Duro colpo per la censura filoisraeliana – Le voci a favore della Palestina non saranno messe a tacere

Nada Elia

27 febbraio 2020 – Middle East Eye

Con la pubblicazione di un parere legale sulla Harvard Law Review [rivista indipendente pubblicata dagli studenti della facoltà di Legge dell’Università di Harvard, ndt], cresce l’opposizione contro la censura ai discorsi pro-Palestina, sia nel mondo accademico che nella società in generale.

Per gli attivisti per i diritti della Palestina, l’editoriale del comitato di redazione della Harvard Law Review secondo cui il BDS [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, campagna globale di boicottaggio contro Israele, ndt] non costituisce una pratica discriminatoria e non dovrebbe pertanto essere vietato, giunge come un balsamo lenitivo su una ferita aperta.

L’Università di Harvard è una delle più prestigiose istituzioni accademiche del mondo, e il comunicato pubblicato dalla redazione della Law Review è ampiamente documentato, motivato e assertivo. “Questa Nota smonta l’accusa secondo cui il BDS costituirebbe una fattispecie di discriminazione,” scrive la redazione nel commento introduttivo, aggiungendo che “le leggi anti BDS non poggiano su un ragionevole interesse anti-discriminatorio.”

Si può solo sperare che questa dichiarazione metterà fine al bavaglio imposto ai discorsi antisionisti e pro-BDS, nonostante due precedenti episodi che nel 2020, poco prima che uscisse il comunicato, hanno fatto notizia.

Il primo è stato il licenziamento di un’insegnante americana in base ad alcune [sue] dichiarazioni sui social media: il secondo, l’allontanamento di una giornalista da una conferenza dopo che questa aveva rifiutato di firmare un impegno anti BDS.

JB Brager, una queer [si definisce queer una persona che non vuole identificarsi come gay, etero o altri generi o orientamenti sessuali, ndt] ebrea insegnante di storia all’ Ethical Culture Fieldston, scuola d’élite della città di New York, è stata licenziata due settimane fa dopo aver pubblicato commenti antisionisti su Twitter.

E alla giornalista e regista Abby Martin è stato impedito di tenere un discorso ad una conferenza stampa dopo che ha rifiutato di firmare l’impegno a non boicottare Israele. La Martin ha appena diretto il documentario “Gaza Fights for Freedom” [“Gaza lotta per la libertà”, ndt], con riprese di soldati israeliani che sparano a manifestanti disarmati durante la Grande Marcia del Ritorno.

Antisemitismo versus antisionismo

Questi due episodi – e l’energica risposta contro il bavaglio ai discorsi antisionisti – dimostrano quanto stia crescendo la lotta contro la censura, ma anche quanto stiano diventando profonde le divisioni all’interno delle comunità ebraiche sul sostenere il sionismo in modo incondizionato o criticarlo.

All’amministrazione della Fieldston è stata spedita una lettera a sostegno di Brager, firmata da centinaia di ex allievi, queer, ebrei e simpatizzanti, in cui si esprime indignazione per il licenziamento e si chiede il reintegro della Brager.

La lettera afferma che la stessa comunità di Fieldston è divisa sul sostegno a Israele, con “un gruppetto di genitori conservatori” che cerca di mettere a tacere le voci progressiste, e [la lettera, ndt.] critica la scuola per essersi allineata alla parte sbagliata nel licenziare Brager.

Alla lettera ha fatto seguito un’altra lettera di sostegno, firmata da decine di leader spirituali e insegnanti ebrei, che fanno appello all’amministrazione di Fieldston perché reintegri Brager, presenti pubbliche scuse e chiarisca la differenza tra antisemitismo e antisionismo.

Secondo la lettera, “licenziando la Prof. Brager, state mandando un messaggio forte ai vostri studenti: che bisogna temere il dissenso, che il manifestare il proprio diritto alla libertà di parola ha delle limitazioni, che opinioni diverse non verranno tollerate, che esiste una sola versione autorizzata della storia e che c’è solo un tipo di ebreo.” Nel momento in cui scrivo, tuttavia, la Brager non è stata riassunta a scuola.

Nel frattempo, secondo la Martin, in Georgia la controversia sulla sua esclusione dalla Critical Media Literacy Conference, e il supporto da parte dei colleghi al diritto di parola della giornalista nonostante la legge georgiana anti-BDS, ha portato alla cancellazione dell’intera conferenza.

Mentre la censura in sé, come il dissenso verso di essa espresso con petizioni e lettere, non è una novità, l’opposizione sta assumendo una nuova dimensione, da quando una manciata di professori è andata all’attacco denunciando che le istituzioni li stavano imbavagliando. Questi professori stanno lottando per conservare il proprio diritto di parola, sia nelle istituzioni accademiche che sui social media.

Ambiente ostile

L’anno scorso, la Prof. Rabab Abdulhadi ha denunciato la San Francisco State University, in cui è titolare del programma formativo Arab and Muslim Ethnicities and Diasporas [Etnie arabo-musulmane e Diaspora], perché avrebbe creato un ambiente ostile che le ha impedito di portare a termine il proprio programma accademico, tra cui gruppi di ricerca in Palestina.

Nella querela, la Abdulhadi chiede un’ingiunzione per finanziare il programma, come previsto dal contratto, e per implementare le misure istituzionali contro l’islamofobia, il razzismo antiarabo e antipalestinese, oltre ai danni patrimoniali. Per ora non è stata fissata alcuna udienza.

In seguito, sempre l’anno scorso, Rima Najjar, docente in pensione, ha querelato Quora, una piattaforma social di “domanda-e-risposta” da cui era stata bannata definitivamente perché aveva espresso critiche contro il sionismo, cosa che Quora ha considerato una violazione delle sue linee guida riguardo all’“essere gentili e rispettosi”.

Najjar chiede la riattivazione del proprio account e una diffida a Quora affinché la smetta di discriminare gli utenti di origine palestinese o di opinioni antisioniste. Il legale della prof.ssa Najjar dice che non si aspettano una risposta prima dell’inizio di marzo.

MEE ha parlato con Najjar, che ha spiegato che aveva deciso di iniziare a scrivere nel forum quando aveva notato che le risposte date dal sito apparivano in evidenza nelle ricerche di notizie in rete su Palestina e Israele, ma spesso contenevano informazioni non corrette. Nel tentativo di rimediare a questa tendenziosità, ha iniziato a pubblicare sul sito, diventando una prolifica partecipante dal 2016 alla metà del 2019, quando è stata bannata definitivamente e sono state cancellate tutte le sue risposte ben approfondite e ben documentate.

I social media possono sembrare lontani anni luce dal mondo accademico, ma per molti professori sono semplicemente un’altra tribuna educativa, in grado di raggiungere molte migliaia di persone in più rispetto alla ventina di studenti che hanno in aula. Come ha dichiarato Najjal a MEE: “I social media sono importanti perché hanno il potere di influenzare l’opinione pubblica e, di conseguenza, i movimenti sociali e politici e le politiche.”


Sanzioni a chi critica Israele

Ha fatto riferimento alla campagna israeliana di influenza globale, che “da anni utilizza i social media per sfornare una narrativa che ritrae, in modo falso, il sionismo come forma di resistenza antirazzista e giustizia per gli ebrei in tutto il mondo, mentre nega l’identità nazionale palestinese. Questa attività è accompagnata, nel mio caso, da una vasta campagna di vessazione e censura da parte di sionisti e israeliani.”

L’impatto dei social media sul dibattito pubblico su Israele e Palestina è riconosciuto dagli amministratori scolastici e dell’università, che sanzionano il corpo docente per quel che pubblica online.

Brager è stata licenziata dalla Fieldston in seguito ai post su Twitter più che per qualsiasi altra cosa che possa aver detto in classe. Gli amministratori scolastici utilizzano l’accusa di antisemitismo, o di mancanza di “garbo”, come un’arma per censurare e sanzionare le critiche contro Israele.

Ma la discussione non si può chiudere qui, e non c’è modo di nascondere il senso di estraneità che un numero sempre maggiore di ebrei progressisti sente relativamente a Israele e al sionismo. La voglia degli ebrei progressisti di dissociarsi apertamente dal sionismo, e di manifestare il proprio sostegno per i diritti dei palestinesi, diventa sempre più evidente ad ogni nuova norma contro il BDS e ad ogni tentativo di censura del discorso critico verso Israele.

Sempre più determinazione

Il pullman Palestinian Freedom 2020, che trasporta un gruppo di studenti organizzati da Jewish Voice for Peace Action [Voce Ebraica per la Pace-Azione, gruppo di ebrei antisionisti, ndtr.], sta attualmente facendo il giro del Paese al seguito dei candidati presidenziali democratici, con il messaggio che una massa critica di ebrei sostiene i diritti dei palestinesi. Come ha twittato Brager: “Rifiuto di ‘riaffermare il valore’ del colonialismo etno-nazionalista dei coloni, io sostengo il BDS e la sovranità palestinese e lo farò per tutto il resto della mia vita.”

Invece di zittire le critiche contro Israele, il bavaglio alla libertà di parola ha catalizzato e fatto aumentare la determinazione – da parte dei palestinesi, degli ebrei e dei simpatizzanti tra il corpo docente e gli studenti che sostengono i diritti dei palestinesi – a non essere messi a tacere, e a condannare in modo più categorico la legislazione che difende il sionismo e criminalizza la solidarietà con gli oppressi. E con il sostegno legale fornito da gruppi come Palestine Legal e il Center for Constitutional Rights, quest’anno possiamo aspettarci più denunce contro la censura.


Il punto di vista espresso in questo articolo appartiene all’autore e non rispecchia necessariamente la linea editoriale di Middle Eas Eye.

Nada Elia
Nada Elia è una scrittrice palestinese della diaspora e una commentatrice politica. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro, “Who You Callin’ ‘Demographic Threat’?, Notes from the Global Intifada.” [“Minaccia demografica a chi? Appunti dall’Intifada mondiale”, ndt.]. Docente (in pensione) di Gender e Global Studies, è membro della Comitato Direttivo USACBI – US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel [Campagna USA per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele, ndt].

(traduzione dall’inglese di Elena Bellini)




L’ONU ha reso nota una lista di imprese che hanno rapporti con le illegali colonie israeliane

Areeb Ullah

12 febbraio 2020 – Middle East Eye

Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola sono tra le 112 imprese citate dal Consiglio per i Diritti Umani

Il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU (OHCHR) ha pubblicato una lista a lungo attesa di imprese che operano nelle illegali colonie israeliane.

Nel documento sono elencate più di 100 aziende, comprese 18 imprese internazionali, che stanno lavorando nelle colonie della Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

Le imprese internazionali inserite nel documento includono Airbnb, Booking.com, Expedia, JCB, Opodo, TripAdvisor e Motorola Solutions. 

Michelle Bachelet, alta commissaria ONU per i diritti umani, ha affermato che la lista è stata stilata “dopo un approfondito e accurato processo di controllo”.

Sono consapevole che questo problema è stato e continuerà ad essere molto controverso,” ha affermato Bachelet in un comunicato.

Tuttavia, dopo un approfondito e accurato processo di controllo siamo convinti che questo rapporto basato su dati di fatto rifletta la seria attenzione che è stata dedicata a questo incarico senza precedenti e molto complesso, e che risponda in modo adeguato alla richiesta del Consiglio per i Diritti Umani contenuta nella risoluzione 31/36.”

Imprese che l’ONU mette in relazione con le illegali colonie israeliane

Impresa

Paese coinvolto

1

Afikim Public Transportation Ltd.

Israele

2

Airbnb Inc.

