri.

Lo scorso mercoledì, quando +972 ha visitato quella parte della barriera, che è attrezzata con sensori di movimento e telecamere di sorveglianza, i palestinesi attraversavano tranquillamente in sicurezza sotto gli occhi di due soldati israeliani che stavano controllando la zona. +972 ha visto tre jeep militari israeliane passare davanti ai varchi senza impedire ai palestinesi di attraversare.

Sul lato israeliano della barriera decine di autisti di autobus offrivano ai palestinesi che passavano dalla loro parte di portarli ad Haifa, Giaffa e Acre [città israeliane da cui nel ’48 furono espulsi molti palestinesi, ndtr.]. Dalla parte opposta, oltre a qualche ambulante che vendeva i propri prodotti nell’affollato punto di passaggio, c’erano autisti che offrivano di riportarli nelle città cisgiordane di Nablus e Tulkarem.

Questa mattina l’esercito israeliano ha chiuso con filo spinato il buco nella barriera a Far’oun e sparato lacrimogeni contro i palestinesi che si trovavano lì vicino e stavano cercando di attraversare. Tuttavia i viaggiatori si sono spostati verso altri varchi aperti più avanti lungo la barriera.

Che permesso potrei avere?”

Dalla fondazione di Israele nel 1948 i palestinesi sono stati sottoposti a limitazioni sempre diverse sugli spostamenti, prima sotto il governo militare all’interno della Linea Verde sui cittadini palestinesi di Israele fino al 1966, poi sotto l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Queste restrizioni sono state notevolmente estese in seguito alla firma degli accordi di Oslo negli anni ’90 e alla costruzione del muro di separazione israeliano iniziata negli anni 2000. Mentre ai palestinesi della Cisgiordania con permessi viene in genere richiesto di attraversare certi posti di controllo per soli palestinesi, i cittadini israeliani viaggiano liberamente senza permessi e con pochi controlli attraverso i checkpoint per soli israeliani sulla Linea Verde.

Sto visitando Giaffa per la prima volta dal 1999,” dice K.J., che ha chiesto l’anonimato per la sua sicurezza personale e ha viaggiato con sua moglie e due figlie. Aggiunge di non aver potuto andare al di là della Linea Verde o all’estero a causa di un “divieto dovuto a motivi di sicurezza” imposto alla sua famiglia dalle autorità israeliane. “Questo buco è una rara opportunità di visitare il territorio del 1948 (all’interno della Linea Verde).

Il sistema di permessi di Israele, gestito dal ministero della Difesa, vieta agli uomini palestinesi con meno di 50 anni e alle donne con meno di 45 di attraversare la Linea Verde senza un permesso. Chiunque sia più giovane deve fare richiesta per ragioni specifiche, come lavoro o cure mediche.

Alcuni palestinesi che attraversano i varchi nella barriera affermano di non avere i requisiti per ottenere i permessi in base alla rigida normativa israeliana. “Sono giovane e celibe. Che permesso potrei avere?” dice M.A., affermando che non gli è mai stato concesso un permesso di viaggio.

Lunedì pomeriggio centinaia di palestinesi hanno continuato ad attraversare la barriera nella zona di Tulkarem. La mattina soldati israeliani che stazionavano a Far’oun hanno lanciato lacrimogeni contro quelli che cercavano di attraversare, ma in seguito la gente ha continuato a passare dall’altra parte senza problemi.

La polizia militare israeliana ha arrestato e rimandato indietro decine di palestinesi che cercavano di attraversare la barriera tra Zeita, un villaggio palestinese nella zona di Tulkarem, e Jatt, una cittadina palestinese in Israele. Uno degli arrestati afferma di essere entrato in Israele con un permesso, ma che voleva tornare indietro attraverso quel punto di passaggio. “Possiamo tornare da dove vogliamo,” dice.

Salah, un altro palestinese arrestato, mentre veniva preso da una jeep militare ha raccontato a +972: “Se non vogliono che entriamo, perché hanno aperto la barriera? O chiudono i buchi o smettono di intervenire quando noi entriamo (in Israele) per andare a lavorare o alla spiaggia.” Un soldato gli ha risposto: “È una barriera, perché di punto in bianco la state attraversando? Non potete attraversare qui.”

Chi ha fatto il buco?

Secondo gli abitanti palestinesi di Far’oun il buco nella barriera, come molti altri come questo, è stato praticato in origine da passeur che portano lavoratori palestinesi a giornata all’interno della Linea Verde. Questo varco è stato a lungo una causa di conflitto tra l’esercito israeliano e i lavoratori palestinesi “che a volte è finito con incursioni nel mio villaggio e persino con spari contro i lavoratori,” afferma Khaled Badir, un giornalista palestinese che vive a Far’oun.

Secondo lui, in seguito alla crisi del COVID-19 e alle conseguenti restrizioni imposte sui lavoratori con permesso, un numero maggiore di persone ha iniziato a utilizzare i buchi nella barriera, ma l’esercito israeliano non ha fatto niente per bloccare il crescente uso. “Abbiamo iniziato a renderci conto che l’esercito sta implicitamente consentendo ai lavoratori di attraversare non presentandosi vicino alla barriera durante le ore in cui passano i pendolari,” dice.

È stata la prima volta che Badir ha assistito al fatto che i soldati israeliani abbiano fatto finta di niente mentre i palestinesi passavano attraverso la breccia nella barriera per entrare in Israele. “Sono sicuro che si tratta di una decisione presa dagli alti comandi. Ma non capisco la ragione che ci sta dietro,” afferma.

