Cisgiordania: le nuove disposizioni sugli ingressi isolano ulteriormente i palestinesi

Human Rights Watch

23 gennaio 2023 – Human Rights Watch

Le direttive di Israele vietano di fare visite, studiare, lavorare

Gerusalemme – Le nuove direttive israeliane per l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania rischiano di isolare ulteriormente i palestinesi dai propri cari e dall’intera società civile, ha dichiarato oggi Human Rights Watch. Le disposizioni, entrate in vigore a ottobre 2022 e modificate a dicembre 2022, delineano dettagliate procedure per l’ingresso e il soggiorno di stranieri in Cisgiordania, procedure diverse da quelle per l’ingresso in Israele.

Le autorità israeliane hanno da tempo reso difficile per gli stranieri insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le nuove direttive codificano e inaspriscono le precedenti restrizioni, rischiando di rendere ancor più difficile per i palestinesi in Cisgiordania, che già subiscono pesanti limitazioni al movimento imposte da Israele, vivere con i familiari che non hanno una carta di identità cisgiordana e collaborare con studenti, accademici, studiosi ed altri stranieri.

Rendendo più difficile alle persone soggiornare in Cisgiordania, Israele sta compiendo un nuovo passo verso la trasformazione della Cisgiordania in un’altra Gaza, dove due milioni di palestinesi vivono da oltre 15 anni isolati dal resto del mondo”, ha detto Eric Goldstein, vicedirettore per il Medio Oriente di Human Rights Watch. “Questa politica è finalizzata a indebolire i legami sociali, culturali e intellettuali che i palestinesi hanno cercato di mantenere con il mondo esterno.”

Tra il luglio e il dicembre 2022 Human Rights Watch ha intervistato 13 persone che hanno descritto nei dettagli le difficoltà che hanno incontrato per anni per entrare o soggiornare in Cisgiordania e le loro preoccupazioni riguardo al modo in cui le nuove direttive li danneggeranno. Human Rights Watch ha anche intervistato gli avvocati israeliani che hanno rappresentato chi sfidava le restrizioni. Tra queste persone intervistate vi è uno psicologo americano docente in un’università palestinese, un’inglese madre di due figli che tenta di vivere con suo marito e la sua famiglia palestinese e un palestinese che ha vissuto la maggior parte della sua vita in Cisgiordania ma non ha una carta di identità.

Inoltre a luglio 2022 le autorità israeliane hanno negato a Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per condurre attività di ricerca e patrocinio, appellandosi all’ampia autorità dell’esercito riguardo agli ingressi. La Corte Distrettuale di Gerusalemme ha confermato il divieto a novembre, in seguito ad un ricorso presentato da Shakir e da Human Right Watch.

Il documento di 61 pagine denominato “Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Giudea e Samaria (intendendosi la Cisgiordania)” ha sostituito un documento di procedura di tre pagine redatto nel dicembre 2006. Esso definisce la politica e le procedure dell’esercito israeliano relativamente agli stranieri che cercano di entrare solamente in Cisgiordania, con esclusione di Gerusalemme est, o di estendere il soggiorno per una visita o per “uno scopo specifico”, per esempio studio, insegnamento, volontariato o lavoro. Le direttive sono diverse da quelle per l’ingresso in Israele che vengono normalmente applicate all’aeroporto Ben Gurion e in altri luoghi di ingresso. Chi possiede un permesso per la Cisgiordania ma non ha un visto di ingresso israeliano non è legalmente autorizzato ad entrare in Israele, né nella Gerusalemme est occupata.

Mentre spesso la gente visita la Cisgiordania con normali visti turistici israeliani, agli stranieri in possesso di questi visti non è permesso insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le autorità israeliane spesso rifiutano normali visti di ingresso per questi motivi o altri in cui si riconosca o si sospetti una collaborazione con attività filopalestinesi. Il permesso è l’unico modo per molti di soggiornare in Cisgiordania.

Le direttive sulla Cisgiordania consentono che siano rilasciati permessi solo a limitate categorie di visitatori. Alcuni di coloro che possono ottenere i permessi, come i parenti stretti di palestinesi, possono ottenere un’autorizzazione fino a 3 mesi dall’arrivo al ponte di Allenby/Re Hussein tra la Giordania e la Cisgiordania, in attesa di approvazione delle autorità israeliane in loco. Altri, compresi accademici, studenti, volontari e studiosi, devono richiedere dall’estero un permesso per la Cisgiordania, valido fino a un anno, ed ottenerlo prima del viaggio. Le precedenti disposizioni raccomandavano, ma non richiedevano, un accordo preventivo, anche se spesso le autorità israeliane nella pratica richiedevano un’approvazione preventiva. Altri visitatori, quali turisti o chi cerca di far visita alla famiglia allargata o ad amici o di partecipare ad una conferenza, non possono ottenere un permesso per la Cisgiordania.

Col pretesto del “rischio” che gli stranieri “si radichino”, le direttive precludono anche a tutti gli stranieri, tranne le mogli di palestinesi, tutte le vie per rimanere a lungo in Cisgiordania.

Le direttive concedono alle autorità militari israeliane ampia discrezionalità, consentendo che “considerazioni di politica generale” influenzino il processo decisionale e sottolineando che “l’applicazione di questa procedura dovrà essere condizionata alla situazione di sicurezza e alla politica israeliana in vigore, che viene rivista e modificata di volta in volta.”

Nel maggio 2022 l’esercito israeliano ha detto al Jerusalem Post che le disposizioni renderanno l’ingresso in Cisgiordania “più agevole”, probabilmente dettagliando la procedura, e perciò “porteranno beneficio a tutti gli abitanti dell’area.”

Tuttavia tutti coloro che Human Rights Watch ha intervistato hanno parlato di enormi ostacoli burocratici per restare legalmente in Cisgiordania e dell’impatto delle restrizioni sulle proprie vite. Una donna d’affari americana sposata con un palestinese, che era vissuta in Cisgiordania per un decennio e ha chiesto di restare anonima per paura di rappresaglie, ha detto di aver dovuto abbandonare il suo bambino e restare all’estero per diverse settimane nel 2019 dopo che le era stato negato il visto. Ha raccontato che lo stress e la sofferenza la avevano portata a “scoppiare in lacrime davanti alla scuola di mio figlio quando lo ho lasciato senza sapere se lo avrei ancora visto.” Il suo visto è stato ripristinato solo dopo l’intervento di diplomatici.

Se gli Stati hanno ampia discrezionalità riguardo all’ingresso nel proprio territorio sovrano, il diritto umanitario internazionale richiede però alle potenze occupanti di agire nel superiore interesse della popolazione occupata o di mantenere la sicurezza o l’ordine pubblico. Non vi sono evidenti giustificazioni basate sulla sicurezza, l’ordine pubblico o il superiore interesse dei palestinesi per il modo in cui le autorità israeliane pongono significative restrizioni ai volontari, agli accademici o agli studenti per entrare in Cisgiordania o ai familiari di palestinesi per rimanervi a lungo, afferma Human Rights Watch.

Limitando eccessivamente la possibilità delle famiglie di vivere insieme e bloccando l’ingresso di accademici, studenti e operatori di Ong che contribuirebbero alla vita sociale, culturale ed intellettuale in Cisgiordania, le restrizioni di Israele entrano in conflitto con il suo compito, che aumenta durante una prolungata occupazione, di agevolare la vita civile della popolazione occupata.

Questo comporta necessariamente vivere con la propria famiglia. Sia il diritto umanitario internazionale che le leggi sui diritti umani sottolineano l’importanza del diritto alla vita e all’unità della famiglia, incluso il diritto di vivere insieme. Significa anche facilitare il lavoro e l’attività delle università palestinesi, delle organizzazioni e degli affari della società civile e mantenere un rapporto costante con il resto del mondo.

I doveri di Israele in quanto potenza occupante gli impongono di facilitare l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania in modo ordinato. Previa una valutazione individuale di sicurezza e in assenza di obblighi di legge, le autorità israeliane dovrebbero come minimo concedere permessi di durata ragionevole agli stranieri che contribuirebbero alla vita della Cisgiordania, compresi i familiari di palestinesi e coloro che lavorano con la società civile palestinese, nonché la residenza ai parenti stretti.

Le restrizioni di Israele incrementano la sofferenza già imposta ai palestinesi in Cisgiordania attraverso il diniego su vasta scala dei diritti di residenza, le ampie restrizioni di movimento e gli attacchi alla società civile palestinese. Questa politica spiana maggiormente la strada alla frammentazione dei palestinesi in differenti aree e aggrava il controllo israeliano sulla loro vita. La severa repressione delle autorità israeliane sui palestinesi, attuata in conformità ad una politica di mantenimento del dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi, configura i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione, come hanno rilevato Human Rights Watch e importanti organizzazioni per i diritti umani israeliane, palestinesi e internazionali.

Un esercito occupante non ha alcun diritto di decidere quali docenti siano qualificati per insegnare nelle università palestinesi, di impedire ai difensori dei diritti umani di interagire con la popolazione occupata o di separare crudelmente le famiglie”, dice Goldstein. “Gli Stati americani ed europei dovrebbero far pressione sulle autorità israeliane perché rendano più facile, non più difficile per le persone, compresi i propri stessi cittadini, costruire rapporti significativi con le comunità della Cisgiordania.”

Richiedere permessi e proroghe per la Cisgiordania

Le disposizioni per l’ingresso in Cisgiordania sono state originariamente pubblicate nel febbraio 2022 e modificate a settembre e poi ancora a dicembre 2022. Esse identificano alcune categorie di persone, compresi accademici, studenti, volontari e “studiosi e consulenti in singole discipline e personale direttivo” che sono tenute a richiedere anticipatamente a Israele, direttamente all’esercito, presso un’ambasciata israeliana all’estero o attraverso l’Autorità Nazionale Palestinese, i permessi (per entrare in Cisgiordania) a scopi specifici.”

La procedura per ottenere un permesso implica fornire informazioni personali importanti alle autorità israeliane. Diverse persone che hanno passato del tempo in Cisgiordania hanno detto che questa procedura scoraggia del tutto le persone a presentare richiesta, dato il numero record di dinieghi di ingresso da parte delle autorità israeliane a coloro che sono impegnati nel sostegno ai palestinesi. Come risultato, e alla luce della difficoltà di ottenere permessi per la Cisgiordania, alcuni programmi della Cisgiordania hanno a lungo consigliato i partecipanti internazionali di richiedere un visto turistico israeliano invece di un permesso per la Cisgiordania e di evitare di dichiarare il motivo della loro visita in modo da aumentare le possibilità di entrare.

Tra gli stranieri che possono ottenere il permesso di visitatori all’arrivo in Cisgiordania vi sono la moglie, il figlio o il parente di primo grado di un palestinese in Cisgiordania, uomini d’affari o investitori, giornalisti accreditati dalle autorità israeliane o coloro che presentano “situazioni eccezionali” e con “speciali situazioni umanitarie” che non hanno avuto precedenti problemi collegati al visto.

Le direttive limitano a tre mesi i permessi di visita di breve durata ottenuti al ponte di Allenby. I permessi possono essere rinnovati “per motivi eccezionali per un massimo di altri 3 mesi.” Ogni ulteriore proroga “necessita l’approvazione del funzionario autorizzato del COGAT sulla base di speciali considerazioni che vanno documentate.” 

