Il processo di pace non ha mai inteso dare ai palestinesi uno Stato: rivelazioni dal Council on Foreign Relations

Philip Weiss

22 maggio 2020 – Mondoweiss

Steven Cook, del Council on Foreign Relations [Consiglio sulle Relazioni Internazionali: organizzazione indipendente statunitense fondata nel 1921 che promuove la comprensione delle relazioni internazionali e della politica estera, ndtr], ha pubblicato su Foreign Policy [prestigiosa rivista bimestrale statunitense dedicata alle relazioni Internazionali, ndtr] un articolo che afferma che gli Stati Uniti dovrebbero eliminare gradualmente gli aiuti a Israele e “porre fine rapporto privilegiato [con Israele]” perché il processo di pace ha raggiunto il suo vero obiettivo: Israele è riconosciuto come un Paese sicuro con un tenore di vita alla stregua del Regno Unito e della Francia e senza alcuna reale minaccia militare.

L’articolo è sconvolgente in quanto rivela l’essenza del processo di pace, dicendo esattamente ciò che Edward Said, Rashid Khalidi e Ali Abunimah [autorevoli scrittori e studiosi americani-palestinesi; l’ultimo è uno dei più autorevoli sostenitori della soluzione attraverso uno Stato unico, ndtr.] hanno sostenuto decenni or sono, cioè che fosse destinato a fallire, senza mai condurre ad un’ indipendenza palestinese.

Cook afferma che l'”interesse principale” degli Stati Uniti in Medio Oriente è sempre stato la “sicurezza” di Israele, quindi il processo di pace doveva girare in tondo all’infinito.

I politici statunitensi hanno a lungo creduto che una soluzione con due Stati fosse il modo migliore per garantire la sicurezza di Israele, e i presidenti degli Stati Uniti, da Bill Clinton a Barack Obama allo stesso Donald Trump, hanno ripetutamente perseguito tale obiettivo. Ma il fatto per lo più sconosciuto riguardo all’impasse dei due Stati – e forse il motivo per cui Washington non ha dimostrato la volontà politica di superarlo – è che essa ha consentito agli Stati Uniti di raggiungere uno dei [suoi] interessi fondamentali nella regione: contribuire a garantire la sicurezza di Israele …

La “tragedia” per i palestinesi, spiega Cook, è che si sono fidati degli Stati Uniti e “hanno interpretato erroneamente” gli interessi principali degli Stati Uniti; ma ora saranno costretti a vivere per sempre in Bantustan [denominazione dei territori circoscritti e separati in cui erano costrette a vivere le popolazioni di etnia nera nel Sud Africa al tempo dell’Apartheid, ndtr.].

La tragedia in tutto ciò è costituita dalla spoliazione permanente dei palestinesi, che senza dubbio saranno indignati per il fatto che Washington si stia lavando le mani del conflitto, affidandoli al destino di dover vivere per sempre sotto lo stivale dell’IDF [le forze armate israeliane, ndtr.] o ammassati all’interno di Bantustan. La loro rabbia è giustificabile. Hanno anche frainteso gli interessi fondamentali degli Stati Uniti in Medio Oriente, che in realtà non hanno a che fare con i palestinesi i quali, nonostante ogni prova contraria, si sono fidati degli Stati Uniti.

La prossima volta che qualcuno dirà che gli arabi dicono il falso o che gestiscono la politica estera come un suk, bisognerà ricordargli che persino un esperto del Council on Foreign Relations afferma che gli Stati Uniti hanno ingannato i palestinesi con 25 anni di false promesse.

L’ovvia domanda che si pone è sul perché distruggere i diritti umani palestinesi sia un interesse cruciale degli Stati Uniti – anzi, perché il sionismo sia un interesse cruciale degli Stati Uniti – e sì, in che misura questo rifletta il potere della lobby israeliana nella nostra politica. Per una generazione abbiamo avuto mediatori della Casa Bianca che sono stati definiti “gli avvocati di Israele” o che dicevano al pubblico della sinagoga “dobbiamo essere i sostenitori di Israele”, o che sono passati direttamente dai loro incarichi nella Casa Bianca di Obama a un lavoro a favore di Israele (sia Dan Shapiro [già ambasciatore degli Stati Uniti in Israele durante l’incarico di Obama, ndtr.] che Tamara Cofman Wittes [scrittrice ed esperta di questioni medio-orientali; vice assistente del segretario per gli Affari del Vicino Oriente presso il Dipartimento di Stato dal novembre 2009 al gennaio 2012, ndtr.]).

Nessuno di questi impostori ha mai avuto alcun reale interesse a concedere una qualunque forma di indipendenza ai palestinesi.

E quanto è stata funzionale a quell’interesse “fondamentale” anche l’instabilità dei Paesi vicini? Israele è messo bene, dice Cook, perché “Iraq e Siria sono in rovina”. E il Libano si sta sgretolando.

Dovremmo essere grati a Cook per aver affermato che l’obiettivo del processo di pace fosse il fallimento; e che il fallimento avrebbe salvaguardato unicamente gli interessi di Israele.

L’Israel Policy Forum ha espresso un’ analoga visione quando Netanyahu l’anno scorso ha iniziato a preannunziare l’annessione della Cisgiordania.

[L’annessione] aggraverà le divisioni tra i sostenitori di Israele negli Stati Uniti, alla fine eroderà la sicurezza di Israele, consegnerà una vittoria evitabile e netta al movimento BDS e manderà all’aria decenni di politica attentamente calibrata su Israele.

“Decenni di una politica attentamente calibrata su Israele” significa che i sionisti, progressisti o meno, sostengono a parole uno Stato palestinese ma alla fine non hanno nessun problema riguardo l’occupazione, perché lo status quo è favorevole a Israele – è una prospera democrazia per gli ebrei e l’apartheid per i palestinesi è una tragedia ma non vale la pena perderci il sonno.

E quando emerge un tentativo reale di far pagare a Israele un prezzo per le sue violazioni dei diritti umani, i sionisti progressisti saltano su ad etichettare il BDS come antisemita.

Un ringarziamento a Scott Roth.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Più di 150 personalità arabe chiedono a Israele e al mondo arabo di scarcerare i prigionieri politici

20 maggio 2020 – Middle East Monitor

Oltre 150 note personalità del mondo arabo hanno chiesto la scarcerazione di prigionieri palestinesi dalle prigioni israeliane e di prigionieri politici da quelle negli Stati arabi, definendo la pandemia da coronavirus durante la detenzione una “doppia punizione”.

Tra le personalità arabe figurano diplomatici, giornalisti, artisti, accademici, attivisti per i diritti umani e intellettuali, ciascuno dei quali ha aderito all’appello in un articolo pubblicato ieri sul sito politico in francese Orient XXI.

L’articolo chiede ad Israele e agli Stati arabi che detengono prigionieri di coscienza di rilasciarli immediatamente e senza condizioni, soprattutto in quanto “in presenza della pandemia la detenzione diventa una doppia punizione”.

Tra i firmatari vi sono gli scrittori giordano Ibrahim Nasrallah   ed egiziano   Ahmed Nagy, gli accademici rispettivamente marocchino, palestinese-americano e tunisino Abdellah Hammoudi, Rashid Khalidi and Yadh Ben Achour, il compositore e suonatore di oud tunisino Anouar Brahem e la cantante libanese Omaima El Khalil. Vi sono inoltre l’attore palestinese Saleh Bakri, i giornalisti libanese ed egiziano Pierre Abi Saab e Khaled al-Balshi, i politici palestinesi Hanan Ashrawi e Nabil Shaat e il difensore dei diritti umani palestinese Omar Barghouti e tunisino Mokhtar Trifi.

L’articolo afferma che, nonostante il regime occupante israeliano ed i regimi arabi abbiano risposto a precedenti appelli internazionali per il rilascio di prigionieri e “abbiano annunciato la scarcerazione di prigionieri e ne abbiano effettuato alcune, queste non sono state estese ai prigionieri politici.”

Inoltre sottolinea che non vi è una reale e significativa differenza tra i prigionieri palestinesi in Israele ed i prigionieri politici nel mondo arabo, definendo entrambe le categorie “unite dallo stesso destino”. Una firmataria, l’ex ambasciatrice palestinese per la Francia e l’Unione Europea, Leila Shahid, ha affermato: “La lotta per la libertà, la cittadinanza e i diritti umani non ha nazionalità. In Palestina, in Marocco o in Egitto, la lotta è la stessa e dobbiamo essere tutti uniti.”

Un esempio citato a tal proposito è Ramy Shaath, coordinatore della sezione egiziana del movimento internazionale per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro l’occupazione di Israele ed i prodotti da essa sfruttati. Per quasi un anno Shaath è stato incarcerato dalle autorità egiziane, diventando uno dei prigionieri di coscienza di cui l’articolo chiede il rilascio.

Il vice-presidente della Federazione Internazionale per i Diritti Umani [che riunisce 164 organizzazioni nazionali di difesa dei diritti umani in oltre 100 Paesi, ndtr.], Hafidha Chekir, ha affermato: “Il diritto dei popoli all’autodeterminazione è parte integrante del diritto internazionale riguardo ai diritti umani e non può essere soggetto né a deroga né ad esclusione.” Sostenere questo diritto umano e il rilascio dei prigionieri che lo hanno esercitato, ha detto,“è una causa nobile e legittima”, chiedendo “il rilascio immediato e senza condizioni di Ramy, come anche di tutti i prigionieri palestinesi e i detenuti politici nella regione araba.”

Durante l’attuale crisi causata dalla pandemia da coronavirus parecchi Stati del Medio Oriente – come Egitto, Iran, Siria – hanno scarcerato migliaia di prigionieri per il timore del diffondersi del virus nelle prigioni. Tuttavia queste misure in genere hanno permesso la scarcerazione di chi era vicino alla fine della detenzione e non hanno incluso i prigionieri detenuti per motivi politici.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il piano di annessione di Israele è la riproposizione della Nakba

David Hearst

15 maggio 2020 – Middle East Eye

Nella sua visione attuale Israele conosce un solo percorso: intensificare il suo dominio su un popolo a cui ha rubato e continua a rubare la terra

Gli anniversari commemorano eventi passati. E sarebbe lecito pensare che un evento accaduto 72 anni fa faccia parte davvero nel passato.

Questo è vero per la maggior parte degli anniversari, tranne che nel caso della Nakba, il “disastro, catastrofe o cataclisma” che segna la ripartizione del Protettorato della Palestina del 1948 e la creazione di Israele.

La Nakba non è un evento passato. Da allora, la spoliazione di terre, case e la creazione di rifugiati è proseguita quasi senza sosta. Non è qualcosa che è successo ai nostri nonni.