All’inizio di agosto, durante l’Eid, il buco nei pressi di Far’oun è diventato sempre più trafficato, in quanto i palestinesi sono stati informati attraverso le reti sociali della rara opportunità di attraversare la barriera. Ci sono state reazioni contrastanti riguardo a quelli che approfittavano del varco: anche se alcuni invitavano gli amici a visitare luoghi in genere a loro vietati, altri hanno criticato il fatto di contravvenire alla chiusura totale dovuta al COVID-19 imposta dall’Autorità Nazionale Palestinese durante l’Eid.

L’ANP deve ancora emanare un comunicato ufficiale riguardo agli spostamenti a Far’oun. Tuttavia i mezzi di informazione palestinesi hanno riportato che la ministra della Salute dell’ANP, Mai Kaileh, ha evidenziato i “gravi rischi” di viaggiare nelle “zone del ‘48” a causa dell’alto numero di casi di COVID-19 tra gli israeliani.

Nel contempo Bashar Masri, un imprenditore e uomo d’affari palestinese, ha chiesto all’ANP di riconsiderare le attuali regole riguardanti il COVID-19, affermando che queste “provocano una depressione economica sul mercato palestinese… dopo che improvvisamente l’occupazione ha aperto i posti di controllo, cosa che ha spinto le persone a viaggiare per svago e per fare spese (nei mercati israeliani).”

Ma le affermazioni di Masri, ed altre simili, hanno provocato grandi proteste da parte dei palestinesi, che hanno invitato altri come loro “a viaggiare ed andare a vedere le città da cui sono stati espulsi nel 1948.” In risposta alcuni palestinesi hanno postato su Facebook storie in cui i visitatori cantano canzoni palestinesi di liberazione, mentre altri foto dei loro parenti rifugiati che visitano, per la prima volta dopo molti anni, le città di origine da cui vennero cacciati.

Se solo potessimo entrare sempre”

A poche decine di chilometri di distanza, lungo il litorale tra Giaffa e Tel Aviv, migliaia di palestinesi si sono goduti la spiaggia, e qualcuno ci è rimasto fino a notte. Quelli che hanno viaggiato dalla Cisgiordania erano facilmente identificabili, perché continuavano a stare in acqua persino dopo che per quel giorno i bagnini erano tornati a casa. Molti di loro hanno postato sulle reti sociali immagini riprese in diretta per le loro famiglie rimaste a casa.

Osama, 43 anni, di Nablus, che è andato in spiaggia a Giaffa con la moglie e i figli, non aveva visto il mare da 34 anni. i suoi familiari ci sono stati per la prima volta.

È una sensazione incredibile,” dice. “Mio nonno era di Giaffa, di Kufr Salame [villaggio a sud di Tel Aviv, distrutto dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.]. Per guadagnarsi da vivere confezionava arance, e venne espulso durante la Nakba [la “catastrofe” in arabo, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel ’48, ndtr.].”

Osama aggiunge di non essere sicuro se sia stato per ragioni economiche o politiche che gli è stato concesso di attraversare la Linea Verde, ma ciò non incide sulla sua gioia per aver avuto questa possibilità. “Spero di poter tornare, ma chissà cosa succederà domani,” dice.

Rashid, 16 anni, di Deir Abu Mash’al, nei pressi di Ramallah, racconta come lui e i suoi amici sono entrati in Israele attraverso il varco nei pressi del villaggio di Ni’lin senza essere bloccati dai soldati.

Questa è la seconda volta nella mia vita che vado al mare,” afferma. “Sono contentissimo. Se solo potessimo entrare sempre!”

Alaa, una laureata in pubbliche relazioni di Nablus, è andata in spiaggia con i suoi amici, con cui ha raccolto conchiglie e ha scritto parole sulla sabbia. “Sono entusiasta di essere qui,” dice. “Non ho avuto paura di attraversare la barriera.”

Basel, 42 anni, di Qalquilya, dice di non essere mai stato sulla spiaggia prima. È stato accompagnato da sua moglie e da tre figli, che sono rimasti in mare dopo il tramonto. “Siamo rimasti rinchiusi per cinque mesi, per via del coronavirus, in isolamento a casa. Dovevamo uscire a prendere aria,” dice Basel. “La gente è disoccupata. È meglio che (la barriera) sia aperta, in modo che la gente possa lavorare e andare a farsi un giro. È meglio che morire chiusi in casa imprigionati.”

Anche il valico di Allenby dalla Cisgiordania alla Giordania è soggetto a nuove restrizioni a causa della pandemia da coronavirus, facendo sentire i palestinesi ancor più in gabbia del solito.

Basel stenta a descrivere le sue impressioni su Giaffa: “È veramente la sposa del mare, come si dice. Dopo la spiaggia andremo al (famoso ristorante di Giaffa) “Il vecchio e il mare”, che ci hanno detto essere eccellente.” Benché il viaggio sia stato dispendioso, dato che è disoccupato, Basel afferma di aver intenzione di tornare il prossimo mese.

La scorsa settimana sono tornato qui tre volte,” dice un giovane di Jayyous, nei pressi di Qalqilya. “Sono passati cinque anni dall’ultima volta che sono stato in spiaggia.”

Le scene sulla spiaggia di Giaffa hanno ricordato quanto il litorale sia vicino alla Cisgiordania, e come sarebbe una situazione “normale”, senza separazioni.

Se fosse un vero confine, pensi che lo lascerebbero attraversare dalle persone?”

Questa settimana il confine tra Israele e la Cisgiordania era praticamente del tutto cancellato,” ha twittato sabato un giornalista israeliano. Questa è stata infatti l’impressione presso la barriera di separazione e in spiaggia. Molte persone hanno evidenziato che non c’erano soldati presenti nei vari punti attraverso i quali sono passati in Israele, o se c’erano, i soldati sono semplicemente rimasti a guardare da lontano.

