Una questione che ogni americano deve affrontare: apartheid israeliana o democrazia USA?

Ramzy Baroud

25 dicembre 2018, Middle East Monitor

Bahia Amawai è una cittadina statunitense e una logopedista texana che aiuta bambini autistici e non udenti a superare la loro disabilità.

Nonostante la fondamentale e nobile natura del suo lavoro, è stata licenziata dal distretto scolastico indipendente di Pflugerville, che fornisce servizi nella zona di Austin.

Ogni anno Amawai firma un contratto annuale che le consente di svolgere la propria attività senza interruzioni. Tuttavia quest’anno qualcosa è cambiato.

Incredibilmente il distretto scolastico ha deciso di aggiungere al contratto una clausola che chiede agli insegnanti e ad altri dipendenti di impegnarsi a non boicottare Israele “per tutta la durata del loro contratto.”

L’“impegno” ora è parte della sezione 2270.001 del codice del governo del Texas ed è stabilito nel contratto con una formulazione chiara, in modo che chi desidera lavorare o continuare a conservare un impiego con il governo del Texas non trovi alcuna scappatoia per evitare di essere penalizzato:

“‘Boicottare Israele’ significa rifiutarsi di aver a che fare con, interrompere attività economiche con o comunque prendere qualunque iniziativa che intenda penalizzare, infliggere un danno economico o limitare i rapporti commerciali espressamente con Israele o con una persona o un ente che faccia affari in Israele o nel territorio controllato da Israele…”

Il fatto che il Texas consideri inaccettabile persino il boicottaggio di attività economiche che avvengono nelle colonie ebraiche illegali nella Cisgiordania occupata lo mette in contrasto con le leggi internazionali e di conseguenza con la grande maggioranza della comunità internazionale.

Ma non esprimiamo subito un giudizio affrettato, condannando il Texas per essere l’infame e stereotipato “selvaggio West”, come dipinto persino negli stessi mezzi di comunicazione degli Stati Uniti. Infatti il Texas non è che una piccola parte di una massiccia campagna governativa americana intesa a soffocare la libertà di parola come sancita dalla stessa costituzione del Paese.

Venticinque Stati degli USA hanno già approvato leggi contro il boicottaggio di Israele o hanno emesso decreti che prendono di mira le reti di appoggio al boicottaggio, mentre altri Stati stanno per seguirne l’esempio.

A livello del governo federale, la legge contro il boicottaggio di Israele del Congresso, accolta con entusiasmo dai parlamentari USA, intende sanzionare e incarcerare chi boicotta Israele.

Mentre c’è una forte opposizione della società civile contro così evidenti violazioni dei principi basilari della libertà di parola, quelli che fanno campagna a favore di Israele sono impazziti.

Il Texas – che ha approvato e messo in pratica leggi che criminalizzano l’appoggio al boicottaggio di Israele, come sostenuto dal movimento della società civile palestinese per il Boicottaggio il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) – continua a indicare la strada ad altri Stati.

Nella città texana di Dickinson, che lo scorso anno è stata devastata dall’uragano Harvey, alle vittime dell’uragano è stato chiesto di firmare un impegno a non boicottare Israele in cambio di aiuti umanitari di primo soccorso.

Per gli abitanti sfollati della città dev’essere stato assolutamente sconcertante apprendere che le misere provviste che stavano per ricevere dipendevano dal loro appoggio al governo di estrema destra del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Ma al momento questo è il triste stato della democrazia negli USA, in cui gli interessi di un Paese relativamente piccolo e lontano sono diventati il centro delle politiche del governo USA, in patria e all’estero.

I facoltosi sostenitori di Israele stanno lavorando mano nella mano con gli influenti gruppi della lobby israeliana a Washington, ma anche a livello statale e persino cittadino per fare in modo che il boicottaggio di Israele sia punibile per legge.

Molti politici USA stanno rispondendo all’insensata richiesta della lobby di criminalizzare in tutto il Paese il dissenso politico. Benché in realtà a molti di loro non interessi affatto o non comprendano neppure realmente la natura del dibattito relativo al BDS, essi sono disposti a fare uno sforzo in più (fino a violare la sacralità del loro stesso sistema democratico) per guadagnarsi il favore della lobby, o almeno per evitarne la collera.

Negli USA la campagna contro il BDS è iniziata seriamente pochi anni fa e, a differenza della strategia del BDS, ha evitato tentativi dal basso, concentrandosi invece sulla rapida creazione di un organismo ufficiale per il lavoro legale che metta sul banco degli imputati chi boicotta Israele.

Benché il linguaggio giuridico messo insieme in fretta e furia sia stato coraggiosamente sfidato e, a volte, completamente ribaltato dagli avvocati e dalle organizzazioni della società civile, la strategia israeliana è riuscita a mettere sulla difensiva i sostenitori del BDS.

Questo limitato successo può essere attribuito ai potenti amici di Israele che hanno risposto generosamente ed energicamente ai tamburi di guerra di Tel Aviv.

Il magnate del gioco d’azzardo di Las Vegas Sheldon Adelson ha impugnato le redini del comando. Ha preso l’iniziativa formando l’“Unità Operativa Maccabea”, che ha raccolto milioni di dollari per lottare contro quello che fonti ufficiali israeliane definiscono come una minaccia letale per Israele e la delegittimazione del Paese come “Stato ebraico”.

Una delle principali strategie che il campo israeliano ha proposto nella discussione è l’ingannevole nozione che il BDS chieda di boicottare gli ebrei, invece del boicottaggio di Israele in quanto Stato che viola le leggi internazionali e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite.

Un Paese che pratica il razzismo come se nulla fosse, difende la segregazione razziale e costruisce muri dell’apartheid non merita altro che il boicottaggio totale. Questo è il livello minimo di responsabilità morale, politica e giuridica, considerando che gli USA, come altri Paesi, hanno l’obbligo di onorare e rispettare le legge internazionali a questo proposito.

Tuttavia gli USA, incoraggiati dalla mancanza dell’obbligo di pagarne le conseguenze, continuano a comportarsi allo stesso modo di Paesi che Washington attacca in continuazione per il loro comportamento antidemocratico e per la violazione dei diritti umani.

Se eventi così bizzarri – il licenziamento di insegnanti e il fatto di subordinare l’aiuto in base a prese di posizione politiche – avvenissero per esempio in Cina, Washington avrebbe guidato una campagna internazionale di condanna dell’intransigenza e della violazione dei diritti umani da parte di Pechino.

Molti americani devono ancora comprendere come la sudditanza degli Stati Uniti ai voleri politici di Israele stia pregiudicando la loro vita quotidiana. Ma con sempre maggiori restrizioni legali di questo tipo, persino l’americano medio si ritroverà presto a lottare per diritti politici basilari che, come Bahia Amawai, ha sempre dato per scontati.

Sicuramente Israele può aver avuto successo nell’obbligare alcune persone a non impegnarsi apertamente nell’appoggiare il BDS, ma alla fine perderà anche questa battaglia.

Soffocare le voci della società civile raramente funziona per molto tempo, e la campagna anti-BDS, che ora è arrivata al cuore del governo USA, è destinata prima o poi a suscitare un dibattito a livello nazionale.

Difendere l’apartheid israeliana è più importante per gli americani che conservare la natura fondamentale della loro democrazia?

Questa è una domanda a cui ogni americano, indipendentemente da quello che pensa dell’apparentemente lontano conflitto mediorientale, deve rispondere, e con urgenza.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Airbnb e Israele: il voltafaccia sulla presenza nelle colonie sarebbe peggio che stare zitti

Kieron Monks

Domenica 23 dicembre 2018, Middle East Eye

Il caso di Airbnb potrebbe rivelarsi uno spartiacque che potrebbe consolidare e far progredire il movimento BDS oppure renderlo di nuovo marginale

In base a standard particolarmente bassi, l’iniziale decisione di Airbnb di interrompere le attività nelle colonie illegali della Cisgiordania è sembrata lodevole. La non complicità in crimini di guerra non dovrebbe costituire un livello molto alto in termini di responsabilità sociale d’impresa, ma decine di imprese internazionali che tranquillamente fanno profitti nelle colonie non lo soddisfano.

Perciò va riconosciuto qualche merito a Airbnb per aver almeno ammesso la realtà.

Una pratica dannosa

Molta più fiducia, ovviamente, è dovuta agli attivisti e ai gruppi per i diritti umani che hanno passato anni a spiegare al colosso globale degli annunci quanto sbagliate e dannose fossero le sue attività nei territori occupati e quanto gravemente contraddicessero i valori progressisti professati dall’azienda.

Organizzazioni come Human Rights Watch (HRW) e la US Campaign for Palestinian Rights [Campagna USA per i Diritti dei Palestinesi] (USCPR) sono state capaci di rompere la cortina fumogena di espressioni come “territorio conteso” e “status controverso”, per mostrare che le colonie sulla terra palestinese occupata non sono nient’altro che un’impresa criminale in base all’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra.

Nessuna seria autorità, dalla Corte Internazionale di Giustizia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, lo mette in discussione.

La decisione di Airbnb ha coinciso con lo storico rapporto di HRW ‘Bed and Breakfast su terra rubata’, che dettagliava la provenienza oscura degli annunci messi a disposizione dei turisti, che offrono viste favolose e servizi moderni. Molti si trovano in colonie su terreni di proprietà privata palestinese che sono stati rubati da banditi armati, sia coloni che soldati.

I veri proprietari, esclusi da quelli che ora sono diventati terreni vietati, devono vedere la loro proprietà data in affitto a stranieri.  Il rapporto di HRW segnala che i profitti derivanti dagli annunci di Airbnb producono un notevole flusso di introiti che aiuta a sostenere l’impresa criminale.  

Feroce reazione violenta

Sembra ragionevole ipotizzare, come fa Michael Koplow del Forum sulla Politica di Israele, che Airbnb non sapesse veramente in che cosa si stesse cacciando con la sua avventura in una delle dispute più aspre e accese del mondo.

La successiva, feroce reazione da parte di dirigenti del governo e di gruppi di pressione statunitensi ed israeliani, comprese minacce di querela e aperte accuse di antisemitismo, era ovviamente difficile da ignorare. La notizia che i dirigenti di Airbnb avevano iniziato colloqui di controllo dei danni con il ministero israeliano del Turismo, che aveva fatto della questione un’assoluta priorità, non ha destato sorpresa.

Ma adesso l’azienda si trova messa all’angolo, e rilascia dichiarazioni contraddittorie con due discorsi diversi, il che le procura solo disprezzo da entrambe le parti. Ogni ambiguo tentativo di placare la situazione non fa che aumentare la pressione e la visibilità del caso. Al momento, gli annunci per le colonie si trovano ancora sul sito di Airbnb.

È diventato un problema gigantesco. Questo episodio, inizialmente una storica vittoria per il BDS, potrebbe però trasformarsi in una sconfitta che accelera un più ampio ridimensionamento del movimento che ha fucili puntati su di esso in termini legali negli Stati Uniti e in Europa. L’appoggio al boicottaggio di Israele viene rapidamente criminalizzato, dal ‘Decreto contro il boicottaggio di Israele’ del senatore Ben Cardin fino a leggi dei singoli Stati che obbligano i logopedisti a firmare giuramenti di fedeltà.

Mentre il movimento BDS ha conseguito straordinari risultati, quali l’entrata nel Congresso di sostenitori del BDS come Ilhan Omar e Rashida Tlaib [due parlamentari elette nelle ultime elezioni di medio termine, ndtr.], non ha mai affrontato grandi minacce.

Il caso di Airbnb potrebbe essere uno spartiacque che consolida e promuove il movimento di boicottaggio, oppure renderlo di nuovo marginale, ponendo anche un’interessante domanda strategica agli attivisti BDS, se possa valere la pena focalizzare la loro campagna sulle colonie, se è quello che può far guadagnare terreno.  

Pesante responsabilità

Ora che Airbnb è finita, forse inconsapevolmente, in mezzo a un plotone di esecuzione che la circonda, l’ impresa si è trovata con una responsabilità poco invidiabile.

Qualunque altra cinica impresa che opera in Cisgiordania può borbottare delle scuse per “non venire coinvolta in questioni politiche”, abbassare la testa e continuare a fare soldi. Ma Airbnb ha alzato la testa, ha riconosciuto i fatti e l’ingiustizia messa in luce dai promotori della campagna, ed ha affermato – anche se non esattamente con queste parole – di non voler far parte di un’impresa criminale. 

Fare marcia indietro adesso, con la completa consapevolezza della realtà dei fatti, dopo una serie di incontri segreti con dirigenti del governo israeliano, impegnati a fondo a vendere all’ingrosso crimini di guerra, e con leader della stessa criminale impresa coloniale, sarebbe molto più vergognoso delle azioni di altre aziende che operano in Cisgiordania, che non hanno mai preteso di rispondere alla propria coscienza. 