Stati Uniti

3

American Israeli Gas Corporation Ltd.

Israele

4

Amir Marketing and Investments in Agriculture Ltd.

Israele

5

Amos Hadar Properties and Investments Ltd.

Israele

6

Angel Bakeries

Israele

7

Archivists Ltd.

Israele

8

Ariel Properties Group

Israele

9

Ashtrom Industries Ltd.

Israele

10

Ashtrom Properties Ltd.

Israele

11

Avgol Industries 1953 Ltd.

Israele

12

Bank Hapoalim B.M.

Israele

13

Bank Leumi Le-Israel B.M.

Israele

14

Bank of Jerusalem Ltd.

Israele

15

Beit Haarchiv Ltd.

Israele

16

Bezeq, the Israel Telecommunication

Corp Ltd.

Israele

17

Booking.com B.V.

Olanda

18

C Mer Industries Ltd.

Israele

19

Café Café Israel Ltd.

Israele

20

Caliber 3

Israele

21

Cellcom Israel Ltd.

Israele

22

Cherriessa Ltd.

Israele

23

Chish Nofei Israel Ltd.

Israele

24

Citadis Israel Ltd.

Israele

25

Comasco Ltd.

Israele

26

Darban Investments Ltd.

Israele

27

Delek Group Ltd.

Israele

28

Delta Israel

Israele

29

Dor Alon Energy in Israel 1988 Ltd.

Israele

30

Egis Rail

Francia

31

Egged, Israel Transportation Cooperative Society Ltd.

Israele

32

Energix Renewable Energies Ltd.

Israele

33

EPR Systems Ltd.

Israele

34

Extal Ltd.

Israele

35

Expedia Group Inc.

Stati Uniti

36

Field Produce Ltd.

Israele

37

Field Produce Marketing Ltd.

Israele

38

First International Bank of Israel Ltd.

Israele

39

Galshan Shvakim Ltd.

Israele

40

General Mills Israel Ltd.

Israele

41

Hadiklaim Israel Date Growers Cooperative Ltd.

Israele

42

Hot Mobile Ltd.

Israele

43

Hot Telecommunications Systems Ltd.

Israele

44

Industrial Buildings Corporation Ltd.

Israele

45

Israel Discount Bank Ltd.

Israele

46

Israel Railways Corporation Ltd.

Israele

47

Italek Ltd.

Israele

48

JC Bamford Excavators Ltd.

Regno Unito

49

Jerusalem Economy Ltd.

Israele

50

Kavim Public Transportation Ltd.

Israele

51

Lipski Installation and Sanitation Ltd.

Israele

52

Matrix IT Ltd.

Israele

53

Mayer Davidov Garages Ltd.

Israele

54

Mekorot Water Company Ltd.

Israele

55

Mercantile Discount Bank Ltd.

Israele

56

Merkavim Transportation Technologies Ltd.

Israele

57

Mizrahi Tefahot Bank Ltd.

Israele

58

Modi’in Ezrachi Group Ltd.

Israele

59

Mordechai Aviv Taasiot Beniyah 1973 Ltd.

Israele

60

Motorola Solutions Israel Ltd.

Israele

61

Municipal Bank Ltd.

Israele

62

Naaman Group Ltd.

Israele

63

Nof Yam Security Ltd.

Israele

64

Ofertex Industries 1997 Ltd.

Israele

65

Opodo Ltd.

Regno Unito

66

Bank Otsar Ha-Hayal Ltd.       

Israele

67

Partner Communications Company Ltd.

Israele

68

Paz Oil Company Ltd.

Israele

69

Pelegas Ltd.

Israele

70

Pelephone Communications Ltd.

Israele

71

Proffimat S.R. Ltd.

Israele

72

Rami Levy Chain Stores Hashikma Marketing 2006 Ltd.

Israele

73

Rami Levy Hashikma Marketing Communication Ltd.

Israele

74

Re/Max Israel

Israele

75

Shalgal Food Ltd.

Israele

76

Shapir Engineering and Industry Ltd.

Israele

77

Shufersal Ltd.

Israele

78

Sonol Israel Ltd.

Israele

79

Superbus Ltd.

Israele

80

Supergum Industries 1969 Ltd.

Israele

81

Tahal Group International B.V.

Olanda

82

TripAdvisor Inc.

Stati Uniti

83

Twitoplast Ltd.

Israele

84

Unikowsky Maoz Ltd.

Israele

85

YES

Israele

86

Zakai Agricultural Know-how and inputs Ltd.

Israele

87

ZF Development and Construction

Israele

88

ZMH Hammermand Ltd.

Israele

89

Zorganika Ltd.

Israele

90

Zriha Hlavin Industries Ltd.

Israele

91

Alon Blue Square Israel Ltd.

Israele

92

Alstom S.A.

Francia

93

Altice Europe N.V.

Olanda

94

Amnon Mesilot Ltd.

Israele

95

Ashtrom Group Ltd.

Israele

96

Booking Holdings Inc.

Stati Uniti

97

Brand Industries Ltd.

Israele

98

Delta Galil Industries Ltd.

Israele

99

eDreams ODIGEO S.A.

Lussemburgo

100

Egis S.A.

Francia

101

Electra Ltd.

Israele

102

Export Investment Company Ltd.

Israele

103

General Mills Inc.

Stati Uniti

104

Hadar Group

Israele

105

Hamat Group Ltd.

Israele

106

Indorama Ventures P.C.L.

Thailandia

107

Kardan N.V.

Olanda

108

Mayer’s Cars and Trucks Co. Ltd.

Israele

109

Motorola Solutions Inc.

Stati Uniti

110

Natoon Group

Israele

111

Villar International Ltd.

Israele

112

Greenkote P.L.C.

Regno Unito

Il rapporto evidenzia anche che 60 imprese sono state tolte da un precedente elenco compilato dall’OHCHR.

La lista è stata pubblicata dopo che nel 2016 il Consiglio per i Diritti Umani ha approvato la risoluzione 31/36 ed ha richiesto informazioni su imprese “coinvolte in alcune specifiche attività legate alle colonie israeliane nei Territori Palestinesi Occupati.”

Anche l’ex alto commissario ONU Zeid Raad al-Hussein ha confermato che la lista delle imprese è stata ricavata da informazioni di dominio pubblico e da una serie di fonti. Secondo il Consiglio per i Diritti Umani, le imprese elencate hanno agevolato la costruzione di colonie, fornito loro apparecchiature per la sorveglianza o servizi per la sicurezza alle imprese che vi lavorano.

In base alle leggi internazionali le colonie israeliane su terre conquistato da Israele nella guerra del 1967 in Medio Oriente sono considerate illegali.

Altre categorie citate nel rapporto includono la fornitura di macchinari per la demolizione di edifici e la partecipazione ad attività che “danneggiano” le attività economiche palestinesi attraverso l’applicazione di restrizioni agli spostamenti.

Commentando la pubblicazione della lista, il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni guidato dai palestinesi ha affermato che l’ONU è stata “significativa” ma “incompleta”.

La banca dati è incompleta. Deve essere aggiunta qualunque impresa che sia complice del regime di apartheid israeliano e delle sue gravi violazioni dei diritti dei palestinesi in base al diritto internazionale, per assicurare il fatto che ne paghi le conseguenze,” ha affermato il BDS in un comunicato. 

Bruno Stagno, vice direttore esecutivo di Human Rights Watch per la difesa ha affermato che l’elenco dovrebbe “mettere in guardia” tutte le imprese che intendano lavorare con le colonie israeliane. “La pubblicazione a lungo attesa dei dati dell’ONU sulle attività economiche con le colonie dovrebbe mettere in guardia le imprese: avere rapporti economici con colonie illegali significa collaborare con la perpetrazione di crimini di guerra,” ha sostenuto Stagno in un comunicato.

La banca dati segna un notevole progresso negli sforzi internazionali per fare in modo che le attività economiche interrompano ogni complicità con le violazioni dei diritti e rispettino le leggi internazionali. La principale istituzione per i diritti dell’ONU dovrebbe garantire che la banca dati sia regolarmente aggiornata per agevolare le imprese nel rispetto dei loro obblighi in base al diritto internazionale.”

Lo scorso anno molti gruppi per i diritti avevano criticato il ritardo “inspiegabile” e “a tempo indefinito” nella pubblicazione della banca dati dell’ONU. Tuttavia il Consiglio per i Diritti Umani non aveva fornito nessuna ragione che determinava il continuo rinvio della pubblicazione della lista nera.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La criminalizzazione della resistenza palestinese: le nuove condizioni dell’UE per gli aiuti alla Palestina

Tariq Dana 

2 febbraio 2020 – Al-Shabaka

Recentemente l’UE ha comunicato alla rete delle Organizzazioni Non Governative Palestinesi (ONGP) le nuove condizioni per i finanziamenti, cioè che le organizzazioni della società civile palestinese sono obbligate a non avere rapporti con individui o gruppi definiti “terroristi” dalla UE. Ciò comprende il personale, gli appaltatori, i beneficiari e i destinatari degli aiuti. La misura non solo riduce ulteriormente la libertà della società civile palestinese, ma inoltre criminalizza la resistenza palestinese persino nelle sue forme più pacifiche. (1)

Che cosa ha causato il cambiamento, quali effetti avrà sulla società civile palestinese e che cosa possono fare i palestinesi al riguardo? Al-Shabaka ha parlato di queste questioni e più in generale dei problemi degli aiuti internazionali alla Palestina con l’analista politico Tariq Dana, professore associato presso il ‘Centro per i Conflitti e gli Studi Umanitari’ dell’Istituto di Studi Universitari di Doha,

L’UE sostiene che la nuova clausola non è nuova, in quanto è coerente con la politica dell’UE dal 2001 tesa ad evitare il finanziamento di gruppi classificati come “organizzazioni terroristiche”. È così?

È importante distinguere tra la politica dell’UE e le politiche dei diversi Stati membri che non riflettono necessariamente gli accordi UE riguardo ad una particolare questione. All’inizio degli anni 2000, quando l’USAID [ente governativo USA per la cooperazione internazionale e gli aiuti umanitari, ndtr.] ha incominciato ad imporre la clausola “antiterrorismo” nei confronti delle ONG palestinesi, pochi Stati europei hanno seguito la strada americana e imposto requisiti più severi alle organizzazioni della società civile palestinese. Però l’Unione Europea all’epoca non era coinvolta direttamente in questa controversia ed ha preferito porre l’accento sulla professionalità, la trasparenza e l’efficacia dei programmi delle ONG come principali criteri per ricevere fondi e attuare progetti, piuttosto che focalizzarsi sull’identità politica delle organizzazioni e del loro personale. La tempistica della recente iniziativa dell’UE sulle condizioni di finanziamento e dell’attacco politico alla società civile palestinese è molto sospetta, poiché giunge in un momento molto difficile per i palestinesi.

Allora che cosa ha portato a questo cambiamento?

Il cambiamento va collocato nel contesto della continua colonizzazione israeliana e dell’abilità della sua impresa coloniale di inventare nuovi meccanismi di controllo. L’ultima mossa dell’UE è il risultato della costante pressione israeliana su di essa per impedirle di finanziare molte organizzazioni palestinesi, soprattutto quelle impegnate nel rivelare e rendere note le pratiche coloniali, le violazioni dei diritti umani e i crimini israeliani.