Un cinquantenne di Betlemme, che con la moglie e la figlia ha viaggiato da Far’oun a Giaffa, dice: “La situazione della Cisgiordania è arrivata a un punto di rottura. C’è tensione, e trovare la barriera aperta sta consentendo alle persone di respirare un po’, di godersi la spiaggia.”

Benché l’Eid sia finito la scorsa settimana, durante il fine settimana e anche dopo il flusso di visitatori verso la spiaggia è continuato. Anche se non si sa per quanto tempo questa politica ufficiosa durerà, i media israeliani sono rimasti relativamente indifferenti alla questione, e qualcuno ha notato che la situazione pone scarsi rischi per la sicurezza o per la salute. Ci sono stati persino commenti ironici sul fatto che, in assenza dei turisti dall’estero, ci sono stati almeno turisti palestinesi dalla Cisgiordania.

Si sono fatte varie supposizioni sul perché sia stato consentito ai palestinesi di entrare in Israele attraverso buchi nella barriera di sicurezza, e un’ipotesi è che ciò rappresenti un’esibizione di autorità da parte di Israele.

La ragione per cui è tutto aperto è politica,” dice un autista di Taybeh in attesa di passeggeri. “(Israele) vuole dimostrare chi comanda, e indebolire l’ANP. Quando l’ANP istituisce una chiusura totale, Israele apre tutto.”

Nei pressi di uno dei varchi nella barriera un palestinese di 60 anni dà una spiegazione simile. “Vogliono dimostrare che non ci sono Israele e Palestina, ma solo un unico territorio. Si stanno preparando ad annettere tutta la Cisgiordania. Se ci fosse un vero confine, pensi che lascerebbero passare la gente? Vogliono annullare la frontiera.”

Ci hanno impedito di entrare, ma io sto andando in Palestina,” ha detto un altro mentre stava attraversando la barriera con la sua famiglia. “Abbiamo aspettato per decenni che (il confine) fosse aperto, e ora possiamo andare liberamente in spiaggia.”

Il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che loro non si occupano della questione del movimento dei palestinesi attraverso i varchi nella barriera di separazione.

Ahmad Al-Bazz è un giornalista e documentarista che vive nella città cisgiordana di Nablus. Dal 2012 è membro del collettivo di fotografi “Activestills” [collettivo di fotografi impegnato nel sostegno dei diritti dei popoli oppressi con particolare riguardo ai palestinesi, ndtr.].

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia “Activestills” e redattore di Local Call [versione in lingua ebraica di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità che si mobilitano e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sulle case popolari e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e su quelle a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il New York Times lascia che sia Israele a fare il suo “controllo dei fatti”

Michael F. Brown

7 marzo 2019, Electronic Intifada

Il New York Times mi ha detto che è assolutamente disposto ad accettare la parola del governo israeliano sui fatti.

Avevo avvertito il giornale dell’informazione secondo cui l’editorialista Bret Stephens ha travisato i fatti nella sua implicita replica all’incisivo articolo di opinione di Michelle Alexander che chiedeva di rompere il silenzio sulla Palestina.

Stephens aveva scritto: “In questo secolo circa 1.300 civili israeliani sono stati uccisi durante attacchi terroristici palestinesi: questo in proporzione corrisponde a circa 16 volte l’11 settembre negli Stati Uniti.”

Ciò è falso.

Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem, che raccoglie statistiche scrupolose, dal 29 settembre 2000 alla fine di gennaio di quest’anno sono stati uccisi 823 civili israeliani, insieme a 433 “persone delle forze di sicurezza israeliane”.

Nello stesso periodo circa 10.000 palestinesi sono stati uccisi da Israele – il corrispettivo di decine di 11 settembre, per utilizzare il metro di valutazione di Stephens – anche se per lui a quanto pare le vittime palestinesi non hanno nessuna importanza.

Invece di correggere o verificare con decisione l’informazione errata presentata dal suo editorialista antipalestinese, il caporedattore degli articoli di opinione James Dao mi ha scritto che Stephens aveva avuto la sua “informazione dal governo israeliano, e a me va bene così.”

A me invece non va per niente bene. Trasmettere all’opinione pubblica un’informazione falsa del governo israeliano come se fosse vera è propaganda, non giornalismo o un commento legittimo.

Stephens è autorizzato ad avere le proprie opinioni, ma non i propri dati di fatto. Né lo è il governo israeliano. La parola del governo israeliano – e di Bret Stephens – dovrebbe essere messa a confronto con i dati reali.

In questo caso, non solo ci ha mentito, ma ha affermato che tutti i combattenti palestinesi sono terroristi e tutti gli israeliani – anche i soldati armati dell’occupazione – sono civili.

Il giornale, che giustamente è pronto a contraddire le menzogne del presidente Donald Trump, in questo caso sta prendendo un atteggiamento molto diverso verso le menzogne del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Notevole peggioramento

Ciò è pericoloso. E riduce la credibilità di un giornale che ho a lungo sollecitato perché facesse di meglio.

Non aver fatto una rettifica rappresenta un notevole peggioramento da quando, quasi 14 anni fa, parlai al public editor [giornalista incaricato di verificare la correttezza degli articoli pubblicati dal suo quotidiano, ndt.] del New York Times, Daniel Okrent.

Ci sono meno opportunità ora di quante ce ne fossero allora, in quanto il quotidiano non ha più un garante a cui i lettori possano rivolgersi.

Non lo posso sapere con certezza, ma penso che Okrent sarebbe sconcertato dal fatto che il “controllo dei fatti” sia stato appaltato al governo israeliano.