Non esiste una via d’uscita facile. Se Airbnb “sospendesse l’attuazione” della politica di disdetta, si potrebbe comunque aspettare un’altra violenta reazione da parte di gruppi per i diritti umani e di attivisti della solidarietà con la Palestina, che potrebbe mettere in luce la bancarotta morale dell’azienda ed essere in sintonia con i giovani cittadini progressisti delle aree metropolitane che costituiscono buona parte del mercato principale dell’azienda.

Airbnb deve soppesare questo rispetto alla furia e ai colpi degli apologeti delle colonie, che faranno del loro meglio per dare una punizione esemplare. Con la prospettiva di una IPO (Offerta Pubblica Iniziale, per quotarsi in borsa) attesa per l’anno prossimo, gli imperativi commerciali peseranno fortemente sul giudizio.

Quando Airbnb è stata contattata da MEE per un commento, ha rilasciato la stessa dichiarazione del 17 dicembre, che dice: “Airbnb ha espresso il suo inequivocabile rifiuto del movimento BDS ed ha comunicato il proprio impegno a sviluppare i propri affari in Israele, permettendo a più turisti da tutto il mondo di godere delle meraviglie del Paese e del suo popolo.”

Un grave biasimo

Possiamo solo sperare che vengano fatte anche altre considerazioni. Per un colosso internazionale da molti miliardi di dollari come Airbnb, dichiarare aperto sostegno a flagranti crimini di guerra e violazioni di diritti umani sarebbe un grave insulto al concetto stesso di leggi internazionali e diritti umani.

Una simile decisione darebbe legittimità all’impresa coloniale israeliana e delegittimerebbe i suoi oppositori. Comunicherebbe ai governi e agli uomini d’affari in tutto il mondo che le leggi sono un optional e le violazioni possono essere convenienti.

Spereremmo probabilmente troppo se ci aspettassimo un comportamento etico da parte di un’azienda senza priorità che vadano oltre il suo bilancio. La direzione deve provenire dal basso, così come gli attivisti e i gruppi per i diritti umani che sono stati una spina nel fianco dell’impresa coloniale, con alleanze solo transitorie e di convenienza con le potenze commerciali.

Ma se Airbnb decidesse di dare la sua approvazione ai crimini di guerra apponendo il proprio logo su proprietà rubate mentre i proprietari non hanno prospettive di giustizia, l’ impresa potrebbe almeno smettere di pretendere di avere valori degni di questo nome e tenere la bocca chiusa la prossima volta che si pone la questione.

Kieron Monks vive a Londra e scrive per testate tra cui CNN, The Guardian e Prospect Magazine, occupandosi di movimenti sociali, sport e i rapporti reciproci tra questi due ambiti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele reso furioso dal premio francese per i diritti umani

Adri Nieuwhof

14 dicembre 2018, Electronic Intifada

La Francia ha insignito Al-Haq e B’Tselem [due organizzazioni per i diritti umani, una palestinese e l’altra israeliana, ndtr.] con il prestigioso “Premio della Repubblica Francese per i Diritti Umani”.

Ciò è avvenuto nonostante le pesanti pressioni da parte di Israele sul governo francese perché togliesse il riconoscimento alle due associazioni che documentano i crimini di guerra e i soprusi israeliani contro i palestinesi.

Tuttavia la ministra della Giustizia francese Nicole Belloubet ha ceduto alle pressioni e si è rifiutata di partecipare alla cerimonia di premiazione a Parigi lo scorso lunedì [10 dicembre, ndtr.].

Il gruppo della lobby franco-israeliana CRIF ha scritto a Belloubet sostenendo che i due vincitori “chiedono il boicottaggio di Israele,” ed ha affermato che per il ministero della Giustizia francese dare loro il premio “anche in assenza della ministra è un insulto alla giustizia.”

Nel suo discorso di ringraziamento il direttore esecutivo di B’Tselem Hagai El-Ad ha definito “isterica” la risposta del governo israeliano.

El-Ad ha detto che il tentativo israeliano di esercitare pressioni su dirigenti francesi “dimostra la situazione in cui lavoriamo: propaganda, menzogne e minacce da parte di un governo che crede che far tacere e nascondere consentirà ulteriori violazioni dei diritti umani.”

Il direttore di Al-Haq, Shawan Jabarin, ha detto ad Electronic Intifada che il premio è un riconoscimento per il lavoro del suo gruppo in un periodo in cui l’organizzazione è presa di mira da una campagna di calunnie da parte di Israele.

La cerimonia di premiazione del 10 dicembre ha coinciso con il settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e il ventesimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti umani.

Risposta furiosa

Israele ha risposto con ira all’annuncio che la Francia stava per assegnare il prestigioso premio alle due associazioni.

“La Francia consegna il suo riconoscimento più prestigioso a B’Tselem e Al-Haq, che accusano Israele di apartheid, ci delegittimano a livello internazionale, difendono il terrorismo e sostengono il BDS,” ha affermato Michael Oren, vice ministro israeliano per i rapporti diplomatici.

BDS sta per Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni – una campagna palestinese non-violenta per rendere Israele responsabile delle violazioni dei diritti dei palestinesi, sul modello del vincente movimento internazionale di solidarietà che contribuì a porre fine all’apartheid in Sud Africa.

L’ambasciata di Israele in Francia ha twittato di essere “scioccata” per il premio ed ha asserito che Al-Haq sarebbe legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, un partito politico e un’organizzazione di resistenza che Israele definisce gruppo “terroristico”.

La ministra della Cultura di Israele Miri Regev ha detto che B’Tselem e i suoi membri dovrebbero “vergognarsi”, descrivendo il premio come un “simbolo di disonore”.

La viceministra degli Esteri israeliana Tzipi Hotovely ha definito il premio “deplorevole” ed ha chiesto al governo francese di ripensarci.

Hotovely ha sostenuto che anche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha manifestato la sua opposizione durante un incontro con il presidente francese Emmanuel Macron.

Chiudere spazi

Il direttore di Al-Haq Shawan Jabarin ha parlato con Electronic Intifada all’Aia, pochi giorni prima di recarsi a Parigi per la cerimonia di premiazione.

Ha detto che il premio arriva in un momento in cui Israele sta “cercando di chiudere gli spazi” per il lavoro a favore dei diritti umani.

Il riconoscimento francese, ha detto, significa per Al-Haq ancor di più perché “giunge nello stesso giorno del settantesimo anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.”

Jabarin ha affermato che il premio è stato assegnato “alle vittime in Palestina” ed è “un riconoscimento dei loro diritti.”

Ma ha ammonito che le vittime hanno bisogno di molto più di un riconoscimento simbolico.

“La Francia deve agire in base ai propri impegni,” ha detto, in riferimento ai trattati internazionali sui diritti umani che ha firmato.

Momento di agire

A settant’anni dalla Nakba – l’espulsione dei palestinesi – e dopo 51 anni di occupazione militare della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ha detto Jabarin, “niente è cambiato, la situazione si sta aggravando, l’occupazione si sta approfondendo, come le sofferenze.”

Il messaggio di Jabarin al governo francese è che “se vuole davvero la pace in Palestina e altrove, deve agire.”

Jabarin ha affermato che, per cambiare la situazione, ci devono essere sanzioni contro Israele, compreso il divieto di commercio dei prodotti delle colonie e un embargo sulle armi.

Gli europei non dovrebbero “lasciare che i criminali viaggino nei loro Paesi,” ha aggiunto Jabarin.

“Se i criminali non pagano il prezzo dei loro crimini, non c’è modo che ripensino o cambino le loro azioni e le loro politiche.”

La CPI propende per la narrazione israeliana?

Jabarin ha anche manifestato delusione nei confronti della Corte Penale Internazionale, che dal 2015 sta portando avanti un “esame preliminare” dei possibili crimini di guerra israeliani contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

“È passato molto tempo,” ha detto Jabarin.

Un esame preliminare è il primo passo nel procedimento della Corte per decidere se aprire un’inchiesta formale, che può poi portare a imputazioni e a un processo.

Ma mentre un esame preliminare è portato avanti ogni volta che viene presentata una richiesta di deferimento, esso è a tempo indefinito e può continuare per anni, a discrezione del procuratore generale.

Benché la procuratrice generale, Fatou Bensouda, lo scorso aprile abbia messo in guardia i dirigenti israeliani che potrebbero dover affrontare un processo per l’uccisione di palestinesi disarmati nella Striscia di Gaza durante la Grande Marcia del Ritorno, la Corte non ha iniziato un’inchiesta formale.

Le “vittime, il popolo che sta soffrendo, non possono più attendere,” ha detto Jabarin. “Questa istituzione deve agire in base al suo mandato e non occuparsi della questione da un punto di vista politico.”

Jabarin ha definito deludente l’ultimo rapporto annuale sullo stato di avanzamento.

Il rapporto afferma che “la procura intende completare l’esame preliminare il prima possibile,” ma non fornisce nessuna data limite.

Jabarin ha descritto il rapporto come “confuso” nell’uso di terminologia e concetti giuridici. Teme che la procuratrice si sia spostata “verso la narrazione israeliana.”

Ma vede “qui e là segnali positivi.”

Spera che la procuratrice si muova rapidamente per aprire un’inchiesta formale e “persegua i criminali e successivamente emetta mandati di arresto.”

“Confido nella professionalità e nell’indipendenza della procuratrice,” ha detto Jabarin. “Il mio messaggio a lei è che il tempo passa e le sofferenze continuano. È il momento di intervenire.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




‘Gli israeliani non vogliono ascoltare ciò che ho da dire’

Edo Konrad

14 dicembre 2018, +972

Nei mesi scorsi le autorità israeliane, insieme ai coloni estremisti, hanno trasformato Guy Hirschfeld in una specie di nemico pubblico a causa del suo attivismo nella Valle del Giordano. In un’intervista Hirschfeld parla della costruzione della solidarietà con i palestinesi, del perché il suo atteggiamento sfrontato lo ha trasformato in un obbiettivo e se le cose stanno peggiorando per gli attivisti di sinistra.

Che cosa si prova ad essere un bersaglio? Gli ebrei israeliani dissidenti e gli attivisti contro l’occupazione, in gran parte, sono stati abbastanza fortunati da evitare questa domanda per anni. Mentre le autorità israeliane hanno avuto pochi scrupoli a reprimere i palestinesi che sfidano apertamente la dittatura militare israeliana nei territori occupati, agli ebrei israeliani la loro ira è stata ampiamente risparmiata.

Questo sta cominciando a cambiare. Dagli interrogatori dello Shin Bet [servizi israeliani per la sicurezza interna, ndtr.] alla frontiera, agli attacchi coordinati a danno di importanti attivisti contro l’occupazione, alla delegittimazione delle Ong di sinistra, le autorità stanno rendendo sempre più difficile la vita degli ebrei israeliani che si espongono. Per gli attivisti più conosciuti, gli attacchi personali sono esibiti come medaglie: la prova che mettere a nudo le crudeltà dell’occupazione serve davvero a qualcosa.

Poi ci sono attivisti come Guy Hirschfeld, che hanno poco da guadagnare a diventare un obiettivo. Nei mesi scorsi a volte si è avuta la sensazione che il quarantanovenne Hirschfeld fosse il nemico pubblico n. 1 per le autorità israeliane in Cisgiordania – e in particolare per i coloni. Hirschfeld, a lungo membro di Ta’ayush – un’associazione israelo-palestinese di volontari di base creata durante la seconda Intifada, ed uno dei pochi gruppi di israeliani che mettono sistematicamente a rischio la vita in solidarietà con i palestinesi – passa molte giornate ad accompagnare i pastori palestinesi nella Valle del Giordano, dove vengono regolarmente aggrediti dai coloni o dall’esercito.

Se l’orientamento ideologico di Hirschfeld lo ha reso un bersaglio, il suo atteggiamento sfrontato, spesso scioccante, non gioca a suo favore. Le sue abituali critiche ai soldati, che spesso sfociano in insulti personali, unite ad un’irriverenza provocatoria verso le norme convenzionali (si riferisce normalmente ai coloni ideologici negli avamposti come a “terroristi”) hanno fatto sì che venisse preso di mira. Da quando nel 2009 si è unito a Ta’ayush, Hirschfeld è stato arrestato o detenuto 60 o 70 volte – 25 solo quest’anno.

Hirschfeld è un facile bersaglio, ma il suo caso è esemplare di una più vasta repressione contro attivisti israeliani di base, che lottano accanto ai palestinesi nei territori occupati. Quella repressione si è manifestata due anni fa, quando un gruppo di estrema destra ha tentato di distruggere il veterano di Ta’ayush, e mentore di Hirschfeld, Ezra Nawi. Oggi che Nawi è decisamente meno attivo, Hirschfeld è diventato il principale obbiettivo della destra.

Invece di intimidirlo, le tattiche intimidatorie non hanno fatto che renderlo ancor più senza remore. Negli ultimi due anni i suoi followers su Facebook sono arrivati a 4.000, compresi alcuni dei soldati e dei poliziotti israeliani che lo affrontano sulle aride colline della Valle del Giordano. Lui tiene un’accurata documentazione di ogni sua interazione con le autorità e i coloni e, a parte tre arresti per possesso di marijuana (Hirschfeld è autorizzato a usare cannabis a scopo medico), le sue continue riprese video hanno fatto sì che i suoi persecutori non lo abbiano mai potuto accusare di aver commesso reati. È anche un modo efficace per mostrare al mondo ciò che succede ai palestinesi nel nord della Cisgiordania.