Succede o potrebbe succedere a noi in qualsiasi momento della nostra vita.

Un disastro ricorrente

Per i palestinesi la Nakba è un disastro ricorrente. Nel 1948 almeno 750.000 palestinesi furono sfollati dalle loro case. Un numero ulteriore, da 280.000 a 325.000, abbandonarono nel 1967 le loro abitazioni situate nei territori conquistati da Israele.

Da allora, Israele ha escogitato mezzi più sottili per spingere i palestinesi fuori dalle loro case. Uno di questi strumenti è la revoca della residenza. Tra l’inizio dell’occupazione israeliana di Gerusalemme est nel 1967 e la fine del 2016, Israele ha revocato, nella Gerusalemme est occupata, lo status di almeno 14.595 palestinesi.

Altri 140.000 abitanti di Gerusalemme est sono stati “tacitamente trasferiti” dalla città nel 2002, con la costruzione del muro di separazione, attraverso il blocco dell’accesso al resto della città. Quasi 300.000 palestinesi di Gerusalemme est possiedono una residenza permanente rilasciata dal ministero degli interni israeliano.

Due aree sono state tagliate fuori dalla città, sebbene si trovino all’interno dei suoi confini municipali: Kafr ‘Aqab a nord e Shu’fat Refugee Camp a nord-est.

I residenti dei quartieri in queste aree pagano le tasse municipali e di altro genere, ma né le istituzioni comunali di Gerusalemme né quelle governative si occupano di questo territorio o lo considerano sottoposto alla loro responsabilità.

Di conseguenza, queste parti di Gerusalemme est sono diventate terra di nessuno: la città non fornisce servizi comunali di base come la rimozione dei rifiuti, la manutenzione delle strade e l’istruzione, e mancano le aule e le strutture per gli asilo nido.

Gli impianti idrici e fognari non soddisfano i bisogni della popolazione, tuttavia le autorità non fanno nulla per ripararli. Per raggiungere il resto della città, i residenti devono quotidianamente passare sotto le forche caudine dei posti di blocco.

Un altro strumento di esproprio è l’applicazione della Legge sulla Proprietà degli Assenti, che, quando venne approvata, nel 1950, fu concepita come fondamento per poter trasferire le proprietà dei palestinesi allo Stato di Israele.

Il ricorso ad essa a Gerusalemme est venne generalmente evitato fino alla costruzione del muro. Sei anni dopo, fu usata per espropriare il “territorio abbandonato” dai residenti palestinesi di Beit Sahour per la costruzione di 1.000 unità abitative ad Har Homa, a Gerusalemme sud. Ma generalmente il suo scopo è quello di fornire uno stratagemma per un”espropriazione strisciante”.

Una Nakba in tempo reale

Il fulcro della campagna elettorale del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il fine giuridico essenziale dell’attuale coalizione di governo israeliana costituirebbero un altro capitolo, nel 2020, dell’ espropriazione nei confronti dei palestinesi. Tali sono i piani per annettere un terzo – o peggio due terzi – della Cisgiordania.

Tre scenari sono attualmente in discussione: il piano radicale dell’annessione della Valle del Giordano e di tutto ciò che gli Accordi di Oslo definiscono Area C. Questa costituisce circa il 61 % del territorio della Cisgiordania che è amministrato direttamente da Israele e ospita 300.000 palestinesi.

Il secondo scenario è rappresentato dall’annessione della sola Valle del Giordano. Secondo i sondaggi israeliani e palestinesi condotti nel 2017 e nel 2018, c’erano 8.100 coloni e 53.000 palestinesi che vivevano in questa terra. Israele ha diviso questo territorio in due entità: la valle del Giordano e il Consiglio Regionale di Megillot-Mar Morto.

Il terzo scenario consiste nell’annessione delle colonie intorno a Gerusalemme, la cosiddetta area E1, che comprende Gush Etsion e Maale Adumin [insediamenti coloniali israeliani situati rispettivamente a Sud e a Est di Gerusalemme, ndtr.]. In entrambi i casi i palestinesi che vivono nei villaggi vicini a questi insediamenti sono minacciati di espulsione o trasferimento. Ci sono 2.600 palestinesi che vivono nel villaggio di Walaja e in parti di Beit Jala che sarebbero coinvolti nell’annessione di Gush Etsion, nonché 2.000-3.000 beduini che vivono in 11 comunità intorno a Maale Adumin, come Khan al-Ahmar.

Cosa succederebbe ai palestinesi che vivono nei territori annessi da Israele?

In teoria potrebbe venire loro offerta la residenza, come nel caso dell’annessione di Gerusalemme est. In pratica, la residenza sarebbe offerta solo a pochi eletti. Israele non vorrà risolvere un problema creandone un altro.

La maggior parte della popolazione palestinese delle aree annesse sarebbe trasferita nella grande città più vicina, come è accaduto per i beduini del Negev e gli abitanti di Gerusalemme est, che si ritrovano in aree isolate dal resto della città.

Il monito dei generali

Questi piani hanno generato reazioni di allarme nei responsabili della sicurezza di Israele, che sono abituati ad essere ascoltati, ma che ora esercitano una minore influenza rispetto al passato sui processi decisionali.

Ciò non è dovuto al fatto che gli ex generali abbiano alcuna obiezione morale riguardo l’espropriazione delle terre palestinesi o perché ritengano che i palestinesi abbiano un diritto legale ad esse. No, le loro obiezioni si basano sull’eventualità che l’annessione possa mettere in pericolo la sicurezza di Israele.

Un interessante riassunto del loro pensiero è fornito da un documento accessibile pubblicato anonimamente dall’Institute for Policy and Strategy (IPS) di Herzliya [Centro di studi internazionale e interdisciplinare privato situato nel distretto di Tel Aviv, ndtr.]. Essi affermano che l’annessione destabilizzerebbe il confine orientale di Israele, che è “caratterizzato da grande stabilità e da un grado molto basso di attività terroristiche” e che provocherebbe una “scossa profonda” alle relazioni di Israele con la Giordania.

“Per il regime hascemita, l’annessione è sinonimo dell’idea di una patria alternativa per i palestinesi, vale a dire la distruzione del regno hascemita a favore di uno stato palestinese.

“Per la Giordania – afferma il documento dell’ IPS – una tale mossa costituirebbe una violazione materiale dell’accordo di pace tra i due paesi. In queste circostanze, la Giordania potrebbe violare l’accordo di pace. Accanto a ciò, potrebbe esserci una minaccia strategica alla sua stabilità interna, a causa di possibili inquietudini tra i palestinesi, in combinazione con le gravi difficoltà economiche che la Giordania sta affrontando “

Ciò costituirebbe per la Giordania solo il primo dei problemi legati all’annessione. Anche un’opzione minimalista di annettere la E1 – l’area adiacente a Gerusalemme – separerebbe Gerusalemme est dal resto della Cisgiordania, mettendo a rischio la custodia da parte della Giordania dei siti sacri islamici e cristiani di Gerusalemme.

L’annessione, sostiene l’IPS, porterebbe anche alla “graduale disintegrazione” dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Ancora una volta, non c’è nessuno spirito di bontà qui. Ciò che preoccupa gli analisti israeliani è l’onere che graverebbe sull’esercito. “L’efficacia della cooperazione con Israele in materia di sicurezza si deteriorerà e si indebolirà, e chi la sostituirà? l’IDF [forze di difesa israeliane, ndtr]! Costringendo ingenti forze ad occuparsi del contrasto delle rivolte e delle violazioni dell’ordine e del mantenimento del sistema organizzativo sui palestinesi”.

I responsabili della sicurezza continuano affermando che l’annessione potrebbe innescare un’altra intifada e rafforzare l’idea di una soluzione di un solo Stato “che sta già acquisendo una presa crescente nella comunità palestinese”.

Il fattore saudita

Nell’ambito più esteso del mondo arabo, il documento rileva che Israele perderebbe molte delle alleanze che ritiene di aver realizzato in Arabia Saudita, negli Emirati Arabi Uniti e in Oman e, sul piano internazionale, determinerebbe uno sviluppo della campagna sul Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.

Il ruolo dell’Arabia Saudita nel domare le fiamme della reazione araba al piano di annessione di Netanyahu è stato recentemente menzionato specificamente negli ambienti della sicurezza israeliani. Il sostegno saudita a qualsiasi forma di annessione è stato ritenuto cruciale.

Come al solito, il regime del principe ereditario Mohammed bin Salman ha cercato di attenuare l’ostilità saudita nei confronti di Israele attraverso i media e in particolare le serie televisive. Una serie dal titolo Exit 7 prodotta dalla MBC TV dell’Arabia Saudita recentemente conteneva una scena con due attori che discutevano del processo di normalizzazione con Israele.

“L’Arabia Saudita – afferma uno dei personaggi – non ha ottenuto nulla quando sosteneva i palestinesi e ora deve stabilire relazioni con Israele … Il vero nemico è colui che ti maledice, rinnega i tuoi sacrifici e il tuo sostegno e ti maledice giorno e notte più degli israeliani”.

La scena ha provocato una reazione sui social media e infine una piena dichiarazione di sostegno alla causa palestinese da parte del ministro degli Esteri degli Emirati.

Il tentativo ha dimostrato i limiti del controllo sulle menti da parte dello Stato saudita, che sarà ulteriormente indebolito dal calo del prezzo del petrolio e dall’avvento dell’austerità nel mondo arabo.

Il futuro re saudita non sarà più in grado di risolvere i suoi problemi.

Il Comitato

Vale la pena ripetere ancora una volta che il motivo alla base dell’elenco degli effetti destabilizzanti dell’annessione non è una qualche inquietudine inerente alla perdita della proprietà o dei diritti. La preoccupazione centrale dei responsabili della sicurezza deriva dalla possibilità che le frontiere esistenti di Israele possano essere messe in pericolo a causa della voglia di strafare.

Per ragioni analoghe, un certo numero di giornalisti israeliani ha previsto che l’annessione non avverrà mai.

Potrebbero avere ragione. Il pragmatismo potrebbe avere la meglio. Oppure potrebbero sottovalutare la parte che svolgono nei calcoli di Netanyahu il fondamentalismo religioso nazionalista, David Friedman, ambasciatore degli Stati Uniti e il miliardario statunitense Sheldon Adelson, i tre architetti dell’attuale politica.

Mentre il ruolo degli Stati Uniti come “l’onesto mediatore” nel conflitto è stato a lungo messo in scena come una finzione, questa è la prima volta che io ricordi che un ambasciatore USA e un importante finanziatore americano fanno sì che i coloni siano più zelanti dello stesso primo ministro del Likud.