Stephens è di parte. E gioca a favore del razzismo contro i palestinesi. La sua credibilità è stata intaccata – o lo avrebbe dovuto essere – quando ha scritto di un “feticismo del sangue dei palestinesi.” Questo è un estremismo vile e lampante contro il popolo palestinese.

Sorprendentemente ha fatto un’affermazione altrettanto generale nel suo recente articolo domenicale quando ha reagito contro i progressisti che sono sempre più preoccupati per le politiche discriminatorie di Israele: “Tutto ciò è profondamente inquietante per una comunità ebraica che ha in genere visto il partito Democratico come il proprio referente politico.”

Questa è una generalizzazione antisemita da parte di Stephens, né tutti nella comunità ebraica la pensano come sostiene Stephens. Gli ebrei americani non sono monolitici quando si tratta dei tentativi di garantire i diritti e la libertà dei palestinesi.

Molti ebrei si oppongono all’occupazione israeliana e ad altri crimini, e sono profondamente sconvolti dai continui attacchi da parte di membri della lobby israeliana contro donne di colore che parlano a favore dei diritti dei palestinesi.

Oltretutto molti ebrei rifiutano l’ideologia ufficiale di Israele, il sionismo, in quanto colonialismo di insediamento e apartheid. Oltre ai dubbi sollevati da “Jewish Voice for Peace” [“Voce Ebraica per la Pace”, organizzazione di ebrei USA contraria all’occupazione dei territori palestinesi, ndt.] riguardo al sionismo, gruppi ebraici antisionisti includono Neturei Karta [gruppo di ebrei religiosi contrari al sionismo e all’esistenza di Israele, ndt.] e Satmar Hasidim, la principale setta hassidica [corrente religiosa ebraica con tendenze mistiche e messianiche, ndt.] negli Stati Uniti.

Lettere invece di un fatto accertato

Invece di pubblicare una rettifica, Dao mi ha suggerito di mandare piuttosto una lettera. Ma quella era stata la mia reazione prima ancora di rivolgermi a lui.

La lettera non era stata pubblicata. Né avrebbe sortito un risultato del tutto accettabile. Una rettifica da parte del giornale ha un peso molto maggiore rispetto all’opinione di chi avesse scritto una lettera.

Più di un decennio fa il New York Times Magazine [supplemento domenicale del NYT, ndt.] ebbe un approccio simile e insistette che scrivessi una lettera su un errore riguardante la posizione della barriera israeliana e il fatto che in molti punti non separa Israele dalla Cisgiordania occupata ma la Cisgiordania dalla Cisgiordania [perché non segue il percorso del confine tra Israele e Giordania precedente alla guerra del ’67, ma passa per lo più nei territori palestinesi occupati, ndt.].

Invece il supplemento pubblicò una rettifica piuttosto insignificante riguardo all’articolo, rilevando che una didascalia “aveva sbagliato ad identificare un mezzo meccanico su una strada nei pressi della struttura. Si trattava di un veicolo militare israeliano e non di un carrarmato.”

Questa “rettifica” affermava persino che l’articolo a cui faceva riferimento riguardava la “discussa barriera costruita per separare Israele dalla Cisgiordania.” In altre parole, la “rettifica” conteneva un errore peggiore di quello che avrebbe dovuto correggere.

Come segnalato, il giornale da allora ha fatto lo stesso errore e non lo ha corretto nonostante numerose sollecitazioni.

Nel marzo 2017 il giornalista Russell Goldman ha scritto: “L’inafferrabile artista di strada Banksy ha decorato gli interni dell’hotel “Walled Off” [Recintato], un albergo di nove stanze nella città cisgiordana di Betlemme le cui finestre danno sulla barriera che separa il territorio da Israele.”

Ancora una volta il New York Times avrebbe dovuto descrivere una barriera che in larga misura separa i palestinesi tra loro e dalle loro terre all’interno della Cisgiordania occupata.

La posizione della barriera e il fatto che molti israeliani uccisi non erano civili ma forze militari di occupazione sono dati informativi che possono essere facilmente verificabili.

Il fatto che il New York Times rifiuti di correggere Stephens, confidando in modo incondizionato nelle affermazioni di fonti ufficiali israeliane, indica che a Stephens è stato dato troppo spazio per proporre la propaganda legata ad Israele.

Non credo che Dao nutra lo stesso animo antipalestinese di Stephens – e venerdì persino Stephens ha criticato gli “attacchi demagogici contro gli arabi israeliani” da parte di Netanyahu, benché non si sia potuto spingere fino a chiamarli cittadini palestinesi di Israele o manifestare un minimo di preoccupazione per l’occupazione e per i crimini di guerra di Netanyahu a Gaza e in Cisgiordania.

Ma critiche relativamente moderate nei confronti di Netanyahu non possono mitigare grossolani errori riguardo ai fatti, insinuazioni razziste e indulgenza nei confronti delle violazioni dei diritti umani da parte di Israele, come Stephens ha fatto nella sua carriera. Con questi precedenti, Dao non dovrebbe privilegiare la parola di Stephens – e del governo israeliano – rispetto a quella di una credibile organizzazione per i diritti umani.

Il New York Times dovrebbe pubblicare una rettifica alla fine del prossimo articolo di Stephens, chiarendo che il governo israeliano ha fornito un’informazione errata e che chi controlla i fatti non ha cercato altre fonti di informazione più attendibili.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Le donne in prima linea rischiano la morte per i loro diritti

Isra Saleh el-Namey

9 giugno 2018, Electronic Intifada

Islam Khreis ha recentemente lanciato qualche pietra contro le truppe israeliane.