I permessi per scopi specifici” ottenuti precedentemente all’arrivo durano un anno e le proroghe hanno copertura di 27 mesi, e chiunque voglia fermarsi più a lungo deve lasciare la Cisgiordania e fare nuovamente richiesta dall’estero. Le direttive pongono agli accademici e studiosi stranieri un limite massimo di cinque anni complessivi in Cisgiordania, una restrizione che non era scritta nelle direttive precedenti. Chi intende fermarsi più a lungo può fare richiesta di nuovo ingresso dopo nove mesi di lontananza, ma le direttive autorizzano proroghe addizionali fino ad altri cinque anni solo “in casi eccezionali e per motivi speciali.”

I palestinesi in Cisgiordania possono fare richiesta a Israele attraverso un procedimento separato di ricongiungimento familiare tramite l’Autorità Nazionale Palestinese per ottenere carte di identità palestinesi rilasciate per le loro mogli e altri parenti in “circostanze eccezionali”, che consentirebbero loro di rimanere a lungo termine. Le autorità israeliane hanno esaminato 35.000 richieste alla fine degli anni 2000 e parecchie migliaia nel 2021 e 2022 come gesto nei confronti della ANP, ma a parte questo hanno di fatto congelato il processo.

Le direttive delineano una procedura per rilasciare permessi di un anno rinnovabili per le mogli straniere di palestinesi che hanno in corso una richiesta di ricongiungimento familiare che l’ANP ha inviato a Israele. Tuttavia stabiliscono che non saranno approvate richieste che non siano conformi alla complessiva “politica dei vertici politici”.

Le direttive danno alle autorità il potere di rivalutare le qualifiche accademiche dei docenti o ricercatori presso le università palestinesi, compresa la verifica che chi non è in possesso di diploma PhD abbia “competenze speciali”, e quali professioni siano sufficientemente “richieste o necessarie” a garantire di poter concedere a stranieri di lavorare al loro interno.

Un amministratore dell’università di Betlemme ha detto che il 70% del corpo docente in uno dei programmi della scuola viene dall’estero e l’amministrazione teme che le regole renderanno ancor più difficile assumere e trattenere i docenti. Un portavoce dell’università di Birzeit ha detto che tra il 2017 e il 2022 hanno perso otto membri del corpo docenti a causa delle restrizioni all’ingresso in Cisgiordania, il che hanno detto aver loro causato la perdita di eccezionali competenze ed aver inficiato la qualità dell’educazione fornita dalla scuola.

Un professore, Roger Heacock, nel 2018 ha lasciato la Cisgiordania con la sua famiglia dopo 35 anni, 33 dei quali spesi nell’insegnamento della storia a Birzeit, quando le autorità israeliane non hanno risposto in tempo alla sua richiesta di rinnovo del permesso, abbandonando gli studenti laureati cui sovrintendeva. Ha detto che quell’esperienza “ci ha spezzato il cuore. Non l’ho superata.”

Le direttive non si applicano agli stranieri che vogliono visitare Gerusalemme est occupata da Israele o le colonie israeliane in Cisgiordania, che sono illegali ai sensi del diritto umanitario internazionale. Per entrare in quelle aree devono ottenere un visto d’ingresso israeliano.

Le direttive non si applicano neanche a coloro che hanno nazionalità, sono nati o “hanno documenti” di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan, come neanche ai cittadini di Stati che non hanno relazioni diplomatiche con Israele. Queste persone devono fare richiesta ad Israele tramite l’Autorità Nazionale Palestinese sulla scorta di una separata “Procedura di rilascio di permessi per visite di stranieri all’Autorità Palestinese”, che stabilisce che i permessi devono essere rilasciati solo in “casi eccezionali e umanitari”. Un’avvocata israeliana, Leora Bechor, ha descritto questi permessi come “quasi impossibili” da ottenere. Non esiste valida ragione per rendere più difficile entrare in Cisgiordania soprattutto ai cittadini della Giordania, che sono per la maggior parte palestinesi, rispetto ai cittadini di altri Stati, dichiara Human Rights Watch.

Casi individuali

Ayman”

Nato in Europa a metà degli anni ’90 da padre palestinese della Cisgiordania e madre europea, “Ayman” ha vissuto in Cisgiordania la maggior parte della sua vita. Ha chiesto che il suo vero nome non fosse rivelato per paura di ritorsioni. Racconta che suo padre lasciò la Cisgiordania negli anni ’70 per evitare l’arresto per le sue attività politiche, e fu costretto ad abbandonare i suoi documenti di identità. Fece rientro nel 1997, quando Ayman era bambino, insieme ad altri autorizzati a tornare all’indomani degli accordi di Oslo, ma le autorità israeliane non gli restituirono immediatamente la sua carta d’identità. Ogni membro della famiglia di Ayman ha richiesto carte d’identità palestinesi, ma solo suo padre ne ha ricevuta una all’inizio del 2022, a seguito di una domanda di ricongiungimento familiare presentata dal nonno di Ayman nel 2009.

Senza una carta d’identità palestinese, per il suo status giuridico Ayman fa affidamento sui visti rilasciati sul suo passaporto europeo in Cisgiordania, anche se la sua famiglia vive lì da generazioni e lui ha vissuto lì la maggior parte della sua vita. Ha detto che la Palestina per me è casa, poiché “la mia infanzia, la scuola, i compagni di classe, gli amici, la famiglia allargata, i parenti e i miei ricordi sono tutti quieppure risulto trovarmi in Palestina come turista, come cittadino europeo”.

Da bambino, dice Ayman, ha ricevuto i visti grazie al lavoro di sua madre in un programma affiliato a un’ambasciata straniera. Nel 2015, tuttavia, afferma che le autorità israeliane rifiutarono di rinnovargli il visto, sulla base del fatto che lui, a 20 anni, non poteva più rivendicare la dipendenza da sua madre. Poco dopo partì per studiare all’estero per un semestre. Tornò nel dicembre 2015 e dice di essere riuscito a ottenere diversi visti di breve durata che gli hanno permesso di rimanere in Cisgiordania nel 2016 e gran parte del 2017 in modo da completare gli studi universitari.

Nel settembre 2017 ha conseguito la laurea in Europa e si è recato in Cisgiordania tre volte come turista. Afferma di non aver potuto visitare la sua famiglia per due anni, tra marzo 2020 e febbraio 2022, a causa soprattutto di una normativa israeliana rivolta a limitare l’ingresso di stranieri in Cisgiordania a fronte della pandemia di Covid-19.

Ayman è preoccupato per il fatto che le nuove linee guida sugli ingressi gli rendono praticamente impossibile vivere in Cisgiordania creandogli persino delle difficoltà a visitarla, anche attraverso il limite di soggiorni di tre mesi salvo circostanze eccezionali e l’imposizione obbligatoria di periodi durante i quali deve partire e stare lontano dalla Cisgiordania. Per quanto le linee guida consentano l’ingresso a coloro che, come Ayman, stiano andando a trovare parenti di primo grado, si preoccupa di cosa potrebbe accadere quando suo padre, l’unico membro della sua famiglia con un documento d’identità palestinese, morirà. Potrei perdere il diritto di ingresso, dal momento che non avrò più un parente di primo grado, e con queste norme non potrò nemmeno entrare come turista, dice Ayman.

Margaret

“Margaret”, una cittadina britannica di 46 anni che ha chiesto di non rivelare la sua reale identità per paura di ritorsioni, vive a Ramallah con il marito palestinese, che ha un documento di identità della Cisgiordania, e i loro due figli, di 9 e 6 anni. Dice di vivere in Cisgiordania dal 1998 e di aver sposato suo marito nel 2005. Poco dopo, racconta Margaret, le autorità israeliane le hanno negato l’ingresso, nel quadro di una politica sistematica dell’epoca che, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ha colpito migliaia di coniugi stranieri.

Margaret è riuscita a tornare nove mesi dopo e da allora è rimasta pressoché stabilmente in Cisgiordania. Riferisce di aver richiesto nel 2006 un documento d’identità palestinese nell’ambito del percorso di ricongiungimento familiare, ma di non averlo ricevuto. Invece ha usufruito di visti per soggiorni di breve durata, originariamente di un anno ma più recentemente di sei mesi, dovendo periodicamente lasciare la Cisgiordania per mantenere il suo status. Con tali visti il lavoro non è consentito, ma Margaret ha comunque lavorato senza mai rivelarlo alle autorità israeliane.

Quando nell’agosto 2021 le autorità israeliane hanno informato Margaret che doveva lasciare la Cisgiordania entro gennaio 2022, per rientrarvi per mantenere il suo status, temeva che le procedure aggiuntive imposte dalle autorità israeliane durante la pandemia di Covid-19 potessero bloccare la sua possibilità di tornare in famiglia. In particolare, le autorità israeliane richiedevano agli stranieri che entravano in Cisgiordania di coordinare con loro i loro piani, una prassi che, Margaret aveva sentito, per altre persone aveva richiesto tre o quattro mesi. Margaret dice che sentiva di non poter sopportare di stare lontana dai suoi figli così a lungo durante l’anno scolastico.

L’Autorità nazionale palestinese aveva annunciato alla fine del 2021 che le autorità israeliane avevano dato il via libera al rilascio di migliaia di documenti d’identità per le persone bloccate in situazioni come la sua. Nella speranza di essere tra coloro che avrebbero ricevuto un documento d’identità o in caso contrario di poter risolvere la questione con l’aiuto di un avvocato, ha preso la difficile decisione di sospendere il visto.

Margaret non ha mai ricevuto un documento d’identità e quindi è priva di status giuridico. Di conseguenza, afferma che dal gennaio 2022non lascio Ramallah. Non posso correre rischi”.

Susan Power

Susan Power, una cittadina irlandese di 43 anni, conduce ricerca e patrocinio legale per al-Haq, una delle principali organizzazioni palestinesi per i diritti umani. Power è entrata a far parte di al-Haq, il cui quartier generale è a Ramallah in Cisgiordania, nel 2013. Con un dottorato di ricerca incentrato sulla legge dell’occupazione, Power ha una competenza unica che ben si adatta al lavoro di al-Haq, che da più di 40 anni è incentrato sulla documentazione delle violazioni dei diritti umani derivanti dalla prolungata occupazione israeliana.

Power afferma che per entrare in Cisgiordania ha fatto ricorso ai visti per visitatori, che è stata in grado di prorogare. Ha detto che per ottenere il visto doveva mostrare un contratto di lavoro, anche se il visto non le dà il permesso di lavorare. Descrive il pesante iter che deve regolarmente affrontare per entrare, compreso il dover pagare a volte obbligazioni fino a 30.000 NIS (7.796 euro) per garantire che se ne andrà alla scadenza del visto. Dice che ogni volta si preoccupa che non le venga consentito l’ingresso e, quando si trova in Cisgiordania con un visto valido, generalmente rifiuta di viaggiare per visitare famiglie, partecipare a riunioni o per qualsiasi altro scopo al di fuori delle emergenze.

Le nuove linee guida renderanno le cose ancora più difficili, dice Power, richiedendole di coordinare i suoi piani e ottenere un visto in anticipo dall’ambasciata israeliana nel suo paese d’origine. Teme che nell’ambito di questo iter non le venga concesso un visto, data l’assenza nelle linee guida di disposizioni esplicite riguardanti il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani e il limite di cinque anni per gli stranieri che vivono in Cisgiordania. Le autorità israeliane hanno anche messo al bando al-Haq, dichiarandola nel 2021 una “associazione illegale” ai sensi della legge militare applicabile in Cisgiordania e una “organizzazione terroristica” ai sensi della legge israeliana.