Israele ha infatti adottato un’ampia gamma di misure aggressive per limitare il campo d’azione della società civile nei Territori Palestinesi Occupati, incluse le detenzioni arbitrarie e gli arresti di attivisti della società civile, giustificazioni in base alla “sicurezza” per ostacolare il lavoro delle organizzazioni locali, il finanziamento di campagne di diffamazione per delegittimare l’attività di queste organizzazioni e la pressione sulle organizzazioni e i donatori internazionali perché sospendano i finanziamenti alle ONG palestinesi. Questo è particolarmente evidente riguardo alle organizzazioni legali che utilizzano le leggi internazionali per riferire sulle violazioni dei diritti umani, come Al-Haq e Addameer, e le organizzazioni per lo sviluppo che realizzano progetti nell’area C [sotto il totale ma temporaneo controllo israeliano, in base agli Accordi di Oslo, ndtr.] per sostenere la tenacia delle comunità locali che soffrono a causa dell’esercito e dei coloni, quali il ‘Centro Bisian per la Ricerca e lo Sviluppo’ il cui direttore, Ubai Aboudi, è stato recentemente arrestato da Israele ed è sottoposto a detenzione amministrativa senza capi d’accusa.

Anche alcune influenti organizzazioni di destra in Israele, come ‘NGO Monitor’, che attacca le organizzazioni palestinesi non-profit e i loro partner internazionali con false accuse, per esempio, di “terrorismo” e “antisemitismo” e che ha il sostegno del governo israeliano, hanno fatto pressione e creato mobilitazione contro il finanziamento delle tendenze, anche quelle più moderate, all’interno della società civile palestinese. Purtroppo la definizione dell’UE di “terrorismo” ricalca la prospettiva israeliana e perciò giova ampiamente a questi interessi tesi a sopprimere le voci critiche palestinesi.

Inoltre, mentre la mossa dell’UE rappresenta un’altra vittoria per la propaganda israeliana, è anche l’ennesima di un’infinita serie di sconfitte dell’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, ndtr.]. L’ANP per anni ha escluso la resistenza e ha represso diverse forme di lotta popolare, mentre al contempo sosteneva di appoggiare la “lotta diplomatica” per fare pressione su Israele perché rispettasse il diritto internazionale. Quello che in realtà abbiamo visto è un vergognoso numero di ripetute sconfitte e la scarsa propensione a perseguire un’efficace politica e diplomazia. Quindi non c’è dubbio che il cambio di politica dell’UE nell’intensificare le limitazioni dei finanziamenti alla società civile palestinese è stato in parte il risultato delle politiche insensate dell’ANP.

Come hanno risposto l’ANP e la società civile palestinese alla mossa dell’UE?

Al momento, la società civile palestinese ha mobilitato i propri sostenitori e le proprie reti per respingere questa mossa. La ‘Campagna Nazionale Palestinese per Respingere i Finanziamenti Condizionati’ ha emesso una dichiarazione che critica aspramente la politica dell’UE, affermando la propria totale opposizione al condizionamento politico dei finanziamenti. La dichiarazione afferma l’impegno dell’organizzazione su questa posizione fino al punto che rimarrà ferma anche se “portasse al collasso della nostra organizzazione e all’impossibilità di svolgere il nostro vitale lavoro.” Da parte sua, l’ANP ha denunciato solo verbalmente la misura e non ha formulato alcun piano per trasformare la propria posizione in un passo concreto per fermare l’UE.

Che impatto avrà la politica dell’UE sui palestinesi e sulla società civile palestinese?

La mossa dell’UE giunge in un momento molto difficile per i palestinesi: Israele si sta preparando ad annettere la maggior parte dell’area C e la Valle del Giordano; i palestinesi sono deboli, frammentati e divisi; l’ANP è diventata de facto un esecutore della sicurezza israeliana; la causa palestinese negli ultimi anni ha subito una marginalizzazione e non è più una priorità regionale. Le limitazioni dell’UE si aggiungono a questi elementi, criminalizzando molte organizzazioni palestinesi impegnate in forme moderate di resistenza attraverso il diritto internazionale e la difesa e il sostegno alla sopravvivenza delle comunità. Queste restrizioni quindi non solo contribuiranno ad un’ulteriore emarginazione della causa palestinese, ma favoriranno anche l’istituzionalizzazione dell’espansione coloniale israeliana, poiché, se non riusciranno a trovare alternative ai finanziamenti UE, molte organizzazioni non saranno in grado di sostenere il proprio lavoro di monitoraggio e denuncia dei crimini israeliani.  

Più precisamente, mentre l’elenco dei bersagli dell’UE include molti movimenti di resistenza palestinesi, numerose persone e famiglie subiranno le conseguenze del nuovo cambio di politica. Per esempio, persone che sono state arrestate in passato, compresi coloro che sono stati reclusi in detenzione amministrativa, condannata a livello internazionale, e che ora sono impegnate nell’attivismo della società civile, possono essere classificati “terroristi” e perciò escluse dal ricevere finanziamenti. In più, organizzazioni e gruppi che appoggiano il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) e le sue attività sono chiaramente visti come una minaccia agli interessi israeliani e probabilmente le campagne per delegittimare le loro attività, non solo in Palestina, ma anche in parecchi Stati dell’UE, aumenteranno.

È importante sottolineare anche la contraddizione tra la retorica dell’UE e le sue politiche. Per esempio, l’UE afferma che non riconoscerà l’annessione israeliana dell’area C o della Valle del Giordano, ma tagliando gli aiuti essa ostacola il lavoro delle ONG palestinesi che sostengono le comunità minacciate dall’espulsione israeliana in quelle aree. Di fatto l’UE sarà complice del processo di espulsione, anche se afferma di non riconoscere alcuna possibile annessione.   

Quale è lo stato della società civile palestinese in questo momento cruciale?

Attivisti e studiosi hanno ripetutamente messo in guardia rispetto alla costante dipendenza delle ONG palestinesi dagli aiuti condizionati dell’occidente per finanziare le organizzazioni e i progetti locali. Pur riconoscendo gli sforzi delle iniziative di base per riorganizzarsi attraverso risorse locali e attività volontaria per avviare e sostenere alcuni importanti progetti, queste iniziative non si sono trasformate in una tendenza collettiva e strategica. Il più grande e influente segmento della società civile continua a dipendere dagli aiuti internazionali, che sono ampiamente condizionati a livello politico e ideologico e quindi impongono parecchie limitazioni al lavoro dei soggetti della società civile.

Il predominio di queste ONG ha creato una società stagnante, ha depoliticizzato gli attivisti locali, ha prodotto una nuova elite separata ed ha sprecato milioni in progetti insensati. Per esempio, il ruolo della società civile nella divisione tra Fatah e Hamas è stato chiaramente assente e le organizzazioni non sono riuscite a lanciare iniziative strategiche per contrastare le conseguenze delle divisioni. Il risultato è che la società civile palestinese è molto più frammentata di dieci anni fa, mentre le organizzazioni attive in Cisgiordania hanno priorità e programmi diversi dalle loro controparti nella Striscia di Gaza. Quindi, mentre la società civile dovrebbe essere un ambito di resistenza e di mobilitazione contro la frammentazione, essa ne è diventata parte.

Che cosa occorrerebbe fare per rafforzare la società civile palestinese e contrastare la frammentazione?

Le restrizioni dell’UE potrebbero essere dannose per molte organizzazioni locali, ma dovrebbero essere viste come un’opportunità per creare strategie collettive al di là dell’aiuto ufficiale convenzionale dell’occidente e delle sue limitazioni. La pressione creata dai sistematici tagli ai finanziamenti per gli aiuti da parte dei donatori internazionali potrebbe auspicabilmente spingere molte organizzazioni a cercare risorse alternative all’interno della società palestinese in Palestina e nella diaspora e a collegarsi con gli autentici movimenti della società civile e coi gruppi della solidarietà in tutto il mondo, cosa che offrirebbe piattaforme internazionali per l’attivismo dei difensori e possibili risorse finanziarie per contribuire a ricostruire la società civile su nuovi binari.

E’ vitale per le organizzazioni della società civile dare priorità a quei tipi di azioni che valorizzino le strutture popolari, partecipative e democratiche e l’organizzazione sociale di base. Ci dovrebbe essere uno sforzo organizzato a favore del dialogo interno incentrato su una concezione della società civile che privilegi il programma di liberazione nazionale, la mobilitazione popolare, l’impegno, la resistenza e le politiche e la conoscenza anticolonialiste. Questo dovrebbe essere affiancato da una prospettiva di alternative all’attuale sistema di aiuti, reinventando nuove fonti di solidarietà per finanziare le attività della società civile. Ciò potrebbe comprendere progetti di auto-finanziamento che coinvolgano più palestinesi della diaspora, gruppi della solidarietà internazionale e movimenti per la giustizia sociale che aiuterebbero a ridurre la dipendenza dai finanziamenti condizionati.

Note:

  1. Al-Shabaka è grata per gli sforzi dei difensori dei diritti umani di tradurre i suoi articoli, ma non è responsabile per qualunque modifica del loro significato.

Tariq Dana

Il consulente politico di Al-Shabaka Tariq Dana è professore associato presso il ‘Centro per i Conflitti e gli Studi Umanitari’ dell’Istituto di Studi post-universitari di Doha. Ha lavorato come direttore del ‘Centro per gli Studi sullo Sviluppo’ all’università di Birzeit (2015-2017) ed è stato ricercatore presso l’‘Istituto di Studi Internazionali Ibrahim Abu-Lughod’. Ha conseguito la laurea presso la Scuola Sant’Anna di Studi Avanzati, in Italia. Gli interessi di Tariq nel campo della ricerca comprendono l’economia politica, la società civile, i movimenti sociali e le ONG, la costruzione dello Stato e i rapporti società-Stato, con focus particolare sulla Palestina e più in generale sul Medio Oriente arabo.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Come possono le università contrastare le minacce della lobby israeliana?

Nora Barrows-Friedman

23 gennaio 2020 – Electronic Intifada

Un gruppo di destra di sostegno a Israele ha accusato di antisemitismo professori progressisti del college comunitario di Brooklyn, New York.

Sta minacciando di azioni legali i docenti in base al loro percepito sostegno ai diritti dei palestinesi.

Tali accuse fanno parte di un attacco in espansione contro studenti e docenti presso università statunitensi da parte di gruppi della lobby israeliana al fine di criminalizzare l’organizzazione di solidarietà con la Palestina facendo una cosa sola della critica di Israele e del fanatismo antiebraico.

Il Lawfare Project rappresenta un professore di destra del Kingsborough Community College che nel 2016 aveva collaborato con il gruppo per avviare una causa legale contro il college.

Il Lawfare Project ha anche minacciato di citare in giudizio docenti nell’ottobre del 2018.

Il gruppo mira a mettere a tacere attivisti, docenti e studenti, avviando cause legali contro di loro e diffamando quali antisemiti i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Il direttore del gruppo, Brooke Goldstein, ha affermato che “non esiste qualcosa come una persona palestinese”.

Il mese scorso ha presentato una denuncia federale contro la Columbia University per conto di uno studente ebreo israelo-statunitense.

La denuncia afferma che lo studente è stato vittima di “discriminazione antisemita” a causa di attività di studenti e docenti che sostengono i diritti dei palestinesi.

In particolare, la denuncia invoca il decreto presidenziale firmato a dicembre dal presidente Donald Trump che consente che mere accuse di antisemitismo contro critici di Israele nei campus determinino lunghe inchieste da parte del governo e possibili restrizioni dei finanziamenti.

Nel frattempo Anthony Alessandrini, uno dei professori accusati a Kingsborough e membro del Progressive Faculty Caucus (PFC), è stato oggetto di molestie e diffamazioni.