“Queste sono giornate storiche”, ha detto la ventottenne abitante di Gaza. “Stiamo dicendo al mondo intero che non abbiamo mai dimenticato il nostro legittimo diritto al ritorno nei nostri villeggi e città che ci hanno rubato.”

Lanciare pietre è un semplice atto di resistenza per i palestinesi. È un modo simbolico di affrontare uno dei Paesi più militarizzati del mondo.

È una tattica che è stata usata da alcuni partecipanti alle proteste della ‘Grande Marcia del Ritorno’, che chiedeva che i palestinesi potessero tornare ai villaggi e alle città da cui le forze sioniste li espulsero nel 1948.

Anche se le fotografie di palestinesi che lanciano pietre con le fionde in genere mostrano giovani uomini, Khreis era tra le molte donne che lo hanno fatto. In effetti ha svolto ogni tipo di attività. Ha aiutato a prestare i primi soccorsi ai manifestanti feriti dai cecchini israeliani e, come studentessa di giornalismo all’università Al-Aqsa di Gaza, ha fatto anche interviste ai manifestanti, benché, in quanto non accreditata, lo ha fatto senza avere la protezione derivante da scritte specifiche sui suoi indumenti.

Khreis prova un sentimento di solidarietà con le persone che si sono avventurate vicino alla barriera di separazione tra Gaza e l’attuale Israele. Più di 100 manifestanti disarmati sono stati uccisi da Israele da quando è iniziata la ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo.

“Il mio cuore si spezza quando vedo un giovane cadere a terra dopo essere stato colpito dai proiettili dei cecchini israeliani”, ha detto Khreis. “Questo è il risultato dell’ingiusto assedio imposto a Gaza. Se quei giovani avessero un lavoro decente, una buona educazione, servizi essenziali e libertà di movimento, non dovrebbero marciare verso la morte.”

Ovviamente anche molte donne e ragazze sono state ferite durante le proteste.

Una ragazzina, Wesal al-Sheikh Khalil, è stata uccisa mentre partecipava alla manifestazione il 14 maggio. E all’inizio di giugno l’infermiera ventunenne Razan al-Najjar è stata colpita a morte mentre aiutava a evacuare e curare i feriti.

“Un chiaro messaggio”

Mariam Mattar, di 16 anni, è stata colpita ad una gamba durante le recenti proteste. Stava sventolando una bandiera palestinese.

“Ho perso conoscenza”, ha raccontato a The Electronic Intifada. “Quando mi sono svegliata, ero in un letto d’ospedale.”

Nonostante la ferita, Mariam approva in pieno le proteste. “Vogliamo mandare un chiaro messaggio al mondo intero”, ha detto. “Il popolo palestinese sogna il giorno in cui potrà tornare alle proprie case. Speriamo che giunga presto.”

L’ampio uso dei gas lacrimogeni da parte di Israele – un’arma chimica che è stata lanciata sui manifestanti dai droni – ha colpito anche molte donne.

Amani Abu Jidian è andata alle recenti manifestazioni – che si tenevano normalmente di venerdì – con i suoi figli.

“I miei due figli hanno insistito per andare ogni venerdì”, ha detto. “So che è pericoloso, quindi per essere sicura che loro restassero al sicuro e non si avvicinassero troppo [alla barriera], li ho accompagnati mentre si avvicinavano al confine. Non ho smesso di sorvegliarli.”

L’11 maggio Abu Jidian era all’interno di una delle tende costruite a supporto delle proteste, quando l’hanno attaccata coi gas lacrimogeni.

“Mi sono sentita soffocare”, ha detto.

Insegnare le tradizioni

Anche se le tende non forniscono una reale protezione, si sono dimostrate importanti luoghi di aggregazione.

Maryam Abu Zubaida, di 63 anni, preparava i pasti per i manifestanti distribuiti nelle tende. Questi comprendevano piatti tradizionali come il maftoul – couscous palestinese – e la sumaghiya, uno stufato di carne di bue e ceci.

Quando si recava nelle tende, cantava canzoni nazionali e ricamava, per aiutare i manifestanti.

“È un bel modo per me di passare il tempo coi miei amici”, ha detto a ‘The Electronic Intifada’. “E nello stesso tempo facciamo un buon lavoro di insegnamento delle nostre tradizioni alle generazioni più giovani per conservarle nel futuro.”

Un giorno Maryam ha portato la sua nipotina Farah di 7 anni in una tenda. Recandosi là, Farah ha imparato canzoni come “Zareef al-Tool”, un lamento per le città e i villaggi che i palestinesi furono costretti a lasciare nel 1948.

“Mi piace quando finisco le lezioni e mia nonna accetta di portarmi con lei alla tenda”, ha detto Farah. “Là mi sono divertita molto.”

Quando Israele ha attaccato le manifestazioni, le donne hanno curato i feriti. Le uccisioni di Razan al-Najjar e, prima di lei, di Mousa Abu Hassanein, hanno messo in evidenza i rischi che corrono i medici.

Anwar Mohammed, un’infermiera di 26 anni, ha prestato i primi soccorsi ai manifestanti colpiti.

“Il nostro lavoro è stato molto impegnativo nelle scorse settimane”, ha detto. “Ci siamo occupati di un gran numero di vittime.”

Mohammed ha lavorato in un ospedale da campo, ma a volte le è stato chiesto di avvicinarsi alla barriera di confine per fornire assistenza di emergenza.

“La pressione e lo stress cui eravamo sottoposti è stato enorme, soprattutto durante le proteste del venerdì”, ha aggiunto.

Il coraggio che ha dimostrato le è valso un notevole rispetto.