Friedman è presidente del comitato congiunto USA-Israele sull’annessione delle colonie, che dovrebbe determinare i confini di Israele dopo l’annessione. Questo comitato è insignificante sul piano internazionale, poiché non rappresenta nessun’altra parte in conflitto, senza poi parlare dei palestinesi, i cui leader hanno boicottato il processo.

Due fonti separate del comitato congiunto hanno dichiarato a Middle East Eye che esso si sta orientando verso l’espansione, una volta per tutte, di Israele in Cisgiordania, e non in modo graduale. Una fonte ha detto che riguarderà l’intera area C – in altre parole l’opzione radicale.

Ancora una volta potrebbero sbagliarsi. Entrambi sostengono che l’annessione perseguita seguirà i tratti dell’ “Accordo del Secolo” di Donald Trump, che riduce l’attuale 22 % della Palestina storica a un gruppo di bantustan sparsi per il Grande Israele.

Il culmine

La Nakba, che oggi compie 72 anni, continua a vivere e a respirare veleno. La Nakba non riguarda solo i rifugiati originari ma i loro discendenti – oggi circa cinque milioni di loro sono idonei a ricevere i servizi dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei rifugiati palestinesi (UNWRA).

La decisione di Trump di interrompere il finanziamento dell’UNWRA e l’insistenza di Israele sul fatto che solo i sopravvissuti originari del 1948 dovrebbero essere riconosciuti [rifugiati palestinesi, ndtr.], hanno scatenato una campagna internazionale con cui i palestinesi sottoscrivono una dichiarazione in cui rifiutano di rinunciare al loro diritto al ritorno.

La dichiarazione afferma: “Il mio diritto al ritorno in patria è un diritto inalienabile, individuale e collettivo, garantito dalle leggi internazionali. I rifugiati palestinesi non cederanno mai ai progetti su “una patria alternativa”. Qualsiasi iniziativa che colpisca le basi intrinseche del diritto al ritorno e lo annulli è illegittima e inefficace e non mi rappresenta in alcun modo”.

Significativamente è stata diffusa dalla Giordania, un altro segno che gli animi si stanno lì accendendo.

La valutazione da parte della sicurezza israeliana, secondo cui la soluzione dei due stati è morta nelle menti della maggioranza dei palestinesi, è sicuramente corretta. La maggior parte dei palestinesi vede l’annessione come il culmine del progetto sionista per stabilire uno stato a maggioranza ebraica e la conferma della loro convinzione che l’unico modo in cui questo conflitto finirà è nella sua dissoluzione.

Ma per lo stesso motivo, i piani di annessione in discussione dovrebbero costituire una prova per la comunità internazionale, se ne fosse necessaria una, che Israele, tanto lontano dall’essere un Paese che viva nella paura e sotto attacco permanente da parte di oppositori irrazionali e violenti, sia uno Stato che non può condividere il territorio con i palestinesi, e tanto meno tollerare l’autodeterminazione dei palestinesi in uno Stato indipendente.

Nella sua attuale visione, Israele conosce un solo percorso: approfondire il suo dominio su un popolo del quale ha rubato e continua a rubare la terra.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è caporedattore di Middle East Eye. Ha lasciato The Guardian come capo redattore esteri. Nel corso di 29 anni di carriera ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato dell’IRA contro la Thatcher il 12 ottobre 1984 con l’uccisione di 5 membri del Partito Conservatore, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sul contraccolpo lealista sulla scia dell’accordo anglo-irlandese nell’Irlanda del Nord, sui primi conflitti, dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia, in Slovenia e Croazia, sul crollo dell’Unione Sovietica, sulla Cecenia, e sui conseguenti molteplici conflitti. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per la sezione europea del Guardian, poi è entrato a far parte dell’ufficio di Mosca nel 1992, prima di diventare direttore di redazione nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nell’ufficio esteri, è diventato direttore per l’Europa e quindi direttore associato per gli esteri. E’ passato a The Guardian da The Scotsman, dove ha lavorato come corrispondente per il settore istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’approvazione da parte della corte suprema israeliana dell’accordo Netanyahu-Gantz scredita la democrazia

Richard Silverstein

9 maggio 2020, MiddleEastEye

La sentenza ratifica, per la prima volta nella storia del Paese, che un primo ministro sotto accusa penale può guidare un governo

Questa settimana, la Corte Suprema di Israele ha preso in esame le petizioni delle ONG del buon governo che cercano di squalificare il proposto governo di unità messo insieme dal partito Likud di Benjamin Netanyahu con l’alleanza del partito di opposizione Blu e Bianco [partito di Benny Gantz, ndtr.].

La questione principale era che Netanyahu dovesse essere rifiutato come primo ministro a causa delle tre accuse di corruzione presentate contro di lui dal procuratore generale Avichai Mandelblit. La legge israeliana non si esprime sull’esclusione dalla carica di capo di governo per chi sia stato incriminato.

I giudici si sono trovati in una imbarazzante situazione senza uscita: se avessero deciso a favore dei firmatari, ciò avrebbe inevitabilmente portato a una quarta elezione.

Dopo lo stress delle votazioni per gli elettori israeliani, quasi nessuno voleva questa opzione.

Ma se la Corte avesse approvato l’accordo di coalizione e Netanyahu tornasse a essere primo ministro, questo costituirebbe un precedente allarmante e pericoloso.

Ratificherebbe per la prima volta nella storia israeliana che un primo ministro iscritto nel registro penale possa guidare un governo.

Una tale sentenza non solo legittimerebbe la condotta illegale in un caso particolare, ma costituirebbe un precedente per i futuri leader che violino la legge, che saprebbero di poter mantenere il potere nonostante un comportamento immorale.

Governo ipertrofico

La Corte Suprema ha scelto l’ultima soluzione. Nonostante il discredito per la democrazia che questo comporta, ha approvato l’accordo di coalizione e il nuovo governo presterà giuramento la prossima settimana.

E produrrà un gabinetto ipertrofico con non meno di 52 membri tra ministri e vice ministri, la più ampia coalizione ministeriale nella storia della nazione. C’è qualcosa per tutti.

Il Movimento per la Qualità del Governo in Israele [associazione no-profit, ndtr.] che ha presentato la petizione, ha annunciato che pur avendo perso in tribunale avrebbe portato la lotta nelle piazze, organizzando una grande protesta per chiedere la rimozione di Netanyahu da primo ministro.

Ma sembra che le forze che invocano un’amministrazione etica e trasparente abbiano perso questo round. Il risultato è un sistema politico ancora più screditato e un elettorato più cinico che mai.

È passato un anno dalle prime elezioni di questa serie.

Ogni voto è finito in un vicolo cieco, senza che alcun partito avesse abbastanza voti per formare un governo stabile. Di conseguenza, né il parlamento né i vari ministeri hanno funzionato normalmente. In sostanza, il primo ministro ha governato a forza di decreti esecutivi.

Questo ha causato il caos, poiché la società ha affrontato questioni cruciali che richiedono il consenso nazionale, come la pandemia da Covid-19.

Il Ministro della Sanità che avrebbe dovuto guidare la lotta contro il contagio è stato contagiato lui stesso dopo aver violato le norme del suo stesso ministero e pregato in gruppo.

Verso l’annessione

Si potrebbe pensare che questo nuovo governo porrà fine all’impasse, ma è un’impressione sbagliata.

L’accordo firmato dalle parti specifica che lo scopo principale della coalizione è contrastare il coronavirus.

Tutte le altre questioni, compresi importanti affari esteri e questioni militari, saranno subordinate; l’unica eccezione è la proposta di annessione della Valle del Giordano, che è in fase di accelerazione per l’approvazione.

Questa misura è stata ampiamente condannata da importanti organi internazionali, ad eccezione dell’amministrazione Trump. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato che la decisione dipende solo da Israele.

D’altra parte, circa 130 fra attuali ed ex deputati britannici hanno firmato una dichiarazione chiedendo sanzioni contro Israele se procederà con l’annessione.

L’annessione della Valle del Giordano, che comprende quasi un terzo del territorio palestinese, sembra inevitabile da parte di Israele.

Il fatto rafforzerà il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) come una delle forme più forti di resistenza popolare alle politiche espansionistiche coloniali israeliane.

Chiamerà inoltre in campo organismi internazionali come le Nazioni Unite e l’Unione Europea. L’espressione delle usuali inefficaci dichiarazioni di condanna metterà in evidenza l’impotenza di queste istituzioni nell’imbastire una reazione alle violazioni del diritto internazionale da parte di Israele.

Smantellare la soluzione dei due Stati

Uno degli esiti più rilevanti sarà il crollo definitivo della soluzione dei due Stati come possibile piano per risolvere il conflitto.

Perfino Dennis Ross, figura pro-Israele di spicco in quattro amministrazioni presidenziali statunitensi, ha twittato che impedendo l’ingerenza di palestinesi o altri leader arabi, l’annessione lascia sul tavolo solo un’opzione: la soluzione di un singolo Stato.

Questo, ovviamente, sarebbe un amaro risultato per uno dei principali attori filo-israeliani della politica americana in Medio Oriente.

Una volta che avremo rinunciato al miraggio dei due Stati, il prossimo scontro essenziale sarà su che tipo di Stato sarà quella struttura unitaria. Sarà basato sull’apartheid a consacrazione della supremazia ebraica, la visione del Likud, o uno stato democratico per tutti i cittadini?

Il vantaggio di un singolo Stato, anche gestito da un sistema di apartheid, è che il mondo non sarà più ingannato e indotto a credere che esista un’alternativa.

Dovrà decidere se sia accettabile un singolo Stato che offre maggiori diritti agli ebrei e ai palestinesi le briciole del tavolo ebraico.

Alla fine, il mondo arriverà a capire che questo sistema non è più sostenibile dell’apartheid sudafricano.

Sfortunatamente, lo sconsiderato comportamento di Israele non impedirà ai ranghi politici americani di aggrapparsi disperatamente alla soluzione dei due Stati.

Anche se è uno scheletro perfettamente scarnificato, i candidati presidenziali come Joe Biden si aggrappano ad esso come a un salvagente sul Titanic. Il risultato di sposare una tale illusione è che consente a Israele di procedere con tutti i suoi piani espansionistici, riducendo gli Stati Uniti all’impotenza.

Amministrazione instabile

Non preoccupiamoci, tuttavia; il governo israeliano recentemente approvato sarà estremamente debole e instabile.

Secondo l’accordo, nessuno dei due partiti (Likud e Blu e Bianco) può avanzare proposte legislative a meno che l’altro non approvi. Questa è la ricetta per uno stallo continuo.