Nei mesi scorsi le autorità hanno incominciato a vessarlo in modi nuovi e con maggiore frequenza. Lo scorso mese i funzionari gli hanno revocato la patente e sequestrato l’automobile per possesso di marijuana (un giudice gli ha restituito la patente e la macchina ed ha redarguito la polizia per averlo preso di mira unicamente a causa delle sue idee politiche). Alcune settimane prima, Hirschfeld ha ricevuto una telefonata minacciosa da un agente perché aveva chiesto alle forze di sicurezza di non partecipare alla demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar. All’inizio di dicembre è stato costretto a scusarsi pubblicamente dopo che un video lo aveva ripreso mentre arringava un soldato etiope-israeliano, nei confronti del quale è stato accusato di atteggiamento razzista.

“Voglio chiarire tutto”, ha detto Hirschfeld la settimana scorsa in un’intervista nel suo appartamento, che si trova in un moshav [comunità agricola cooperativa, ndtr.] appena ad ovest di Gerusalemme. “L’esercito mente. Io dico la verità. Se fosse il contrario, sarei stato mandato in prigione molto tempo fa. Ecco perché hanno bisogno di inventarsi le cose e trovare dei modi per fermarmi.”

L’esercito e i coloni la definiscono un criminale e un anarchico.

“Eppure vado ancora in giro liberamente. Com’è possibile? Non avete idea di quante volte sono stato arrestato ingiustamente da soldati o poliziotti. Durante gli interrogatori gli mostro le prove video che contraddicono il motivo del mio arresto – e mi lasciano andare.”

“Questo fa sì che alcuni soldati comincino a fare domande. Quando lo fanno – è l’ultima volta che li vedo. L’esercito si assicura che non ci siano contatti tra di noi da quel momento in poi. Non vogliono che facciano domande.”

Hirschfeld dice di non aver nulla da nascondere. Al contrario: dice che più è trasparente, meno ha di che preoccuparsi. “Credo nella legge e nell’ordine. Per questo faccio sempre in modo di non violare alcuna legge. Questo fa infuriare l’esercito.”

Non ha paura di essere il prossimo Ezra Nawi?

“Questo è il loro scopo. Ai loro occhi, io sono il nuovo Ezra.”

Hirschfeld ritiene che siano le sue relazioni con i palestinesi della Valle del Giordano, come anche il suo atteggiamento sfrontato, a fare infuriare soldati e poliziotti. Se si parla con lui abbastanza a lungo, si ha l’impressione che la solidarietà con i palestinesi sia solo uno dei suoi obiettivi. La quantità di tempo che impiega parlando – o urlando – ai membri delle forze di sicurezza israeliane trasmette un diverso messaggio: lui vuole tentare di educarli. “Io dico in faccia ai soldati la verità, che sono sfruttati e fregati. La verità dà fastidio.”

È stato il confronto con il soldato etiope all’inizio di questo mese che ha portato Hirschfeld a concludere che era il caso di cambiare atteggiamento. Nel video si vede Hirschfeld schernire il soldato che era in servizio in Cisgiordania, chiedendogli in modo retorico se scaricava la sua rabbia sui palestinesi a causa del razzismo che subiva in Israele. “Quell’esperienza mi ha insegnato che devo fare molta attenzione a come mi esprimo, ma la grande maggioranza dei soldati che portano avanti quotidianamente l’occupazione non provengono dai livelli più alti della società”, dice.

A volte lei esagera, forse è questo che fa arrabbiare tanta gente.

“Mi sono scusato per quel che ho detto, ma voglio chiarire una cosa: questa è la realtà in Israele. Qui non sono io quello che applica politiche razziste contro gli etiopi.”

“Voglio continuare a dimostrare a questi soldati che vengono usati da un sistema a cui non importa niente di loro. La realtà è che questi soldati sono burattini dei coloni radicali negli avamposti, che non sono niente altro che terroristi”, aggiunge. “La loro forma di terrorismo non ha bisogno di essere violenta; la loro semplice presenza è sufficiente per terrorizzare i palestinesi. Quando arriviamo noi, è più probabile che i coloni se ne vadano.”

La Valle del Giordano è spesso trascurata nelle discussioni sul destino dei territori occupati. La maggior parte degli israeliani non sa nemmeno che quella zona è sotto il governo militare -probabilmente in conseguenza del fatto che è scarsamente popolata, ha un numero relativamente piccolo di coloni, e dell’affermazione, tra i politici sionisti di entrambi gli schieramenti politici, che Israele non rinuncerà mai al controllo per la sicurezza su di essa.

Hirschfeld è convinto che la presenza di attivisti israeliani per i diritti umani nella Valle del Giordano non sia meno importante che nelle colline a sud di Hebron, dove Ta’ayush è attiva dai primi anni 2000. Nel 2016, dopo avere accompagnato per anni i palestinesi là, ha deciso che l’associazione doveva essere presente nella Valle del Giordano, una zona che lui dice stia subendo una pulizia etnica.

“Durante e dopo la guerra del 1967, Israele espulse decine di migliaia di palestinesi dall’area”, dice. “Oggi Israele sta cercando di rendere la vita insopportabile alla gente che è rimasta – per indurla ad andarsene.”

L’esercito israeliano distrugge sistematicamente le case ed altre strutture delle comunità di pastori palestinesi. Come dovunque nelle zone della Cisgiordania designate come area C, sotto pieno controllo militare israeliano [in base agli accordi di Oslo del 1993, ndtr.], è praticamente impossibile per i palestinesi ottenere permessi di costruzione. L’esercito ha dichiarato enormi appezzamenti di terreno “zone di addestramento”, quindi interdette ai pastori. I palestinesi sono privi di infrastrutture indispensabili come acqua corrente ed elettricità, mentre le vicine colonie sono collegate a tutti i servizi di base. Gli abitanti palestinesi subiscono arresti arbitrari e le loro attrezzature vengono spesso confiscate.

“Fanno di tutto per cacciarli via. Noi stiamo semplicemente cercando di aiutare queste comunità a sopravvivere.”

In che modo lo fate?

“Li accompagniamo ai loro terreni, li mettiamo in contatto con organizzazioni internazionali e per i diritti umani. Ci assicuriamo che l’esercito o i coloni non li disturbino quando portano le greggi al pascolo. Documentiamo tutto. Vogliamo dimostrare loro che esistono altri israeliani.”

“Ci sono anche situazioni più spinose. Per esempio, ci sono casi in cui l’esercito chiede a queste comunità di lasciare la zona in modo che (i soldati) possano fare addestramento. A volte lo fa senza dare il dovuto preavviso. Appena si presentano gli attivisti israeliani, tutto finisce. Dovete ricordare che l’occupazione è un’impresa criminale; nel momento in cui vi si fa luce, le autorità fanno molta più fatica a gestirla.”

Nonostante il suo disprezzo per le forze di sicurezza, Hirschfeld sa che spesso l’unico modo per garantire che le comunità palestinesi possano esercitare senza pericoli la pastorizia sta nel collaborare con l’esercito israeliano. “Non molto tempo fa ho ricevuto una telefonata da un comandante di battaglione che mi ha detto: ‘Stai facendo impazzire i miei soldati. Incontriamoci e parliamo.’ Allora ci siamo incontrati, dopodiché c’è stata una relativa tranquillità per alcuni mesi, almeno fino a quando si è insediato un nuovo comandante di divisione.”

I palestinesi che lavorano con Ta’ayush spesso si trovano a dover affrontare maggiori pressioni da parte delle autorità israeliane. Lei come si rapporta a ciò?

“Noi non ci rechiamo mai nelle comunità. Loro vengono da noi dopo che l’esercito, la polizia o i coloni iniziano ad angariarli. Cominciamo con qualche discorso di introduzione in cui io dico loro che le autorità cercheranno di convincerli a non lavorare con noi, specialmente all’inizio. Dico loro di dire all’esercito: ‘Noi saremmo felici che Ta’ayush non dovesse intervenire, ma abbiamo bisogno di un posto per pascolare.’ Noi diciamo loro che se riescono a superare quelle prime settimane, le molestie finiranno. A volte ci chiedono di smettere di intervenire. A volte insistono e alla fine hanno una possibilità di vincere. Al momento stiamo affrontando una situazione in cui le cose stanno peggiorando.”

Le aggressioni e le pressioni avvengono per lo più da parte dei coloni o delle autorità?

“Da tutti insieme. Recentemente abbiamo notato maggior collaborazione tra coloni, esercito e polizia. L’anno scorso è decisamente peggiorato.”

Le colonie israeliane nella Valle del Giordano risalgono agli anni ’70, ma recentemente vi sono più avamposti illegali popolati da coloni più giovani e più radicali.

“Attualmente vi sono circa 6.000 israeliani che vivono nella Valle del Giordano, per la maggior parte in colonie costruite negli anni ’70. Il governo intende incoraggiare la gente a spostarsi là per arrivare ad averne 10.000.”

“Non sappiamo chi sostiene finanziariamente questi avamposti (illegali persino in base alla legge israeliana), ma è chiaro che servono migliaia e migliaia di shekel [unità monetaria israeliana, corrispondente a un quarto di euro, ndtr.] per mantenerli e parte di quel denaro probabilmente proviene dai contribuenti israeliani. Scelgono la collocazione dell’avamposto in modo molto strategico, perché sanno che, dovunque decidano di stanziarsi, influenzeranno le comunità palestinesi intorno a loro.”

Lei li definisce terroristi. Perché sceglie questo termine?

“Impediscono agli allevatori di pascolare. Usano la violenza, uccidono il bestiame. Sono terroristi e l’esercito li protegge. Noi monitoriamo quegli avamposti fin dal giorno in cui sono stati creati.”

Ta’ayush è rimasta fedele ad un modello classico di organizzazione di base. Che cosa ha permesso al gruppo di rimanere attivo per così tanti anni?

“La dedizione, la fede nella giustezza della nostra strada e il fatto che siamo un po’ matti (ride). Siamo poche decine di persone che hanno fatto attivismo nelle colline del sud di Hebron e adesso nella Valle del Giordano. Lavoriamo entro i confini della legge e siamo decisi a proteggere la gente che ha bisogno del nostro aiuto. Se i palestinesi hanno bisogno di noi, molliamo tutto e andiamo.”

Vi sembra di essere in grado di spiegare la realtà che vedete in Cisgiordania all’israeliano medio?

“Io non ho più nessuna voglia di parlare agli israeliani. Loro non vogliono ascoltare quello che ho da dire. Non vogliono vederlo.”

Perché?

“Non sono capaci di fare i conti con la realtà. Gli israeliani non porranno fine all’occupazione. Probabilmente dovremo assistere a boicottaggi e pressioni internazionali perché essa finisca. In questo Paese c’è una mentalità da gregge e l’unico modo per superarla è attraverso la pressione dall’esterno.”

Le cose stanno andando peggio per gli attivisti di sinistra?

“Assolutamente. Oggi i coloni ideologici hanno preso il controllo dei corpi militari, stanno prendendo il controllo della polizia. Oggi sono loro che comandano, la loro ideologia è la legge del Paese.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Da Marc Lamont Hill ai quaccheri, non è permesso criticare Israele

Jonathan Cook

Venerdì 7 dicembre 2018,Middle East Eye

Il licenziamento di Marc Lamont Hill da parte della CNN e l’indignazione nei confronti di Airbnb e dei quaccheri rivela una totale intolleranza verso le critiche

Per trent’anni il 29 novembre le Nazioni Unite hanno celebrato una giornata annuale di solidarietà con il popolo palestinese. Raramente questo avvenimento ha meritato anche solo un timido accenno da parte dei principali mezzi di comunicazione. Fino alla scorsa settimana.

Marc Lamont Hill, un illustre docente universitario statunitense e commentatore politico della CNN, si è ritrovato sommerso da uno tsunami di critiche per un discorso che ha tenuto alla sede ONU di New York. Ha chiesto la fine dello screditato modello di negoziati interminabili e futili di Oslo sul diritto dei palestinesi ad avere uno Stato – una strategia che è già ufficialmente arrivata a scadenza da due decenni.

Ha proposto di sviluppare al suo posto un nuovo modello di pace regionale basato su un solo Stato che offra uguali diritti a israeliani e palestinesi. Sotto una raffica di critiche secondo cui il suo discorso era antisemita, la CNN lo ha licenziato in tronco.

Il suo licenziamento ripropone recenti polemiche, ampiamente create ad arte per fronteggiare i tentativi da parte di alcune organizzazioni di prendere una posizione più concreta ed etica sul conflitto israelo-palestinese. Sia Airbnb, un sito per la prenotazione di alloggi, che il ramo britannico dei quaccheri, un insieme di movimenti religiosi cristiani, sono stati sommersi da grida di indignazione in risposta alle loro modeste iniziative. Lo scorso mese Airbnb ha annunciato che avrebbe tolto dal suo sito tutte le proprietà situate in Cisgiordania in colonie ebraiche illegali su territorio palestinese. Poco dopo, i quaccheri hanno dichiarato che si sarebbero rifiutati di investire in compagnie che traggano profitto dal furto israeliano di risorse palestinesi nei territori occupati.