“Era una novità per i manifestanti vedere infermiere donne in prima linea”, ha detto a ‘The Electronic Intifada’. Ci esponevamo al pericolo e aiutavamo a salvare vite umane. Ma non c’ è voluto molto perché i manifestanti si abituassero a noi. Ascoltavano le nostre istruzioni e vi si sono attenuti.”

Isra Saleh el-Namey è giornalista a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Una nuova realtà sotterranea sta prendendo forma lungo il confine tra Gaza e Israele

Amos Harel, 15 maggio 2017, Haaretz

L’aumentata pressione da parte di Abbas potrebbe spingere Hamas a cercare di compiere un’incursione oltre frontiera. La massiccia barriera israeliana anti-tunnel provoca il fatto che Hamas abbia aumentato i posti di vedetta – cosa non necessariamente negativa.

Nelle ultime settimane il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha progressivamente incrementato la pressione sul governo di Hamas nella Striscia di Gaza. Le misure punitive si sono susseguite: interruzione del pagamento della tassa sul combustibile importato, taglio di un terzo dei salari di 45.000 impiegati statali a Gaza che sono ancora pagati dall’ANP, interruzione dei pagamenti per l’elettricità di Gaza proveniente da Israele.

I funzionari israeliani della Difesa hanno ancora difficoltà a spiegare il cambiamento di approccio da parte di Abbas, visto che nell’ultimo decennio, fin da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia, non ha mai affrontato direttamente l’organizzazione. L’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon nel 2003 disse di Abbas: “Il pulcino non ha ancora messo le piume”. Ma adesso che il pulcino ha compiuto 82 anni, qualcosa evidentemente è cambiato.

Una possibile spiegazione è che Abbas pensi che Hamas alla fine si troverà di fronte a una rivolta interna – una speranza condivisa da alcuni israeliani. L’ipotesi è che i gazawi scenderanno in piazza, proprio come gli egiziani che hanno riempito piazza Tahrir al Cairo sei anni fa, e deporranno il governo islamico di Gaza.

A tutt’oggi comunque non vi sono segnali di un tale evento. Lo scorso inverno, quando si sono verificati problemi simili con la fornitura di energia, è scoppiata una breve ondata di proteste, ma Hamas è stata in grado di reprimerle.

L’aggravamento dei problemi degli abitanti di Gaza

Questa primavera il panorama è un po’ diverso. Le gravi riduzioni di energia colpiscono principalmente le istituzioni pubbliche, come ospedali e scuole. Molti gazawi, abituati alle interruzioni della fornitura di energia, hanno comprato dei generatori in proprio. Far funzionare un generatore costa molti soldi, ma potrebbe non essere ancora sufficiente perché i gazawi giungano al punto di rottura.

Anche se la popolazione perdesse la pazienza, è difficile che i capi di Hamas rinuncino al loro progetto più importante, il governo islamista che hanno imposto a Gaza dal maggio del 2007. Piuttosto, se la pressione aumentasse, probabilmente cercheranno un’altra via per uscire dalla trappola.

Un’opzione potrebbe essere quella di incoraggiare la popolazione a fare manifestazioni “spontanee” lungo il confine con Israele, nel tentativo di dirottare la rabbia verso Israele (ogni dura reazione da parte dei soldati israeliani inasprirebbe ulteriormente la situazione). Un’altra alternativa è l’azione militare – un raid oltre frontiera attraverso un tunnel o in altro modo, che svierebbe l’attenzione della gente dalla responsabilità di Hamas per le sofferenze del suo popolo.

Le sofferenze si stanno aggravando in quanto Hamas, che raccoglie le tasse su ogni minimo prodotto che entra nella Striscia, sta ancora destinando la maggior parte del denaro disponibile per rafforzare le proprie potenzialità militari. Questa settimana, il numero di camion che trasportano merci da Israele e Cisgiordania a Gaza è stato in media di 1000 al giorno – cinque volte la media giornaliera prima dell’ultimo conflitto tra Hamas e Israele nell’estate del 2014.

Dichiarazioni di Hamas

Una nuova realtà sta prendendo forma lungo il confine tra Gaza ed Israele. Con discrezione, Israele ha iniziato a costruire una nuova barriera contro i tunnel che attraversano il confine. La barriera comprende un muro sotterraneo, una recinzione sul terreno ed un complesso sistema di sensori e dispositivi di monitoraggio. I lavori sono iniziati in alcuni brevi tratti vicino alla zona nord di Gaza e si prevede che nei prossimi mesi verranno notevolmente incrementati.

Hamas sorveglia da vicino. All’interno di Gaza, a circa 300 metri dal confine, l’organizzazione ha aumentato in modo significativo il numero dei suoi posti di vedetta. Quasi sempre, quando dal lato israeliano compaiono gru ed escavatori, spuntano le vedette dal lato palestinese.

Questo non è necessariamente negativo dal punto di vista israeliano. La “pattuglia di confine” di Hamas si adopera per impedire agli infiltrati di entrare in Israele. Arresta la maggior parte di loro ed in un caso recente ha persino aperto il fuoco contro un palestinese che cercava di entrare in Israele. Alti ufficiali israeliani dicono che Hamas si sta anche impegnando ad impedire il lancio di razzi.

Gli avamposti di Hamas aiutano anche l’esercito [israeliano] a reagire immediatamente se un razzo o un’arma fa fuoco comunque su Israele. Cioè gli avamposti diventano obbiettivi che Israele attacca sulla base del fatto che Hamas è responsabile per qualunque cosa avvenga nel territorio sotto il suo controllo.

Evidentemente anche Hamas comprende le regole del gioco. Altrimenti è difficile spiegare perché quasi nessuno è stato ferito in questi attacchi punitivi israeliani.