Nel marzo del 2019 Alessandrini, che insegna letteratura, ha ricevuto una lettera anonima nella casella del suo college che diceva: “Questo è un avvertimento per te e altri del PFC. Guardati le spalle!!!”

Ha dichiarato a The Electronic Intifada di aver anche trovato una scritta su un volantino alla porta del suo ufficio che diceva “Od Kahane Chai”: Kahane vive ancora.

Meir Kahane, che aveva fondato la violenta Jewish Defense League di destra, promuoveva la totale espulsione dei palestinesi dalla loro patria.

Il partito israeliano fondato da Kahane – Kahane Chai, o Kach – è classificato dal Dipartimento di Stato USA come un’organizzazione terroristica straniera.

Ad Alessandrini è stata assegnata una scorta del campus, che è continuata fino alla fine del semestre. La polizia del campus gli ha chiesto se volesse avanzare querele, ma poiché le scritte erano anonime, era difficile accusare direttamente qualcuno.

Ma invece di concentrarsi su chi potesse aver minacciato Alessandrini e i suoi colleghi, l’amministrazione di Kingsborough e la sua casa madre, l’Università della Città di New York (CUNY), ha intensificato una serie di indagini sul Progressive Faculty Caucus.

I docenti ritengono che esse siano state avviate in seguito alle minacce del Lawfare Project.

La CUNY ha recentemente assunto uno studio legale esterno per gestire l’attuale tornata delle indagini.

Alessandrini ha dichiarato a The Electronic Intifada che lui e diversi colleghi di Kingsborough sono stati convocati tre volte per interrogatori a proposito di “accuse molto simili, e totalmente infondate” di antisemitismo.

Con l’aiuto di legali, Alessandrini sta chiedendo di incontrare gli amministratori per affrontare quello che definisce un “processo di molestie” da parte del Lawfare Project e dei docenti e amministratori di destra che collaborano con esso.

L’amministrazione del college, non ha mostrato, se mai l’ha mostrata, grande spina dorsale nell’affrontare Lawfare”, ha aggiunto.

Alessandrini ha detto che c’è stato un unico gruppo di discussione riguardo all’organizzazione sulla Palestina nei 15 anni nei quali egli fa parte del corpo docente. Non c’è alcuna sezione di Students for Justice in Palestine [Studenti per la giustizia in Palestina] a Kingsborough.

Kingsborough è forse un precedente giudiziario su quanto in là possono spingersi gruppo lobbistici israeliani nel molestare preventivamente docenti e studenti per ridurli al silenzio, specialmente alla luce dell’intensificazione da parte del governo statunitense degli attacchi contro istituzioni pubbliche.

Se questo è un precedente, è un precedente per capire quale effetto agghiacciante si possa creare in una università pubblica affinché amministratori già pavidi dovranno preoccuparsi che il parlamento statale, o il governatore, ci attacchino”, ha detto Alessandrini.

Diffamazioni e attacchi

Il Progressive Faculty Caucus di Kingsborough è nato dopo l’elezione di Trump nel 2016 per sostenere le cause di professori e progressisti di sinistra di fronte al crescente clima politico e sociale di destra.

Alessandrini ha detto che membri di destra del corpo docente hanno cominciato ad accusare il caucus di discriminazione e ne hanno incolpato i membri di diversi atti di vandalismo antisemita contro professori ebrei.

Il caucus, che include membri ebrei, ha pubblicamente condannato il vandalismo.

Media di destra locali e nazionali – e gruppi di sostegno a Israele come StandWithUs – sono balzati sulla vicenda alimentando le diffamazioni contro i docenti.

Michael Goldstein, un amministratore di Kingsborough che è stato dietro a molte delle accuse, ha descritto Alessandrini come il “burattinaio” del caucus progressista.

Il Jewish Journal ha additato il coinvolgimento di Alessandrini in Students for Justice in Palestine, il suo sostegno alla campagna Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi e la sua critica dell’apartheid israeliano come prova di antisemitismo.

Professori di tutto il sistema della CUNY hanno denunciato le accuse contro i docenti progressisti e si sono schierati a sostegno del diritto dei loro colleghi di “organizzarsi, ricercare e scrivere a proposito dei temi urgenti del nostro tempo.

L’antisemitismo di destra “ottiene un lasciapassare”

A novembre è stato rivelato che un ex docente di Kingsborough e di altre istituzioni della CUNY è un nazionalista bianco ed è stato un frequente co-conduttore di un podcast con il notorio neonazista Richard Spencer.

Spencer ha detto in un’occasione che si rivolge a Israele per guida e ha fatto riferimento al suo desiderio di uno stato etnico europeo in America del Nord come a “sionismo bianco”.

Amministratori del college hanno dichiarato al gruppo Right Wing Watch [Osservatorio della destra] che il professor Joshua Dietz “non lavora attualmente per Kingsborough” e non hanno detto se il college era a conoscenza della sua ideologia quando vi era impiegato.

Kingsborough non ha risposto alle richieste di commenti da parte di Electronic Intifada.

Quando Alessandrini e altri hanno cominciato a chiedere risposte riguardo alla posizione di Dietz presso il college, egli ha detto che la presidente di Kingsborough, Claudia Schrader, li ha criticati come “non professionali” e “non collegiali”.

È indicativo del clima attuale che accuse contro professori di sinistra siano “prese sul serio e perseguite quanto più duramente possibile” mentre “l’antisemitismo di destra è semplicemente cancellato del tutto dalla conversazione”, ha detto Alessandrini.

Le minacce legali, ha detto, hanno determinato paura di discutere di qualsiasi questione personale: il Lawfare Project “ha scoperto che le minacce di una causa legale, nel clima attuale, che ci siano o no basi per essa, che qualcuno ritenga o no che possa essere vinta, sono una cosa realmente potente oggi”.

È inaccettabile in un luogo come la CUNY che non ci sia stata una reazione più forte”, ha aggiunto Alessandrini.

Contrastare le minacce

Kingsborough non è la sola istituzione di New York nel mirino degli attacchi della lobby israeliana e di pressioni di donatori che vogliono proteggere Israele da critiche.

In precedenza in questo mese un insegnante di storia delle superiori, JB Brager, è stato licenziato dal suo posto presso la Ethical Culture Fieldston School del Bronx per tweet critici di Israele e del sionismo.

In una lettera pubblicata martedì sul The New York Times Brager ha scritto di “non credere che sia diritto di una qualsiasi sigla o fazione della comunità ebrea dichiararsi opinione prevalente”.

Non c’è un solo modo di essere ebrei e il sionismo è sempre più riconosciuto come una politica di fatto razzista. Io sono un orgoglioso insegnante ebreo antisionista e appartengo alla mia classe scolastica”, ha aggiunto Brager.

Quasi 80 leader spirituali ebrei hanno condannato il licenziamento di Brager e hanno sollecitato la scuola a riassumerlo. “È irresponsabile e pericoloso fare una cosa sola delle critiche di Israele e dell’antisemitismo”, dicono i leader.

Gli insegnanti non dovrebbero aver timore di perdere il posto per criticare Israele o semplicemente per insegnare riguardo ai diritti umani dei palestinesi. Questo non è un ambiente che contribuisce all’apprendimento”, ha detto Radhika Sainath, capo dello staff legale del gruppo per i diritti civili Palestine Legal, che sta offrendo assistenza legale a Brager.

Nel giugno del 2018 una scuola privata d’élite di New York ha cancellato un corso di un insegnante di storia sulla Palestina, inducendo l’insegnante veterano, che è ebreo, a dimettersi.

Un altro insegnante della stessa scuola è stato punito dopo aver apposto sulla porta della sua classe i nomi dei palestinesi colpiti dall’esercito israeliano.

Assistiti dall’American Jewish Committee, un importante gruppo lobbistico israeliano, genitori della Riverdale Country School hanno diffamato insegnanti quali antisemiti e suprematisti bianchi. Una persona risulta aver evocato il movimento #MeToo, paragonando gli insegnanti a predatori sessuali.

Alessandrini ha detto che dopo il decreto presidenziale di Trump e le montanti minacce della lobby israeliana, è imperativo che le amministrazioni dei college sostengano gli studenti e il loro diritto di organizzarsi.

Anche il corpo docente “ha una quantità di auto-organizzazione da realizzare”, ha aggiunto.

Quelli di noi che oggi sono di ruolo e hanno una relativa sicurezza istituzionale dovrebbero cercare di creare una rete per proteggere i professori non di ruolo, gli assistenti e i laureandi che vogliono organizzarsi per i diritti dei palestinesi”.

Parte di tale lavoro organizzativo consisterebbe nel condurre ricerche su gruppi quali Lawfare Project e nell’informare gli amministratori universitari circa le loro intenzioni, anziché assumere posizioni difensive.

Ricordo i giorni realmente iniziali del movimento BDS, quando stava appena decollando”, ha detto.

Se mi aveste detto all’epoca che il presidente degli Stati Uniti avrebbe fatto valere il suo peso su questo, scrivendo un decreto presidenziale, vi avrei detto che eravate pazzi, che sarebbe stato sorprendente se si fosse potuti arrivare a quel punto. Ma è successo”.

Ciò ha avuto a che fare con l’effetto avuto dalle campagne BDS, ha affermato Alessandrini.

Ma ha anche a che fare con il fatto che il movimento BDS fa parte di movimenti globali della società civile “che stanno spaventando quelli al potere. E se stiamo facendo questo, stiamo facendo il nostro lavoro. Questa non è una cattiva notizia”.

Nora Barrows-Friedman è redattrice associata di The Electronic Intifada.

 

tratto da: Z NET ITALY




La diplomazia di Trump / Netanyahu: Orientalismo con un altro nome [intervista a Richard Falk]

Javad Heiran-Nia

1 febbraio 2020 – wordpress.com

Articolo basato sull’intervista di Javad Heiran-Nia a Richard Falk [professore emerito di diritto internazionale presso la Princeton University, ex relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori occupati e autore di numerosi libri, tra cui Chaos e Counterrevolution: After the Arab Spring, ndtr.] sull’ “accordo del secolo”.

1-Trump l’ha dichiarato alla presentazione dell’ “accordo del secolo” e ha insistito sul fatto che queste proposte siano un equo piano per la pace. Pensa che il piano soddisfi gli interessi dei palestinesi?

Questo cosiddetto contributo alla “pace” richiede che la Palestina rinunci ai suoi diritti fondamentali e accetti una condizione permanente di sottomissione e vittimizzazione. È talmente a favore di Israele da far pensare che sia stato ideato per garantirne il rifiuto immediato e definitivo da parte dei rappresentanti del governo e dell’opinione pubblica palestinesi. Il piano non è altro che un gioco di potere geopolitico sotto mentite spoglie, orchestrato da Netanyahu e Trump per promuovere i propri programmi politici e salvaguardare le proprie posizioni di governo, attualmente sotto attacco sia in Israele che negli Stati Uniti.

Il piano di Trump perpetua, istituzionalizza, acuisce e cerca di legittimare l’attuale stato di apartheid israeliano, e pretende anche di estenderne la protezione legale conferendo la sovranità israeliana alle terre rubate, quei territori palestinesi che hanno languito sotto l’occupazione e una continua serie di usurpazioni israeliane dal 1967. Il piano riduce la legittima presenza palestinese dal 22% sotto occupazione dopo la guerra del 1967 a un residuo 15%, essenzialmente le comunità palestinesi nelle città della Cisgiordania e alcune terre inabitabili nel Negev occidentale. 

2-Uno degli obiettivi di Trump nel proporre il piano è di aiutare Netanyahu a risolvere i propri problemi interni. Può aiutare Netanyahu a mantenere il potere in Israele, visto che potrebbe essere processato?