Queste restrizioni rendono più difficile per le organizzazioni della società civile palestinese attrarre e assumere esperti stranieri come Power. Anche se gli esperti sono in grado di entrare in Cisgiordania, “un’organizzazione non può funzionare o operare senza sapere se i suoi lavoratori potranno tornare” ogni qualvolta se ne vanno, afferma Power.

Power ha lasciato la Cisgiordania a dicembre, prima della scadenza del suo visto alla fine dell’anno. Dice di aver paura che non le sia permesso di tornare.

Laura

Laura, una cittadina statunitense di 57 anni che ha chiesto di non rivelare il suo vero nome per paura di ritorsioni, ha visitato per la prima volta la Cisgiordania nel 2012. È una psicologa clinica e ha detto che per due anni è tornata periodicamente per partecipare a conferenze e lavorare come consulente a breve termine, ottenendo il visto per visitatori all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion. Nell’estate del 2014 ha deciso di trasferirsi con il figlio di 10 anni in Cisgiordania per lavorare a tempo pieno con bambini a rischio e insegnare in un’università. Ha ottenuto un visto sulla base del suo contratto con l’università, anche se il visto le proibisce formalmente di lavorare, e ha vissuto in Cisgiordania, rinnovando il visto ogni anno, per i successivi quattro anni.

Riferisce che mantenere il suo status giuridico é stato stressante, anche per la necessità di aspettare per mesi i documenti suoi o di suo figlio. “L’incertezza, niente di chiaro, la burocrazia e la sensazione di mancanza di sicurezza durante il tempo di attesa, dopo aver fatto tutte le scartoffie, passato tutto al dettaglio”, dice.

Nell’autunno del 2017 Laura ha chiesto il prolungamento del visto, ma le autorità israeliane non hanno risposto per mesi e nell’aprile 2018 le hanno restituito il passaporto senza una decisione o un nuovo visto. Senza status giuridico, ha deciso nel maggio 2018, alla fine dell’anno scolastico di suo figlio, di lasciare la Cisgiordania. Afferma che all’Allenby Crossing le forze israeliane le hanno detto che non poteva tornare e l’hanno rimproverata pubblicamente per essersi trattenuta oltre la scadenza del visto. “Mi hanno detto che avevo rovinato le possibilità di mio figlio di tornare qui e gli avevo rovinato la vita”, dice.

È tornata negli Stati Uniti e ha assunto un avvocato israeliano per aiutarla a ottenere il permesso di vivere di nuovo in Cisgiordania. Dice che ho scelto di lottare per il mio visto perché la Cisgiordania è la nostra casa e la nostra vita. È dove abbiamo vissuto per anni, dove mio figlio è cresciuto e ha stretto amicizie. Ha pianto per tutto il tempo dopo che ci è stato detto che non saremmo potuti tornare indietro. Era lì da quando aveva 10 anni. Ho lasciato la mia carriera e tutti i nostri averi nella nostra casa, la sua PlayStation, la sua bicicletta e i nostri abiti“.

Grazie agli sforzi dell’avvocato, Laura e suo figlio sono riusciti a tornare alla fine del 2018, dopo aver versato una cauzione che sarebbe stata restituita solo quando avrebbe lasciato la Cisgiordania, e ad insegnare per alcuni mesi. Ma, data la loro persistente impossibilità di rinnovare i loro visti e i costi crescenti, anche per gli avvocati, Laura sentiva di non avere altra scelta che vendere tutto e tornare negli Stati Uniti nel dicembre 2019. Da allora è tornata [in Cisgiordania] solo una volta, con un visto di 30 giorni che le autorità israeliane le hanno concesso a condizione che pagasse una cauzione di 30.000 shekel (7796 euro) da restituire solo quando avesse lasciato la Cisgiordania.

Dato che le nuove linee guida impediscono agli stranieri la permanenza in Cisgiordania per più di cinque anni al di fuori di circostanze eccezionali, afferma che tali norme le impediscono effettivamente di rimanere più a lungo in Cisgiordania. Continua a insegnare per l’università a distanza, poiché afferma che nessun altro ha il background necessario per tenere i suoi corsi.

Omar Shakir

Nel luglio 2021 Omar Shakir, il direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, ha chiesto all’esercito israeliano un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per incontrare il personale di Human Rights Watch dell’area, informare i diplomatici dell’Unione Europea in risposta al loro invito e svolgere ricerche, anche sugli abusi da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Shakir ha cercato di svolgere di persona un lavoro che non era stato in grado di svolgere da quando le autorità israeliane lo hanno espulso da Israele nel novembre 2019, affermando che la sua attività di difesa violava una legge del 2017 che vieta l’ingresso in Israele a persone che sostengono il boicottaggio di Israele o dei suoi insediamenti nella Cisgiordania occupata. Né Human Rights Watch né Shakir come suo rappresentante hanno mai chiesto il boicottaggio di Israele.

Dopo mesi passati senza ricevere una risposta affermativa o negativa, nell’aprile 2022 Shakir e Human Rights Watch hanno intentato una causa presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme contro l’esercito israeliano. Nel luglio 2022, l’esercito ha respinto la richiesta, citando “un’ampia discrezionalità” dell’Unità per il coordinamento delle attività governative dei Territori per quanto riguarda l’ingresso in Cisgiordania di cittadini stranieri e una clausola nelle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania secondo cui “tutte le relative disposizioni sono soggette alla politica del governo”.

Nella lettera dell’esercito a Shakir si rileva che la politica del governo in questa materia (che è stata inserita nella legislazione primaria in Israele) è quella di vietare la concessione di qualsiasi tipo di visto o permesso di soggiorno a persone che consapevolmente lanciano un appello pubblico al boicottaggio dello Stato di Israele o una qualsiasi delle sue istituzioni o qualsiasi area sotto il suo controlloe si cita la preoccupazione che Shakir possa utilizzare la sua visita per promuovere il boicottaggio di Israele e delle entità che operano in Israele e nell’area della Giudea e della Samaria [ovvero Cisgiordania, ndt.]. La decisione, in effetti, estende alla Cisgiordania occupata il divieto di ingresso in Israele per presunto sostegno ai boicottaggi.

Ad agosto Shakir e Human Rights Watch hanno presentato una petizione modificata sostenendo che l’esercito israeliano è andato oltre la sua autorità ai sensi del diritto internazionale umanitario, che limita gli interventi degli occupanti ad azioni che mantengano la sicurezza o l’ordine e l’incolumità pubblici o siano finalizzate al migliore interesse della popolazione occupata. Citando la discrezionalità più ristretta che un esercito di occupazione ha sull’ingresso nel territorio occupato rispetto a un Paese sul suo territorio sovrano, la petizione afferma che il diritto umanitario internazionale non consente all’esercito israeliano di negare l’ingresso in Cisgiordania per presunto sostegno ai boicottaggi. Sostiene che negare l’ingresso ai difensori dei diritti umani mina l’interesse pubblico dei residenti della Cisgiordania, che dovrebbero avere il diritto di coinvolgere rappresentanti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani.

A novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha confermato il diniego del governo, stabilendo che il divieto di ingresso basato sul presunto sostegno al boicottaggio rientra nell’ampia autorità che l’esercito ha di mantenere “l’ordine pubblico e la sicurezza” per i residenti del territorio occupato. La sentenza cita il presunto danno che le attività di boicottaggio arrecano ai coloni israeliani, che considera parte della popolazione locale nonostante il divieto del diritto umanitario internazionale di trasferire la popolazione dell’occupante nel territorio occupato, e ai lavoratori palestinesi che lavorano negli insediamenti coloniali. Indica inoltre le disposizioni delle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania che consentono all’esercito di prendere decisioni basate su considerazioni politiche e di altro tipo e che negano qualsiasi “diritto acquisito” ai cittadini stranieri di entrare in Cisgiordania, che l’esercito ha dichiarato zona militare chiusa nella sua interezza.

Sebbene il rifiuto di Israele di consentire la visita di Shakir non abbia causato tante difficoltà quanto il rifiuto di concedere permessi estesi a un membro di una famiglia palestinese o a un professore straniero a lungo termine, illustra come Israele abusi della sua autorità per controllare l’ingresso di stranieri nel territorio in cui non ha sovranità.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta e Cristiana Cavagna)

 




Ilan Pappe sulle formazioni socio-politiche dietro il governo neo-sionista di Israele

Ilan Pappe

6 gennaio 2023 – Palestine Chronicle

Due mesi dopo l’elezione del nuovo governo israeliano il quadro offuscato sta diventando più chiaro e sembra che si possano offrire alcuni spunti più informati riguardo alla sua composizione, alle personalità che ne fanno parte e alle possibili politiche e reazioni ad esse nel futuro.

Non sarebbe esagerato definire Benjamin Netanyahu il meno estremista di questo governo, il che la dice lunga sulle personalità e politiche di tutti gli altri.

Ci sono tre schieramenti principali nel governo, e qui non faccio riferimento ai vari partiti politici, ma piuttosto alle formazioni socio-politiche.

Sionizzazione degli ebrei ultraortodossi

Nel primo schieramento ci sono gli ebrei ultra-ortodossi, sia dell’ortodossia europea che di quella degli ebrei arabi. Ciò che li caratterizza è il processo di sionizzazione che hanno subito dal 1948.

Da un ruolo marginale in politica solo a favore delle loro comunità, ora fanno parte dei dirigenti di questo nuovo Stato. Da moderati e sostenitori dei sacri precetti ebraici che non riconoscevano la sovranità ebraica sulla Terra Santa, ora emulano la destra israeliana laica: appoggiano la colonizzazione della Cisgiordania, l’assedio contro la Striscia di Gaza, fanno discorsi razzisti nei confronti dei palestinesi ovunque essi siano, invocano politiche dure e aggressive e nel contempo cercano di occupare lo spazio pubblico e di giudaizzarlo in base alla loro versione rigida del giudaismo.

L’unica eccezione sono i Neturei Karata, fedeli al loro tradizionale antisionismo e alla solidarietà con i palestinesi.

Gli ebrei nazional-religiosi

Del secondo schieramento fanno parte gli ebrei nazional-religiosi, che vivono in maggioranza in Cisgiordania nelle colonie costruite su terre palestinesi espropriate e recentemente hanno creato dei “centri di formazione” di coloni nelle città miste arabo-ebraiche in Israele.

Essi appoggiano sia le politiche criminali dell’esercito israeliano che le azioni di gruppi di coloni vigilantes che vessano i palestinesi, sradicano le loro coltivazioni, sparano contro di loro e mettono in discussione il loro modo di vivere.

L’intento è di dare sia all’esercito che a questi vigilantes mano libera per opprimere la Cisgiordania occupata, nella speranza di spingere più palestinese ad andarsene. Questo gruppo è anche la spina dorsale dei centri di comando del servizio segreto israeliano e domina i ranghi degli alti ufficiali dell’esercito.

I due succitati schieramenti condividono la volontà di imporre un apartheid più stretto all’interno di Israele contro gli arabi del ’48 [i palestinesi rimasti durante e dopo la guerra del 1947-49 in quello che era diventato Israele, ndt.] e nel contempo iniziare una crociata contro la comunità LGBT chiedendo anche una più rigida marginalizzazione delle donne nello spazio pubblico.

Essi condividono anche una visione messianica e credono di essere ora nelle condizioni di metterla in pratica. Al centro di questo progetto c’è la giudaizzazione dei luoghi sacri che ora sono “ancora” islamici o cristiani. Quello più ambito è l’Haram al-Sharif [la Spianata delle Moschee, per gli ebrei il Monte del Tempio, ndt.].