Entrambe le iniziative sono pienamente in linea con le leggi internazionali, che vedono il trasferimento della popolazione di una potenza occupante in territori occupati – la fondazione di colonie – come un crimine di guerra. Di nuovo, come per Hill, le due organizzazioni sono state duramente colpite da reazioni ostili, comprese accuse di malanimo e antisemitismo, soprattutto da parte di importanti, presunti progressisti, rappresentanti di gruppi dirigenti ebraici negli USA e in Gran Bretagna.

Ciò che questi tre casi dimostrano è come l’antisemitismo si sia rapidamente esteso a comprendere persino forme estremamente limitate di critica contro Israele e di appoggio ai diritti dei palestinesi. Questa ridefinizione avviene nel momento in cui Israele è guidato dal governo più estremista ed ultranazionalista della sua storia.

Queste due tendenze sono collegate tra loro. I casi in questione rivelano anche la crescente aggressività di una politica identitaria emotiva che è stata ribaltata – depoliticizzata per schierarsi con il forte contro il debole.

Esseri umani inferiori

Delle tre “polemiche”, il discorso di Hill ha proposto la maggiore rottura con l’ortodossia occidentale su come risolvere il conflitto israelo-palestinese – o almeno un’ortodossia definita dagli accordi di Oslo a metà degli anni ’90. Quegli accordi disponevano che, se i palestinesi avessero atteso pazientemente, un giorno Israele avrebbe concesso loro uno Stato su meno di un quarto della loro patria. Circa 25 anni dopo, i palestinesi stanno ancora aspettando e nel frattempo la maggior parte del loro previsto Stato è stata divorata da colonie d’insediamento israeliane.

Nel suo discorso Hill ha messo la spoliazione dei palestinesi da parte del movimento sionista nella corretta prospettiva – sempre più riconosciuta da accademici ed esperti – in quanto progetto colonialista di insediamento.

Ha anche correttamente osservato che la possibilità di una soluzione dei due Stati, se mai sia stata realizzabile, è stata usurpata dalla determinazione israeliana a creare un solo Stato, che privilegia gli ebrei, su tutta la Palestina storica. Nella Grande Israele, i palestinesi sono destinati ad essere trattati come esseri umani inferiori. Hill osserva che la storia suggerisce che c’è solo una possibile soluzione etica a tali situazioni: la decolonizzazione, che riconosca la situazione esistente di uno Stato unico, ma insista su uguali diritti per israeliani e palestinesi.

Invece di sfidare Hill sulla logica inattaccabile del suo discorso, le critiche hanno fatto ricorso a dichiarazioni incendiarie. È stato accusato di utilizzare un linguaggio antisemita – quello utilizzato da Hamas – in riferimento ad un’azione internazionale per garantire “una Palestina libera dal fiume al mare.”

Con un doppio salto di falsa logica, Israele e i suoi sostenitori hanno sostenuto che Hamas utilizza la definizione [“dal fiume al mare”] per dichiarare la propria intenzione genocida di sterminare gli ebrei e che Hill ha ripetuto queste opinioni. Dani Dayan, console generale di Israele a New York, ha definito Hill “un razzista, un fanatico, un antisemita”, e ha paragonato le sue considerazioni a una “svastica dipinta di rosso”.

Ben Shapiro, un analista di Fox News, gli ha fatto eco, sostenendo che Hill ha chiesto “l’uccisione di tutti gli ebrei” nella regione. Allo stesso modo Seth Mandel, caporedattore del Washington Examiner [giornale e sito informativo conservatore, ndtr.] ha sostenuto che Hill avrebbe chiesto un “genocidio degli ebrei”.

Anche l’“Anti-Defamation League” [Lega contro la Diffamazione] (ADL), un’importante e teoricamente progressista organizzazione ebraica che sostiene di appoggiare un trattamento uguale per tutti i cittadini USA, ha stigmatizzato Hill sostenendo: “Queste richieste per [il territorio] ‘dal fiume al mare’ sono appelli a favore della fine dello Stato di Israele.”

Lo slogan del Likud “dal fiume al mare”

Di fatto l’espressione “dal fiume al mare” – in riferimento al territorio tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo – ha una lunga genealogia sia nel discorso israeliano che in quello palestinese. È solo un modo diffuso di riferirsi a una regione denominata un tempo Palestina storica.

Lungi dall’essere uno slogan di Hamas, è utilizzato da chiunque rifiuti la partizione della Palestina e sia a favore di uno Stato unico. Ciò include tutti i vari partiti dell’attuale governo israeliano.

In effetti lo statuto di fondazione del partito Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu prevede esplicitamente un Grande Israele che neghi ai palestinesi qualunque speranza di uno Stato. Utilizza esattamente lo stesso linguaggio: “Tra il mare e il Giordano ci sarà solo la sovranità israeliana.”

Persino dopo che lo statuto è stato modificato nel 1999, in seguito agli accordi di Oslo, esso ha continuato a invocare un Grande Israele, dichiarando che “il fiume Giordano sarà il confine orientale permanente dello Stato di Israele.”

Il modello israeliano di apartheid

La differenza tra la posizione di Hamas e del governo israeliano da una parte e di Hill dall’altra è che Hill propone uno Stato unico che tratti tutti i suoi abitanti come uguali, e non che fornisca l’assetto per la dominazione di un gruppo religioso o etnico sull’altro.

In breve, a differenza di Netanyahu e dei dirigenti israeliani, Hill rifiuta un modello di occupazione permanente e di apartheid. A quanto pare ciò, secondo la CNN e l’ADL , è un delitto passibile di licenziamento.

Invece la CNN ha a lungo avuto tra i suoi collaboratori l’ex senatore USA Rick Santorum, benché costui abbia sostenuto che il territorio dal fiume al mare è “tutta terra israeliana” e usi un linguaggio che suggerisce il genocidio dei palestinesi.

L’assurdità degli attacchi contro Hill dovrebbe essere evidente quando si consideri che molti dei recenti attori principali del processo di pace – dall’ex-primo ministro israeliano Ehud Barak all’ex-segretario di Stato USA John Kerry – hanno avvertito che Israele sta per diventare un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi.

Fanno questa previsione proprio perché una serie di governi israeliani ha categoricamente rifiutato di ritirarsi dai territori occupati.

Dato che sotto Donald Trump gli USA hanno abbandonato ogni prospettiva di uno Stato palestinese – realizzabile o meno –, Hill ha semplicemente evidenziato che il re è nudo. Ha descritto una verità che nessuno che possa cambiare la terribile situazione attuale sembra pronto a prendere in considerazione.

Diritto a resistere

Hill è stato anche accusato di antisemitismo perché appoggia metodi di pressione su Israele per porre fine alla sua intransigenza, che ha tenuto i palestinesi sotto occupazione per più di mezzo secolo.

Hill ha messo in evidenza il diritto di un popolo occupato a resistere al proprio oppressore, un diritto che tutte le capitali occidentali hanno ignorato e ora invariabilmente definiscono come terrorismo, persino quando gli attacchi dei palestinesi sono contro soldati israeliani armati che attuano un’occupazione militare.

Ma lo stesso Hill ha sostenuto una resistenza diversa, gandhiana, non violenta e una solidarietà con i palestinesi nella forma del movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) – precisamente il tipo di proteste internazionali che contribuì alla decolonizzazione del Sudafrica.

Il boicottaggio trasformato in orco

Negli ultimi anni e sotto la pressione del governo israeliano, i sostenitori dell’occupazione israeliana e gli Stati occidentali hanno trasformato il BDS in orco. La sua fondatezza non viene più dibattuta. Non è presentato come strategia per porre fine all’occupazione e neppure come mezzo per fare pressione su Israele per rendere più liberale un’ideologia che sostiene la supremazia etnica della maggioranza ebraica sul quinto della popolazione israeliana che è palestinese.

Invece si dice che sia una prova di antisemitismo e sempre più, di conseguenza, di volontà genocida. Il fatto che il movimento BDS stia prendendo piede nelle università occidentali e sia stato accettato da un notevole numero di giovani ebrei antisionisti è semplicemente ignorato. Invece la tendenza crescente è di dichiararlo fuorilegge e di trattarlo come preludio al terrorismo.

Quindi il discorso di Hill è stato un attacco diretto ai confini silenziosi del dibattito pubblico, fermamente sorvegliati dai sostenitori di Israele e dagli Stati occidentali per evitare discussioni sensate su come porre fine all’occupazione israeliana e ribadire il diritto dei palestinesi alla dignità e all’autodeterminazione.

La ragione per cui è così importante per i sostenitori di Israele far tacere qualcuno come Hill è che fa riferimento a una palese contraddizione.

Il suo discorso si riferisce precisamente al fatto che il sionismo, l’ideologia dello Stato di Israele, è incompatibile con uguali diritti per i palestinesi nella loro patria storica. Implica che l’occupazione non sia un’aberrazione che ha bisogno di aggiustamenti, ma parte integrante della visione del movimento sionista di “ebraicizzare” la Palestina, della cancellazione della presenza palestinese in accordo con altri progetti di colonialismo di insediamento.

La prova che proteggere le aggressive ambizioni territoriali di Israele da esami più attenti sia il vero obiettivo delle critiche contro Hill – e non le preoccupazioni per una presunta ascesa di un “antisemitismo di sinistra” – è confermata dallo scalpore simile che ha circondato le iniziative veramente modeste prese dei quaccheri del Regno Unito e da Airbnb.

I quaccheri e gli investimenti etici

Alla fine dello scorso mese i quaccheri hanno annunciato che non investiranno più in nessuna impresa che tragga profitto dall’occupazione. L’iniziativa è parte della loro politica di “investimenti etici”, simile al loro rifiuto di investire nelle industrie degli armamenti e dei carburanti fossili.

I quaccheri rappresentano un piccolo gruppo di movimenti cristiani che ha storicamente aperto la strada in ogni epoca all’identificazione delle violazioni dell’etica.

Sono stati importanti nell’opposizione allo schiavismo negli USA e contro l’apartheid in Sudafrica, e hanno vinto il premio Nobel per la pace per il loro lavoro nel salvare ebrei e cristiani dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Ciò ha incluso l’organizzazione del” Kindertransport” [lett.: trasporto di bambini, ndtr.] che portò 10.000 minori, per lo più ebrei, in Gran Bretagna.

Quindi non c’è da stupirsi che prendano l’iniziativa – che altre chiese inglesi sono state troppo timorose ad adottare – di penalizzare le imprese che traggono profitto dalla sottomissione e oppressione dei palestinesi nei territori occupati.

In effetti, invece di criticare i quaccheri inglesi per il boicottaggio di queste industrie, ci si potrebbe giustamente stupire perché ci abbiano messo tanto tempo per agire. Dopotutto l’occupazione militare israeliana esiste – così come cresce la sua progenie maledetta, le colonie, – da più di cinquant’anni. Le sue terribili violazioni sono ben documentate.

Importare divisione

Ma neppure il fatto che i quaccheri abbiano più volte dimostrato di essere dalla parte giusta della storia ha scosso le certezze delle organizzazioni ebraiche britanniche nel denunciare la congregazione. La più importante è stato il Board of Deputies [Consiglio dei Deputati], che rivendica a gran voce per se stesso lo status di rappresentante della comunità ebraica in Gran Bretagna.

Proprio per questa ragione i suoi continui attacchi contro il leader del partito Laburista Jeremy Corbyn, accusato di antisemitismo, sono stati considerati attendibili dai mezzi di comunicazione britannici.

Ma il Board ha dimostrato la sua vera natura con la denuncia contro i quaccheri, insinuando che la loro posizione sia stata motivata non dall’etica ma dall’antisemitismo. Ignorando la lunga storia dei quaccheri nel prendere posizioni etiche, il nuovo presidente eletto Marie van der Zyl ha sostenuto che Israele è stato “preso espressamente di mira” e che la dirigenza dei quaccheri ha un approccio “ossessivo e con i paraocchi.”

Paradossalmente ha accusato i quaccheri di rifiutarsi di “affrontare i pregiudizi e di promuovere la pace nella regione.” Invece i leader dei quaccheri hanno “scelto di importare un conflitto divisivo nel nostro Paese.” Di fatto sono il Board e altre importanti organizzazioni ebraiche che hanno importato questa stessa divisione in Gran Bretagna e negli USA, legando esplicitamente la loro identità ebraica alle azioni del terribile colonialismo di insediamento israeliano. I quaccheri stanno mettendo in evidenza che in un conflitto in cui una parte, Israele, è notevolmente più forte, non ci può essere una soluzione finché la parte più forte non dovrà far fronte a una pressione concreta.