E’ chiaro che lungo il confine di Gaza è stato intrapreso un impegnativo progetto costruttivo. La barriera sarà lunga solo circa 65 chilometri, più o meno un quarto della lunghezza della barriera lungo il confine israelo-egiziano, ma il lavoro sul confine di Gaza è incomparabilmente più complesso.

Quando gli storici e i geografi studieranno i confini israeliani nel corso degli ultimi due decenni, scopriranno che un personaggio poco conosciuto ha influenzato la topografia più di tutti i leader e i generali messi insieme. Quest’uomo è il generale di brigata Eran Ophir, capo dell’amministrazione militare per la costruzione della barriera. Dopo la barriera di separazione in Cisgiordania, quella lungo il confine egiziano e quella sulle alture del Golan, adesso Ophir si sta occupando della barriera lungo il confine di Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




La divisione di Gerusalemme perpetuerà l’occupazione?

Al-Monitor

Akiva Eldar,

Nei prossimi giorni un piccolo gruppo di uomini e donne si riunirà nell’ufficio del presidente israeliano Reuven Rivlin. Gli ospiti, fondatori di un nuovo movimento chiamato “Salvare la Gerusalemme ebraica”, consegnerà a Rivlin un manifesto che riassume il loro progetto per la città. Il presidente, che in genere inizia le interviste radiofoniche con il saluto “Buongiorno (o buonasera) da Gerusalemme,” ascolterà il loro progetto per la separazione unilaterale di una parte di Gerusalemme est.

I piani di separazione che intendono dividere Gerusalemme dai villaggi palestinesi circostanti non faranno che perpetuare l’annessione di Gerusalemme a Israele.

I principi di un simile progetto sono stati illustrati in un’intervista che Mazal Mualem [ex-giornalista di Maariv e Haaretz ed attuale collaboratrice di Al-Monitor. Ndtr.] ha fatto al presidente di “Campo sionista” [coalizione tra laburisti e Kadima che si è presentata alle ultime elezioni arrivando al secondo posto. Ndtr.] Isaac Herzog, pubblicata il 22 gennaio da Al-Monitor. L’interessante novità nel piano di “Salvare la Gerusalemme ebraica” risiede nella lista degli attivisti del nuovo movimento. La forza trainante e il nome più intrigante è quello dell’ex membro del governo Haim Ramon.

Ramon ha lasciato la politica ed ha tenuto un profilo basso dopo essere stato arrestato per molestie sessuali che nel 2007 hanno coinvolto una soldatessa. Il resto dei suoi amici in Kadima [partito politico israeliano “di centro” fondato da Sharon e Peres. Ndtr.], di cui è stato cofondatore nel 2005 e che in seguito si è sciolto, se ne andò per strade diverse. Molti di questi amici nel nuovo gruppo si chiedono se il movimento per “Salvare la Gerusalemme ebraica” è stato pensato anche per salvare la carriera politica di un uomo a suo tempo considerato la stella nascente nel cielo di Gerusalemme.

Il programma di “Salvare la Gerusalemme ebraica”, che sarà anche presentato all’opinione pubblica, chiede di cedere il controllo di 28 villaggi palestinesi di Gerusalemme est all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). I villaggi in questione erano stati parte integrante della Cisgiordania finché Israele li ha annessi nel 1967. Vi vivono circa 200.000 persone. Con l’annessione, ai palestinesi è stata concessa la residenza permanente ed hanno ottenuto i diritti dei cittadini israeliani, compresi, tra le altre cose, benefici della sicurezza sociale, libertà di movimento a ovest della Linea Verde [il confine tra Israele e Giordania precedente alla conquista israeliana nel ’67. Ndtr.], il diritto a studiare nelle istituzioni [educative] israeliane di istruzione superiore e l’accesso alla moschea di Al Aqsa.

Membri del movimento sostengono che i villaggi palestinesi danneggiano gravemente la prosperità della capitale israeliana in termini di sicurezza, equilibrio demografico [tra ebrei e palestinesi in città. Ndtr.], livello di vita e benessere economico. Considerano che i violenti incidenti a Gerusalemme, che si sono intensificati nel settembre 2015, evidenziano la necessità di revocare l’annessione (sbagliata) dei villaggi a Gerusalemme.

I promotori del manifesto spiegano che sottraendo circa 200.000 palestinesi dai confini municipali di Gerusalemme, gli ebrei in città costituirebbero più dell’80% dei residenti e la percentuale di palestinesi scenderebbe dall’attuale quasi 40% a meno del 20%. Non solo questo, sottolineano: revocare i permessi di residenza israeliana ai palestinesi ridurrebbe il peso economico che questi villaggi impongono ai contribuenti israeliani – circa 2-3 miliardi di shekel (438-665 milioni di euro) annuali di entrate e tasse municipali. I rimanenti residenti di Gerusalemme est, arabi ed ebrei, manterrebbero la loro attuale residenza e cittadinanza.

“Salvare la Gerusalemme ebraica” ha anche proposto l’immediata costruzione di una “barriera di sicurezza continua” tra i “villaggi stranieri” e Gerusalemme. La barriera sarebbe unita al muro di separazione che divide Israele e le colonie dal resto della Cisgiordania. Dopo la separazione dei villaggi da Gerusalemme, l’esercito israeliano (IDF) e altri organi della sicurezza opererebbero al loro interno come fanno normalmente nel resto della Cisgiordania. Secondo il manifesto, per mettere in pratica il piano per garantire la sicurezza di Gerusalemme e il suo carattere ebraico, la Knesset [il parlamento israeliano. Ndtr.] dovrebbe emendare la legge fondamentale “Gerusalemme, capitale di Israele”. Tutto il progetto sarebbe messo in atto in modo unilaterale, senza consultare i palestinesi o ottenere il loro consenso.