Sembra esprimere l’opinione, probabilmente popolare presso alcuni elettori in Israele, che Netanyahu è stato in grado di forzare la mano a Trump come nessun altro politico israeliano avrebbe potuto fare, abbastanza da raggiungere quasi tutto ciò che il movimento sionista avrebbe mai sognato di realizzare: una soluzione di fatto con uno Stato unico che sottopone permanentemente tutta la Palestina al controllo diretto e indiretto di Israele, dichiarato dalla Legge Fondamentale israeliana del 2018 Stato-Nazione esclusivamente del popolo ebraico, cancellando i diritti e la parità per le minoranze non ebree. Quello che viene chiamato “uno Stato” nel testo del piano non è uno Stato come previsto dalla diplomazia, in quanto vi vengono negati i diritti elementari di uno Stato sovrano ai sensi del diritto internazionale, costringendo i palestinesi che vivono sotto l’occupazione a condizioni permanenti come quelle di Gaza ed escludendo cinque milioni di rifugiati palestinesi, negando loro il diritto al ritorno ovunque abitassero prima di diventare profughi. 

3-Cosa dovrebbero fare i palestinesi per opporsi a questo piano?

Alzare la voce alle Nazioni Unite e altrove per chiarire che il piano è una farsa e una frode e, peggio ancora, un crimine internazionale; manifestare con risolutezza e con slogan efficaci, anche sulla vergogna dei Paesi arabi che hanno mostrato sostegno all’accordo; incoraggiare la campagna BDS a esercitare la massima pressione; chiedere ai governi e alle Nazioni Unite di imporre sanzioni; chiedere la conferma legale dei diritti dei palestinesi presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia; insistere su un nuovo quadro diplomatico per affrontare il conflitto israelo-palestinese senza la guida distorta e assurdamente di parte fornita dagli Stati Uniti per molti anni, compreso il periodo pre-Trump. È più che mai chiaro che i diritti dei palestinesi saranno ottenuti solo attraverso una lotta risoluta, isolando Israele, con le pressioni della solidarietà globale e accusando il governo israeliano e i suoi leader di avere imposto politiche criminali.

4-Perché Paesi arabi come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman, Bahrein, Egitto hanno accettato il piano? 

Per due ragioni principali: 1) quei governi arabi sono minacciati dai movimenti per la democrazia, in particolare tra gli arabi, e temono che il raggiungimento dell’autodeterminazione palestinese destabilizzi i loro oppressivi sistemi di governo; 2) per assicurarsi il sostegno continuo alle priorità regionali sunnite e anti-iraniane da parte della presidenza Trump.

Tale accordo tra le élite al governo non riflette affatto i sentimenti popolari in quei Paesi, i cui popoli continuano a sostenere fortemente la lotta palestinese, ma non sono in grado di influenzare i loro governi autocratici. 

5. Questo piano è in contraddizione con le risoluzioni delle Nazioni Unite e non vi è stata alcuna consultazione con la parte palestinese. In che modo gli Stati Uniti e Israele lo faranno accettare alla Palestina?

 Il piano Trump non solo ignora il diritto internazionale, ma contempla proposte che violano in modo flagrante e sprezzante disposizioni fondamentali come il divieto di acquisizione di territorio con la forza, ribadito nella risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza. Inoltre, istituzionalizzando un regime di governo oppressivo che si basa sulla discriminazione razziale, il piano istituzionalizza l’apartheid, definito come “un crimine contro l’umanità” nell’articolo 7 (j) dello Statuto di Roma che regola le attività della Corte Penale Internazionale.

Israele e gli Stati Uniti dovranno prima accettare di smantellare le caratteristiche di apartheid dello Stato israeliano come presupposto essenziale del processo diplomatico verso una pace sostenibile e giusta, che rifletta un impegno per la parità di ebrei e arabi, di israeliani ebrei e palestinesi. Senza soddisfare questa condizione preliminare ad un processo di pace, è illusorio aspettarsi la fine di un conflitto su terra e diritti che dura da più di un secolo. 

 6. Trump definisce giusto il piano, anche se viola i diritti del popolo palestinese. Questo piano è concretizzabile?

Il piano è così evidentemente ingiusto che si potrebbe pensare sia stato progettato per fallire, un risultato già prefigurato dal rifiuto quasi unanime dei palestinesi. Pertanto, l’approccio di Trump / Netanyahu si basa apparentemente sulla capacità di imporre una soluzione al popolo palestinese e di etichettarla come “pace”. Visto più realisticamente, il piano è un mero tentativo di dichiarare unilateralmente la vittoria israeliana e di far credere al mondo che la lotta palestinese sia una causa persa, sperando che una specie di provvedimento truffaldino faccia sì che se i palestinesi ammetteranno la sconfitta e faranno una dichiarazione formale di resa politica, la loro vita migliorerà se misurata in base alla situazione economica. Le misure offerte ai palestinesi nel loro complesso assomigliano a ciò che il popolo di Gaza ha sopportato dal 2007 e a ciò che è stato tentato dall’apartheid sudafricano nelle sue ultime fasi attraverso l’istituzione di bantustan assediati e impotenti in aree remote del Paese in cui alla popolazione africana era richiesto di vivere nella miseria e nell’umiliazione. Nel mondo post-coloniale un tale progetto è la ricetta per una lotta violenta e non deve essere confuso con autentici tentativi di passare di comune accordo dalla guerra alla pace o dall’oppressione alla democrazia costituzionale. L’” accordo del secolo” si rivela essere orientalismo coi muscoli!

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il BDS ha bisogno di una visione politica sulla costruzione di uno Stato palestinese

Haidar Eid

24 gennaio 2020 – Al Jazeera

Finora la campagna del BDS ha evitato questa questione, ma prima o poi dovrà fare una scelta.

Sono passati quasi 15 anni da quando il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni (BDS) è stato promosso dalla Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (PACBI).

L’obiettivo della campagna è costringere Israele e i suoi sostenitori a riconoscere che lo status quo nelle terre palestinesi e in Israele non è sostenibile a lungo termine e che non può esserci soluzione senza rispetto del diritto internazionale, della civiltà e della democrazia. Ciò significa porre fine all’occupazione illegale della Cisgiordania e all’assedio di Gaza, garantire uguali diritti all’interno di Israele per i suoi cittadini palestinesi e concretizzare il diritto di tornare alle loro case per i palestinesi cacciati durante la diaspora.

Oggi la campagna del BDS gode del sostegno della stragrande maggioranza della società civile palestinese. La tendenza sta cambiando anche in Occidente, dove il sistema di oppressione a più livelli da parte di Israele, in particolare l’occupazione, la colonizzazione e l’apartheid, sono sempre più condannati.

La società civile internazionale sembra aver raggiunto la conclusione che, come per il Sudafrica, il sistema di oppressione israeliano non può essere arrestato senza che si ponga fine alla complicità internazionale e si intensifichi la solidarietà globale, in particolare attraverso il BDS. Pertanto, la campagna si sta rapidamente avvicinando al modello sudafricano per maturità e impatto.

Personalmente, sono stato coinvolto nel BDS sin dalle sue origini e lo sostengo con tutto il cuore. Tuttavia, sono anche preoccupato che l’attenzione del pubblico si limiti alle richieste immediate della campagna a spese dello sviluppo di un piano coerente per il futuro politico della Palestina. In altre parole, poiché la campagna si limita a garantire il rispetto dei diritti dei palestinesi, manca una visione della realtà politica all’interno della quale tali diritti saranno collocati.

La campagna del BDS è stata volutamente ambigua sulla forma che lo Stato palestinese dovrebbe prendere e ci sono ragioni tattiche per questo – evitare principalmente disaccordi all’interno del movimento.

Tuttavia, sono del parere che optare per il silenzio su importanti questioni politiche sul futuro della Palestina sia una tattica sbagliata. Concentrarsi sulla fine dell’occupazione, i diritti dei palestinesi in Israele e il diritto al ritorno deve essere inserito in un programma politico che promuova la soluzione dello Stato unico.

Questo è il motivo per cui ho co-fondato, con un gruppo di accademici e attivisti, il One Democratic State Group [Organizzazione per lo Stato unico democratico]. Il gruppo, che fa parte della One State Campaign [ODSC, Campagna per lo Stato unico democratico, organizzazione con adesioni palestinesi e israeliane fondata nel 2017, ndtr.], ha presentato un programma che non solo ribadisce il diritto al ritorno, i diritti dei cittadini palestinesi di Israele e la fine dell’occupazione, ma propone anche una visione riguardo a un’organizzazione statale, uno sviluppo economico, una giustizia sociale e una politica internazionale responsabile.

La premessa centrale è che la soluzione dei due Stati è morta e dovrebbe essere dichiarata tale, nonostante l’attaccamento che molti gruppi, specialmente quelli di sinistra, [continuano ad] avere.

È tempo che tutti coloro che nella discussione pubblica in Palestina e all’estero continuano a proporre la soluzione dei due Stati si rendano conto che la strategia israeliana di colonizzazione della Cisgiordania e la graduale espulsione dei residenti palestinesi col proposito di una futura annessione l’ha resa impossibile.

A questo punto, attenersi alla visione dei due Stati – una soluzione impossibile – significa semplicemente la continuazione dell’occupazione, della colonizzazione e dell’apartheid.

Anche se capisco perfettamente la posizione assunta dai difensori dell’approccio basato sui diritti, penso ancora che vi sia un urgente bisogno di una visione politica che aiuti a portare una luce alla fine del tunnel per quei milioni di persone che vivono tra il fiume Giordano e il Mediterraneo e per gli oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi sparsi in tutto il mondo.

Secondo me, il diritto all’autodeterminazione non dovrebbe tradursi in una soluzione razzista in cui vi siano due Stati, uno dei quali viola i diritti dei due terzi del popolo palestinese. Vale a dire, uno Stato israeliano continuerebbe a trattare i suoi cittadini palestinesi come di seconda classe e continuerebbe a negare il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Non sarebbe diverso dal Sudafrica del governo bianco, uno Stato che ha concesso diritti esclusivi a una razza escludendone tutte le altre. Se vogliamo imparare dal movimento anti-apartheid sudafricano, allora dovremmo prestare attenzione alla sua visione politica: democrazia, uguaglianza razziale e fine della segregazione.

Questa strategia ha portato alla creazione di uno Stato laico e democratico nella terra del Sudafrica, che appartiene a tutti i sudafricani, proprio come previsto dalla Carta della libertà dell’Alleanza congressuale sudafricana [The Congress South African Alleance è un’organizzazione anti-apartheid fondata in Sud Africa, su iniziativa dell’African National Congress, negli anni ‘50 del secolo scorso ndtr.].

È incredibile che alcune persone che hanno sostenuto la fine dell’apartheid non vedano la contraddizione intrinseca nel loro sostegno a uno Stato etnico palestinese, che soddisferebbe il diritto all’autodeterminazione solo di quei palestinesi che risiedono in Cisgiordania e a Gaza e priverebbe di questo diritto la diaspora e i cittadini palestinesi di Israele.

Ciò equivale a sostenere il “diritto” dei quattro famigerati Bantustan [i Bantustan, vere e proprie riserve per le popolazioni di colore, conseguenza delle politiche di aparheid portate avanti in Sud Africa dal 1948 al 1991 dal National Congress, ndtr.], Transkei, Bophuthatswana, Venda e Ciskei, all’ “indipendenza”

La soluzione dei due Stati non garantirà la democrazia, la fine della segregazione e i pieni diritti politici per tutti i palestinesi. Non fornirà l’autodeterminazione per tutti i palestinesi. In realtà, escluderà milioni di palestinesi che vivono in Israele sia nella diaspora dalla cittadinanza palestinese sia dal riconoscimento dei diritti.