D’altra parte il Board vuole intimidire e mettere a tacere i quaccheri proprio perché Israele possa così continuare ad essere libero di opprimere i palestinesi e rubare la loro terra attraverso l’espansione delle colonie. Non sono i quaccheri che sono antisemiti. Sono le principali organizzazioni ebraiche come il Board of Deputies che sono indifferenti – o addirittura tifose– di fronte a decenni di brutalità israeliana verso i palestinesi.

Il ruolo di Airbnb nell’aiutare i coloni

Allo stesso modo Airbnb è stato bombardato da critiche quando ha promesso il passo ancora più limitato di togliere dal suo sito circa 200 proprietà che si trovano nelle colonie in Cisgiordania che violano le leggi internazionali. Anzi, alcune di queste sono costruite in violazione anche delle leggi israeliane, benché Israele non faccia assolutamente alcun tentativo di applicare tali leggi contro i coloni.

Fino a poco tempo fa era ampiamente ammesso che le colonie sono un ostacolo insuperabile nel risolvere il conflitto israelo-palestinese attraverso una soluzione dei due Stati. Oltretutto le colonie, era sottinteso, per garantirne la protezione ed espansione, richiedevano una violenza ancora maggiore contro la popolazione nativa palestinese.

In fin dei conti questa è proprio la ragione per cui le leggi internazionali vietano di trasferire la popolazione di una potenza occupante nei territori occupati.

Airbnb stava chiaramente aiutando questi coloni illegali, creando una maggiore convenienza economica per gli ebrei a vivere su terra palestinese rubata. Questa motivazione economica è stata fondamento secondario di un’azione legale presentata negli USA la scorsa settimana da famiglie di coloni che sostengono si tratti di “una discriminazione religiosa.”

In realtà la decisione dell’impresa di abbandonare la Cisgiordania è stata il minimo che ci si potesse aspettare da loro. Malgrado ciò, anche così hanno fatto in modo di escludere dalla cancellazione le colonie ebraiche nella Gerusalemme est occupata, benché costituiscano la maggior parte della popolazione di coloni ebrei che utilizzano Airbnb.

Il doppio standard dell’ADL

Nonostante la mossa di Airbnb sia stata debole e molto in ritardo, essa è stata ancora una volta definita antisemita da importanti organizzazioni ebraiche negli USA, non ultima l’ADL.

L’ADL sostiene di “garantire la giustizia e un trattamento equo per tutti i cittadini,” una delle ragioni per cui ha avuto un ruolo attivo nel lottare per i diritti civili dei neri americani nell’epoca delle leggi Jim Crow [regole che imponevano la segregazione razziale negli Stati del Sud, ndtr.]. Ma come molte altre importanti organizzazioni ebraiche, le sue azioni dimostrano che, quando si tratta di Israele, essa è in realtà guidata da un progetto tribale, etnico, piuttosto che universale e basato sui diritti umani.

Invece di accogliere positivamente l’azione di Airbnb, ancora una volta ha sfruttato e degradato il significato di antisemitismo per proteggere Israele dalla pressione affinché ponga fine ai continui soprusi nei confronti dei palestinesi e al furto delle loro risorse.

Ha accusato l’impresa di “doppio standard” per non aver applicato la stessa politica a “Cipro settentrionale, in Tibet, nella regione del Sahara occidentale e in altri territori in cui un popolo è stato espulso.” Come ha evidenziato il commentatore di Forward [storico giornale della comunità ebraica americana, ndtr.] Peter Beinart, questo argomento è quantomeno ipocrita: “Non è stato colpevole l’ADL di ‘doppio standard’ quando i suoi dirigenti hanno marciato per i diritti civili degli afroamericani ma non per gli indiani americani, i cui diritti civili non sono stati garantiti dalle leggi federali fino al 1968?”

Israele costantemente sotto esame

Ciò che questi tre casi evidenziano è che, proprio quando le pessime intenzioni di Israele verso i palestinesi sono diventate ancor più esplicite e trasparenti, lo spazio ufficialmente consentito per criticare Israele ed appoggiare la causa palestinese viene deliberatamente e aggressivamente ridotto.

In un’epoca di telefoni con la telecamera, notizie che scorrono per 24 ore e reti sociali, Israele si trova sottoposto come mai prima a un controllo accurato e quotidiano. La sua dipendenza di lunga data dall’appoggio colonialista, la sua fondazione basata sul peccato della pulizia etnica, il razzismo istituzionalizzato che la minoranza di cittadini palestinesi deve affrontare, la sfrontata brutalità e la violenza strutturale della sua occupazione durata 51 anni sono largamente comprese, più di quanto fosse possibile anche solo un decennio fa.

Ciò è avvenuto nello stesso momento in cui altre gravissime ingiustizie storiche – contro le donne, le persone di colore, i popoli indigeni e la comunità LGBT – sono state messe in evidenza con l’adozione di un nuovo tipo di politiche identitarie popolari.

Negare ciò che è lampante

Israele dovrebbe essere chiaramente messo dalla parte di chi sbaglia in questa storia, eppure i governi occidentali e le principali organizzazioni ebraiche lo stanno risolutamente aiutando a negare ciò che è lampante, ribaltando quindi la realtà.

Pochi anni fa solo i più fanatici sostenitori di Israele sostenevano apertamente che l’antisionismo equivalesse ad antisemitismo. Ora gli antisionisti e i movimenti di solidarietà come il BDS sono acriticamente identificati nel discorso generale non solo come antisemiti, ma anche implicitamente come forma di terrorismo contro gli ebrei.

Il diritto dei palestinesi alla dignità e alla liberazione dal dominio oppressivo di Israele è di nuovo subordinato al diritto di Israele a perseguire incontrastato il suo progetto di colonialismo di insediamento – di espellere e sostituirsi alla popolazione nativa palestinese.

Non solo questo, ma ogni forma di solidarietà con i palestinesi oppressi è identificata come antisemitismo, solo perché i dirigenti ebrei negli USA e in GB hanno un asso nella manica: il diritto superiore a identificarsi con il progetto di colonialismo di insediamento israeliano e a essere al riparo da ogni critica alla loro posizione.

In questa forma profondamente perversa di politica identitaria, i diritti dello Stato di Israele, che possiede armi nucleari, e dei suoi sostenitori all’estero sono diventati armi a danno dei diritti della debole, dispersa, colonizzata e marginalizzata comunità palestinese.

Per decenni i sostenitori di Israele hanno ammesso che Israele avrebbe potuto essere oggetto di quelle che hanno definito “critiche legittime”.

Ma le reazioni a Hill, ai quaccheri e ad Airbnb rivelano che in pratica non ci sono critiche a Israele che siano considerate legittime e che, quando si tratta delle sofferenze dei palestinesi, le uniche posizioni accettabili sono rassegnazione e silenzio.

Jonathan Cook, giornalista inglese che vive a Nazareth dal 2001, è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese. Ha vinto il “Martha Gellhorn Special Prize for Journalism”.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




« The Lobby – USA » : lezioni per il movimento di solidarietà con la Palestina

Ali Abunimah

7 dicembre 2018, Agence Média Palestine

Benché l’inchiesta sotto copertura di Al Jazeera sull’influenza israeliana negli Stati Uniti, «The Lobby – USA», si sia conclusa nell’ottobre 2017, non è mai stata resa pubblica. Anche se il direttore generale della rete ha attribuito il problema a questioni giuridiche non ancora risolte, molti, tra cui dei giornalisti che hanno preso parte all’elaborazione del documentario, hanno ipotizzato che si sia trattato di una censura del film da parte del Qatar – probabilmente in conseguenza di pressioni americane e del desiderio del Qatar di attirarsi le simpatie di Washington. (Un altro film di Al Jazeera sull’influenza israeliana nel Regno Unito – “The Lobby” – è stato diffuso nel gennaio 2017.)

Adesso la versione americana non è più tenuta nascosta: il mese scorso Electronic Intifada [giornale online con sede a Chicago, ndtr.], in collaborazione con la francese Orient XXI [rivista francese online, ndtr.] e il libanese Al-Akhbar [quotidiano in lingua araba con sede a Beirut, ndtr.], che hanno provveduto ai sottotitoli rispettivamente in francese e in arabo, grazie ad una fuga di notizie hanno reso pubblico il film. Il documentario in quattro parti mostra, tramite “Tony”, un giornalista sotto copertura, come il ministero per gli Affari Strategici di Israele lavora con organizzazioni americane come la “Fondazione per la difesa delle democrazie” e la “Coalizione di Israele nei campus universitari”, per promuovere il programma di Israele, soprattutto nella sua lotta contro il movimento Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

Il film ha indicato per la prima volta una persona – il milionario israelo-americano Adam Milstein – come il fondatore e finanziatore di Canary Mission, il sito web che calunnia gli studenti e i docenti delle università che sostengono il BDS e i diritti dei palestinesi. “The Lobby – USA” ha anche rivelato che la “Coalizione Israele nei campus” lavora insieme a Canary Mission, utilizzando sistemi di sorveglianza su vasta scala che monitorano le reti sociali per trovare informazioni interessanti, come eventi a favore dei palestinesi, per impegnarsi in seguito a perseguire in modo mirato individui e gruppi.

«Il documentario ha confermato molte delle cose che sospettavamo», ha dichiarato Ali Abunimah, cofondatore di Electronic Intifada e consulente di Al-Shabaka [centro studi e ricerche palestinese indipendente con sede in California, ndtr.] sulle questioni politiche. “Fornisce prove assai convincenti del modo in cui il governo israeliano coordina il tentativo di denigrazione, sabotaggio e repressione delle persone che negli Stati Uniti esercitano i propri diritti costituzionali – e lo fa in collusione con individui ed organizzazioni che agiscono come agenti non dichiarati di una potenza straniera.”

Al-Shabaka ha incontrato di recente Abunimah per discutere delle implicazioni del film e degli insegnamenti che se ne possono trarre per il movimento di solidarietà con la Palestina.

La diffamazione mirata è un’importante strategia delle organizzazioni che lavorano con il governo israeliano. Che cosa ci insegna il film riguardo a questa tattica?

Uno degli episodi più inquietanti riguarda un professore dell’università Purdue, Bill Mullen, che è stato oggetto di false accuse di molestie sessuali da parte di siti anonimi. Anche se non è stato possibile collegare i siti web che accusano Mullen ad un’organizzazione o a un individuo specifici, siamo stati in grado di determinare che sono stati creati dalla stessa persona o gruppo di persone. La tattica era identica a quella che coloro che lavorano per organizzazioni di lobby filoisraeliane hanno descritto nel film, cioè la denigrazione di persone attraverso siti anonimi come strumento di una guerra psicologica che li distolga dalle loro azioni filo-palestinesi. E il carattere della denigrazione è strategico: Mullen è un professore maschio bianco di una certa età, il tipo di persona a cui si potrebbe attribuire questo genere di accuse. Hanno anche preso di mira una ragazza musulmana a Purdue, diffondendo menzogne che sostengono che beva, se la spassi e dorma con degli uomini. La volontà di queste organizzazioni di non fermarsi davanti a niente per mettere a tacere i sostenitori dei diritti dei palestinesi appare molto chiara.

Come hanno risposto i principali media alla fuga di notizie di «The Lobby – USA » ?

I principali media non ne hanno fatto parola. Trovo questo silenzio interessante. Indipendentemente dal contenuto del film, questa dovrebbe essere una notizia. Immaginate che si trattasse dell’influenza e della pressione della Russia, e che questo fosse trapelato. Sarebbe una notizia da prima pagina su tutti i media americani. I gruppi di pressione filoisraeliani sono rimasti decisamente in silenzio ed è la loro strategia migliore, perché non possono volgere il film a proprio vantaggio; la loro tattica migliore è mantenere la calma e sperare che tutto ciò scompaia. Ma la buona notizia è che c’è molta gente che lo vede e nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, forse nei prossimi anni, altri milioni lo vedranno.

«Tony» si è infiltrato in parecchi gruppi di ebrei, quindi gli spettatori negli Stati Uniti non hanno altrettante informazioni sul ruolo del sionismo cristiano e del sostegno cristiano ad Israele.

Sarebbe sbagliato dedurre da questo film che alcuni gruppi ebrei hanno un potere sproporzionato; questo potrebbe condurre ad un’interpretazione scarsamente utile, o che dà credibilità alle teorie complottiste. Del resto è il modo in cui i gruppi cercano di farlo apparire; per esempio, hanno affermato che Al Jazeera ha fatto un film sulla “lobby ebraica”, benché il film non utilizzi mai questo linguaggio. Ciò che fanno le organizzazioni come il ‘Progetto Israele’ e la ‘Coalizione Israele nei campus’ è alimentare, favorire e trarre vantaggio da una storia che è attraente per i nazionalisti cristiani bianchi che costituiscono una parte importante della base del presidente Trump – e il sionismo cristiano è una pietra angolare di questa ideologia. Il potere delle organizzazioni che compaiono nel film dipende dal potere del movimento cristiano sionista, ben più importante nel Paese. La più ampia base di sostegno ad Israele negli Stati Uniti, dopo tutto, non sono gli ebrei, sono i cristiani.