Inevitabilmente, una parte o l’altra provocherà o sarà provocata sino a minacciare di rovesciare l’accordo. Questo governo è un perfetto esempio di ciò che diceva Yeats: “Il centro non può tenere”.

Se le uniche cose certe nella vita sono la morte e le tasse, in Israele c’è una terza certezza: l’ennesima elezione nei prossimi mesi.

Perché in scena c’è anche un King Kong che rimesterà le cose a piacere: il processo di Netanyahu.

Il cui risultato potrebbe far deragliare completamente il governo, dal momento che la legge israeliana proibisce a un primo ministro condannato di mantenere la carica.

Quindi o il Parlamento dovrà cambiare la legge – il che è improbabile, dato che Likud da solo non ha abbastanza voti per farlo – o Netanyahu potrebbe cadere.

Questo risultato potrebbe mandarlo in prigione, porre fine alla sua carriera e portare a una quarta elezione.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Richard Silverstein tiene un blog, Tikun Olam, che denuncia gli eccessi dello stato di sicurezza nazionale israeliano. I suoi articoli sono apparsi su Haaretz, Forward, Seattle Times e Los Angeles Times. Ha contribuito con un saggio al libro dedicato alla guerra del Libano del 2006, A Time to Speak Out (Verso) e con un altro saggio a Israel and Palestine: Alternate Perspectives on Statehood (Rowman & Littlefield)

(tradotto dall’inglese da Luciana Galliano)




Lo Stato d’Israele contro gli ebrei

Cypel S., L’État d’Israël contre les juifs, La Découverte, Paris, 2020.

Recensione di Amedeo Rossi

16 aprile 2020

Sylvain Cypel è un giornalista ed intellettuale francese, a lungo inviato di Le Monde negli USA ed autore nel 2006 di un altro importante libro sul conflitto israelo-palestinese: “Les emmurés : la société israélienne dans l’impasse” [I murati vivi: la società israeliana nel vicolo cieco], non tradotto in italiano. Attualmente collabora con il sito Orient XXI di Alain Gresh.

Avendo vissuto a lungo durante la giovinezza in Israele e con un padre sionista, l’autore conosce bene la società e la politica di quel Paese. Non a caso il libro inizia con un ricordo familiare: nel 1990 l’ottantenne genitore gli disse: “Vedi, alla fine abbiamo vinto”, riferendosi al sionismo. “Mi ricordo”, scrive Cypel, “di essere rimasto zitto. E di aver tristemente pensato che quella storia non era finita e che dentro di lui mio padre lo sapesse.”

È proprio di questa riflessione iniziale che parla il libro. Chi segue assiduamente le vicende israelo-palestinesi vi troverà spesso cose già note. Molti degli articoli citati si trovano sul sito di Zeitun. Tuttavia, sia per la qualità letteraria che per la profondità di analisi il lettore non rimane deluso. Ogni capitolo è introdotto da un titolo ricavato da una citazione significativa da articoli o interviste che ne sintetizza molto efficacemente il contenuto: dal molto esplicito “Orinare nella piscina dall’alto del trampolino”, per evocare la sfacciataggine di Israele nel violare leggi e regole internazionali, a “Non capiscono che questo Paese appartiene all’uomo bianco”, riguardo al razzismo che domina la politica e l’opinione pubblica israeliane, fino a “Sono stremato da Israele, questo Paese lontano ed estraneo”, in cui l’autore descrive il sentimento di molti ebrei della diaspora nei confronti dello “Stato ebraico”.

Da questi esempi si intuisce che gli argomenti toccati nelle 323 pagine del libro sono molto vari e concorrono ad una descrizione desolante della situazione, sia in Israele che all’estero, ma con qualche spiraglio di speranza.

Cypel denuncia l’incapacità dell’opinione pubblica e ancor più della politica israeliane di invertire la deriva nazionalista e etnocratica del Paese. Ne fanno le spese non solo i palestinesi e gli immigrati africani, stigmatizzati da ministri e politici di ogni colore con epiteti che farebbero impallidire Salvini, ma anche gli stessi ebrei israeliani. Non a caso uno dei capitoli si intitola “Siamo allo Stato dello Shin Bet”, il servizio di intelligence interno. Sono colpiti i dissidenti israeliani, come Ong e giornalisti, le voci che si oppongono alle politiche nei confronti dei palestinesi e delle minoranze in generale, e quelli all’estero, come i sostenitori a vario titolo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele). Quest’ultimo viene indicato nel libro come una reale ed efficace minaccia allo strapotere internazionale della Destra, termine che include quasi tutto il quadro politico israeliano. Varie leggi proibiscono l’ingresso e cercano di impedire il finanziamento di queste voci dissidenti, mentre Israele promuove anche i gruppi più esplicitamente violenti e razzisti, tanto che Cypel parla di un “Ku Klux Klan” ebraico. A proposito di un episodio di censura a danno di B’Tselem da parte della ministra della Cultura Miri Regev, l’autore cita la presa di posizione critica persino dell’ex-capo dello Shin Bet Ami Ayalon: “La tirannia progressiva è un processo nel quale uno vive in democrazia e, un giorno, constata che non è più una democrazia.”

Ciò non intacca minimamente l’incondizionato sostegno degli USA di Trump come quello, anche se meno esplicito, dell’UE. Questa corsa verso l’estrema destra è dimostrata anche dagli ottimi rapporti tra il governo israeliano e gli esponenti più in vista del cosiddetto “sovranismo”: oltre a Trump, il libro cita altri presidenti delle ormai molte “democrazie autoritarie” in tutto il mondo. Ancora peggio avviene in Europa, dove i migliori amici di Netanyahu sono anche esplicitamente antisemiti: Orban in Ungheria e il governo polacco, persino Alternative für Deutchland, partito tedesco con tendenze esplicitamente nazistoidi, oltre a Salvini e all’estrema destra francese, hanno ottimi rapporti con i governanti israeliani. Questi personaggi sono stati accolti al Museo dell’Olocausto per mondarsi dall’accusa di antisemitismo e poter continuare a sostenere posizioni xenofobe e razziste. Non è solo l’islamofobia a cementare questa alleanza. È il comune richiamo al suprematismo etnico-religioso che fa di Israele un modello per questi movimenti di estrema destra, ed al contempo lo “Stato ebraico” ne rappresenta la legittimazione: se può disumanizzare palestinesi e immigrati e può opprimerli impunemente, violando le norme internazionali che dovrebbero impedirlo, perché non potremmo fare altrettanto in Europa e altrove contro immigrati, musulmani, nativi? Riguardo alle giustificazioni di questa imbarazzante alleanza, Cypel cita quanto affermato da una deputata del Likud: “Forse sono antisemiti, ma stanno dalla nostra parte.” “Ovviamente”, aggiunge l’autore, costei è “una militante attiva della campagna per rendere reato l’antisionismo come la forma contemporanea dell’antisemitismo.”

A queste posizioni si adeguano le comunità ebraiche europee, in particolare in Francia, Paese in cui risiede la comunità della diaspora ebraica più numerosa dopo quella statunitense. Il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF) “formalmente rappresenta l’ebraismo francese; de facto, è in primo luogo il gruppo lobbysta di uno Stato estero e si vive come tale,” afferma il libro. Cypel attribuisce questo fenomeno alla mediocrità della vita culturale ebraica in Francia ed alla tendenza a rinchiudersi in quartieri ghetto, sfuggendo alla convivenza con le altre componenti della popolazione. Inoltre la tendenza al conformismo deriva anche dalla paura di venire isolati dal resto della comunità: “Le persone preferiscono non esprimere il proprio disaccordo, per timore di essere accusate di tradimento.” L’autore cita vari episodi di censura, persino il tentativo fallito da parte dell’ambasciata israeliana a Parigi e del CRIF di impedire la messa in onda su una rete nazionale di un documentario (peraltro senza neppure averlo visto) sui giovani gazawi mutilati dai cecchini israeliani. La motivazione? “Avrebbe potuto alimentare l’antisemitismo,” ha sostenuto l’ambasciata. Purtroppo lo stesso atteggiamento caratterizza le istituzioni della comunità ebraica italiana, o di quella britannica, come dimostrato dalla campagna di diffamazione contro Corbyn. Quindi sembra trattarsi di una posizione che riguarda buona parte dell’ebraismo europeo.

L’unico spiraglio di speranza all’interno del mondo ebraico viene invece dagli USA. Non solo, sostiene Cypel, non vi si è perso il tradizionale progressismo moderato, ma anzi l’occupazione e gli stretti legami tra Trump (legato a suprematisti, razzisti e fanatici religiosi) e Netanyahu hanno allontanato molti ebrei, soprattutto tra i giovani, dal sostegno incondizionato a Israele. Nei campus, afferma l’autore, circa metà dei militanti del BDS sono ebrei. Molti intellettuali ebrei si sono dichiarati contrari alla legge sullo “Stato-Nazione”, e, dopo l’approvazione di una norma che vieta l’ingresso in Israele ai sostenitori del BDS, più di 100 personalità importanti, tra cui alcuni esplicitamente filosionisti, hanno firmato una petizione di denuncia. Questo allontanamento si manifesta anche in un sostanziale disinteresse nei confronti dello “Stato ebraico”, oppure nella dissidenza religiosa da parte degli ebrei riformati, in maggioranza negli USA, secondo i quali il ruolo del popolo ebraico è quello di migliorare il mondo e l’umanità. Un obiettivo ben lontano da quello della supremazia etnico-religiosa rivendicata da ortodossi ed ultraortodossi in Israele.

Nonostante la sua superiorità incontrastata, secondo Cypel la società israeliana è in preda all’inquietudine e al pessimismo rispetto al futuro, all’“impotenza della potenza”. L’ha espressa chiaramente lo storico Benny Morris sostenendo una tesi apparentemente paradossale: “Tra trenta o cinquant’anni [i palestinesi] ci avranno sconfitti.” È la vaga percezione di vivere una situazione segnata dalla mistificazione, che fa provare a molti israeliani un senso di precarietà e di timore per il futuro, che però al momento gioca a favore di una destra sempre più estrema.

Il libro si chiude con un omaggio a Tony Judt, il primo importante intellettuale ebreo americano a sostenere l’opzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi. Nell’ottobre 2003 definì Israele uno Stato anacronistico, nel suo nazionalismo etnico religioso ottocentesco, di fronte alla sfida della mondializzazione.

Cypel conclude con un auspicio che non si può che condividere: “Quello che si può augurare agli ebrei, che siano o meno israeliani, è che prendano coscienza di questa realtà e ne traggano le conseguenze, invece di continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.” Questo libro contribuisce a questo svelamento, e c’è da augurarsi che venga pubblicato anche in Italia.