Il prodromo è stato la provocatoria visita del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir sull’Haram. Il prossimo passo sarà a Pasqua, con un tentativo di invadere in massa l’Haram con preghiere e ministri ebrei. Azioni simili verranno attuate a Nablus, Hebron e Betlemme. È difficile prevedere fin dove arriveranno.

L’emarginazione degli ebrei laici del Likud

Il secondo gruppo è rappresentato anche nel partito di maggioranza del governo, il Likud. Ma la maggioranza dei suoi membri fa parte di una terza componente socio-politica: gli ebrei laici che aderiscono nel contempo alle tradizionali pratiche ebraiche.

Essi cercano di distinguersi sostenendo che il liberalismo economico e politico è ancora un importante pilastro del programma politico del Likud. Netanyahu soleva essere uno di loro, ma ora sembra averli abbandonati quando si è trattato di spartirsi il bottino, cioè nel governo li ha emarginati. Ha bisogno degli altri più che del suo stesso partito per evitare di essere processato e per rimanere al potere.

Il progetto sionista

I membri di spicco di tutti questi gruppi sono arrivati con iniziative legislative e politiche già pronte, tutte intese senza eccezioni, a consentire a un governo di estrema destra di annullare qualunque cosa sia rimasta della parodia chiamata democrazia israeliana.

La prima iniziativa è già iniziata, sterilizzando il sistema giudiziario in modo tale che non possa, se mai lo ha voluto, difendere i diritti delle minoranze in generale e quelli dei palestinesi in particolare.

Per la verità, tutti i precedenti governi israeliani sono stati caratterizzati dal complessivo disprezzo riguardo ai diritti civili e umani dei palestinesi. Questa è solo una fase in cui ciò viene reso più costituzionale, più generalmente accettato e più evidente, senza alcun tentativo di nascondere lo scopo che gli sta dietro: impossessarsi della maggior parte possibile della Palestina storica con il minor numero possibile di palestinesi.

Tuttavia, se si concretizzerà in futuro, ciò avvicinerà ulteriormente Israele al suo futuro neo-sionista, cioè il vero raggiungimento e la maturazione del progetto sionista: uno spietato progetto di colonialismo d’insediamento costruito su apartheid, pulizia etnica, occupazione, colonizzazione e politiche genocidarie.

Un progetto che finora è sfuggito a qualunque significativa opposizione da parte del mondo occidentale e che viene tollerato dal resto del mondo, anche se è censurato e respinto da molti nella società civile internazionale. Finora non è riuscito a trionfare solo per la resistenza e resilienza palestinese.

Fine dell’“Israele immaginario”

Questa nuova situazione evidenzia una serie di domande che ci si deve porre, anche se per il momento non possiamo dare una risposta.

I governi arabi e musulmani, che solo di recente si sono uniti alla legittimazione di questa farsa, si renderanno conto che non è troppo tardi per cambiare strada?

I nuovi governi di sinistra, come quello eletto in Brasile, saranno in grado di aprire la via, portare a un cambiamento di atteggiamento dall’alto, che rifletterebbe democraticamente quanto richiesto dal basso?

E le comunità ebraiche saranno sufficientemente scioccate da svegliarsi dal sogno dell’“Israele immaginario” e si renderanno conto del pericolo rappresentato dall’Israele di oggi, non solo per i palestinesi ma anche per gli ebrei e il giudaismo?

Sono domande a cui non è facile rispondere. Quello che possiamo sottolineare è, ancora una volta, l’appello all’unità palestinese in modo da estendere la lotta contro questo governo e l’ideologia che esso rappresenta. Tale unità diventerà una bussola per il poderoso fronte internazionale che già esiste, grazie al movimento BDS e che è intenzionato a continuare il suo lavoro di solidarietà e ad allargarlo ulteriormente e più ampiamente: mobilitare i governi, così come le società, e riportare la Palestina al centro dell’attenzione internazionale.

Le tre componenti del nuovo governo israeliano non hanno sempre convissuto facilmente, quindi c’è anche la possibilità di un precoce collasso politico, dato che in definitiva stiamo parlando di un gruppo di politici incompetenti quando si tratta di far funzionare un’economia così complicata come quella israeliana. Probabilmente non saranno in grado di bloccare l’alta inflazione, l’aumento dei prezzi e la crescente disoccupazione.

Tuttavia, anche se ciò avvenisse, non c’è una quarta componente socio-politica alternativa che possa guidare Israele. Quindi un nuovo governo sarebbe formato da un’altra combinazione delle stesse forze, con le stesse intenzioni e politiche.

Dovremmo trattarla come una sfida strutturale, non episodica, e prepararci a una lunga lotta, basata su una solidarietà internazionale ancora più ampia e una più stretta unità dei palestinesi.

Questo governo canaglia, e quello che rappresenta, non dureranno in eterno. Dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre l’attesa per la sua sostituzione con un’alternativa molto migliore non solo per i palestinesi, ma anche per gli ebrei e per chiunque altro viva nella Palestina storica.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Cinque vittorie del BDS del 2022 che potreste esservi perse

Michael Arria  

22 dicembre 2022 – Mondoweiss

Il 2022 è stato un altro anno memorabile per la crescita del movimento BDS guidato dai palestinesi. Ecco alcune vittorie dell’anno appena trascorso che potreste esservi perse.

A ottobre l’inviato dell’ONU per il Medio Oriente ha annunciato che il 2022 è destinato a diventare l’anno più luttuoso per i palestinesi della Cisgiordania occupata da quando, nel 2005, l’organizzazione ha iniziato a registrare le vittime.

Non c’è da sorprendersi che questo tipo di violenza abbia suscitato un ulteriore appoggio per il BDS, il movimento non violento guidato dai palestinesi che intende fare pressione su Israele perché rispetti i suoi obblighi internazionali. Ecco alcuni eventi BDS del 2022 negli Stati Uniti che potreste esservi persi.

Oakland Roots lascia la Puma

Durante la Coppa del Mondo [di calcio] la Palestina è diventata una questione importante, in quanto tifosi e giocatori hanno manifestato la propria solidarietà con il Paese. Poco prima che il campionato iniziasse, in California gli attivisti hanno ottenuto una grande vittoria legata al calcio.

Gli Oakland Roots (che giocano nella USL Championship league [uno dei principali tornei calcistici degli USA, ndt.]) sono diventati la prima squadra sportiva degli USA a lasciare la Puma come sponsor. La squadra ha subito pressioni da parte dell’Arab Resource & Organizing Center [organizzazione che promuove i diritti degli arabi in California, ndt.] (AROC) insieme alle associazioni di sostegno La Brigada del Pueblo e Oakland Roots Radicals [gruppo di tifosi della squadra, ndt.].

La Puma è stata presa di mira dai sostenitori del BDS fin dal 2018, quando l’industria produttrice di abbigliamento sportivo ha firmato un accordo per sponsorizzare l’Israel Football Association [Federazione Calcistica Israeliana, ndt.] (IFA). Varie squadre con sede nelle colonie illegali della Cisgiordania fanno parte dell’IFA.

Puma è il principale sponsor dell’Israele Football Association, che include squadre delle colonie israeliane illegali,” hanno detto gli Oakland Roots Radicals a SFGATE [sito web di notizie con sede a San Francisco, California, ndt.]. “L’ingiustizia che il popolo palestinese subisce in quanto viene espulso dalle colonie illegali è in conflitto diretto con i valori della comunità di Oakland e con quelli sposati dai Roots, che ci rendono così orgogliosi di sostenerli. Chiediamo ai Roots di prendere posizione e opporsi all’ingiustizia interrompendo i rapporti con Puma finché non porrà fine al suo sostegno al regime israeliano di apartheid e occupazione militare.”

Come avviene in genere, il club ha affermato che si è trattato di una decisione puramente casuale che non ha niente a che fare con la politica, e siti filo-israeliani hanno accolto questa versione. Tuttavia i sostenitori del BDS l’hanno ovviamente vista come una vittoria.

Questa è una vittoria per il popolo palestinese, la gente di Oakland e della Bay Area [zona della baia di San Francisco, ndt.] e per tutte le persone che lottano per un mondo senza oppressione,” ha sostenuto in un comunicato Lara Kiswani di AROC. “AROC festeggia l’iniziativa senza precedenti presa dagli Oakland Roots. Questo è un esempio di ciò che si può ottenere quando istituzioni della comunità (attività economiche, squadre sportive, università) lavorano con, e prestano ascolto a, le voci della loro comunità chiedendo giustizia razziale e prendono iniziative concrete e tangibili per accoglierne le richieste.”

I Big Thief annullano i concerti a Tel Aviv

A giugno il complesso di rock indipendente Big Thief ha annullato due concerti che avrebbero dovuto tenersi in Israele. Dopo aver subito le reazioni negative riguardo alle date, all’inizio la band ha emesso un comunicato in cui difendeva la sua decisione di suonare a Tel Aviv.

Siamo ben consapevoli degli aspetti culturali del movimento BDS e della disperata situazione del popolo palestinese,” vi si legge. “Per quanto riguarda la nostra adesione al boicottaggio, non sosteniamo di sapere dove si collocano gli alti valori morali e vogliamo rimanere aperti alle prospettive di altre persone e all’amore al di là del dissenso. Comprendiamo la natura intrinsecamente politica di suonare là e le sue implicazioni. La nostra intenzione non è screditare i valori di quanti sostengono il boicottaggio o ignorare quanti soffrono. Cerchiamo di essere disponibili ad apprendere.”

Meno di una settimana dopo il gruppo ha cambiato totalmente la sua decisione. “Da quando abbiamo annunciato questi concerti in Israele abbiamo dialogato costantemente con amici, familiari, sostenitori del BDS, alleati, palestinesi e israeliani impegnati nella lotta per la giustizia per i palestinesi,” hanno spiegato nel loro nuovo comunicato. “È stata l’unica cosa che abbiamo avuto in mente e nei nostri cuori.”

Barby, il locale israeliano in cui il gruppo avrebbe dovuto suonare, ha denunciato i Big Thief come “un branco di miserabili musicisti smidollati” e ha definito il movimento BDS come un “boicottaggio da terrore nazista.” Tuttavia i musicisti non hanno fatto marcia indietro. “Salutiamo il coraggio dei Big Thief e la loro volontà di dare ascolto agli oppressi,” ha affermato la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI). “Riconosciamo anche la chiara posizione della maggioranza dei fan del gruppo in appoggio con saldi principi al BDS.”

L’Harvard Crimson sostiene il BDS

In aprile il comitato di redazione dell’Harvard Crimson (giornale studentesco dell’università di Harvard dal 1873) ha pubblicato un editoriale di adesione al movimento BDS e chiede libertà per la Palestina.

Come comitato di redazione siamo profondamente consapevoli del privilegio di cui godiamo per il fatto di disporre di una firma istituzionale e in pratica anonima,” vi si legge. “Persino in questo campus molti dei nostri coraggiosi coetanei che sostengono la liberazione della Palestina si possono trovare in liste nere che implicitamente e vergognosamente li mettono in relazione con il terrorismo.”

Questi due fattori — gli incredibili soprusi e la nostra possibilità privilegiata di parlare per loro e di affrontare un’ingiustificata ritorsione comparativamente minore — ci impone di prendere una posizione. In base all’opinione del nostro comitato, i palestinesi meritano dignità e libertà,” continua. “Appoggiamo il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni come mezzo per raggiungere questo obiettivo.”