Israele ed i suoi sostenitori di destra hanno cavalcato quest’onda bianca, nazionalista, antisemita, perché il loro interesse è rafforzare il sionismo cristiano ed assicurare un sostegno ad Israele a qualunque prezzo, anche la sicurezza degli ebrei. Il massacro compiuto da un suprematista bianco nella sinagoga dell’Albero della vita a Pittsburgh ne ha mostrato la pericolosità. Organizzazioni di destra, filoisraeliane, e lo stesso governo israeliano si sono schierati in difesa di Trump, affermando che è falso dire che lui o i suoi seguaci incitino a questa violenza. Dei gruppi di ebrei progressisti hanno giustamente espresso il proprio orrore rispetto al tipo di retorica che emerge dalla destra e alimenta la narrazione suprematista bianca.

In che modo questo accordo machiavellico tra Israele e i suoi sostenitori da una parte ed il nazionalismo bianco dall’altra influenza l’appoggio americano ad Israele?

Inchieste di opinione, come il recente sondaggio di YouGov per The Economist, mostrano che il sostegno americano ad Israele si consolida tra i maschi bianchi e le persone anziane e perde terreno tra gli altri gruppi di popolazione, come le persone di colore, le donne, i giovani. A questo proposito, la base di sostegno ad Israele si sovrappone alla base di sostegno a Trump e a quella del programma della destra. Quando la gente vede fino a che punto Trump e la sua banda sostengono Israele, si tira indietro. La strategia di Netanyahu di fare di Israele una questione di parte negli Stati Uniti favorisce Israele a breve termine, ma ne erode il sostegno sul lungo termine.

Dato il vostro lavoro in questo ambito e la diffusione dei due film, quali insegnamenti si possono trarre per il movimento di solidarietà con la Palestina?

Una lezione è che dobbiamo rafforzare il nostro movimento e renderlo ancora più incisivo e disciplinato. La gente deve prendere coscienza che esiste questo tentativo organizzato, enorme, di ostacolarla, sabotarla, denigrarla. Non dico questo per addossare delle colpe, ma solo per dire che abbiamo di fronte un avversario agguerrito e che è importante prenderne coscienza e saper prevedere le sue mosse.

Il recente licenziamento di un commentatore politico della CNN, Marc Lamont Hill, a causa del suo aperto sostegno ai diritti dei palestinesi lo dimostra. Questo licenziamento è stato il culmine di un’intensa campagna denigratoria da parte dei gruppi di lobby israeliani. Hill sta anche affrontando delle richieste di un suo licenziamento dal ruolo di insegnante all’università di Temple, anche se finora l’università ha difeso il suo diritto alla libertà di espressione. Questo episodio mette in luce i rischi reali che le persone negli Stati Uniti incontrano ancora, soprattutto nelle istituzioni, quando affrontano l’argomento tabù di Israele e dei suoi crimini contro il popolo palestinese.

Tuttavia al tempo stesso si possono fare dei passi avanti in ambiti che avrei pensato fossero impenetrabili. Un esempio è la campagna “Non è il modo di trattare i bambini”, che pone l’attenzione sulla detenzione militare israeliana dei bambini palestinesi. È un progetto di mobilitazione, pressione e organizzazione che è culminato in una mozione presentata dalla deputata Betty McCollum con lo scopo di vietare gli aiuti americani per la detenzione militare dei minori. Circa 30 membri del Congresso hanno votato a favore. Questa mozione non è comparsa da nessuna parte; era il risultato di una campagna ben meditata e ben sostenuta. Non c’è stato bisogno di milioni di persone per farla, solo di un gruppo di persone determinate. Nessuno dei promotori di questa mozione ha perso il suo seggio nelle recenti elezioni di metà mandato.

Che cosa, nel film, vi rende ottimisti per il futuro del movimento di solidarietà? 

Le organizzazioni lobbystiche filoisraeliane, anche se si percepiscono come potenti e molto « da agenti segreti», sembrano disperate. Ammettono – quando pensano che nessun altro stia ascoltando – che la loro impresa è difficile, che il sostegno bipartisan per Israele si sta sgretolando. C’è Jonathan Schanzer della “Fondazione per la difesa delle democrazie” che dice che l’ingiuria di antisemitismo contro i militanti filo palestinesi “non è più come una volta”, e Eric Gallagher del “Progetto Israele” che sottolinea che le fondamenta su cui si reggeva l’AIPAC si sgretolano. Vedono come andrà a finire. Denigrare gli individui è una tattica disperata e dimostra che queste organizzazioni non sono la risposta.

Inoltre, una simile strategia è potenzialmente forte finché la solidarietà con la Palestina viene percepita come una questione marginale. Le tattiche di intimidazione funzionano solo se gli individui possono essere identificati e presi di mira. Quando la solidarietà con la Palestina diventerà scontata, gli attacchi delle lobby filoisraeliane perderanno il loro potere. La lezione è di parlare con la voce più forte e di sostenersi reciprocamente più di prima. Più noi renderemo normale la critica ad Israele, più la loro tattica si indebolirà.

  Ali Abunimah

Ali Abunimah, consulente di Al-Shabaka per le questioni politiche, è autore di ‘One country: a bold proposal to end the israeli-palestinian impasse’ [Un unico Paese: una proposta audace per porre fine all’impasse israelo-palestinese] (2006), e cofondatore e direttore della pubblicazione molto nota ‘The Electronic Intifada’. Residente negli Stati Uniti, ha scritto centinaia di articoli e da oltre 20 anni è membro attivo del movimento per la giustizia in Palestina. Nel 2013 ha ricevuto una borsa di studio Lannan per la libertà culturale. Il suo libro più recente è ‘The battle for justice in Palestine’ [La battaglia per la giustizia in Palestina].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Esternalizzare l’occupazione

Rod Such

29 Novembre 2018, The Electronic Intifada

The Privatization of Israeli Security by Shir Hever, Pluto Press (2017)

[“La privatizzazione della sicurezza in Israele”] di Shir Hever, Pluto Press (2017)

“La privatizzazione della sicurezza in Israele” di Shir Hever è uno studio sullo sviluppo di imprese private militari e per la sicurezza iniziato in Israele negli anni ’90 e che continua tuttora. Questa tendenza presenta implicazioni per il futuro sia riguardo all’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza che al movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni.

Ricercatore di economia e autore di The Political Economy of Israel’s Occupation [“L’economia politica dell’occupazione israeliana] (2010), Hever si basa sul lavoro del politologo Neve Gordon, soprattutto sul libro di Gordon Israel’s Occupation (2008) [“L’occupazione israeliana”, Diabasis, Parma, 2016] e sulla più recente analisi del complesso militare industriale di Israele dell’antropologo Jeff Halper nel suo libro War Against the People (2015) [“La guerra contro il popolo”, Ed. Epoké, Novi Ligure, 2017]. Tuttavia, a differenza di questi studi, Hever si concentra in particolare sulla privatizzazione.

Tra il 1994 e il 2006 cinque grandi industrie belliche di proprietà del governo israeliano vennero vendute a imprenditori privati. Durante lo stesso periodo gli strateghi del governo svilupparono il concetto di “centro versus periferia”, in cui immaginavano che il governo conservasse il possesso delle funzioni fondamentali dell’esercito esternalizzando al contempo le responsabilità considerate marginali, come l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza.

Hever ammette che la sua conclusione più discutibile è che, in seguito agli accordi di Oslo del 1993, la dirigenza politica israeliana abbia esternalizzato all’Autorità Nazionale Palestinese l’occupazione, che è stata una funzione centrale dell’esercito israeliano. Riconosce la difficoltà di definire l’ANP come un’impresa privata. Oltretutto nota che l’esercito israeliano inizialmente si oppose all’esternalizzazione dell’occupazione all’ANP ed ha sistematicamente tentato di screditarla come alleato di Israele in materia di sicurezza.

Forze delegate

Hever sostiene che la creazione dell’Esercito del Libano del Sud nel 1979, poco dopo l’invasione israeliana del 1978 e la successiva occupazione del Libano meridionale, ha posto le basi per la successiva decisione di “esternalizzare l’occupazione” in Palestina. L’ELS era una forza delegata da Israele destinata a far apparire che la popolazione libanese appoggiasse l’occupazione israeliana. Israele addestrava, armava e pagava segretamente i soldati e gli ufficiali dell’ELS.

Benché Hever noti che l’ELS non era ufficialmente un’impresa, esso era come una compagnia privata militare e della sicurezza nella misura in cui i soldati al livello più basso dell’ELS “erano motivati dalle opportunità di lavoro piuttosto che dall’ideologia.”

L’ELS ha preparato la strada alla seconda fase dell’esternalizzazione della sicurezza da parte di Israele, rappresentata dalla creazione dell’ANP come parte degli accordi di Oslo e dall’assenso a dare all’ANP il ruolo limitato del mantenimento della sicurezza in alcune delle principali città della Cisgiordania.

Hever ammette che ci sono sostanziali differenze tra l’ELS e l’ANP, soprattutto che l’ELS mancava di legittimazione all’interno del Libano. Israele non ha finanziato l’ANP, né ha addestrato le forze della sicurezza palestinese; pertanto l’ANP ha goduto di un certo grado di legittimazione tra i palestinesi.

Tuttavia, essendo priva di potere sovrano, l’ANP è diventata inevitabilmente uno strumento dell’occupazione israeliana. Hever sostiene che questo era l’obiettivo originario dei dirigenti politici israeliani.

Però l’esercito israeliano non sopportava questa decisione politica ed ha resistito alla cessione della sua autorità su alcune città della Cisgiordania. Peccato che Hever non fornisca nessuna documentazione della sua affermazione, se non citando uno studio di Kobi Michael pubblicato in Militarism and Israeli Society [“Militarismo e società israeliana”] (2010).

Minacciato dall’esternalizzazione, scrive Hever, l’esercito israeliano “ha utilizzato la propria autorità professionale e le proprie capacità di produrre rapporti di intelligence per attaccare la legittimità dell’ANP agli occhi del governo israeliano ed esercitare pressioni sul governo israeliano per autorizzare l’uso di mezzi letali contro le forze dell’ANP.”

Di conseguenza l’ANP non è stata “completamente soggetta agli interessi israeliani e l’ANP ha perseguito politiche che configgevano direttamente con gli interessi israeliani,” scrive Hever, citando gli esempi dell’ANP che persegue il riconoscimento come Stato da parte delle Nazioni Unite e la sua decisione del 2009 di appoggiare il boicottaggio dei prodotti delle colonie israeliane.

Ciononostante Hever afferma che in Cisgiordania l’ANP svolge ancora per Israele funzioni relative alla sicurezza. E poiché l’ANP non ha né sovranità né deve dar conto al popolo palestinese, ha finito per giocare un ruolo di subappaltatore.

Occasionalmente questo ruolo è stato evidente, come quando prigionieri politici rilasciati da Israele sono finiti come prigionieri politici detenuti dall’ANP, portando al fatto che l’organizzazione sia vista da molti palestinesi come fornitrice di “servizi carcerari al governo di occupazione israeliano.”

Occupazione israelo-statunitense

Nel suo capitolo “Esternalizzare l’occupazione” Hever dimostra che l’esempio più ovvio della privatizzazione dell’occupazione è stato quando Israele ha contrattato compagnie private per gestire posti di blocco nella “zona di congiunzione”, le aree adiacenti alle colonie illegali israeliane o ai confini dell’armistizio del 1949 noti come Linea Verde.

Benché i posti di blocco a Gerusalemme continuino ad essere gestiti dalla polizia di frontiera israeliana e quelli provvisori – noti anche come “posti di blocco volanti” – continuino ad essere gestiti dall’esercito, la maggior parte dei checkpoint della zona di congiunzione è stata privatizzata.

La ragione di questa privatizzazione, afferma Hever, è proteggere il governo israeliano dalle critiche per ogni violazione dei diritti umani commessa ai posti di blocco privatizzati. Tuttavia questo argomento non è documentato da esempi.

Se questo è stato il motivo di Israele per evitare di essere considerato responsabile, lo scopo non è stato raggiunto. Molte delle più note uccisioni di palestinesi ai checkpoint continuano ad essere causate dai soldati e dalla polizia di frontiera e sono state rese pubbliche da osservatori di associazioni per i diritti umani.

Gli attivisti del BDS faranno tesoro delle informazioni nel capitolo “Dimensioni Globali della Privatizzazione della Sicurezza in Israele”, che include studi di caso dettagliati sui servizi di sicurezza privatizzati offerti a Israele da G4S e HP, entrambe imprese boicottate dal movimento.

Oltretutto Hever mostra come il crescente aiuto militare USA ad Israele abbia agito come incentivo per la privatizzazione.

La tendenza alla privatizzazione all’interno degli stessi USA, diventata lampante durante le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq, ha influenzato anche i dirigenti israeliani.

Come gli USA, dove membri dell’esercito e dello spionaggio lasciano il lavoro nel settore statale e poi si spostano verso incarichi ben remunerati nelle imprese della sicurezza, la creazione di tali compagnie secondo Hever ha contribuito ad arricchire alti ufficiali dell’esercito israeliano che “hanno iniziato a passare in gran numero dagli enti della sicurezza statale a compagnie della sicurezza privata.”