(Le citazioni tratte dal libro sono state tradotte in italiano dal recensore)




Un gruppo di pressione democratico filo-israeliano si attribuisce i meriti del ritiro di Sanders e della raccolta fondi per mantenere la piattaforma democratica favorevole a Israele

Michael Arria 

9 aprile, 2020 – Mondoweiss

Il gruppo di pressione Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica Per Israele] (DMFI) stamattina ha inviato un’email in cui festeggia il ritiro di Bernie Sanders dalla corsa per le presidenziali e prepara i propri sostenitori alla battaglia per mantenere la piattaforma dei Democratici su posizioni pro-israeliane.

L’email, scritta da Mark Mellman, il presidente DMFI, si attribuisce in parte il merito per il ritiro di Sanders. “Bernie Sanders ha sospeso la sua campagna per la presidenza” ha scritto Mellman. “Questa è una grande vittoria a cui voi avete contribuito.”

Prima del caucus in Iowa a gennaio, il DMFI aveva condotto nello Stato una campagna pubblicitaria anti-Sanders, ma il senatore del Vermont aveva comunque vinto nel voto popolare. Il gruppo aveva speso più di 800.000 dollari in annunci pubblicitari e con ciò aveva aiutato Sanders a raccogliere 1,3 milioni di dollari in un solo giorno.

Mellman dichiara che la prossima battaglia della lobby riguarderà le linee programmatiche dei Democratici. “Gruppi estremisti allineati con Sanders, così come alcuni dei suoi principali surrogati, comprese le congressiste Rashida Tlaib e Ilhan Omar, hanno dichiarato pubblicamente il loro tentativo di spostare la piattaforma su posizioni anti-Israele” scrive. Mellman fa notare che, mentre alcuni sminuiscono l’importanza delle linee programmatiche di partito, il GOP (Grand Old Party = partito repubblicano) è diventato effettivamente un partito anti-aborto dopo la modifica della sua piattaforma nel 1976. “Da politico di carriera vi dico che se quest’anno i Democratici adottano una piattaforma anti-israeliana, il vocabolario, i punti di vista e i voti dei politici si sposteranno drammaticamente contro di noi” scrive Mellman. “Semplicemente non possiamo permetterci di perdere questa battaglia.”

Nel 2016, i membri della campagna a favore di Sanders hanno insistito perché si menzionasse la richiesta di porre fine all’occupazione e all’espansione degli insediamenti. Tale tentativo venne alla fine respinto dal comitato incaricato di redigere la piattaforma con un voto di 8 a 5. Comunque, la piattaforma ha incluso espressioni relative allo Stato palestinese.

Il DMFI è stato fondato nel 2019 con donazioni di Democratici e insider per contrastare una crescente simpatia dentro il partito verso i palestinesi. Il luglio scorso hanno mandato una lista di punti di discussione a favore di Israele per i candidati Democratici da usare se, durante le tappe della campagna, avessero dovuto affrontare attivisti anti-occupazione. Il gruppo ha più volte affermato che senatori come Sanders e Omar sono estranei alle opinioni più diffuse sull’argomento, ma ci sono molti sondaggi che indicano che i votanti democratici sono più a sinistra del proprio partito sul tema Israele/Palestina. Infatti un recente sondaggio dell’Università del Maryland mostra che quasi la metà dei votanti democratici a conoscenza del movimento del BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele] lo sostiene.

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss dagli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




‘Una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS: Microsoft disinveste da AnyVision, l’azienda israeliana di riconoscimento facciale

Michael Arria 

30 marzo 2020  Mondoweiss

Microsoft ha annunciato che sta disinvestendo la propria quota in AnyVision, la società israeliana di riconoscimento facciale. La decisione fa seguito a un controllo imposto da una campagna del BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.] che l‘aveva presa di mira. Gli attivisti dicono che la tecnologia di riconoscimento facciale di AnyVisionè usata per sorvegliare i palestinesi in Cisgiordania.

Dopo che il giugno scorso Microsoft aveva investito nell’azienda, NBC News [canale televisivo USA di notizie, ndtr.] aveva riferito che AnyVision “gestiva un progetto segreto di sorveglianza militare” in Palestina. “Il riconoscimento facciale è probabilmente il mezzo migliore per un completo controllo governativo degli spazi pubblici e quindi dobbiamo trattarlo con estrema cautela” aveva detto all’epoca Shankar Narayan di ACLU [American Civil Liberties Union, Ong per la difesa dei diritti civili e delle libertà individuali negli Stati Uniti, ndtr.]. Quando NBC ha contattato Eylon Etshtein, l’AD di AnyVision, per il servizio, ha negato di essere a conoscenza del progetto, sottolineando che la Cisgiordania non è occupata e insinuando che il reportage fosse finanziato da un gruppo di attivisti palestinesi.

Durante l’estate del 2019, Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione ebraica USA contraria antisionista, ndtr.] ha lanciato la campagna #DropAnyVision, chiedendo a Microsoft di abbandonare l’azienda. Quest’anno si sono uniti i gruppi MPower Change [organizzazione in rete di musulmani statunitensi, ndtr.] e SumofUs [Ong USA che promuove campagne di sensibilizzazione e responsabilizzazione su vari temi, ndtr.] per lanciare una petizione. Oltre 75.000 persone l’hanno firmata ed è stata consegnata nella sede dell’azienda da militanti e dipendenti della Microsoft.

A novembre 2019, Microsoft aveva assunto Eric Holder, l’ex Procuratore Generale degli Stati Uniti (e il suo team dello studio legale internazionale Covington & Burling) per condurre un’indagine indipendente sulla AnyVision per determinare se le pratiche della ditta fossero in linea con i principi etici di Microsoft. Si era concluso che la tecnologia era usata nei posti di blocco dei varchi di frontiera, ma che la compagnia “al momento non gestiva quel programma di sorveglianza di massa in Cisgiordania di cui si parlava nei reportage dei media.”

Ciononostante, Microsoft ha deciso di separarsi da AnyVision. “Dopo un’attenta analisi, Microsoft e AnyVision hanno deciso che è nell’interesse di entrambe che Microsoft disinvesta la propria quota in AnyVision”, ha affermato in un comunicato. “L’audit ha confermato la difficoltà per Microsoft di essere un investitore di minoranza in una ditta che vende tecnologia sensibile, dato che tali investimenti generalmente non permettono il livello di supervisione o controllo che Microsoft esercita sull’uso delle proprie tecnologie.”

La decisione di Microsoft di lasciare AnyVision è un bruttissimo colpo per questa startup israeliana profondamente implicata [nella repressione israeliana] e un successo per la grandiosa campagna del BDS guidata da Jewish Voice for Peace” ha detto in un comunicato Omar Barghouti, il co-fondatore di BDS. “Grazie alla complicità di molte corporazioni come AnyVision e nonostante la minaccia del coronavirus, i crimini di guerra di Israele contro i palestinesi continuano e quindi non possono che continuare anche la nostra resistenza e la nostra lotta per libertà, giustizia e uguaglianza.”

La decisione di Microsoft di accogliere la richiesta della campagna e abbandonare AnyVision, l’azienda israeliana di sorveglianza, è una grandissima e tempestiva vittoria per il BDS” ha twittato l’account ufficiale del Comitato Nazionale del BDS palestinese (BNC).

La decisione di Microsoft di disinvestire da AnyVision è una vittoria importante dei militanti per la giustizia tecnologica e per la comunità internazionale solidale con i palestinesi.”, ha detto Lau Barrios, manager della campagna MPower Change. Questa decisione di Microsoft, leader globale del settore del software, rafforza la nostra convinzione che non ci si possa fidare di governo, polizia e forze armate e del loro uso della sorveglianza tecnologica come quella del riconoscimento facciale che è sempre di più utilizzata negli USA e in tutto il mondo per monitorare, sorvegliare e criminalizzare ulteriormente neri, immigrati, palestinesi e comunità musulmane.”

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente di Mondoweiss dagli Stati Uniti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rashid Khalidi parla del passato e del futuro della Palestina

William Parry

18 marzo 2020 – Middle East Monitor

I termini “secolo” e “cento anni”, spesso intercambiabili, condividono una strana coincidenza il 18 gennaio, quando l’eminente accademico palestinese-americano, professor Rashid Khalidi, ha pubblicato il suo ultimo libro, “La guerra dei Cent’anni contro la Palestina: una storia di colonialismo di insediamento e di resistenza, 1917-2017”. Mentre usciva nelle librerie, il presidente Usa Donald Trump rendeva pubblico il suo piano di pace per il Medio Oriente definito “l’accordo del secolo”. Benché entrambi riguardino lo stesso problema israelo-palestinese, li separano non cento anni, ma anni luce.

Al telefono Khalidi mi dice di aver scelto il titolo per alludere alla guerra dei Cent’Anni medievale tra Inghilterra e Francia (1337-1453) perché pensava che sarebbe risultato evocativo per i lettori dell’Occidente. “Ho letto parecchio sulla guerra dei Cent’Anni e sono rimasto colpito dal fatto che in Palestina vi siamo coinvolti ormai da più di 100 anni,” spiega. “La guerra tra le corone d’Inghilterra e di Francia durò 117 anni, quindi non ci siamo ancora arrivati, ma ci siamo vicini. Ho pensato che avrebbe fatto colpo sulle persone.”

Utilizzando la frase “contro la Palestina”, Khalidi intende spostare la definizione della narrazione predominante da quella di un conflitto tragico ed inevitabile tra due popoli che lottano per una terra “contesa” a una definizione “più veritiera”: “Volevo scioccare il lettore. Sapevo che ciò non sarebbe piaciuto a qualcuno ma non penso che si possano edulcorare alcune di queste cose. Non è solamente il modo in cui le vedono i palestinesi, penso che sia effettivamente com’è: una guerra contro una popolazione indigena da parte di una coalizione estremamente forte, guidata dalla maggiore potenza dell’epoca che appoggiava il movimento sionista e, in seguito, lo Stato di Israele. È come la guerra contro le popolazioni indigene del Nord America o contro gli algerini da parte dei colonialisti francesi, e via di seguito.”

Il professor Khalidi vede il suo ottavo libro sulla storia del Medio Oriente contemporaneo come l’ultimo di un’ampia serie di voci sempre più numerose – di figure accademiche, culturali, giuridiche e politiche – che insieme, anche se gradualmente, stanno definendo un’emergente narrazione palestinese che sta prendendo piede. Una ragione per la quale ha stentato ad emergere, sostiene, è che “la narrazione sionista venne proposta da persone nate nei Paesi da cui essa ebbe origine.” Erano sionisti austriaci e tedeschi che comunicavano in tedesco, sionisti francesi in francese, sionisti americani e britannici in inglese, eccetera. La narrazione era esposta alla gente nella propria lingua, nel proprio idioma e nel contesto della loro stessa cultura nazionale da parte di persone che erano loro concittadini e concittadine.”