In passato il nostro comitato è stato scettico riguardo al movimento (quando non, più in generale, dei suoi obiettivi) sostenendo che il BDS nel suo complesso ‘non comprende le sfumature e le particolarità del conflitto Israele-Palestina.’ Deploriamo e rigettiamo questa opinione. È un nostro imperativo categorico schierarci e aiutare i vulnerabili e gli oppressi. Non possiamo sminuire la violenta situazione dei palestinesi, né lasciare che il nostro desiderio di uno strumento perfetto e immaginario danneggi un movimento così promettente, vitale e ispirato.”

Come prevedibile l’editoriale ha scatenato una tempesta di critiche, e il corpo accademico ed ex-studenti hanno pubblicato comunicati in cui hanno manifestato la propria indignazione. Tuttavia molte persone legate all’università hanno accolto positivamente questa posizione.

L’ Harvard College Palestine Solidarity Committee [Comitato del College di Harvard in Solidarietà con la Palestina] (PSC) ha affermato che questo editoriale (e le reazioni che ha suscitato) dimostrano che l’attivismo del BDS sta avendo un impatto concreto.

L’opposizione istituzionale è estenuante e frustrante, ma come studenti attivisti siamo giunti alla conclusione che il nostro potere sta nel suscitare attenzione per la nostra causa tra i nostri coetanei,” afferma un articolo dell’associazione. “Piuttosto che pensare a come rispondere agli ex-studenti sionisti con nomi importanti e posizioni di potere, cerchiamo la nostra forza nel suscitare l’appoggio studentesco per la liberazione dei palestinesi. Cerchiamo di costruire solidarietà con altre cause di difesa sociale, spingendo gli studenti che si nascondono dietro alla ‘neutralità’ a impegnarsi su questioni delicate di oppressione e diseguaglianza e a portare il dibattito sulla giustizia nella nostra rete di amici, negli spazi culturali e nelle aule.

Il recente editoriale del Crimson dimostra che il nostro approccio sta funzionando. Studenti in genere non impegnati nel lavoro del PSC stanno cominciando ad ascoltare, e sono loro il pubblico che conta. Membri del corpo docente stanno intervenendo per esprimere il proprio appoggio. Rimaniamo saldi nel nostro appello per la liberazione dei palestinesi, ispirato per decenni da studenti che ci hanno preceduti, da membri del PSC e da attivisti che chiedevano il disinvestimento contro il regime dell’apartheid sudafricano. Questo è solo l’inizio e il nostro movimento non farà che crescere.”

Alcuni sondaggi mostrano che l’appoggio al BDS sta crescendo tra gli elettori democratici e i giovani

Negli ultimi anni un sondaggio dopo l’altro indica che l’appoggio nei confronti di Israele sta scemando tra gli elettori democratici e i giovani degli USA, mentre quello per i palestinesi continua ad aumentare.

Il 2022 non è stato diverso. In agosto una ricerca sugli elettori democratici condotta da Brookings e dall’università del Maryland ha mostrato che la stragrande maggioranza degli elettori democratici che hanno sentito parlare del movimento BDS lo appoggia, con una differenza di 33 a 10.

In maggio un sondaggio degli stessi istituti di ricerca ha mostrato che una larga maggioranza di elettori democratici pensa che Biden e il Congresso non li rappresentino nei rapporti con Israele. Tra i democratici informati riguardo alla posizione della Casa Bianca sulla questione, il 26% afferma che la Casa Bianca si è collocata più vicino a Israele di loro, mentre solo il 3% ha sostenuto che si è schierata più a favore della Palestina di quanto avrebbero voluto loro. I numeri sono ancora più clamorosi riguardo al Congresso. Tra i democratici che hanno un’opinione in merito il 33% dice che i propri rappresentanti sono schierati più a favore di Israele di quanto lo siano loro, mentre solo il 3% pensa il contrario.

Questi studi sono in linea con un sondaggio del Pew [noto centro studi statunitense, ndt.] a maggio, che ha scoperto che i democratici hanno opinioni più favorevoli sui palestinesi che sugli israeliani con un margine del 64% contro il 60%. La differenza è maggiore tra le persone con meno di 30 anni: 61% contro 56%.

Il sondaggio del Pew indica che la grande maggioranza degli elettori democratici non conosce il movimento BDS (l’85% ha affermato di non averne mai sentito parlare), ma un numero sorprendente ha affermato di appoggiare una soluzione con uno Stato unico nella regione. Il 36% dei democratici ha sostenuto di volere una soluzione a due Stati e il 19% di volere uno Stato democratico.

Pillsbury disinveste da Israele

In maggio General Mills [multinazionale statunitense del settore alimentare, ndt.] ha annunciato di aver disinvestito la sua quota del 60% in una consociata israeliana. Il comunicato dell’impresa non fa menzione del movimento BDS e sostiene che l’iniziativa ha riguardato solo “scelte strategiche su dove indirizzare prioritariamente le nostre risorse per ottenere maggiori profitti.” Tuttavia negli ultimi due anni General Mills è stata presa di mira dall’American Friends Service Committee [organizzazione legata alla chiesa quacchera, ndt.] (AFSC) in quanto alcuni dei prodotti della Pillsbury [industria dolciaria di proprietà della General Mills, ndt.] venivano confezionati in una colonia illegale israeliana.

Il disinvestimento da parte di General Mills dimostra che la pressione dell’opinione pubblica funziona anche con le multinazionali più importanti,” ha affermato in un comunicato Noam Perry dell’AFSC. “Con questa mossa, General Mills si aggiunge a molte altre imprese americane ed europee che hanno disinvestito dall’illegale occupazione israeliana, comprese, solo negli ultimi due anni, Microsoft e Unilever. Chiediamo a tutte le industrie di disinvestire dall’illegale e brutale occupazione israeliana in Palestina e dal sistema di apartheid di cui è parte. Ci congratuliamo con General Mills per la sua decisione e speriamo che sia il primo passo per interrompere tutti i suoi rapporti con l’apartheid israeliano nel rispetto dei diritti umani universali.”

Dal 2002 General Mills ha gestito una fabbrica di prodotti della Pillsbury nella zona industriale di Atarot, una colonia illegalmente annessa da Israele durante la guerra del 1967 [la guerra dei Sei Giorni, ndt.]. Nel 2020 le Nazioni Unite hanno identificato la General Mills come una delle 112 imprese che violano le leggi internazionali gestendo un’attività economica all’interno dei territori occupati.

La campagna No Dough For the Occupation [Niente soldi all’occupazione] dell’AFSC è stata appoggiata da organizzazioni come l’American Muslims for Palestine [Musulmani Americani per la Palestina] e Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, principale organizzazione ebraica americana contro l’occupazione e l’apartheid israeliani, ndt.], così come dalla  Ainsworth United Church of Christ [Chiesa Unita di Cristo Ainsworth] di Portland, in Oregon. È stata sostenuta anche da cinque membri della famiglia Pillsbury, che lo scorso anno hanno pubblicato un editoriale sulla Star Tribune [il più diffuso quotidiano del Minnesota] in cui hanno chiesto alla gente di boicottare la General Mills.

Siamo fieri che il nostro cognome venga associato a prodotti venduti in tutto il mondo,” vi si legge. “Ma in questo momento non possiamo avere la coscienza pulita comprando prodotti che portano il nostro cognome.

Finché la General Mills continuerà a trarre profitto dalla spoliazione e dalla sofferenza del popolo palestinese, non compreremo alcun prodotto di Pillsbury. Chiediamo alla General Mills di smettere di fare affari su terra occupata e chiediamo a tutte le persone di coscienza e a tutte le organizzazioni socialmente responsabili in tutto il mondo di unirsi al boicottaggio dei prodotti della Pillsbury finché la General Mills smetterà questo comportamento illegale e immorale.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




È in arrivo l’annessione della Cisgiordania a Israele, ma non come ve la sareste aspettata

Lili Galili

17 dicembre 2022 – Middle East Eye

Le organizzazioni dei coloni hanno giocato un ruolo chiave nei negoziati per formare il governo e hanno come obiettivo il completo controllo della Cisgiordania

Il primo dicembre, subito dopo la firma degli accordi di coalizione fra il partito Likud di Benjamin Netanyhau e le fazioni di estrema destra, Sionismo Religioso e Potere Ebraico, l’organizzazione dei coloni Yesha Council [che riunisce i rappresentanti delle colonie illegali della Cisgiordania, N.d.T.] ha postato un messaggio compiaciuto su Facebook. “Ringraziamenti speciali ai nostri rappresentanti che hanno collaborato con gli esperti di Yesha Council durante i negoziati,” proclama dopo aver ringraziato tutti le persone coinvolte.

Con l’aiuto di dio presto un nuovo governo sarà formato e si troverà davanti alle sfide di costruzione, sviluppo e conservazione della terra in Giudea e Samaria,” si aggiunge, usando i nomi israeliani per la Cisgiordania occupata.

Ha fatto eco il capo di Karnei Shomron, un altro influente gruppo di coloni, che ha affermato su Ynet TV [notiziario e sito web israeliano di contenuti generali, N.d.T.] che la prima cosa che Bezalel Smotrich, leader di Sionismo Religioso, dovrebbe fare quando sarà al potere è applicare la sovranità israeliana in Giudea e Samaria.

Per oltre 55 anni non sono state prese decisioni. È ora di annettere Giudea e Samaria come sono state annesse le Alture di Golan,” ha aggiunto.

Questi commenti la dicono lunga. Non solo rivelano la portata del coinvolgimento delle organizzazioni dei coloni nei negoziati per formare il governo, ma ci offrono la possibilità di intravedere la pressione futura a cui sottoporranno i politici che alcuni chiamano ancora “rappresentanti”.

Tuttavia “rappresentanti” non è la parola giusta per queste persone. Questo governo di “Hilltop Youth [“Gioventù della Cima della Collina”, giovani estremisti religiosi nazionalisti e molto violenti che stabiliscono avamposti illegali in Cisgiordania, N.d.T.] non rappresenta il suo elettorato, è il volto della sua parte più radicale.

Israeliani di sinistra, centro e destra scioccati stanno già cercando di capire quale impatto avrà sulla loro vita di ogni giorno questo governo di destra radicale/ultra-ortodossa. Ma essa non intende cambiare solo la natura di Israele, ma anche la dimensione del Paese. In altre parole: l’annessione di terre palestinesi.

Di questi tempi il termine “annessione” è raramente menzionato, sia dalla coalizione entrante che dalla sua malconcia opposizione, occupata in altre questioni più scottanti.

È una decisione consapevole per timore della reazione internazionale. La nuova coalizione può facilmente liquidare poche manifestazioni di centinaia, o persino migliaia, di sinistrorsi indeboliti, giustamente preoccupati per la distruzione del sistema giuridico israeliano. Avere a che fare con la condanna internazionale o persino le sanzioni è tutt’un’altra storia.

Questo potrebbe non spaventare il messianico Smotrich o Itamar Ben-Gvir, leader dal grilletto facile di Potere Ebraico, ma certamente terrorizza Netanyahu. Egli sa molto bene che non può inimicarsi la comunità internazionale e, più precisamente, il mondo arabo, con il problema del nucleare iraniano e l’opzione dell’esercito israeliano di combatterlo, sospeso sulla sua testa come una spada di Damocle.

In queste circostanze l’uso dell’eufemismo “esercizio della sovranità” sembra più accettabile di “annessione”. Proprio come lo scellerato grido di “morte agli arabi” è stato rimpiazzato, per ordine di Ben-Gvir, con “morte ai terroristi”, la connotazione negativa di annessione unilaterale è ora intenzionalmente rimpiazzata con una frase giudicata più legittima politicamente.