La ricerca di Hever sottolinea la necessità di ulteriori campagne BDS che prendano di mira chi rende più facile l’occupazione e i finanziamenti da parte degli USA che arricchiscono così tante persone in quella che di fatto è l’occupazione congiunta israelo-statunitense della Palestina. Per gli attivisti che monitorano lo sviluppo di società che traggono profitti dall’occupazione il libro di Hever è una risorsa preziosa.

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Book” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




IL Nuovo Nuovo Antisemitismo

Richard Falk≡

18 novembre 2018, WordPress

I crimini dello Stato di Israele nascosti dietro false affermazioni di vittimizzazione

In questi giorni io, come anche molti altri, vengo vittimizzato. Siamo etichettati come antisemiti e in alcuni casi anche come ebrei che odiano sé stessi. È un tentativo da parte di sionisti ed israeliani di mettere a tacere le nostre voci e di punire il nostro attivismo nonviolento, con particolare livore nei confronti della campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimenti e Sanzioni, ndtr.) poiché negli ultimi anni è diventata molto efficace. Questa etichetta negativa dell’opposizione è stata chiamata ‘il nuovo antisemitismo’. Il vecchio antisemitismo era semplicemente odio verso gli ebrei espresso attraverso immagini ed atteggiamenti negativi, come anche pratiche discriminatorie, persecuzioni e giustizia sommaria. Il nuovo antisemitismo è la critica contro Israele e il sionismo, ed è stato sostenuto da governi amici di Israele e portato avanti da una serie di importanti organizzazioni ebraiche, incluse alcune collegate ai sopravvissuti e alla memoria dell’Olocausto. Emmanuel Macron, presidente francese, ha espresso abbastanza chiaramente questo rifiuto da parte degli apologeti di Israele, anche se in forma piuttosto malevola: “Non cederemo mai alle espressioni di odio. Non ci arrenderemo mai all’antisionismo, perché esso è la riproposizione dell’antisemitismo.” La falsa premessa pone sullo stesso piano il sionismo e gli ebrei, definendo automaticamente come antisemitismo le critiche e l’opposizione allo Stato sionista di Israele.

Già nel 2008 il Dipartimento di Stato USA si è mosso più velatamente in una direzione simile a quella di Macron, attraverso questa dichiarazione formale: “Le ragioni per criticare Israele alle Nazioni Unite possono derivare da legittime preoccupazioni politiche o da pregiudizi illegittimi. (…) Comunque, a prescindere dalle intenzioni, critiche sproporzionate a Israele in quanto incivile e amorale, e le relative misure discriminatorie adottate dalle Nazioni Unite contro Israele, hanno l’effetto di far sì che il pubblico attribuisca caratteristiche negative agli ebrei in generale, alimentando così l’antisemitismo.” L’errore qui sta nel considerare le critiche come “sproporzionate” senza nemmeno prendere in considerazione la realtà della lunga serie di illegalità da parte di Israele nei confronti del popolo palestinese. Per chi di noi vede la realtà delle politiche e delle pratiche israeliane vi sono pochi dubbi che le critiche che vengono avanzate e le pressioni che vengono esercitate [siano] in ogni senso proporzionate.

Un’argomentazione correlata, che spesso viene avanzata, è che a Israele siano richiesti livelli più alti di altri Stati, e che questo riveli un sottinteso antisemitismo. Questo è un argomento in malafede. Non è una giustificazione suggerire che la criminosità di altri sia più grave. Inoltre, gli USA finanziano Israele con almeno 3,8 miliardi di dollari all’anno, oltre a dare il loro incondizionato appoggio al suo comportamento, determinando una certa responsabilità per imporre dei limiti in base al diritto umanitario internazionale. Anche le Nazioni Unite hanno contribuito al calvario dei palestinesi, non mettendo in pratica la soluzione di partizione e permettendo che per 70 anni milioni di palestinesi subissero le strutture di dominio dell’apartheid. Nessun altro popolo può così giustificatamente condannare forze esterne per la tragedia che ha patito.

Nel 2014 Noam Chomsky, con la sua usuale chiarezza morale ed intellettuale, ha spiegato la falsa logica di una simile affermazione: “In realtà, l’esempio di scuola, la migliore formulazione di ciò, la si deve ad un ambasciatore presso le Nazioni Unite, Abba Eban [politico e diplomatico israeliano, ndtr.] (…). Ha raccomandato alla comunità ebraica americana di assolvere a due compiti. Uno consisteva nel mostrare che le critiche alla politica, che lui definiva antisionismo – che in realtà significa criticare la politica dello Stato di Israele – erano antisemitismo. Questo era il primo compito. Il secondo, nel caso che le critiche provenissero da ebrei, consisteva nel mostrare che si trattava di odio nevrotico verso sé stessi, che necessitava di un trattamento psichiatrico. Quindi forniva due esempi di quest’ultima categoria. Uno era I.F. Stone [giornalista americano progressista, ndtr.]. L’altro ero io. Quindi, noi avremmo dovuto essere curati per i nostri disturbi psichici, e i non ebrei avrebbero dovuto essere condannati per antisemitismo, se criticavano lo Stato di Israele. Si può capire perché la propaganda israeliana prenda questa posizione. Io non critico particolarmente Abba Eban per aver fatto ciò che gli ambasciatori a volte devono fare. Ma dovremmo capire che non è un’accusa sensata. Per niente sensata. Non c’è niente da rispondere. Non è una forma di antisemitismo. È semplicemente una critica delle azioni criminose di uno Stato.”

Una caratteristica di questo nuovo antisemitismo è la sua mancata risposta alle ben comprovate accuse di crimini contro l’umanità avanzate da coloro che sono etichettati come antisemiti. Forse questi ardenti sostenitori di Israele spingono davvero il loro senso di impunità fino al punto di ritenere il silenzio un’adeguata forma di difesa? A sottolineare una tale negazione del concetto di responsabilità legale e morale vi è questo sentimento di eccezionalità di Israele, una concezione del diritto penale internazionale che condivide con l’eccezionalità americana. Coloro che sono d’accordo con questa eccezionalità pretendono di venire offesi persino dall’insinuazione che un tale governo possa essere soggetto alle norme sancite dallo Statuto della Corte Penale Internazionale o dalla Carta dell’ONU. L’eccezionalità di Israele affonda le sue radici nella tradizione biblica, soprattutto nella lettura degli ebrei come “popolo eletto”, ma in realtà si situa in uno spazio rassicurante creato dall’ombrello geopolitico che protegge dal giudizio del mondo la maggior parte dei suoi atti di sfida alle leggi. Queste azioni di protezione sono ben illustrate dalla recente risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU che ha dichiarato nulli e non validi i passi di Israele verso l’annessione delle alture del Golan, con il voto contrario dei soli Israele e Stati Uniti, mentre 151 membri dell’ONU hanno votato a favore.

Se dedichiamo anche solo un minuto ad esaminare il diritto internazionale, scopriremo che la questione è talmente ovvia che non vale la pena di discuterne seriamente. Un principio cardine dell’attuale diritto internazionale, spesso affermato dall’ONU in altri contesti, è il divieto di impadronirsi di un territorio con la forza delle armi. Non c’è dubbio che le alture del Golan facessero parte del territorio sovrano della Siria fino alla guerra del 1967, e che Israele ne abbia preso il controllo, che ha sempre esercitato da allora, attraverso un’occupazione con la forza.

Le ironie del ‘nuovo nuovo’ antisemitismo

Qui è presente un’ironia opportunistica. Il nuovo antisemitismo sembra non avere problemi ad abbracciare i cristiani sionisti, nonostante la loro ostilità verso gli ebrei accompagnata dalla fanatica devozione ad Israele come Stato ebraico. Chiunque abbia assistito ad una conferenza dei cristiani sionisti sa che la loro lettura del Libro della Rivelazione implica l’interpretazione che Gesù ritornerà quando tutti gli ebrei ritorneranno in Israele e verrà ricostruito il tempio più sacro di Gerusalemme. Questo percorso non finirà qui. Gli ebrei saranno di fronte alla scelta tra convertirsi al cristianesimo o essere condannati alla dannazione eterna. Quindi tra questi fanatici amici di Israele è presente una sincera ostilità verso gli ebrei, sia nell’insistere che la fine della diaspora ebraica sia un imperativo religioso per i cristiani, sia per il misero destino che attende gli ebrei che rifiuteranno di convertirsi dopo il Secondo Avvento.

Siamo di fronte ad un’illuminante perversità. A differenza dei nuovi antisemiti che non sono ostili agli ebrei in quanto popolo, i cristiani sionisti danno priorità al loro entusiasmo per lo Stato di Israele, mentre sono disposti a distruggere le vite degli ebrei della diaspora e alla fine anche quelle degli ebrei israeliani e sionisti. Forse si tratta meno di perversità quanto di opportunismo. Israele non ha mai avuto alcuna riluttanza a sostenere i leader più oppressivi e dittatoriali di Paesi stranieri, posto che essi acquistino armi e non adottino una politica diplomatica anti-israeliana. Il messaggio di congratulazioni di Netanyahu a Bolsonaro, il neo eletto presidente del Brasile, è solo l’esempio più recente, e Israele ha ricevuto un immediato ringraziamento con l’annuncio della decisione [del Brasile] di unirsi agli Stati Uniti trasferendo la sua ambasciata a Gerusalemme. In effetti, il nuovo antisemitismo si trova a suo agio sia coi cristiani sionisti che con i leader politici stranieri che mostrano tendenze fasciste. Di fatto, chiudere gli occhi di fronte alla profonda realtà del vero antisemitismo è una caratteristica del nuovo antisemitismo così caldeggiato dai militanti sionisti. Per una esauriente documentazione, si può leggere l’importante libro di Jeff Halper, ‘War against people: Israel, the palestinians and global pacification’ (2015). [‘Guerra contro il popolo: Israele, i palestinesi e la pacificazione globale’, Epoké, Novi Ligure, 2017. Ndtr.].

Di fronte ad un simile contesto abbiamo bisogno di un termine che descriva e identifichi questo fenomeno e respinga le sue accuse insidiose. Propongo la poco elegante dicitura di ‘il nuovo nuovo antisemitismo’. L’idea di una simile definizione vorrebbe suggerire che sono i nuovi antisemiti, non i critici e gli attivisti che criticano Israele, i reali portatori di odio verso gli ebrei in quanto ebrei. Due tipi di argomentazioni sono implicite in questo rifiuto della campagna che cerca di screditare o addirittura criminalizzare i ‘nuovi antisemiti’. Primo, essa impedisce la critica della persistenza di situazione sconcertante, della perdurante tragedia dell’apartheid imposto a tutto il popolo palestinese nel suo complesso, distoglie l’attenzione, deliberatamente o inconsapevolmente, dalle obiezioni al vero antisemitismo, provocando anche confusione, accettando in nome dello Stato di Israele l’abbraccio dei cristiani sionisti (e degli evangelici), oltre a quello dei leader fascisti che predicano messaggi di odio etnico.

In conclusione, nel nostro impegno per la realizzazione dei diritti dei palestinesi, primo tra tutti il loro diritto all’autodeterminazione, noi che veniamo accusati di essere i nuovi antisemiti in realtà stiamo cercando di onorare la nostra umanità e di rifiutare le lealtà tribali o gli schieramenti geopolitici. Come ebrei, rendere Israele responsabile in base agli standard che sono stati utilizzati per condannare i capi politici e militari nazisti sopravvissuti significa onorare l’eredità dell’Olocausto, non infangarla. Al contrario, quando Israele vende armi ed offre addestramento per reprimere le rivolte a governi guidati da fascisti in tutto il mondo, o continua ad accettare l’Arabia Saudita del dopo Khashoggi come un valido alleato, esso oscura la natura malvagia dell’Olocausto in modi che in futuro potrebbero tormentare Israele ed anche gli ebrei della diaspora.

Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali, che ha insegnato per 40 anni alla Princeton University. Dal 2002 vive a Santa Barbara, California ed insegna studi globali e internazionali nel locale campus dell’università della California; dal 2005 dirige il consiglio d’amministrazione della Fondazione per la Pace dell’Era Nucleare. Ha dato inizio a questo blog in parte per celebrare il suo 80esimo compleanno.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Il vento sta cambiando: Israele sta perdendo su due fronti di guerra

Ramzy Baroud

19 novembre 2018,Middle East Monitor

La maldestra operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza del 12 novembre sta delineando il fallimento di Tel Aviv nell’utilizzare il suo esercito come strumento per ottenere concessioni politiche dai palestinesi. Ora che la resistenza popolare palestinese è diventata globale attraverso l’aumento esponenziale ed il crescente successo del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), il governo israeliano sta combattendo due guerre disperate.

In seguito all’attacco di Gaza, i palestinesi hanno risposto con una pioggia di razzi sul confine meridionale di Israele ed hanno messo in atto un’operazione precisa prendendo di mira un autobus dell’esercito israeliano. Mentre i palestinesi hanno manifestato per festeggiare il fatto di aver respinto l’esercito israeliano fuori dall’enclave assediata, in Israele il fragile ordine politico – a lungo controllato dal primo ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu – è stato rapidamente smantellato.