Uno dei fondatori del movimento, che ha chiesto di rimanere anonimo, ha detto ad Al-Monitor che un sondaggio di opinione commissionato dal suo gruppo ha indicato che l’85% dell’opinione pubblica ebraica, così come una parte significativa degli arabi in Israele, appoggia la separazione dai villaggi palestinesi della periferia [di Gerusalemme]. Herzog, di “Campo sionista”, che ha analizzato i risultati del sondaggio, ha rapidamente adottato i principi del piano. “Per il momento non si può ottenere la pace, per cui garantiamo la sicurezza in modo da poter parlare della pace,” ha affermato Herzog nell’intervista ad Al-Monitor. “Mi sono incontrato con (il presidente palestinese Mahmoud) Abbas lo scorso agosto e, mi spiace dirlo, anche in quell’occasione non ho trovato il coraggio o le capacità di leadership necessarie per accettare dolorose concessioni.”

Tuttavia quando Herzog è tornato dal suo incontro con Abbas del 18 agosto aveva fatto un discorso ben diverso. Si è detto che il leader dell’opposizione avesse affermato all’epoca con sicurezza: “Se c’è buona volontà, possiamo raggiungere un accordo che garantisca la sicurezza di Israele; negli ultimi mesi si è emersa una inedita opportunità regionale.” Ha persino proposto un’accelerata tempistica: “entro due anni”. Secondo Herzog, le opportunità non avrebbero dovuto andare perse: “[La congiuntura regionale] consente un appoggio da parte dei Paesi vicini per una mossa diplomatica tra noi e i palestinesi,” ha detto. Herzog aveva anche riferito di aver promesso ad Abbas che avrebbe continuato a cercare di convincere l’opinione pubblica israeliana, che stava gradualmente perdendo fiducia nella pace, della necessità di un simile processo e di portarlo rapidamente avanti.

Ora, neppure sei mesi dopo, il capo dell’opposizione ha perso la fiducia in un dialogo con i palestinesi (sotto gli auspici della “Lega araba”) a favore di misure unilaterali. Davvero dirigenti politici con una lunga esperienza come Herzog pensano che una mossa così drastica possa essere promossa nella polveriera che è Gerusalemme, senza coordinamento e accordo con le controparti palestinesi, arabe e islamiche? Non capiscono che eliminare i 28 villaggi arabi da Gerusalemme est sarebbe interpretato dal mondo come la perpetuazione dell’annessione israeliana delle altre parti di Gerusalemme est, compresi i luoghi santi?

Cosa ne sarebbe delle migliaia di palestinesi che si trovano ancora dall’altra parte della barriera, con una riduzione delle entrate per la perdita dei loro diritti di residenza, di cui hanno goduto per quasi 50 anni? Dovrebbero andare a cercare un aiuto nei centri di reclutamento di Hamas e della Jihad Islamica? Dovrebbero importare le tecniche di scavo dei tunnel dalla Striscia di Gaza nel campo di rifugiati di Shuafat in direzione dei quartieri ebraici adiacenti?

Un altro degli ideatori del piano, che ha chiesto anch’egli l’anonimato, ha detto ad Al-Monitor: “Sappiamo che non c’è modo che (il primo ministro Benjamin) Netanyahu prenda anche lontanamente in considerazione l’adozione del progetto. Il nostro obiettivo principale è di mostrare all’opinione pubblica che c’è gente dalla nostra parte che ha cominciato a fare progetti piuttosto che rimanere legata allo status quo.” Ha anche affermato che il gruppo è pienamente cosciente che la sinistra farà a pezzi la proposta e i suoi promotori: “Questo è il nostro secondo obiettivo,” ha detto, con un mezzo sorriso, “avere uno spintone dalla sinistra che ci spingerà verso destra.”

Non è affatto certo se il movimento politico e i suoi progetti rallenteranno lievemente l’emorragia di voti degli elettori israeliani dal “Campo sionista”. E’ più probabile che accelereranno la fuga dell’elettorato palestinese dal campo di Abbas in costante calo.

Un articolo pubblicato nell’edizione del settembre 2011 della prestigiosa rivista Foreing Affairs [autorevole bimestrale nordamericano che si occupa di politica estera. Ndtr.] suggerisce che ci sono dirigenti politici israeliani che credono (o per lo meno credevano all’epoca) che ci sia un altro modo migliore di porre fine al conflitto con i palestinesi. In base al piano presentato nell’articolo, Israele avrebbe votato a favore del fatto che la Palestina diventasse un membro a pieno diritto delle Nazioni Unite. Immediatamente dopo, negoziati per un accordo permanente sarebbero stati ripresi con il sostegno della comunità internazionale. L’accordo sarebbe stato basato sui parametri delineati dal presidente Clinton nel 2000 ed ampliati dal presidente Barak Obama nel maggio 2011: la nascita di uno Stato palestinese in base ai confini del 1967, con uno scambio di territori e un accordo per la sicurezza. Non si potrebbe fare niente di meglio.

Quell’articolo – “Perché Israele dovrebbe votare per l’indipendenza palestinese”- è stato scritto dal parlamentare israeliano Isaac Herzog.

Akiva Eldar è un articolista della sezione di Al-Monitor dedicata alla situazione in Israele. E’ stato un importante opinionista ed editorialista di Haaretz e è stato anche il capo dell’ufficio USA del quotidiano in ebraico e corrispondente diplomatico. Il suo libro più recente (insieme a Idith Zertal), “Signori della Terra”, sulle colonie ebraiche, è stato tra i best seller in Israele ed è stato tradotto in inglese, francese, tedesco e arabo.

Traduzione di Amedeo Rossi