Dobbiamo andare oltre il dibattito sulla soluzione tra uno e due Stati e cercare di perseguire un approccio più accurato : la lotta basata sui diritti unita a una visione politica ben definita che può essere realizzata nel quadro di uno Stato unitario con garanzia di uguaglianza per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dalla religione, dall’etnia o dal genere.

Per il momento la campagna del BDS potrebbe attendere nel prendere una posizione, ma prima o poi dovrà farlo.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera

Haidar Eid è professore associato presso l’Università Al-Aqsa di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I legislatori del Partito Repubblicano stanno usando gli attacchi recenti contro gli ebrei come scusa per far adottare un curriculum pro-Israele e contro il movimento BDS

Michael Arria

9 gennaio 2020 – Mondoweiss

Il 9 gennaio il deputato Ted Budd (Repubblicano-Carolina del Nord) ha presentato la risoluzione 782. Il progetto di legge, che è sostenuto dal deputato Lee Zeldin (repubblicano-New York) e David Kustoff (repubblicano, Tennessee), incoraggerebbe “le scuole pubbliche a ideare e insegnare un curriculum sulla storia dell’antisemitismo e dell’Olocausto e sulla storica e vitale importanza dello stato ebraico di Israele.” La proposta cita anche il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) che, si sostiene, sta diffondendo un “antisemitismo dilagante” nei campus dei college.

Il testo della proposta e il comunicato stampa della Camera dei Rappresentanti attribuiscono la motivazione alla base della legge ai recenti attacchi antisemiti (come l’accoltellamento avvenuto in casa del rabbino Chaim Rottenberg a New York).

Dai college al Congresso, dalle celebrazioni per Hanukkah alle sinagoghe, l’antisemitismo è in crescita e si manifesta in molti modi violenti” si legge nella dichiarazione del deputato Zeldin. “Questi violenti attacchi antisemiti sono causati da odio allo stato puro, da una leadership incapace, da una cultura accondiscendente e dalla diffusione dell’antisemitismo. Sono orgoglioso non solo di condannare insieme ai miei colleghi questi attacchi, ma anche di presentare una risoluzione che aiuterà a liberare il nostro paese da questo velenoso antisemitismo. Un ingrediente necessario della ricerca del progresso include il miglioramento dell’istruzione, la consapevolezza e la comprensione dell’antisemitismo, dell’Olocausto e dell’importanza dell’esistenza of Israele.”

La mossa di Budd è già stata applaudita dalle organizzazioni pro-israeliane, inclusa la Zionist Organization of America [Organizzazione sionista d’America] (ZOA).  “In un momento di attacchi senza precedenti contro sinagoghe e altre istituzioni ebraiche, assassini di ebrei innocenti e di prevalenza e promozione di una propaganda orwelliana di falsità anti-Israele e di odio contro gli ebrei nei media, nei campus dei nostri college e persino da parte di figure pubbliche, lo sforzo educativo delineato da Budd  è di importanza vitale e non sarebbe potuto arrivare in un momento migliore” dice Morton Klein, presidente della ZOA.

Budd ha costantemente presentato leggi a favore di Israele sin da quando è entrato a far parte del Congresso nel 2017. L’anno scorso ha presentato una proposta di legge che avrebbe spostato gli aiuti finanziari destinati ai palestinesi verso lo scudo antimissilistico israeliano chiamato “Cupola di ferro” (Iron Dome). Ha anche richiesto la rimozione della deputata Ilhan Omar (Democratica-Minnesota) dal Comitato degli Affari Esteri del Congresso per il suo sostegno al movimento BDS.

Michael Arria

Michael Arria è il corrispondente USA per Mondoweiss

(Traduzione di Mirella Alessio)




L’accordo antisemita del secolo

Joseph Massad

2 gennaio 2020 – Middle East Eye

Trump sta cercando di equiparare ogni difesa del popolo palestinese all’ antisemitismo, ma l’ondata che si oppone al colonialismo sionista è cresciuta nonostante tali politiche repressive

Fin dalla sua nascita, alla fine del XIX° secolo, il movimento sionista ha cercato di trasformare la natura dell’identità ebraica europea e i rapporti tra gli ebrei e il moderno antisemitismo.

I due movimenti condividevano la concezione secondo la quale non sono razzismo e sciovinismo che provocano l’antisemitismo, ma hanno vergognosamente affermato che esso è causato dalla presenza stessa degli ebrei nelle società dei gentili [non ebrei, ndtr.] – una posizione su cui il fondatore del sionismo, Theodor Herzl, ha insistito nei suoi scritti.

Gli antisemiti sono stati divisi fino agli anni ’20 tra quegli europei imperialisti che concordavano sul fatto che il sionismo avrebbe risolto il loro “problema” ebraico esportando gli ebrei in Palestina, e i nazisti, che erano decisi a sterminarli del tutto.

Oppressione antisemita

A causa della massiccia opposizione degli ebrei europei al sionismo, che rimase costante per mezzo secolo finché si indebolì considerevolmente dopo l’Olocausto, per decenni la trasformazione che il sionismo aveva perseguito non ebbe successo. Ma a partire dalla fine degli anni ’40 aumentò di intensità a ogni decennio, finché dagli anni ’70 in poi diventò egemone.

Mentre l’identità ebraica nell’Europa occidentale e orientale prima della trasformazione sionista era quella di una minoranza che, in quanto vittima dell’ oppressione antisemita europea bianca e cristiana, lottò contro la discriminazione e la persecuzione, il sionismo insistette che tale lotta non era la risposta corretta all’antisemitismo.

Sosteneva invece che l’unico modo per porre fine all’oppressione degli ebrei da parte dell’Europa cristiana fosse di unirsi ai cristiani europei nelle loro avventure coloniali fuori dall’Europa e fondare una colonia di insediamento ebraica in Asia a spese della popolazione nativa.

Con la sconfitta dei nazisti, nel 1948 gli alleati imperialisti antisemiti europei e statunitensi del sionismo appoggiarono la fondazione della colonia di insediamento sionista.

Il movimento sionista ha sostenuto che il colonialismo, invece dell’ebraismo e dell’ ebraicità, avrebbe definito l’identità ebraica. Lottò contro tutti gli altri movimenti ebraici che rifiutavano la sua soluzione colonialista, compresi il Bund, i socialisti e comunisti ebrei, gli ebrei liberali assimilazionisti, i sostenitori dell’yiddish [lingua parlata dagli ebrei dell’Europa centro-orientale, un misto di ebraico, lingue slave e tedesco, ndtr.] e non ultimi l’ebraismo ortodosso e riformato, i cui principali rabbini si opposero risolutamente al sionismo.

Ebraismo, sostenevano i sionisti, dovrebbe ora significare colonizzare la terra palestinese. Invece di lottare contro i loro nemici antisemiti che volevano espellerli dalle società dei gentili, improvvisamente agli ebrei venne detto che gli antisemiti erano i loro alleati (come disse Herzl: “Gli antisemiti diventeranno i nostri amici più affidabili, i Paesi antisemiti i nostri alleati” e “i governi di ogni Paese flagellato dall’antisemitismo saranno fortemente interessati ad aiutarci ad ottenere la sovranità che vogliamo”).

Notevole sforzo propagandistico

La nuova definizione che il sionismo mise in atto può essere riassunta con due formule complementari: l’ebraismo è sionismo ed è colonialismo; e l’anticolonialismo è antisionismo ed è antisemitismo. Un grande sforzo propagandistico venne prodotto per difendere il colonialismo sionista e la sua oppressione dei palestinesi e il furto delle loro terre, come intrinseca all’ebraicità e all’ ebraismo e per sostenere che opporsi a questa presunta parte intrinseca dell’ebraicità e dell’ ebraismo non era niente meno che un “nuovo antisemitismo”.

Al contrario, appoggiare il furto delle terre palestinesi da parte dei sionisti e degli israeliani e l’oppressione dei palestinesi diventò la forma più alta di filosemitismo, come esemplificato dalle instancabili manifestazioni di appoggio ad Israele e alle sue politiche degli attuali leader statunitensi ed europei.

Antisemiti e imperialisti europei appoggiarono pienamente questa interpretazione dell’ebraismo e l’adottarono come modo per trasformare il proprio antisemitismo in filosemitismo. La lista si estende dai politici britannici antisemiti che appoggiarono i tentativi sionisti fin dai primi anni del XX secolo – Joseph Chamberlain, Arthur Balfour e Winston Churchill – fino al presidente Usa Donald Trump.

Che per due millenni in Europa ebrei, ebraismo ed ebraicità abbiano avuto una concezione totalmente diversa di se stessi, che non includeva la colonizzazione della terra di un altro popolo e la sua oppressione, sembra irrilevante per la riscrittura sionista e antisemita della storia e dell’identità ebraiche.

Dagli inizi degli anni ’70 in avanti l’uso come arma dell’accusa di antisemitismo da parte di Israele contro l’anticolonialismo è all’ordine del giorno.

Durante quel decennio, dopo le conquiste territoriali di Israele nel 1967 [con la guerra dei Sei Giorni, ndtr.], il sionismo raggiunse il suo massimo successo nel convincere i sostenitori ebrei e gentili della nuova identità colonialista che aveva architettato per gli ebrei – anche se la maggioranza della popolazione ebraica del pianeta si rifiutò sistematicamente di diventare colonialista in Israele.

Attaccare il BDS

Negli ultimi anni, con il crescere del consistente e considerevole appoggio per i palestinesi tra ebrei e gentili in tutto il mondo – soprattutto attraverso il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) –, Israele e i suoi alleati occidentali hanno tentato di combattere l’ondata crescente formalizzando e rendendo giuridicamente vincolante la definizione antisemita e sionista dell’ebraicità.

La nuova definizione, che equipara gli ebrei ai sionisti e ai colonialisti, è stata diffusa dall’ International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa a cui aderiscono 31 Paesi, ndtr.] (IHRA). Nel 2016 l’associazione ha adottato una bozza di definizione di antisemitismo che include “manifestazioni…che prendono di mira lo Stato di Israele, concepito come una comunità ebraica.”

Nello scorso anno abbiamo assistito a un grande progresso di questo consenso antisemita, che intende eliminare le identità ebraiche che non corrispondono al sionismo. Lo scorso dicembre l’UE, come Francia e Germania, ha adottato la definizione dell’IHRA; più di recente il primo ministro britannico Boris Johnson e Trump hanno fatto passi per criminalizzare l’appoggio al BDS, soprattutto nelle università.

La situazione è complicata dal più recente insorgere del suprematismo bianco antisemita, che prende di mira gli ebrei negli USA e in Europa, ma al contempo si allea con il sionismo e Israele (questo è il caso di Austria, Polonia, Ucraina, Ungheria, Germania e USA).

L’attuale strategia di Israele è confondere l’antisemitismo dei suprematisti bianchi con l’antisionismo e l’anticolonialismo, sostenendo che quelli che odiano gli ebrei su basi razziali e religiose e quelli che si oppongono al colonialismo e al razzismo sionisti sono la stessa cosa.

Quindi non è un caso che i sostenitori antisemiti di Israele negli USA e in Europa siano anche attualmente i maggiori islamofobi. Le stesse forze europee antisemite che odiavano gli ebrei prima del sionismo, e li amano dopo il sionismo, sono quelle che oggi odiano i musulmani (descritti nella loro maggioranza come antisionisti).