Aggiunge che la narrazione sionista era anche aiutata da quella biblica, estremamente nota all’opinione pubblica occidentale, e in più il sionismo riuscì ad allearsi con “le principali potenze coloniali” dell’epoca. “C’era un intrinseco vantaggio per l’establishment di vari Paesi in quanto erano solidali con gli obiettivi sionisti e/o li appoggiavano, soprattutto nel caso della Gran Bretagna e in seguito degli USA.”

I palestinesi non hanno avuto quel vantaggio fino a molto di recente e quindi hanno iniziato con un grande handicap, aggiunge Khalidi. Ma ci sono stati fondamentali cambiamenti a questo riguardo, che lo rendono ottimista.

“Ho visto un cambiamento negli ultimi due o tre decenni negli scritti accademici, soprattutto sul Medio Oriente e sulla Palestina. C’è stato un enorme cambiamento nei campus universitari, nel senso di una volontà di ascoltare un’interpretazione alternativa delle cose e di essere in qualche modo critici rispetto alle versioni ricevute. In alcuni altri settori delle società americana ed europea penso che, nonostante l’enorme rifiuto, ora ci sia una ricettività che in realtà non c’era un decennio fa in questi ampi settori della popolazione.”

Il libro di Khalidi finisce con riflessioni sul presente e sulle opportunità e sfide che abbiamo di fronte per continuare a ridefinire la narrazione. Egli è duro nei confronti delle fazioni palestinesi rivali, Fatah e Hamas, che descrive come due “movimenti politici ideologicamente fallimentari”, i cui sforzi “non hanno portato a niente.” Pensa che la riconciliazione aiuterà, ma essi non hanno “la nuova strategia dinamica necessaria per smuovere la causa palestinese dal suo attuale stato di stagnazione e regresso.” Il suo capitolo finale non dice quale ruolo i cittadini palestinesi di Israele possano giocare nei futuri tentativi. Ritiene che abbiano da portare un qualche contributo?

“Hanno moltissimo da insegnare agli altri palestinesi su come affrontare il sionismo, Israele, lo Stato securitario israeliano e i suoi metodi. Hanno decisamente la comprensione più elaborata di tutte queste cose perché hanno la più lunga esperienza di ciò, parlano ebraico e sono israeliani tanto quanto palestinesi. Con il passare del tempo parte dell’isolamento tra i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da una parte e i palestinesi all’interno di Israele dall’altra diminuirà, e abbiamo [di fronte] la grande sfida di imparare da questi ultimi.”

Egli trae stimolo e guida anche da alcuni aspetti delle iniziative della società civile. La nascita del movimento internazionale per il Boicottaggio, Il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) contro Israele, avviato dalla società civile palestinese ed ora appoggiato, tra gli altri, da gruppi di base per i diritti umani, gruppi religiosi e sindacati a livello internazionale, ha fatto di più per promuovere la causa palestinese che i due principali partiti politici in Cisgiordania e a Gaza, mi dice.

Profondamente consapevole dell’impatto che il BDS potrebbe avere e del suo ruolo nel ridefinire la narrazione palestinese, il governo israeliano ha investito decine di milioni di dollari per combatterlo a livello mondiale, principalmente attraverso il ministero degli Affari Strategici, recentemente creato. Le accuse di antisemitismo sono una tattica sempre più frequentemente utilizzata contro il BDS ed i suoi sostenitori.

Khalidi crede che queste accuse stiano avendo un impatto – basta vedere le continue accuse e la caccia alle streghe che ha dovuto affrontare ormai da parecchi anni il partito Laburista britannico, o l’attuale campagna delle primarie democratiche di Bernie Sanders negli USA – ma, insiste, sono destinate a fallire.

“Sono intese ad avere un effetto dissuasivo. Avranno successo? Una cosa che noi abbiamo negli USA e non avete in Europa è il Primo Emendamento. In definitiva ogni legge approvata che vada nel senso di sopprimere i boicottaggi o il movimento BDS è destinata ad essere giudicata una violazione del Primo emendamento, il diritto dei cittadini alla libertà di parola. Falliranno. Il boicottaggio è una forma rispettabile di resistenza all’oppressione fin da quando in Irlanda il capitano Boycott [imprenditore e amministratore di terre inglese che nell’Irlanda della fine del XIX secolo venne ostracizzato dalla comunità irlandese e da cui è nato il termine “boicottaggio”, ndtr.] venne boicottato dai contadini irlandesi; poi l’hanno adottato gli indiani, i sudafricani, il movimento americano per i diritti civili, ed ora anche i palestinesi. È americano tanto quanto la torta di mele. Non lo puoi mettere fuorilegge.”

Benché possano sostenere che il BDS è “antisemita”, potremmo aggirare il problema: “Era in un certo modo una discriminazione razziale quella dei contadini irlandesi nei confronti del capitano Boycott? Ovviamente no: era resistenza contro l’oppressione. Ciò dimostra che brandire istericamente il termine antisemitismo per descrivere ogni critica a Israele o al sionismo, o ogni difesa dei diritti dei palestinesi, è assurdo in maniera talmente evidente che penso che prima o poi queste persone verranno derise in tribunale.” Nelle pagine conclusive del suo libro Khalidi tocca anche la questione della soluzione a uno o a due Stati, ma afferma di essere agnostico riguardo a quale forma avrà alla fine. Quella situazione è molto lontana, sostiene, e distrae dal messaggio più urgente necessario adesso.

“Dovremmo pensare a come andare oltre il punto in cui siamo, da questo tipo di status quo a uno Stato verso una situazione di Stato unico egualitario, o verso due o più Stati egualitari, o quel che sia? Non succederà molto presto, e preoccuparci dei dettagli ci distrae dai principi: deve essere (basata sulla) assoluta uguaglianza. Insistete sul fatto di vivere in un Paese basato sull’idea che ogni uomo è creato uguale, o un Paese che afferma che libertà, uguaglianza e fraternità sono la base della repubblica, e avete un argomento che è incontrovertibile. (Quello che c’è) è disuguaglianza e discriminazione – non avete bisogno di usare un termine come “apartheid”, benché secondo me sia peggio dell’apartheid – e questo è un ideale che riguarda l’uguaglianza. Questa dovrebbe essere la cosa da sottolineare.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Apeirogon: un altro passo falso colonialista dell’editoria commerciale

Susan Abulhawa

11 marzo 2020 – Al Jazeera

L’ultimo romanzo di Colum McCann mistifica la situazione della colonizzazione della Palestina presentandola come un ‘conflitto complicato’ fra due parti eguali.

Il regista hollywoodiano Steven Spielberg ha recentemente acquistato i diritti cinematografici di un romanzo su ” Israele Palestina ” prima della sua pubblicazione, fatto che potrebbe riportarci a vivere un momento culturale di un deplorevole deja vu.

A metà degli anni ’50, i potenti produttori di Hollywood finanziarono la stesura di un romanzo di Leon Uris per vendere all’immaginazione popolare occidentale le tesi filo-israeliane.

Il resultato fu “Exodus”, un best seller che diventò un blockbuster nelle sale. Narra una storia vera (una nave che trasportava rifugiati ebrei diretta in Palestina) che fu all’origine di un mito costruito ad arte – una terra senza popolo per un popolo senza terra – che serviva a metter in ombra i custodi indigeni di quella terra.

Era il romantico lieto fine di cui l’Europa aveva bisogno dopo il genocidio della propria popolazione ebrea. Milioni di persone se lo sono bevuto e l’hanno accettato come verità assoluta, per giunta con l’autorità della Bibbia.

Ma era una bugia, come adesso tutti sanno.

La Palestina aveva un’antica e articolata organizzazione sociale e quando i sionisti europei calarono sul loro Paese, commettendo massacri e pogrom ben documentati per espellere i palestinesi, questi invocarono invano l’aiuto del resto del mondo. Solo quando ci siamo organizzati in una guerriglia armata e abbiamo dirottato degli aeroplani il mondo è stato finalmente costretto a fare i conti con la nostra esistenza.

Non potendo più sostenere la tesi che la Palestina fosse sempre stata disabitata, i sionisti hanno cambiato la narrativa tramite innumerevoli film, libri e annunci pubblicitari che caricaturizzavano i palestinesi appiattendoli nell’unica dimensione di terroristi arabi irrazionali, immagini che persistono ancora nei media popolari.

Poi è arrivato Internet e i social hanno reso il mondo più piccolo. Di colpo, le masse hanno avuto accesso a video, foto, resoconti di testimoni oculari, media indipendenti, certificazioni delle violazioni dei diritti umani e relazioni ONU che mettevano a nudo la sadica oppressione dei palestinesi.

‘È complicato’ e altri miti mutevoli

Negli ultimi vent’anni Israele si è trovato in difficoltà nel tentativo di approntare una strategia per affrontare questa scoperta nota a tutti del suo marciume coloniale. È diventato più difficile nascondere l’umanità dei palestinesi.

Israele ha siglato un accordo con Facebook e collaborato con altre grandi compagnie di social media per censurare le pagine palestinesi; ha bollato i critici di Israele come antisemiti, distruggendo carriere e anche peggio; ha messo in piedi un “Progetto di guerra giudiziaria” per trascinare studenti e attivisti in tribunale; e, con successo, ha promosso all’estero leggi che criminalizzano le critiche a Israele.

Sul fronte culturale, Israele ha utilizzato delle campagne di pubbliche relazioni con le quali i suoi sostenitori hanno impregnato il discorso pubblico con citazioni quali: “è complicato” – un “conflitto” che “va avanti da migliaia di anni “.

Purtroppo ci viene propinato il racconto delle “due parti” come se la distruzione di una società indigena indifesa sia una questione di due parti uguali che semplicemente non si capiscono, ma che avrebbero solo bisogno di una spintarella, forse un po’ più di dialogo, per amarsi, e voilà! Kumbaya [“Vieni qui”, titolo di uno spiritual degli anni ’30, ndtr.], mio Signore.

Però nessuno di questi grandi sforzi ha smorzato la crescita della campagna del BDS, Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, un movimento globale di resistenza popolare che ha coinvolto, ovunque nel mondo, milioni di persone stanche della straordinaria impunità di Israele e della ininterrotta colonizzazione della Palestina.

In breve, nulla è riuscito a replicare lo spettacolare exploit pubblicitario di “Exodus”. Fino ad ora, forse.

Apeirogon

Entra Apeirogon.