Da una prospettiva giuridica sono la stessa cosa. In una recente intervista radiofonica, Simha Rotman, parlamentare del Sionismo Religioso, ha sostenuto che non si può annettere un territorio che era una specie di “terra di nessuno”. Tuttavia si può, e si deve, esercitare legalmente la sovranità.

I primi passi

Sebbene quasi mai menzionati dai futuri ministri, tutti gli atti e gli accordi della coalizione implicano l’annessione.

Il segno più allarmante è il trasferimento di due unità dell’esercito responsabili di amministrare l’occupazione alla totale responsabilità del partito di Smotrich grazie a un incarico ministeriale nel ministero della Difesa. Le due unità, l’Amministrazione Civile e il Cogat (Coordinatore delle Attività Governative nei Territori), gestiscono tutti gli aspetti della vita civile nell’Area C cisgiordana, il 60% [del territorio occupato, N.d.T.] completamente amministrata da Israele [in base agli accordi di Oslo, N.d.T.], incluso il movimento di persone e beni fra Gaza, Israele e la Cisgiordania.

Assegnare la responsabilità di queste unità a Smotrich non solo gli permette di espandere le colonie e rafforzare i poteri contro i palestinesi, ma anche di limitare ulteriormente i movimenti degli abitanti dentro e fuori l’enclave di Gaza.

Questo ministro di nuova nomina giocherà un ruolo centrale in tutto ciò che è relativo alla gestione della vita dei palestinesi e israeliani in Cisgiordania, incluse la pianificazione del territorio e l’autorizzazione di avamposti illegali. In altre parole: annessione de facto dell’Area C con il suprematista ebraico Smotrich quale unico governatore dei territori occupati.

Persino chi a sinistra sostiene che l’annessione de facto è già stata realizzata ammette che ciò implica un drammatico cambiamento di politiche e rafforza l’apartheid. Questi sono passi preliminari verso la completa annessione dell’area. È già stato tentato e ha fallito per la pressione internazionale. A differenza della forza bruta di precedenti tentativi di annessione, il nuovo approccio è tattico e venduto come cambiamenti amministrativi. De facto? È molto di più.

Questi sono i primi passi di una vera e propria annessione. Udi Dekel, ex generale di brigata, ora vice direttore dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, definisce questi cambiamenti recenti come il passaggio da “annessione strisciante” ad “annessione rapida”.

Importanti ex funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana dicono che si aspettano che Smotrich annetta la Cisgiordania. Un ex funzionario ha detto ad Haartez [quotidiano progressista israeliano N.d.T.] : “Senza dubbio Smotrich sta per attuare l’annessione.”

Una minaccia anche per Israele

Yehuda Etzion non potrebbe essere più d’accordo o sperare di più.

Etzion è stato membro del gruppo terrorista ebraico clandestino che ha partecipato al complotto per far saltare in aria la Cupola della Roccia, ora è attivista di estrema destra e fondatore di un gruppo che opera perché gli ebrei vengano autorizzati a pregare nella moschea di Al-Aqsa, conosciuta dagli ebrei come Monte del Tempio.

È stato personalmente coinvolto nella compilazione della “lista dei desideri” delle organizzazioni dei coloni data a Smotrich e Ben-Gvir quando stavano negoziando con Netanyahu. Questa settimana, parlando a Middle East Eye, sembrava speranzoso circa le intenzioni di Ben-Gvir sulla moschea di al-Aqsa, come l’autorizzazione alle preghiere del Sabato e la revoca della norma che permette la visita del sito agli ebrei solo in gruppi organizzati.

Non mi aspetto un’annessione su vasta scala, dato che Bibi non la vuole veramente,” ha detto a MEE, usando il nomignolo con cui comunemente ci si riferisce a Netanyahu.

Mi aspetto veri cambiamenti nell’Area C, dove precedenti governi di Bibi hanno permesso ai palestinesi di costruire mentre le colonie ebraiche potevano crescere a stento,” ha sostenuto, nonostante decine di migliaia di nuove case di coloni siano state costruite in violazione del diritto internazionale e case, scuole e ospedali palestinesi siano stati regolarmente demoliti.

Essendo un processo cumulativo, non significa annessione. Questi due ministri, Ben-Gvir e Smotrich, metteranno in atto importanti cambiamenti. L’unica domanda è: Bibi permetterà di fare quello che ha promesso loro negli accordi che ha firmato? Io so che tendono a dubitarne.”

In una pubblicazione dell’Istituto per gli Studi di Sicurezza Nazionale della scorsa settimana, Dekel fa un riferimento alle possibili ripercussioni della futura annessione.

Vi afferma che applicare la sovranità israeliana in Cisgiordania e trasferire potere su di essa dal ministero della Difesa a uno civile attirerà la condanna e l’attenzione internazionali e aumenterà la qualificazione di Israele come un regime di apartheid.

Queste denunce saranno ancorate nel parere legale della Corte Internazionale di Giustizia e saranno un’altra arma nella campagna internazionale contro Israele,” scrive.

Il parlamentare laburista Nachman Shai, ministro uscente degli Affari della Diaspora, aggiunge un’altra prospettiva. “A questo punto le comunità ebraiche in America sono preoccupate principalmente per le implicazioni che avranno direttamente per loro le politiche del nuovo governo, come le questioni sospese della legge del ritorno [l’estrema destra religiosa intende restringere i criteri per la concessione del diritto a emigrare in Israele, N.d.T.] o se i ministri di nuova nomina definiranno come assolutamente non ebrei gli ebrei riformati, il movimento a cui appartiene la maggioranza degli ebrei americani,” ha detto a MEE.

Al momento questa rabbia è passiva, ha detto. Ma potrebbe diventare un’opposizione più problematica per Israele: incoraggiare gli USA a non proteggere più il Paese alle Nazioni Unite o persino ad appoggiare le sanzioni a causa dell’annessione.

Data la nuova situazione non li vedo dimostrare a sostegno di Israele, impegnare i propri rappresentanti al Congresso o agire contro le politiche della loro amministrazione. Potrebbero non unirsi mai al movimento BDS [acronimo di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele, N.d.T.], ma non lo osteggeranno,” afferma.

È una pericolosa rotta di collisione. L’unico a capire tutte le conseguenze è Bibi stesso, ma d’altro canto il Bibi del 2022 non è il Netanyahu che conosciamo. È una persona diversa.”

Come Israele.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




C’è una ragione per cui la Germania sta prendendo di mira gli intellettuali post-coloniali

Hebh Jamal


12 dicembre 2022 – Al Jazeera

Il postcolonialismo minaccia la percezione che lo Stato tedesco ha della propria identità nazionale e di quella di Israele

All’inizio di quest’anno, documenta quindici, quindicesima edizione della principale mostra di arte contemporanea in Europa che si svolge ogni cinque anni nella città tedesca di Kassel, si è trovata al centro di un acceso dibattito sui presunti legami tra l’antisemitismo e il pensiero postcoloniale.

Tutto ciò è iniziato con Ruangrupa, il collettivo di artisti con sede a Giacarta che ha curato l’edizione di quest’anno e che ha scelto di centrare la mostra, della durata di 100 giorni, su artisti del Sud globale e sul loro lavoro che chiede uguaglianza, condivisione, sostenibilità e, cosa fondamentale, liberazione dall’oppressione colonialista.

L’esposizione non era affatto concentrata sulla Palestina, con pochi collettivi palestinesi invitati a presenziare alla mostra, che dura vari mesi. Tuttavia la loro partecipazione, insieme all’appoggio reso pubblico di Ruangrupa al movimento palestinese per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), è bastata ai media tedeschi per etichettare l’esposizione di quest’anno come “antisemita”. Numerosi giornalisti hanno contestualizzato le accuse di antisemitismo contro documenta quindici anche come un processo al postcolonialismo.

Per esempio, commentando la cosiddetta “débacle” di documenta, un giornalista tedesco ha scritto che “finché lo Stato di Israele è un problema per il postcolonialismo, il postcolonialismo deve rimanere un problema per l’Occidente.” Un altro ha sostenuto che, poiché il libro dell’intellettuale palestinese Edward Said Orientalismo può essere considerato uno dei testi fondativi del pensiero postcoloniale, l’argomento “presta il fianco al tradizionale e antiisraeliano antisemitismo e nasce con un’ossessione nei confronti di Israele.”

Il dibattito sul presunto antisemitismo del pensiero postcoloniale non è rimasto circoscritto solo alla sfera dei media. A luglio, durante un incontro della commissione Cultura e Media del Bundestag [il parlamento tedesco, ndt.] sulle accuse di antisemitismo relative a questa edizione di Documenta, il partito di destra AfD ha chiesto in nome della lotta contro l’antisemitismo che nessun finanziamento federale venisse concesso a progetti di ricerca in settori culturali o educativi “che cerchino di diffondere contenuti ideologici postcoloniali”. E in ottobre l’Università della Ruhr a Bochum ha ospitato una conferenza intitolata “Antisemitismo postcoloniale tra Desmond Tutu e Documenta”, che, secondo la descrizione ufficiale, intendeva “comprendere le peculiarità dell’antisemitismo postcoloniale e le sue argomentazioni utilizzando come esempio la figura di Desmond Tutu.”

Come dimostra la menzione in questo contesto del famoso attivista per la giustizia razziale e premio Nobel per la Pace arcivescovo Desmond Tutu, in Germania il dibattito sul cosiddetto “antisemitismo postcoloniale” non è iniziato con documenta quindici.

In effetti nel 2020 lo studioso camerunense Achille Mbembe, considerato all’avanguardia nel campo del pensiero postcoloniale, era già stato accusato di “relativizzare l’Olocausto” e etichettato come antisemita dai media tedeschi per aver definito Israele uno Stato di apartheid e aver appoggiato il movimento BDS.

Tali accuse nei confronti di pensatori, artisti e attivisti postcoloniali che criticano Israele sono una diretta conseguenza dell’impegno dello Stato e del sistema politico tedeschi ad appoggiare incondizionatamente lo Stato di Israele come un modo per fare ammenda dei passati crimini della Germania contro il popolo ebraico.

Dalla caduta del Terzo Reich e dalla formazione di Israele la Germania ha concepito la difesa di Israele e dei suoi interessi come parte della propria ragion di stato. E oggi non si tratta solo di fornire appoggio politico, finanziario e morale a Israele, ma anche di accettare come un dato di fatto le affermazioni di Israele secondo cui qualunque critica allo Stato ebraico, o azione a sostegno della lotta per la liberazione dei palestinesi, sia intrinsecamente e indiscutibilmente antisemita.

Per esempio nel 2019 il parlamento tedesco ha approvato una risoluzione che etichetta il movimento BDS come entità che utilizza tattiche antisemite per raggiungere i suoi obiettivi politici e ha chiesto al governo di “non fornire spazi e strutture gestite dal Bundestag a organizzazioni che si esprimono in termini antisemiti o mettono in dubbio il diritto di Israele ad esistere.”

In effetti la Germania è riuscita a rendere quanto meno tabù, se non criminale, qualsivoglia appoggio alla liberazione dei palestinesi e discorso contro l’occupazione israeliana. Quanti sono fortemente determinati a mettere a tacere le voci palestinesi in nome della “lotta contro l’antisemitismo” hanno vietato proteste da parte dei palestinesi, annullato eventi palestinesi, etichettato come razzisti intellettuali palestinesi e cacciato giornalisti palestinesi dal loro lavoro.

Le aggressioni contro gli studi postcoloniali sono state per varie ragioni il passo successivo naturale di questa falsa lotta contro l’antisemitismo.