L’accusa di antisemitismo contro i musulmani è già diventata una delle caratteristiche principali, se non una giustificazione, dell’islamofobia in Europa e negli USA.

Liquidare la lotta dei palestinesi

La concezione di Trump secondo cui gli ebrei amano il denaro, che il Paese degli ebrei americani sia Israele e che Benjamin Netanyahu sia “il vostro primo ministro”, è la base del cosiddetto “accordo del secolo” per liquidare la lotta anticolonialista dei palestinesi e imporre la definizione antisemita che coinvolge tutti gli ebrei nel colonialismo sionista.

Il fatto che abbia nominato per occuparsi dell’accordo tre funzionari ebrei sionisti americani, che non hanno alcuna legittimità per rappresentare gli ebrei americani, tra cui suo genero, Jared Kushner; il suo inviato, Jason Greenblatt; il suo ambasciatore, David Friedman, è destinato a convincere ebrei e gentili che ogni ebreo ora accetti e sostenga l’equiparazione antisemita e sionista tra ebrei, sionisti e colonialisti e che ogni opposizione contro questa equiparazione sarà d’ora in avanti legalmente considerata antisemita.

L’“accordo del secolo” è essenzialmente un patto per imporre questa definizione antisemita al mondo come l’essenza del filosemitismo, suggerendo che ogni difesa del popolo palestinese e dei suoi diritti è l’essenza dell’antisemitismo.

Tuttavia l’ondata che oggi si oppone al sionismo, al razzismo e al colonialismo israeliani è diventata troppo grande per essere contenuta da queste politiche repressive e antisemite.

Il fatto che oggi così tanti ebrei e non ebrei in tutto il mondo, soprattutto nel movimento BDS e in movimenti come “Jewish Voice for Peace” [organizzazione di ebrei americani antisionisti, ndtr.], insistano che gli ebrei non dovrebbero essere definiti sionisti, per non dire colonialisti, ha efficacemente contestato il nuovo consenso antisemita per il coinvolgimento di tutti gli ebrei nelle politiche colonialiste di Israele.

Le recenti leggi in Europa e negli USA, che coinvolgono tutti gli ebrei nei crimini israeliani, sono la prova più evidente di questo fallimento.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sostenere la Palestina: come combattere l’uso improprio di “anti-semitismo” da parte di Israele

Ramzy Baroud

1 gennaio 2020 – Middle East Monitor

In un discorso tenuto nel nord dell’Inghilterra nel marzo 2018, ho proposto che la migliore risposta alle false accuse di antisemitismo, che spesso vengono scagliate contro comunità e intellettuali pro-palestinesi di tutto il mondo, fosse quella di avvicinarsi ancora di più alla narrazione palestinese.

In effetti, la mia proposta non voleva essere in alcun modo una risposta dettata dal sentimento.

“La rivendicazione della narrazione palestinese” è stato negli ultimi anni il filo conduttore nella maggior parte dei miei discorsi pubblici e dei miei scritti. Tutti i miei libri e gran parte dei miei studi e delle ricerche accademiche si sono fortemente concentrati sulle posizioni del popolo palestinese – i suoi diritti, la storia, la cultura e le aspirazioni politiche – al centro di ogni vera comprensione della lotta palestinese contro il colonialismo e l’apartheid israeliani.

È vero, non c’era nulla di particolarmente originale nel mio discorso nell’Inghilterra settentrionale. Avevo già tenuto una versione di quel discorso in altre parti del Regno Unito, in Europa e altrove. Ma ciò che ha reso memorabile quell’evento è una conversazione che ho avuto con un appassionato attivista, che si è presentato come consigliere dell’ufficio del capo del Partito laburista britannico, Jeremy Corbyn.

Sebbene l’attivista fosse d’accordo con me sulla necessità di sostenere la narrazione palestinese, ha insistito sul fatto che il modo migliore per Corbyn di allontanare le accuse antisemite, che hanno perseguitato la sua leadership fin dal primo giorno, è che il partito Laburista emettesse una condanna radicale e decisiva dell’antisemitismo, in modo che Corbyn potesse mettere a tacere i suoi critici e fosse finalmente in grado di concentrarsi sul tema impellente dei diritti dei palestinesi.

Io ero dubbioso. Ho spiegato all’acceso attivista molto sicuro di sé che la manipolazione sionista e l’uso improprio dell’antisemitismo sono dei fenomeni che hanno preceduto Corbyn di molti decenni e che saranno sempre presenti finché il governo israeliano avrà la necessità di distogliere l’attenzione dai suoi crimini di guerra contro i palestinesi e di reprimere la solidarietà filo-palestinese in tutto il mondo.

Gli ho spiegato che, mentre il razzismo anti-ebraico è un fenomeno reale che deve essere affrontato, l’ “antisemitismo”, come definito da Israele e dai suoi alleati sionisti, non è una questione morale che debba essere risolta con un comunicato stampa, non importa quanto incisivo. Piuttosto è una cortina di fumo, con l’obiettivo finale di distrarre dalla vera questione, che è il crimine dell’ occupazione militare, del razzismo e dell’apartheid in Palestina.

In altre parole, nessuna mole di parole, discussioni o autodifese può verosimilmente convincere i sionisti che le richieste della fine dell’occupazione militare israeliana in Palestina o dello smantellamento del regime di apartheid israeliano o qualsiasi critica aperta alle politiche del governo della destra israeliana non siano, in effetti, atti di antisemitismo.

Ahimè, l’attivista insisteva sul fatto che una solida dichiarazione che chiarisse la posizione del partito Laburista sull’antisemitismo avrebbe finalmente assolto Corbyn e protetto la sua eredità contro la macchia immeritata.

Il resto è storia. Il partito Laburista è andato a caccia delle streghe per individuare i “veri” antisemiti tra i suoi membri. L’ epurazione senza precedenti ha colpito molte brave persone che hanno dedicato anni al servizio delle loro comunità e alla difesa dei diritti umani in Palestina e altrove.

La dichiarazione per porre fine a tutte le dichiarazioni è stata seguita da molte altre. Numerosi articoli sono stati scritti e discussioni sono state fatte in difesa di Corbyn – senza risultati. Solo pochi giorni prima che i laburisti perdessero le elezioni generali a dicembre il Simon Wiesenthal Centre [Centro Simon Wiestenthal, ONG con sede a Los Angeles intitolata al famoso cacciatore di nazisti. Fondata nel 1977 per combattere l’antisemitismo, si propone di difendere i diritti umani “affrontando l’antisemitismo, l’odio e il terrorismo, promuovendo i diritti umani e la dignità, stando a fianco di Israele, difendendo gli ebrei in tutto il mondo e insegnando le lezioni dell’Olocausto per le future generazioni”, ndtr.] ha proclamato Corbyn, uno dei leader più sinceri e ben intenzionati della Gran Bretagna nell’era contemporanea, il “maggiore antisemita del 2019″. Questo a proposito dell’impegno dei sionisti.

Non importa se il partito di Corbyn abbia perso le elezioni in parte a causa delle diffamazioni sioniste e accuse infondate di antisemitismo. Ciò che conta davvero per me come intellettuale palestinese che ha sperato che la leadership di Corbyn potesse costituire un cambiamento di paradigma riguardo l’atteggiamento del paese nei confronti di Israele e Palestina, è il fatto che i sionisti siano effettivamente riusciti a mantenere il dibattito focalizzato sulle priorità israeliane e sulle sensibilità sioniste. Mi rattrista il fatto che, mentre la Palestina avrebbe dovuto occupare il centro della scena, almeno durante gli anni della leadership di Corbyn, sia rimasta in realtà marginale, denotando ancora una volta come la solidarietà con la Palestina sia diventata un ostacolo politico per chiunque speri di vincere un’elezione – nel Regno Unito e ovunque in Occidente.

Trovo sconcertante, anzi inquietante, che Israele, direttamente o meno, sia in grado di determinare la natura di qualsiasi discussione sulla Palestina in Occidente, non solo all’interno delle tipiche piattaforme tradizionali, ma anche dei circoli filo-palestinesi. Ad esempio, ho ascoltato ripetutamente attivisti che si chiedevano se la soluzione dello Stato unico fosse mai possibile, per il fatto che “Israele semplicemente non l’accetterebbe mai”.

Sfido spesso il mio pubblico a fondare la loro solidarietà con la Palestina sull’ amore, sul sostegno e sull’ammirazione reali per il popolo palestinese, per la sua storia, per la sua lotta anti-colonialista e per le migliaia di eroi ed eroine che hanno sacrificato la propria vita perché il loro popolo possa vivere in libertà.

Quanti di noi sanno fare i nomi dei migliori poeti, artisti, femministe, calciatori, cantanti e storici della Palestina? Che reale familiarità possediamo con la geografia palestinese, con le complessità della sua politica e con la ricchezza della sua cultura?

Anche all’interno di piattaforme che sono solidali con la lotta palestinese, c’è una paura intrinseca che tale simpatia possa essere fraintesa come antisemitismo, fino al punto che le voci palestinesi vengono spesso trascurate, se non completamente sostituite da voci ebraiche antisioniste. Vedo che ciò accade abbastanza spesso anche nei media mediorientali che si presume sostengano la causa palestinese.

Questo fenomeno è in gran parte collegato alla Palestina e solo alla Palestina. Mentre la lotta anti-apartheid in Sudafrica e la lotta per i diritti civili negli Stati Uniti – come nel caso di molti autentici movimenti di liberazione anti-coloniale nel mondo – hanno utilizzato strategicamente l’intersezionalità per collegarsi con altri gruppi, a livello locale, nazionale o internazionale, i movimenti in sé si reggevano su voci nere come realmente rappresentative delle lotte dei loro popoli.

Storicamente i palestinesi non sono sempre stati emarginati all’interno del loro stesso discorso. Una volta l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) [Fondata a Gerusalemme nel 1964 con l’obiettivo di liberare la Palestina, nel 1993 ha riconosciuto lo Stato di Israele. Attualmente gode dello status permanente di “osservatore” presso l’Assemblea generale dell’ONU, ndtr.] nonostante le sue numerose carenze, indicava una posizione politica unitaria palestinese che serviva da cartina di tornasole per qualsiasi individuo, gruppo o governo in merito alla sua posizione sui diritti e sulla libertà dei palestinesi.

Gli accordi di Oslo hanno posto fine a tutto ciò – hanno frammentato il discorso palestinese così come hanno diviso il popolo palestinese. Da allora, il messaggio proveniente dalla Palestina è diventato confuso, frazionato e spesso autolesionistico. Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) ha fatto un lavoro straordinario nel portare un po’ di chiarezza nel tentativo di articolare un discorso palestinese universale.

Tuttavia, il BDS deve ancora proporre una strategia politica centralizzata che venga trasmessa attraverso un organo palestinese eletto democraticamente. Finché l’OLP persisterà nella sua inerzia e con l’assenza di un’alternativa veramente democratica, è probabile che la crisi del discorso politico palestinese continui.

Allo stesso tempo, ai sionisti non deve essere permesso di determinare la natura della nostra solidarietà con il popolo palestinese. Mentre la vera solidarietà palestinese richiede il completo rifiuto di tutte le forme di razzismo, incluso l’antisemitismo, il campo filoisraeliano deve essere completamente escluso da qualsiasi conversazione relativa ai valori e alla moralità di ciò che significa essere “pro-Palestina”.

L’ essere anti-sionisti non è sempre lo stesso dell’essere pro-Palestina, in quanto il primo [atteggiamento] deriva dal rifiuto delle idee razziste e sioniste e il secondo implica una reale connessione e un legame con la Palestina e il suo popolo.