Un apeirogon è un poligono con un numero infinito di lati. È anche il titolo dell’ultimo romanzo di Colum McCann, una specie di sostegno infinito al discorso di Israele dei “due lati”.

Il romanzo è più una biografia che un’opera di narrativa. È basato su una storia vera, quella di un’amicizia fra un palestinese e un israeliano. Bassam Aramin è un palestinese la cui figlia, Abir, fu uccisa con un colpo sparato alla testa da un soldato israeliano nel 2007 e Rami Elhanan è un israeliano la cui figlia, Smadar, fu uccisa in un attacco suicida nel 1997.

Il suo messaggio centrale è quello del potere dell’empatia ed entrambi i protagonisti hanno espresso un totale sostegno al libro. Io ho parlato con Bassam Aramin che mi ha informata che loro tre andranno insieme in tournée. Ma, come Exodus, racconta una storia vera per vendere una bugia molto più grande.

Colonizzatori e nativi

Immaginate questo, per prendere a prestito lo stile narrativo di McCann: da qualche parte nella Riserva di Pine Ridge, una ragazzina della Nazione Oglala Lakota, la cui testa viene fatta esplodere dal figlio irritabile di un colonizzatore bianco, muore dissanguata tra le braccia del padre che non può far nulla per lei. Un altro colonizzatore bianco fa amicizia con il padre della fanciulla nativa (deve essere su iniziativa dell’uomo bianco, perché il padre non può lasciare la riserva) e fra i due uomini sboccia un’amicizia basata sul dolore condiviso di aver perso una figlia. La figlia del bianco è stata uccisa da un gruppo di giovani guerrieri che avevano attaccato un insediamento che aveva invaso le loro terre. L’amicizia fra i due uomini è sincera. La perdita che ogni giorno li tormenta è la stessa.

Ed ecco che arriva uno scrittore che è così commosso dalla loro insolita amicizia, dalla storia che ci sta dietro e da quello che lui pensa rappresenti una speranza per il futuro della Nazione, da decidere di scrivere un libro su di loro. È una specie di tentativo di amplificare le voci di pace, nato dalla convinzione ostinata che si possa risolvere qualsiasi cosa tramite il benevolo entusiasmo di gente ben intenzionata.

Lo scrittore non cerca di nascondere gli orrori inflitti sui corpi dei nativi. Anzi, presenta la vera faccia della violenza e dei traumi inflitti dai colonizzatori. Ma qui sta il trucco: lui presenta la violenza di una ribellione dei nativi locali nello stesso modo e descrive l’insicurezza e la paura che i colonizzatori bianchi devono tragicamente subire quale conseguenza della resistenza indigena contro le loro colonie.

Vedete? C’è un’implicita equiparazione. Tutte le paure sono le stesse, tutta la violenza è la stessa, tutta l’insicurezza è la stessa. Il padre degli Oglala Sioux racconta allo scrittore di come, attraverso questa amicizia, sia riuscito a vedere, per la prima volta, l’umanità dei bianchi. L’uomo bianco gli dice lo stesso a proposito dell’umanità degli indigeni.

E così, il motore genocida del colonialismo americano che, insieme alla schiavitù, ne ha sostenuto l’intera economia, diventa semplicemente un grande malinteso, un problema da risolvere con il dialogo, l’empatia e la semplice comprensione che, come dice McCann, citando la rivelazione del suo protagonista palestinese: “Anche loro hanno delle famiglie.”

Sostituite i palestinesi con gli Oglala Lakota, la Palestina invece della Riserva di Pine Ridge e mettete gli israeliani al posto dei colonizzatori bianchi (anche se questi non hanno bisogno di essere sostituiti) e avrete, in poche parole, il romanzo di Colum McCann, molto pubblicizzato e molto atteso, che potrebbe diventare probabilmente un film di gran successo.

Voglio chiarire che non sto paragonando, o mettendo sullo stesso piano, forme o esempi di ingiustizia. Sto cercando di ribadire, usando un momento storico orrendo che è stato compreso solo retrospettivamente, che è il massimo della menzogna suggerire che le storie di relazioni individuali in circostanze in cui le differenze fra le forze sono enormi non sono altro che la normalizzazione di un evento secondario e certamente non una critica alle macchinazioni che sostengono un’oppressione strutturale.

Si può anche fare paragoni con l’apartheid in South Africa in un bantustan [territori semiautonomi in cui venivano relegati i nativi africani, ndtr.], o con il Belgio in Congo, o con la Germana nazista nel ghetto di Varsavia o con il Ku Klux Klan nel Mississippi. Dopotutto, anche i membri di quelle orribili istituzioni avevano delle famiglie, no?

Exodus 2.0

Apeirogon potenzialmente è un Exodus 2.0, una nuova versione, riorganizzata e adeguata alla crescente consapevolezza dell’opinione pubblica delle sofferenze palestinesi sotto il giogo di un inarrestabile orrore israeliano.

Ho chiesto a Bassam se l’avesse letto. “Ho provato, ma era troppo doloroso, ” ha detto. Riesco a capire perché, dato che McCann amplia i dettagli delle uccisioni delle due ragazzine, spargendone pezzetti qui e là in centinaia di pagine, aggiungendo un nuovo dettaglio ad ogni ripetizione, fino a che uno non è più così sorpreso da quello che era straziante da leggere molte volte nelle prime pagine. È un modo interessante per descrivere la normalizzazione della violenza, se questo è quello che McCann intendeva fare.

Intervallati nella storia, ci sono cuciti insieme pezzi diversi di informazioni, dai modelli di migrazione degli uccelli ai re antichi, dalla Cappella Sistina agli esplosivi, in una specie di profondità obbligata che mira a legare insieme tutte le cose, ovunque, in ogni tempo, tutto ciò che, in qualche modo, riguarda “Israele Palestina “.

In altre parole: “tutto è così tanto, tanto complicato.”

Prendete, per esempio, l’idea che il nucleo di ‘Fat Man’, la bomba atomica usata dagli USA per sterminare ogni cosa che si muovesse, ondeggiasse, saltasse, volasse o respirasse nella città di Nagasaki avesse “le dimensioni di un sasso che può essere lanciato ” (presumibilmente dalle mani di un ragazzino palestinese).

Il centro drammatico della peggiore paura di ogni genitore è intrecciato in questo vertiginoso caleidoscopio di banalità mondiali. Queste mi sarebbero piaciute se non agissero come uno specchietto per le allodole linguistico, offuscando quella che è veramente la più semplice, vecchia vicenda nella storia dell’umanità: un potente gruppo di persone ruba una terra, la colonizza e cerca di togliere di mezzo gli indigeni.

Le paludi di Hule

McCann dedica molto spazio del libro agli uccelli – le loro singole specie, i modelli delle migrazioni e le relazioni ornitologiche. Ma da nessuna parte cita che, all’incirca nel momento in cui Leon Uris stava scrivendo Exodus, Israele stava prosciugando le paludi di Hule, che chiamava una “palude malarica”. Il progetto era pubblicizzato come ingegnosità sionista. Gli ebrei europei dichiararono che stavano ” redimendo la terra ” che, dicevano loro, era stata lasciata andare in rovina dagli arabi arretrati.

In realtà, questi nuovi coloni europei distrussero un vasto tesoro della biodiversità regionale che era stato un grande luogo di sosta dove centinaia di milioni di uccelli migratori si rifocillano. Si stima che oltre 100 specie animali scomparvero dall’area o si estinsero.

Questo episodio della storia sionista è probabilmente l’analogia migliore con il libro di McCann: un progetto ambizioso per “redimere”, concepito da stranieri, che non sapevano niente del luogo, della sua storia ed ecologia; desiderosi di rimediare, civilizzare e avanzare delle pretese, ben intenzionati; fiduciosi della loro propria gloria, ma in realità profondamente pericolosi – in modo irreparabile per le vite dei più vulnerabili.

Rafforzando il concetto di “conflitto complicato” fra “due parti”, il libro racconta una scena in cui una soldatessa israeliana, brandendo una pistola, lega, insulta e picchia Bassam Aramin, disarmato, con le mani in alto in segno di resa con una macchia rosa sui palmi. Ore dopo, quando la soldatessa si rende conto che la macchia rosa veniva dai dolcetti della figlia di Bassam ammazzata e non da un esplosivo, è veramente dispiaciuta. Chi può biasimare la padrona della piantagione se, a ragione, è un po’ impaurita dei negri con palmi macchiati? Come se picchiare i palestinesi ai checkpoint non fosse abituale, o come se i cecchini israeliani non ci ammazzassero per sport, inneggiando quando fanno centro.”

Al lettore viene detto parecchie volte che Rami Elhanan Gold proviene da una famiglia “antica”, un abitante di Gerusalemme da “sette generazioni.” Ma non ci viene detto cosa ciò significhi.

Primo, Rami proviene da una piccola minoranza di ebrei israeliani che in realtà può far risalire la propria stirpe nel Paese a prima della Seconda Guerra Mondiale. Secondo, è parte di una minoranza persino più piccola, il cui lignaggio in Palestine risale a prima della Prima Guerra Mondiale. Terzo, gli antenati di Rami, come tutti i “popoli del libro” (quelli con religioni monoteiste) erano stati accolti e protetti in Palestina sotto il governo musulmano, durato oltre 1200 anni.

Quarto, nulla di tutto ciò impedì a Rami o ai suoi genitori di impugnare le armi contro i loro vicini non-ebrei quando il sionismo promise di dar loro potere e proprietà. Che slealtà.

Le storie che McCann sceglie di non rivelare sono, beh, rivelatrici.

Per la cronaca, io sono di Gerusalemme da almeno 22 generazioni. Israele mi ha buttata fuori dalla mia patria quando avevo 13 anni. Perché ero una “illegale”.

In nessun modo sapere che anche gli israeliani “hanno una famiglia ” mi costringerà mai ad accettare il mio esilio forzato.

Tali scomode verità, o persone scomode, non hanno un posto nelle narrazioni coloniali riduzioniste di empatia e dialogo.

Chi racconta la storia

Per anni, Spielberg e la sua famiglia hanno raccolto fondi e sostenuto Israele e la sua occupazione della Palestina. Che progetti di trasporre questo libro sul grande schermo è totalmente in linea con le sue dichiarazioni secondo cui darebbe la vita per Israele.

Io non capisco perché McCann gli abbia venduto i diritti. Temo che, proprio come gli uomini bianchi privilegiati hanno usato Exodus per vendere una montatura coloniale nel 1958, un nuovo gruppo di uomini bianchi privilegiati a Hollywood userà Apeirogon per vendere un nuovo capitolo culturale contemporaneo di menzogne colonialiste.