Il postcolonialismo, lo studio critico accademico dell’eredità culturale, politica ed economica del colonialismo, minaccia la percezione dello Stato tedesco dell’identità nazionale propria e di Israele in vari modi.

Primo, esso interpreta i genocidi come intrinsecamente connessi al colonialismo, e quindi vede l’Olocausto non come un’eccezione nella storia, un crimine diverso da ogni altro, ma solo come un altro sottoprodotto orripilante del colonialismo tedesco.

Quarant’anni prima dell’Olocausto i tedeschi furono responsabili di un altro genocidio, contro gli Herero e i Nama,” ha spiegato nel 2017 lo storico Jürgen Zimmerer. “Nell’Africa del Sudovest tedesca nacque uno Stato razzista, c’era un’ideologia, c’erano leggi, c’erano strutture militari e burocratiche adeguate e finalizzate a questo obiettivo. Trovo totalmente inverosimile non vedere alcun rapporto con i crimini del ‘Terzo Reich’ avvenuti in seguito.”

Questa idea secondo cui le precedenti atrocità colonialiste in Africa prepararono la strada all’Olocausto evidenzia l’indifferenza della Germania riguardo ai suoi crimini al di fuori dell’Europa e richiede una resa dei conti che con cui lo Stato tedesco non sembra affatto pronto a fare i conti.

Secondo, il postcolonialismo svela somiglianze tra soggetti statali violenti, e quindi evidenzia alcune scomode verità su Israele che la Germania preferirebbe piuttosto non affrontare.

Come hanno evidenziato molti studiosi del colonialismo, subendo per questo una marea di accuse di antisemitismo, Israele ha molto in comune con le violente, oppressive e razziste colonie di insediamento del passato: separa con violenza dai suoi coloni la popolazione indigena della terra che occupa, condiziona la cittadinanza e i diritti fondamentali allo status di coloni, impone blocchi per soffocare ogni resistenza al suo potere e sostiene di fare tutto ciò per controllare la violenza e la barbarie della popolazione locale.

Negli ultimi anni le critiche postcoloniali a Israele hanno conquistato una nuova attenzione globale in seguito alle proteste internazionali di Black Lives Matter [movimento antirazzista nato negli USA contro la violenza della polizia razzista nei confronti degli afro-americani, ndt.] che ha puntato i riflettori non solo sul razzismo istituzionalizzato nell’Occidente, ma anche sulle lotte anticoloniali in corso in tutto il mondo.

In Germania, dove difendere ad ogni costo Israele è visto come un dovere nazionale, tutto ciò ha portato a capillari tentativi di demonizzare le voci a favore dei palestinesi e a mettere in secondo piano i tentativi di una vera decolonizzazione. Documenta quindici è stata la più recente, ma sicuramente non l’ultima, vittima di questa sinistra campagna di diffamazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono solo dell’autrice e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Hebh Jamal


Hebh Jamal è universalmente considerata una oppositrice della disuguaglianza educativa, dell’islamofobia e dell’occupazione della Palestina. Si è messa in evidenza su molte tribune mediatiche come il NYTimes, TeenVogue, Netflix documentary Teach Us All e molte altre. Attualmente Hebh frequenta l’ultimo anno al City College di NY. Lavora al NYU Metro Center [Centro Metropolitano per la Ricerca sull’Uguaglianza e la Trasformazione delle Scuole] come collaboratrice nelle politiche per i giovani in quanto continua a lottare contro la segregazione nelle scuole. È stata anche presidentessa degli Studenti per la Giustizia in Palestina del college.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Attacco dei media israeliani alla vincitrice del premio Nobel per aver sostenuto il boicottaggio contro l’apartheid di Israele

Palestine Chronicle

9 ottobre 2022,Palestine Chronicle

I media israeliani hanno attaccato la scrittrice francese Annie Ernaux, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 2022, per aver dimostrato solidarietà alla causa palestinese.

Il quotidiano israeliano The Jerusalem Post ha riportato che la scrittrice ha invitato “a boicottare gli eventi culturali israeliani, a rilasciare i terroristi e ha chiamato Israele Stato di apartheid”.

Ernaux, la cui carriera di scrittrice dura da cinquant’anni, è la prima donna francese ad aver vinto il prestigioso premio.

Nel 2021, quando Israele ha espulso dei palestinesi dalle loro case nella Gerusalemme est occupata e ha condotto una spietata campagna di bombardamenti sulla Striscia di Gaza assediata uccidendo più di 250 palestinesi, Ernaux ha firmato una lettera “contro l’apartheid” che condannava Israele per le sue azioni.

“Chiediamo la fine immediata e incondizionata della violenza israeliana contro i palestinesi… Chiediamo a tutti i governi che consentono questi crimini contro l’umanità di mettere in atto sanzioni, di mobilitare gli organismi internazionali perché li condannino e di porre fine alle loro relazioni commerciali ed economiche”, si legge nella lettera.

Nel 2019, Ernaux ha firmato una lettera in cui invitava la televisione nazionale francese a non mandare in onda l’Eurovision Song Contest, che quell’anno si svolgeva in Israele.

L’anno prima aveva firmato una lettera contro l’istituzione di una stagione di eventi culturali da parte dei governi francese e israeliano in occasione del 70° anniversario della creazione dello Stato israeliano.

Entrambe le lettere accusavano Israele di utilizzare eventi culturali per nascondere i suoi crimini contro i palestinesi e sono state firmate da altre icone culturali francesi tra cui il defunto regista Jean-Luc Godard.

Ernaux ha anche firmato una lettera per chiedere il rilascio del prigioniero politico libanese Georges Abdallah.

Nell’assegnazione del premio Nobel per la letteratura Ernaux ha battuto scrittori tra cui Salman Rushdie – sopravvissuto a un attacco di accoltellamento che lo ha portato in ospedale all’inizio di quest’anno.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Vittoria del BDS: il Sydney festival blocca i finanziamenti da governi stranieri dopo un boicottaggio di massa

The New Arab, PC, SOCIAL

27 settembre 2022 – The Palestine Chronicle

Martedì il direttivo di uno dei più importanti festival culturali australiani ha annunciato la sospensione immediata dei finanziamenti da governi stranieri, un anno dopo che l’evento è stato scosso dalla polemica relativa al finanziamento da parte dell’ambasciata israeliana.

Il direttivo del Sydney festival ha annunciato la decisione dopo “una revisione indipendente sul ruolo di investimenti governativi internazionali” commissionata, secondo quanto ha dichiarato, dal direttivo stesso.

Il Sydney festival oggi ha annunciato una serie di importanti misure per migliorare il processo decisionale riguardo a partenariati e sponsorizzazioni prima di lanciare il programma del Sydney festival 2023”, afferma la dichiarazione.

Questo include un’immediata sospensione degli investimenti provenienti da governi esteri e dai loro enti culturali”.

Il boicottaggio dell’edizione 2022 del Sydney Festival è cominciato lo scorso dicembre e ha avuto luogo dopo la rivelazione che l’evento di tre settimane aveva ricevuto decine di migliaia di dollari di finanziamento dall’ambasciata israeliana in Australia.

Il finanziamento serviva a contribuire a pagare uno spettacolo di danza di un coreografo israeliano.

In seguito alla sponsorizzazione Israele era stato indicato come “partner importante” sul sito web del festival.

Gli attivisti pro-Palestina hanno duramente criticato la gestione del festival per la sua decisione di approvare il finanziamento e hanno fatto appello al boicottaggio dell’evento.

Più di 20 spettacoli si sono ritirati dal festival a causa di questo finanziamento.

L’edizione del 2023 del festival è programmata per gennaio.

Traduzione di Gianluca Ramunno




Gli Stati Uniti elimineranno il diritto alla libertà di parola per servire Israele?

Nora Barrows-Friedman

27 giugno 2022-The Electronic Intifada

La scorsa settimana la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato il diritto delle donne di prendere la decisione autonoma sull’interruzione di gravidanza.

Quello che era stato un diritto costituzionalmente stabilito per 50 anni è stato abrogato con un tratto di penna. Ciò ha fatto seguito a decenni di lavoro incessante da parte di gruppi di destra contro l’aborto, inclusi eminenti legislatori, per erodere i diritti all’assistenza sanitaria e al controllo sul proprio corpo, sulla propria famiglia e sul proprio futuro.

La maggioranza degli americani vede il ribaltamento di Roe vs. Wade come un serio passo indietro per i diritti delle donne e teme che altri diritti possano ora essere in pericolo. In effetti, la stessa corte potrebbe decidere di impedire a consumatori, aziende, pubblicazioni e appaltatori statali di esercitare il loro diritto di impegnarsi in boicottaggi politici, un diritto riconosciuto da decenni da quella istituzione.

Annullando la propria decisione del 2021, il 22 giugno la Corte d’Appello dell’ottavo circuito federale ha stabilito che il boicottaggio di Israele non è protetto dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.

L’American Civil Liberties Union (ACLU) ha confermato che farà appello alla Corte Suprema. Se la Corte Suprema accetterà di esaminare il caso, potrebbe creare un precedente importante per proteggere i boicottaggi come azione politica o, se la corte fosse d’accordo con l’8° circuito, accelerare lo smantellamento del diritto alla libertà di parola. Se la Corte Suprema deciderà di non esaminare il ricorso, la decisione dell’8° Circuito rimarrà valida [e definitiva, ndt].

La sentenza si concentrava su un caso sollevato in Arkansas dall’editore di The Arkansas Times che si era visto porre come condizione per ricevere contratti statali una dichiarazione che il giornale non avrebbe boicottato Israele.

Secondo Palestine Legal, un gruppo che difende gli attivisti per i diritti dei palestinesi dagli attacchi legali, più di 30 Stati degli Stati Uniti hanno approvato misure che condannano o tentano di limitare la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi.

Incoraggiati dai gruppi di pressione israeliani e dallo stesso governo israeliano, diversi politici affermano che rifiutarsi di acquistare prodotti israeliani e criticare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele – o la sua ideologia di stato sionista – equivale a fanatismo antiebraico.

La legge dell’Arkansas del 2017, che è stata annullata nel 2021, richiedeva allo Stato di creare una lista nera di società che boicottavano Israele e costringeva gli enti pubblici a disinvestire dalle società segnalate nella lista nera.

La parte della legge in questione in questo caso è il requisito che gli appaltatori statali forniscano una certificazione scritta che non boicottano e non boicotteranno Israele.

La Corte d’appello dell’ottavo circuito ha stabilito nel febbraio 2021 che la legge dell’Arkansas era incostituzionale perché si trattava di un tentativo da parte di un ente governativo di impedire un discorso politico.

Ma la scorsa settimana un gruppo più numeroso di giudici della stessa Corte ha annullato la decisione. Tale voltafaccia “ignora la storia dei precedenti e considera la legge statale come una restrizione a una condotta esclusivamente commerciale che non comporta alcun messaggio politico”, ha affermato Palestine Legal.

“Nel sostenere la legge anti-BDS dell’Arkansas la Corte ha rifiutato di affrontare la realtà che queste leggi fanno parte di uno sforzo per proteggere Israele dalle sue responsabilità”, ha aggiunto l’organizzazione. La decisione “è un attacco al nostro diritto di dissentire dallo status quo”.

Pubbliche relazioni” per Israele

Rappresentato dall’ACLU, l’editore Alan Leveritt ha intentato la causa iniziale nel 2019 dopo che l’Università dell’Arkansas-Pulaski Technical College “ha informato l’Arkansas Times che doveva firmare una certificazione che non si sarebbe impegnata in un boicottaggio di Israele se avesse voluto continuare a ricevere contratti pubblicitari” dall’Università, come riportato all’epoca dal quotidiano.