Essere pro-Palestina significa anche rispettare la centralità della voce palestinese, perché senza la narrazione palestinese non può esserci solidarietà reale e significativa, e anche perché, alla fine, saranno palestinesi stessi a liberarsi.

“Non sono un liberatore”, ha detto il leggendario rivoluzionario sudamericano Ernesto Che Guevara. “I liberatori non esistono. Le persone si liberano da sole”.

Perché i palestinesi “si liberino” dovranno rivendicare la loro centralità nella lotta per i diritti dei palestinesi ovunque, per esprimere chiaramente il proprio discorso e per essere i fautori della propria libertà. Nient’altro sarà sufficiente.

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Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’antisemitismo è stato utilizzato per calunniare la sinistra, mentre la destra prende di mira gli ebrei

Jonathan Cook

30 dicembre 2019 – Middle East Eye

Israele potrebbe uscire rafforzato usando politicamente l’antisemitismo, ma non senza gravi conseguenze per gli ebrei dell’Occidente.

L’anno è finito con due terribili battute d’arresto per quanti chiedono giustizia per il popolo palestinese. Una è stata la sconfitta nelle elezioni politiche britanniche di Jeremy Corbyn – il leader europeo più solidale con i palestinesi. Ha subito le conseguenze di quattro anni di continui insulti da parte dei media, che hanno ridefinito il suo attivismo come prova di antisemitismo.

L’antisemitismo è una calunnia estremamente difficile da controbattere

Il crollo elettorale del partito Laburista non è direttamente attribuibile alle calunnie di antisemitismo. Riguarda piuttosto principalmente l’incertezza del partito nel formulare una risposta convincente alla Brexit. Ma le accuse di antisemitismo sono riuscite ad alimentare profonde divisioni all’interno del partito di Corbyn, facendolo sembrare debole e, per la prima volta, ambiguo. Ha scorrettamente seminato dubbi persino tra i suoi sostenitori: se non è stato in grado di risolvere quel problema nel suo partito, come avrebbe potuto guidare il Paese?

Qualunque futuro leader politico, in Gran Bretagna o altrove, che prenda in considerazione una posizione filo-palestinese – o un programma economico radicale in contrasto con i principali mezzi di comunicazione – ne dovrà tener conto. L’antisemitismo è una calunnia estremamente difficile da controbattere.

Definire l’antisemitismo

La seconda sconfitta è stata il nuovo decreto esecutivo emanato dal presidente USA Donald Trump, che ha accolto una nuova e controversa definizione di antisemitismo, che intende assimilare le critiche a Israele, l’attivismo filopalestinese e la difesa delle leggi internazionali all’odio nei confronti degli ebrei.

La lezione su dove ciò intenda portare è stata evidenziata dall’esperienza di Corbyn. Prima il suo partito è stato obbligato ad accettare la stessa definizione formulata dalla International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione internazionale a cui aderisce una trentina di Paesi, ndtr.] (IHRA), nel tentativo di placare le critiche. Invece ha scoperto che questo ha fornito ancora più armi per attaccarlo.

Il decreto esecutivo di Trump intende bloccare il dibattito nei campus, uno dei pochi spazi pubblici rimasti negli USA in cui le voci dei palestinesi possono ancora farsi sentire. Ciò viola in modo palese il Primo Emendamento, che protegge il diritto di parola. Il governo federale ora si è schierato con i 27 Stati in cui i lobbysti di Israele sono riusciti a far passare leggi che penalizzano quanti sostengono i diritti dei palestinesi.

Tali iniziative sono state replicate altrove. Questo mese il parlamento francese ha dichiarato che l’antisionismo – o l’opposizione a Israele come Stato ebraico che nega uguali diritti ai palestinesi – equivale all’antisemitismo. 

E ancor prima il parlamento tedesco aveva approvato una risoluzione che dichiara antisemita l’appoggio al crescente movimento internazionale che sollecita il boicottaggio di Israele, sul modello delle iniziative che hanno posto fine all’apartheid in Sud Africa. I parlamentari tedeschi hanno persino equiparato gli slogan del movimento per il boicottaggio alla propaganda nazista.

All’orizzonte ci sono molte altre limitazioni alle libertà fondamentali, tutte in appoggio a Israele.

Far tacere le critiche

Il primo ministro inglese, il conservatore Boris Johnson, ha promesso di impedire alle autorità locali di appoggiare il boicottaggio di Israele, mentre John Mann, suo cosiddetto zar dell’antisemitismo, sta minacciando di far tacere i media in rete che criticano Israele, di nuovo con il pretesto dell’antisemitismo. Sono gli stessi media che avevano appoggiato Corbyn, l’avversario politico di Johnson.

Ironicamente tutte queste leggi, decreti e risoluzioni, emanate apparentemente in nome dei diritti umani, stanno soffocando il lavoro concreto delle organizzazioni per i diritti umani. In assenza di un processo di pace, devono scontrarsi con il carattere ideologico di Israele in maniera inedita.

Mentre Trump, Johnson ed altri erano impegnati a ridefinire l’antisemitismo per aiutare Israele, questo mese Human Rights Watch (HRW) ha reso pubblico un rapporto che rivela che Israele – lo Stato che sostiene di rappresentare tutti gli ebrei – per più di 50 anni ha utilizzato gli ordini militari per violare i più basilari diritti dei palestinesi. Nella Cisgiordania occupata, ai palestinesi vengono negate “libertà basilari come sventolare bandiere, protestare pacificamente contro l’occupazione, unirsi ai principali movimenti politici e diffondere materiale politico.”

Al contempo la Commissione ONU per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali è andata anche oltre, condannando Israele per i suoi soprusi verso tutti i palestinesi sottoposti al suo potere, senza distinguere tra quelli sotto occupazione e quelli con una cittadinanza di serie B all’interno di Israele.

Il gruppo di esperti giuridici sui diritti ha di fatto riconosciuto che le violazioni di Israele a danno dei palestinesi sono insite nell’ideologia sionista dello Stato, e non sono una caratteristica dell’occupazione. È stato un modo tutt’altro che velato di dichiarare che uno Stato che privilegia strutturalmente gli ebrei e opprime sistematicamente i palestinesi ha un “comportamento razzista” – una formulazione ora ridicolmente definita dall’IHRA come prova di antisemitismo.

Clamoroso fallimento

Nell’ultimo rapporto di HRW la direttrice per il Medio Oriente Sarah Elah Whitson ha osservato: “I tentativi di Israele di giustificare la privazione dei diritti civili fondamentali per i palestinesi per più di 50 anni in base delle esigenze di un’eterna occupazione militare ormai non funzionano più.”

Ma è proprio quello che la nuova ondata di leggi e di decreti è destinata a garantire. Mettendo a tacere le critiche contro le violazioni israeliane contro i diritti dei palestinesi con il pretesto che tali critiche siano antisemitismo mascherato, alcuni governi occidentali possono sostenere che queste violazioni non stanno avvenendo.

Di fatto ci sono due raggruppamenti politici molto diversi che sostengono l’attuale repressione di ogni solidarietà verso i palestinesi – e per ragioni molto diverse. Nessuno dei due si preoccupa della protezione degli ebrei. Una fazione include i partiti di centro dell’Occidente che avrebbero dovuto controllare per un quarto di secolo il processo di pace in Medio Oriente. Essi vogliono impedire ogni critica che osi considerarli responsabili del loro clamoroso fallimento – un fallimento ancora più evidente ora che Israele non è più disposto a sostenere di essere interessato alla pace e cerca invece di annettere il territorio palestinese.

Non è fallita, come era destinata a essere, solo la versione della pace molto limitata e focalizzata su Israele dei centristi, ma si è ottenuto l’esatto contrario dell’obiettivo dichiarato. Israele ha sfruttato la passività e l’indulgenza occidentali per rafforzare ed estendere l’occupazione, così come per intensificare le leggi razziste all’interno di Israele.

Ciò si è materializzato nel 2018 con l’approvazione da parte del governo del primo ministro Benjamin Netanyahu della legge sullo Stato-Nazione, che dichiara non solo lo Stato di Israele, ma un’indefinitamente estesa “Terra di Israele” come la patria storica di tutto il popolo ebraico.

Smascherare l’ipocrisia

Ora, i centristi sono determinati a schiacciare quanti desiderano evidenziare la loro ipocrisia e la loro costante alleanza con uno Stato apertamente razzista e risolutamente contrario all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Quindi hanno utilizzato l’antisemitismo come arma con tale successo che la scorsa settimana studiosi dei diritti umani hanno accusato la Corte Penale Internazionale dell’Aia – che dovrebbe difendere le leggi internazionali – di tirarla per le lunghe indefinitamente per evitare di aprire un’inchiesta equa sui crimini di guerra di Israele. I procuratori della CPI sembrano timorosi di finire loro stessi sotto accusa.

L’altra componente dietro la repressione delle critiche contro Israele sono le rinascenti destra ed estrema destra razziste, che hanno sempre più successo nello sconfiggere i centristi screditati nella politica di USA ed Europa.

Amano Israele perché offre un alibi al loro nazionalismo bianco. Difendendo Israele dalle critiche – definendole antisemitismo – cercano una patina di moralità per il proprio suprematismo bianco.

Se gli ebrei sostengono legittimamente di essere il popolo eletto in Israele, perché i bianchi non possono affermare altrettanto di se stessi negli USA e in Europa? Se Israele tratta i palestinesi non come nativi ma come immigrati intrusi in terra ebraica, perché Trump o Johnson non possono allo stesso modo definire i non bianchi come infiltrati ed usurpatori di terra bianca?

Più la destra esalta il nazionalismo bianco, il fervore contro gli immigrati, più è in grado di minare le soluzioni politiche offerte dai suoi oppositori di centro e di sinistra.

Avventato errore di valutazione

Cosa ancora più sorprendente, buona parte dei dirigenti ebrei negli USA e in Europa ha attivamente aiutato la destra in questo progetto politico, tanto sono accecati dal loro impegno nei confronti di Israele come Stato ebraico.

Quindi, dove va a parare questa politica dell’Occidente? I centristi hanno fatto uscire dalla lampada il genio dell’antisemitismo per danneggiare la sinistra, ma è la destra populista che ora si attiva per perfezionarne l’uso come arma e promuovere i propri fini. Alimenteranno paura e odio contro le minoranze, compresi palestinesi, arabi e musulmani, tutto a beneficio dell’ideologia di Israele.

Tuttavia anche gli ebrei dell’Occidente ne pagheranno il prezzo. I discorsi di Trump hanno ripetutamente imputato agli ebrei americani motivazioni malvage, avidità e doppia lealtà. Tuttavia, di fronte al tenace sostegno di Trump nei confronti di Israele, negli USA i dirigenti ebrei conservatori hanno preferito rimanere quasi totalmente in silenzio riguardo al fatto che il presidente alimenti sentimenti nativisti.

Si tratta di un avventato errore di valutazione. La finta battaglia per combattere un presunto antisemitismo di sinistra ha già distratto l’attenzione e le energie dalla lotta contro la concretissima rinascita dell’antisemitismo di destra.

Israele potrebbe uscire rafforzato usando a scopo politico l’antisemitismo, ma in conseguenza di ciò gli ebrei dell’Occidente si potrebbero trovare esposti all’odio più che in qualunque altro periodo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Le opinioni espresse in questo articolo impegnano solo il suo autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Jonathan Cook è un giornalista britannico residente dal 2001 a Nazareth. Ha scritto tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il Martha Gellhorn Special Prize for Journalism [il premio speciale Martha Gellhorn per il giornalismo].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)