Due giorni dopo l’attacco israeliano a Gaza, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman si è dimesso per protesta contro “l’arrendevolezza” di Netanyahu verso la resistenza palestinese. I dirigenti israeliani si trovano in una situazione precaria. La violenza selvaggia avviene al prezzo della condanna internazionale e di una risposta palestinese che è sempre più coraggiosa e strategica. Tuttavia, non aver insegnato a Gaza la sua proverbiale “lezione” è visto dai politici israeliani opportunisti come un atto di resa.

Mentre Israele sta sperimentando tali limiti sul campo di battaglia tradizionale, che una volta dominava completamente, la sua guerra contro il movimento globale del BDS è sicuramente una battaglia persa. Israele ha una scarsa efficacia nello scontro con la mobilitazione della società civile. Nonostante la vulnerabilità dei palestinesi che vivono sotto l’occupazione israeliana, al governo e all’esercito israeliani ci vollero sette lunghi anni per pacificare l’Intifada, la rivolta popolare del 1987. Anche a questo proposito si discute ancora riguardo a cosa realmente vi abbia posto fine.

Naturalmente si dovrebbe riconoscere che un’Intifada globale è molto più difficile da soffocare, o persino da contenere. Eppure, quando Israele ha iniziato a rendersi conto del crescente pericolo del BDS – che è stato ufficialmente lanciato dalla società civile palestinese nel 2005 – ha risposto con lo stesso schema inutile e prevedibile: arresti, violenze e un fiume di leggi che criminalizzano il dissenso in patria, scatenando al contempo una campagna internazionale di intimidazioni e calunnie contro attivisti e organizzazioni del boicottaggio.

Questo approccio ha raggiunto pochi risultati, oltre a raccogliere maggiore attenzione e solidarietà internazionale per il BDS. Tuttavia la guerra di Israele contro il movimento è drasticamente peggiorata lo scorso anno, quando il governo Netanyahu ha destinato circa 72 milioni di dollari per sconfiggere la campagna guidata dalla società civile. Utilizzando il sempre disponibile governo USA per promuovere le sue tattiche anti BDS, Tel Aviv si sente sicura che i suoi tentativi contro il BDS negli USA promettono bene. Tuttavia è solo di recente che Israele ha iniziato a formulare la parte europea più complessiva della sua strategia globale.

In una conferenza di due giorni a Bruxelles all’inizio di questo mese funzionari israeliani e i loro sostenitori europei hanno scatenato una vasta campagna europea contro il BDS. Organizzata dall’ “European Jewish Association” [Associazione Ebraica Europea] (EJA) e dal “Europe Israel Public Affairs group” [gruppo per le Questioni Pubbliche Europa Israele] (EIPA), la conferenza è stata pienamente sostenuta dal governo israeliano ed ha ospitato il ministro israeliano per gli Affari di Gerusalemme Ze’ev Elkin, di destra.

Con il solito pretesto di contrastare il pericolo dell’antisemitismo in Europa, i partecipanti hanno confuso il razzismo con qualunque critica nei confronti di Israele, della sua occupazione militare e della colonizzazione delle terre palestinesi. La conferenza annuale dell’EJA ha accolto la manipolazione israeliana del termine “antisemitismo” a un livello totalmente nuovo, in quanto ha stilato un testo che sarà presumibilmente presentato a possibili canditati del parlamento europeo chiedendo la loro firma prima di partecipare alle prossime elezioni [europee] di maggio. Quelli che si rifiuteranno di firmare – o peggio, condanneranno l’iniziativa israeliana – probabilmente si ritroveranno a doversi difendere da accuse di razzismo e di antisemitismo.

Certo non è stata la prima conferenza di questo tipo. L’euforia anti BDS che ha travolto Israele negli ultimi anni ha prodotto parecchie conferenze affollate e appassionate in hotel di lusso, in cui dirigenti israeliani hanno apertamente minacciato attivisti del BDS come Omar Barghouti. Durante una conferenza del 2016 a Gerusalemme Barghouti è stato minacciato di “omicidio civile” per il suo ruolo nell’organizzazione del movimento.

Nel marzo 2017 la Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ha approvato un divieto di viaggio contro il BDS, che impone al ministero degli Interni di negare l’ingresso nel Paese a qualunque straniero che “consapevolmente abbia espresso una richiesta pubblica di boicottaggio dello Stato di Israele”. Da quando il divieto è diventato effettivo, molti sostenitori del BDS sono stati arrestati, deportati ed è stato loro impedito di entrare nel Paese.

Mentre Israele ha dimostrato la sua capacità di spronare politici che pensano di trarne profitto per i propri fini negli USA e in Europa perché appoggino la sua causa, non ci sono prove che il movimento BDS sia stato in alcun modo represso o indebolito. Al contrario, la strategia israeliana ha sollevato le ire di molti attivisti, di gruppi della società civile e per i diritti civili che si sono infuriati per il suo tentativo di sovvertire la libertà di parola nei Paesi occidentali.

Recentemente nel Regno Unito l’università di Leeds si è unita a molti altri campus nel mondo che hanno disinvestito da Israele. Di certo il vento sta cambiando.

Decenni di indottrinamento sionista non sono riusciti non solo a invertire l’opinione pubblica che si sta notevolmente modificando riguardo alla lotta palestinese per la libertà e i diritti, ma persino a conservare quello che una volta era il sentimento solidamente filoisraeliano tra i giovani ebrei, soprattutto negli USA. Invece per i sostenitori del BDS ogni iniziativa israeliana rappresenta un’opportunità per accrescere la consapevolezza sui diritti dei palestinesi e per mobilitare la società civile nel mondo contro l’occupazione ed il razzismo israeliani.

Il successo del BDS è attribuito alla concreta ragione per cui Israele non riesce a contrastare le sue iniziative: è un modello disciplinato di resistenza popolare e civile basato sull’impegno, sul dibattito aperto e su scelte democratiche, fondate sulle leggi internazionali e umanitarie.

I “fondi per la guerra” di Israele alla fine si prosciugheranno, perché nessuna quantità di denaro avrebbe potuto salvare il regime razzista dell’apartheid in Sud Africa quando è crollato decenni fa. Inutile dire che 72 milioni non faranno cambiare il vento a favore dell’Israele dell’apartheid, né cambieranno il corso della storia che può solo appartenere a quei popoli che sono ostinati quando si tratta di raggiungere la propria libertà a lungo desiderata.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è ricercatore non residente presso il Centro Orfalea di Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cosa vogliono i palestinesi dalla comunità internazionale?

Haidar Eid

21 novembre 2018, Middle East Monitor

Due giorni prima dell’attacco criminale di Israele nella Striscia di Gaza avevo scritto un articolo in cui cercavo di spiegare esattamente cosa vogliono i palestinesi, in particolare quelli di Gaza, dalla comunità internazionale. Ho sostenuto che mentre intraprendiamo il nostro lungo cammino verso la libertà, siamo giunti alla conclusione che non possiamo più fare affidamento sui governi; che solo la società civile è in grado di mobilitarsi per l’applicazione del diritto internazionale e per la fine dell’inaudita impunità israeliana.

Ci ispiriamo al movimento anti-apartheid. La mobilitazione della società civile è stata efficace alla fine degli anni ’80 contro il regime di apartheid del Sudafrica bianco, e può fare la stessa cosa a sostegno di una giusta pace in Palestina. Niente può davvero costringere Israele a rispettare il diritto internazionale tranne le persone di coscienza e la società civile.

Affermavo anche che senza l’intervento della comunità internazionale, che è stata efficace contro l’apartheid in Sudafrica, Israele continuerà a perpetrare i suoi crimini di guerra e contro l’umanità. Questo è esattamente ciò che è successo solo due giorni dopo quell’articolo, quando l’apartheid israeliano ha lanciato un massiccio attacco violando – come nel 2009, 2012 e 2014 – un cessate il fuoco non dichiarato con i gruppi di resistenza palestinesi a Gaza, mediato dall’Egitto.

In effetti, a Gaza non ci interessa più la sterile opposizione al processo di normalizzazione avviato dal trattato di Camp David e dagli accordi di Oslo, e consolidato dagli Sceicchi del Golfo. Piuttosto, siamo interessati a elaborare il tipo di reazione che potrebbe effettivamente sconfiggere i diversi livelli del sistema di oppressione sionista: occupazione, pulizia etnica e apartheid. Nel momento in cui la comunità internazionale – società civile e governi – deciderà di agire così come ha fatto contro il sistema di apartheid in Sudafrica, Israele dovrà rimettersi alla voce della ragione – rappresentata dall’appello del 2005 per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS ), sostenuto da oltre 170 organizzazioni della società civile e approvato da quasi tutte le forze politiche influenti nella Palestina storica e nella diaspora.

La domanda urgente, quindi, è quanto a lungo il mondo tollererà il palese razzismo costituzionale di Israele? Sappiamo per certo che ci sono voluti trent’anni perché la comunità internazionale ascoltasse la chiamata dei popoli oppressi del Sud Africa. Quanto tempo dovranno aspettare i popoli oppressi della Palestina?

I recenti successi del BDS sono ciò che chiediamo dal 2005. Per i palestinesi nella Striscia di Gaza è difficile capire come, nonostante la politica di pulizia etnica di Israele e gli ultimi crimini di guerra commessi contro di noi, nonostante i crimini di guerra continuamente documentati da importanti organizzazioni per i diritti umani, e nonostante la colonizzazione israeliana e l’apartheid, per alcune onorate società e istituzioni internazionali gli affari con Israele rimangano normali “as usual”.

Non è chiarissimo a quelle società, dopo tutti questi anni e dopo le migliaia di rapporti da parte delle principali organizzazioni per i diritti umani, che a milioni di palestinesi vengono negati i diritti fondamentali all’istruzione, alla libera circolazione, al lavoro e alle prestazioni sanitarie? Siamo privati di una vita normale a causa degli oltre 600 posti di blocco militari israeliani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme, dell’assedio medievale di Gaza e della discriminazione ufficiale dell’apartheid verso i cittadini palestinesi nella stessa Israele. Per dirla senza mezzi termini, siamo discriminati perché non siamo ebrei, così come i neri sudafricani venivano discriminati semplicemente perché non erano bianchi

La tendenza sta cambiando: Israele sta perdendo su due fronti di guerra

Nelle carceri israeliane sono detenuti migliaia di palestinesi condannati da tribunali militari; centinaia di loro sono detenuti senza accusa né processo. Tutte le attendibili organizzazioni internazionali per i diritti umani hanno riferito dettagliatamente in che modo le forze israeliane prendano di mira deliberatamente studenti e istituzioni educative palestinesi, incluse le scuole gestite dall’ONU. Gli studiosi e i ricercatori non dovrebbero essere avvezzi a maneggiare tali rapporti?

Consideriamo nostro diritto aspettarci che le persone di coscienza si uniscano a noi nella lotta contro l’apartheid di Israele, boicottando il regime razzista e militarizzato e le istituzioni che lo fanno prosperare. I palestinesi sono un popolo oppresso senza Stato. Sempre di più facciamo affidamento sul diritto internazionale e sulla solidarietà, per la nostra stessa sopravvivenza.

Ciò che vogliamo, quindi, è l’applicazione del diritto internazionale per porre fine all’occupazione militare israeliana nelle terre arabe occupate nel 1967, per combattere la colonizzazione e l’apartheid di Israele sancite dalle leggi contro la popolazione indigena della Palestina dal 1948, e per consentire il ritorno legittimo dei rifugiati palestinesi vittime di una pulizia etnica quando nelle loro terre fu creato Israele. È una richiesta di por fine allo Stato di Israele? Il boicottaggio dell’apartheid significava porre fine al Sud Africa come nazione, o porre fine alle peggiori forme di razzismo di Stato?

Israele è uno Stato di insediamento coloniale e di apartheid, e gli strumenti usati contro l’apartheid in Sudafrica possono essere modello per la nostra lotta contro l’apartheid di Israele. Trasformare Israele da Stato etno-religioso e di apartheid in un’istituzione autenticamente democratica dovrebbe essere l’obiettivo di ogni persona che crede nella democrazia liberale.

Con le pressioni della comunità internazionale, attraverso una campagna BDS sul modello della Campagna contro l’Apartheid che ha posto fine al razzismo in Sud Africa, crediamo che si possa convincere Israele a liberarsi delle sue strutture di oppressione. Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è un embargo sulle armi a Israele per fermare il continuo spargimento di sangue a Gaza.

La campagna BDS tende a ripristinare i diritti democratici del popolo palestinese. Crediamo che le lotte del popolo palestinese nella stessa Israele, nei territori occupati dal 1967 – la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est – così come nella Diaspora siano una cosa sola. Questo è il motivo per cui crediamo che un approccio alternativo basato sui diritti, anziché sull’apparente “pace” di Oslo basata sulla normalizzazione, possa rappresentare per tutti i palestinesi una soluzione che garantisce la pace con giustizia, vale a dire con il diritto al ritorno e all’uguaglianza.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione di Luciana Galliano)