Io non conosco McCann, anche se sospetto che abbia scritto il suo libro con un senso di solidarietà e il desiderio di promuovere il “dialogo”. Ma è possibile fare grandi danni avendo le più nobili intenzioni. La retorica del dialogo può essere attraente, l’idea che parlare per trovare un’umanità comune sia tutto quello che ci vuole per smantellare il razzismo strutturale e le nozioni di supremazia etnocentrica. Può trasformare ogni tipo di persona, persino le vittime stesse, in persone che contribuiscono a diffondere l’ingiustizia.

Come ben sanno i palestinesi, avendo fatto proprio questo per quasi trent’anni, dialogo e negoziati hanno sempre favorito i potenti.

È chiaro che McCann abbia fatto lunghe ricerche, incluse lunghe conversazioni con i personaggi principali di questo libro e forse, presentando una storia vera, ha tentato di indicare la via in merito ai temi etici che riguardano l’appropriazione. Ma c’è un messaggio coloniale complessivo che si presta alla propaganda sionista. È come Jared Kushner che, dopo aver letto 25 libri, pensa che ciò lo qualifichi a fare l’“accordo del secolo”, una “soluzione” per accontentare “tutte le parti ” del “conflitto”.

Susan Abulhawa è una scrittrice palestinese

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

(traduzione Mirella Alessio)




Sempre più vittorie nella campagna contro la diffamazione a favore di Israele

Nasim Ahmed

12 marzo 2020 – Middle East Monitor

Calunniare a mezzo stampa gli attivisti per i diritti umani che denunciano la brutale realtà dell’occupazione militare, a quanto pare eterna, di Israele in Palestina è stato il modus operandi dei gruppi anti-palestinesi. Questa tattica ha avuto un relativo successo negli ultimi anni perché alcuni governi occidentali, incluso quello britannico, vedono le voci che si levano per la Palestina e l’opposizione alla brutale occupazione israeliana con la lente deformante del “terrorismo palestinese” e non, come ci si aspetterebbe, nell’ambito del legittimo diritto di resistere all’occupazione e di opporsi al razzismo. Inoltre, una discutibile “definizione attuale di antisemitismo” che assimila le critiche a Israele all’ostilità antiebraica ha consentito ai sostenitori di Israele di diffamare chi critichi lo Stato sionista e l’ideologia razzista su cui si fonda.

Anche se effettivamente entrambi i fattori hanno avuto un pesante effetto sulla libertà di parola in Europa e negli Stati Uniti quando si tratti di denunciare i crimini di Israele, ci sono buone ragioni per credere che, nonostante università e istituzioni pubbliche capitolino di fronte alle attuali pressioni e reprimano l’attivismo filo-palestinese, portare in tribunale le campagne di diffamazione costruite dalla rete israeliana di organizzazioni sociali può dare i suoi frutti. Una di queste organizzazioni è UK Lawyers for Israel [Giuristi Britannici per Israele] (UKLfI).

Recentemente Defence for Children International – Palestine [Difesa Internazionale dei Bambini-Palestina] (DCIP), associazione per la difesa e la promozione dei diritti dei bambini che vivono nella Cisgiordania occupata, comprese Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, ha portato UKLfI in tribunale. DCIP ha vinto presso l’Alta Corte di Giustizia di Londra la causa contro il gruppo di avvocati di UKLfI per aver pubblicato post sul blog del loro sito web e inviato lettere ai sostenitori istituzionali in cui si affermava che DCIP avesse forti “legami” con un “certo gruppo terroristico”. Secondo DCIP, si era trattato di “una campagna di disinformazione politica e mediatica ben organizzata” iniziata nel 2018.

Secondo DCIP, UKLfI fa parte di una rete di gruppi israeliani e dei loro soci a livello mondiale “con il sostegno del Ministero degli Affari Strategici israeliano” che ha condotto “campagne di diffamazione articolate e mirate per delegittimare le organizzazioni umanitarie e per i diritti umani” in Palestina.

Anche se non è chiara l’importanza del ruolo di UKLfI in questa rete, il fine del Ministero degli Affari Strategici di Israele è chiarissimo. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha incaricato personalmente il Ministero di guidare i simpatizzanti filo-israeliani e di creare gruppi anonimi segreti per attaccare gli attivisti filo-palestinesi, spesso con l’aiuto di consulenti politici professionali. Dal varo del ministero, Israele ha stabilito uno stanziamento di guerra di un milione di dollari e un esercito stimato in 15.000 troll per attaccare i gruppi pro-palestinesi.

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Il mese scorso, il DCIP ha affermato di essere stato bersaglio di una feroce campagna di diffamazione da parte dell’ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite Danny Danon, del Ministero israeliano per gli Affari Strategici, della ONG Monitor [filo-israeliana di Gerusalemme, analizza l’attività internazionale delle ONG contrarie all’occupazione, ndtr.] e di UKLfI. Tutto è stato fatto, ha affermato DCIP, per impedire al loro gruppo per i diritti umani di fornire prove al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a New York. Brad Parker, consigliere capo del DCIP per la politica e la difesa, ha descritto la campagna in un lungo articolo intitolato: “Dovevo parlare di bambini palestinesi alle Nazioni Unite. Israele me lo ha impedito”.

La vittoria legale del DCIP all’Alta Corte è una delle tante vittorie simili contro la lobby filo-israeliana e anti-palestinese. A febbraio, il britannico Jewish Chronicle [il più antico giornale ebraico al mondo, ndtr.] è stato costretto a scusarsi con un’attivista laburista per averla ingiustamente accusata di presunto “antisemitismo”. Electronic Intifada  ha riferito che la proprietà del quotidiano ha ammesso sul suo sito web di aver pubblicato “accuse contro la signora Audrey White” totalmente “false”.

La condanna per diffamazione a quanto pare è giunta quando in dicembre il garante della stampa britannica ha sentenziato che il giornale filo-israeliano di destra, che aveva pubblicato quattro articoli su White, era stato “estremamente fuorviante” e aveva anche posto ostacoli “inaccettabili” alle indagini.

L’anno scorso, il Jewish Chronicle ha presentato le proprie scuse al consiglio di amministrazione di Interpal, organizzazione benefica britannica che fornisce aiuti umanitari e allo sviluppo per i palestinesi in difficoltà, e ha anche accettato di risarcire i danni. Sempre l’anno scorso Associated Newspapers, editore del Daily Mail e di MailOnline, ha pubblicato le sue profonde scuse e pagato 120.000 sterline [circa 132.000 euro] di danni sempre all’amministrazione di Interpal, accollandosi le spese legali delle cause per diffamazione. A febbraio, “ai sensi del paragrafo 15 (2) della Legge sulla Diffamazione del 1996”, UKLfI ha pubblicato sul suo sito web una dichiarazione del Consiglio di Amministrazione di Interpal.

Il Jewish Chronicle è stato uno dei principali attori nella rete israeliana di gruppi anti-palestinesi. Nel 2014 si è scusato e ha pagato ingenti danni a Human Appeal International [organizzazione benefica di sviluppo e soccorso britannica, ndtr.] dopo averlo accusato di essere un ente inserito nella lista nera negli Stati Uniti e aver falsamente affermato che avesse appoggiato gli attentati suicidi. Nello stesso anno il Jewish Chronicle ha dovuto scusarsi con il direttore della Campagna di Solidarietà con la Palestina [organizzazione britannica solidale con il popolo palestinese].

Il pagamento di ingenti somme per danni avrebbe spinto il Jewish Chronicle verso la rovina finanziaria. L’anno scorso è stato riferito che per evitare la chiusura il giornale avrebbe chiesto alle “persone attente alla comunità” un’importante iniezione di denaro. A febbraio, la testata settimanale ha annunciato la propria fusione con Jewish News [quotidiano e sito web ebraici molto noti in Gran Bretagna] “per garantire il futuro finanziario di entrambi i giornali”. Secondo Electronic Intifada, il gruppo che possiede il giornale e il sito web Jewish Chronicle opera con una perdita di oltre 2 milioni di dollari l’anno, mentre il Jewish News avrebbe un passivo di oltre 1,9 milioni di dollari.

Nel frattempo, negli Stati Uniti un negozio di alimentari pro-BDS ha ottenuto un’importante vittoria in tribunale contro i legali di Israele per la sua decisione di boicottare i prodotti israeliani per motivi morali. La vittoria di questo suo sostegno alla campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [BDS] è stata vissuta come un’imbarazzante sconfitta dai legali di Israele nella decennale causa di denuncia dell’Olympia Food Co-op [cooperativa no profit di Washington che vende alimenti e prodotti naturali, ndtr.]

Come nel caso del DCIP, gli avvocati che agiscono per conto della Olympia Food Co-op hanno affermato che la causa contro il negozio era parte di un ampio e crescente schema di attivismo per reprimere chiunque sostenga i diritti dei palestinesi. Il Centro per i Diritti Costituzionali [organizzazione progressista di patrocinio legale senza scopo di lucro con sede a New York, ndtr.], che ha rappresentato l’Olympia Food Co-op durante i 10 anni di battaglia legale, ha denunciato la campagna di eliminazione delle voci filo-palestinesi come un’ “eccezione palestinese” alla libertà di parola.

Un altro caso che sottolinea come il ricorso alla giustizia possa dare frutti è quello dell’organizzazione britannica riconosciuta dall’ONU che sostiene i profughi palestinesi. Nel 2019 un tribunale britannico ha ordinato a World-Check, una consociata di Reuters, di pagare un risarcimento a Majed Al-Zeer, presidente del Palestinian Return Center (RPC) [Centro per il Ritorno dei Palestinesi, gruppo londinese di patrocinio storico, politico e giuridico dei rifugiati palestinesi, ndtr.], per aver inserito nel suo database mondiale online l’organizzazione fra i gruppi terroristici. Secondo Al-Zeer, il lavoro della RPC nel denunciare le colpe di Israele per la difficile situazione dei rifugiati e la sua responsabilità legale alla luce del diritto internazionale avrebbero messo l’associazione nel mirino del governo israeliano.

Mentre Israele rafforza ulteriormente la sua occupazione e assoggetta sei milioni di persone a un sistema oppressivo, è probabile che l’attacco ai gruppi per i diritti umani da parte della sua rete di organizzazioni della società civile si espanderà. Invece di chiedere la fine della brutale occupazione della Palestina da parte di Israele e della repressione dei diritti dei palestinesi, i gruppi filoisraeliani diventeranno ancora più fanatici e frenetici nel loro tentativo di mettere a tacere ed eliminare il legittimo lavoro per i diritti umani. Dopo la vittoria del DCIP presso l’Alta Corte di Londra, si vede l’opportunità di sfidare la lobby anti-palestinese dove sa che non può vincere: in un tribunale.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)