Leveritt ha rifiutato e il giornale ha perso il contratto con l’Università.

Ha detto alla NBC che il giornale non stava “cercando una rissa”.

Ma quando le agenzie statali chiedono ai giornalisti di firmare un impegno politico, Leveritt ha aggiunto: “Non sei più un giornalista. Sei nelle pubbliche relazioni”.

Un giudice federale ha respinto il caso iniziale di Leveritt nel gennaio 2019, stabilendo che i boicottaggi politici non sono protetti dal Primo Emendamento.

Ma l’ACLU ha presentato ricorso, affermando che la legge viola chiaramente le tutele costituzionali “punendo i boicottaggi politici non graditi”.

Lo scorso anno le principali lobby pro Israele hanno criticato la sentenza iniziale della Corte d’appello e successivamente hanno elogiato la recente inversione di tendenza.

Brian Hauss dell’ACLU ha dichiarato: “speriamo e ci aspettiamo che la Corte Suprema metta le cose a posto e riaffermi l’impegno storico della nazione a fornire una solida protezione ai boicottaggi politici”.

Tali boicottaggi hanno svolto un ruolo chiave nel movimento per i diritti civili per porre fine alla supremazia bianca legalmente formalizzata negli Stati Uniti e, più recentemente, sono stati utilizzati con successo per sfidare le leggi discriminatorie in alcuni Stati (degli USA).

Julia Bacha, una regista il cui nuovo documentario, “Boycott”, si concentra sulla lotta contro le misure anti-BDS, ha avvertito che la sentenza dell’8th Circuit Court ha implicazioni di vasta portata per altre azioni politiche.

Ha notato che misure simili che mirano a proibire i boicottaggi delle industrie dei combustibili fossili e delle armi da fuoco sono già state presenti nelle legislature statali.

E ha implorato gli attivisti di ritenere i legislatori democratici ugualmente responsabili per la loro complicità “nell’aprire il vaso di Pandora quando hanno sostenuto in modo schiacciante i progetti di legge anti-BDS”.

Palestine Legal ha affermato che “le cattive decisioni dei tribunali non possono fermare un movimento che si batte per principi di giustizia”.

In mezzo alla proliferazione di leggi anti-boicottaggio “mirate ad altri movimenti per la giustizia sociale, questa decisione costituisce un pericoloso precedente per chiunque sia interessato a cercare un cambiamento sociale, politico o economico”, ha aggiunto l’organizzazione.

Ma, ha spiegato Palestine Legal, “anche mentre queste battaglie si svolgono nelle aule di tribunale e nei parlamenti degli Stati, il fondamentale lavoro organizzativo continua verso il nostro obiettivo finale: libertà e giustizia in Palestina, negli Stati Uniti e altrove.”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Germania: il vandalismo razzista alla vigilia di Documenta 15 innervosisce gli artisti palestinesi

Hebh Jamal

14 giugno 2022 – Middle East Eye

Atti di vandalismo razzista contro l’esposizione palestinese getta un’ombra sull’imminente evento artistico quinquennale.

La più grande esposizione di arte contemporanea al mondo, Documenta 15, aprirà la prossima settimana in un contesto di polemiche politiche, dopo atti di vandalismo razzisti che hanno preso di mira l’esposizione palestinese, innervosendo gli artisti alla vigilia di questo evento molto atteso che si svolge ogni cinque anni nella città tedesca di Cassel.

A fine maggio individui non identificati hanno fatto irruzione nello spazio espositivo del collettivo artistico palestinese ‘The Question of Funding’ [il problema dei finanziamenti], hanno imbrattato i muri con il contenuto di un estintore ed hanno scritto su decine di superfici “187” (codice utilizzato negli Stati Uniti come minaccia di morte con riferimento al codice penale della California) e “Peralta”.

Gli organizzatori dell’evento ritengono che “Peralta” si riferisca alla politica fascista spagnola Isabelle Peralta, che si è vista negare l’ingresso in Germania a causa delle sue opinioni neonaziste.

Questo attacco era chiaramente mirato, poiché gli assalitori hanno vandalizzato solo i piani che ospitano il collettivo ‘The Question of Funding’ “, ha dichiarato a Middle East Eye Lara Khalidi, artista e operatrice culturale palestinese. “Potrebbe trattarsi di una minaccia di morte e adesso tutti gli artisti hanno molta paura di portare avanti l’esposizione.”

Secondo Lara Khalidi questa minaccia arriva dopo parecchi mesi di campagna di diffamazione e incitamento all’odio sulla stampa tedesca.

Il sostegno al BDS, motivo di repressione

Un’organizzazione locale contro l’antisemitismo, ‘Budnis gegen Antisemitismus Kassel’ [Alleanza contro l’Antisemitismo Kassel], accusa questa quinta edizione di Documenta di coinvolgere degli “attivisti anti-Israele”, di “violare le severe leggi tedesche contro l’antisemitismo” e di sostenere il movimento palestinese Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

In Germania un sostegno anche solo formale al BDS può essere motivo di repressione. Nel 2019 il Bundestag (il parlamento tedesco) ha approvato una risoluzione che definisce il movimento BDS antisemita.

Limitando il loro accesso ai fondi e agli spazi pubblici, questa risoluzione offre alle istituzioni statali e all’associazione filo-israeliana tutta la discrezionalità per attaccare le organizzazioni, gli artisti, gli accademici palestinesi e anche semplici individui.

Il commissario tedesco alla lotta contro l’antisemitismo Felix Klein si è unito alle critiche all’esposizione affermando che poiché “nessun artista israeliano è stato invitato, se ne deduce chiaramente che gli artisti israeliani devono essere boicottati.”

Lara Khalidi e alcuni suoi colleghi sono stati accusati di essere simpatizzanti nazisti perché hanno ricoperto posizioni direttive all’interno del centro culturale Khalil Sakakini, un’importante organizzazione senza scopo di lucro culturale e artistica di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

L’organizzazione locale contro l’antisemitismo afferma che Khalil Sakakini, insegnante palestinese progressista, era un antisemita in base a citazioni false e fuori contesto di Wikipedia, mentre Lara Khalidi e altri artisti palestinesi sono accusati di antisemitismo per associazione [a Sakakini, ndt.].

Questa vicenda dimostra chiaramente come la “lotta contro l’antisemitismo” sia diventata un’espressione pratica di xenofobia e razzismo puri e semplici”, spiega a MEE Michael Sappir, giornalista israeliano che vive in Germania.

Se il tipo di affermazioni usate per costruire l’accusa di antisemitismo contro gli artisti – in particolare in rapporto a Sakakini – fosse preso sul serio e considerato in buona fede, molti tedeschi famosi, affiliati ad organizzazioni con legami nazisti sarebbero coinvolti molto più gravemente.

Ma questo tipo di accuse poco chiare è una copertura pratica nel contesto tedesco di lotta ostentata contro l’antisemitismo per dare una patina di legittimità e di importanza agli attacchi contro gli stranieri, e sicuramente in particolare contro i palestinesi.”

Conseguenza dell’autocensura

Il centro culturale Khalil Sakakini in un comunicato deplora che le accuse “trite e ritrite” di antisemitismo siano sempre più utilizzate in Germania nei confronti di chi si esprime contro l’occupazione e l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

Un’accusa usata come mezzo per ridurre al silenzio i suoi detrattori e come strumento di intimidazione. Questo attacco continuo si è ingigantito, passando dall’incitamento all’odio sui media ad un attacco diretto”, prosegue il comunicato.

Il teorico culturale Sami Khatib ritiene che in Germania il razzismo anti-palestinese “sistematico”si dissimuli sotto una facciata di intervento umanitario.

Questo dipende dal fatto che la comunità internazionale si vede nel ruolo di salvatore per scongiurare ‘il male del passato’ nel presente e nel futuro”, dichiara Sami Khatib.

Anche l’occasione di trovare una corretta definizione di antisemitismo e di discutere apertamente delle accuse degli organizzatori viene posta sotto la lente di ingrandimento.

L’annullamento di una tavola rotonda organizzata da Documenta per affrontare le questioni legate all’antisemitismo, al razzismo e all’islamofobia sarebbe dovuto a una lettera di Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, inviata a Claudia Roth, Ministra della Cultura e delle Comunicazioni. 

Schuster vi criticava il “pregiudizio evidente” di Documenta, insinuando che la tavola rotonda fosse di parte e non prevedesse interventi a favore di Israele. Questa lettera sottolineava la necessità “di una chiara presa di posizione e di una risoluta azione politica ad ogni livello politico, artistico, culturale e sociale” per combattere l’antisemitismo.

Come conseguenza dell’autocensura dei partecipanti in seguito alle reazioni, questa tavola rotonda è stata annullata. 

L’istituto ha ritenuto che fosse meglio organizzare un dibattito pubblico su ciò che significa antisemitismo. Invece si è stati accusati di essere di parte, anche se la tavola rotonda includeva partecipanti israeliani”, lamenta Lara Khalidi.

Il collettivo di artisti indonesiani Ruangrupa, responsabile di questa quinta edizione di Documenta, ha risposto alle accuse di antisemitismo con una lettera aperta.

Quando ogni critica allo Stato israeliano viene demonizzata e associata all’antisemitismo, bisogna aspettarsi che tale demonizzazione sia contestata. Questa contestazione viene principalmente da chi per primo è colpito dagli attacchi israeliani ai diritti umani”, si legge in questa lettera.

La cultura tedesca che associa l’antisionismo e persino il non-sionismo all’antisemitismo esclude i palestinesi e gli ebrei non sionisti dalla lotta contro l’antisemitismo, li diffama e li riduce al silenzio etichettandoli come antisemiti.”

L’elemento più inquietante in tutto ciò resta tuttavia l’origine di queste voci di antisemitismo.

Artisti ed attivisti sostengono che l’associazione all’origine di tutte queste voci e accuse di fatto non è altro che un blog gestito da una sola persona associata ad un gruppo dissidente di estrema sinistra chiamato Antideutsche (movimento anti-tedesco).

Per gli attivisti i grandi media tedeschi hanno ripreso questa informazione pubblicata dal blog senza nemmeno verificare queste accuse, che secondo loro sono piene di stereotipi razzisti e falsi.

La cosa più triste in tutto questo”, dice Lara Khalidi, “è che queste accuse senza fondamento sono state riprese da media nazionali seri, che hanno rilanciato gli appelli all’annullamento di Documenta se non fosse stato risolto il problema dell’antisemitismo.”

Una posizione forte e chiara”

I media hanno chiuso gli occhi sul fatto che si tratta dell’iniziativa di una sola persona, che posta regolarmente su Facebook dei contenuti islamofobi. Invece hanno ripreso come fatti reali le sue storie inventate, meditabonde e anche immaginarie”, ribadisce Lara Khalidi.

Ormai, a meno di una settimana dall’avvio dell’esposizione artistica tanto attesa, che si svolgerà dal 18 giugno al 25 settembre, gli artisti e gli organizzatori mostrano nervosismo.

Anche se Documenta ha reagito al vandalismo e alle minacce sporgendo denuncia e rafforzando la sicurezza sui luoghi, molti ritengono che la sua reazione e il suo comunicato ufficiale non siano sufficienti.

Il collettivo di artisti ha pubblicato un proprio comunicato definendo questo vandalismo un attacco razzista, mentre il comunicato stampa di Documenta prende semplicemente atto che si tratta di minacce “con motivazioni politiche”, senza menzionare che il bersaglio erano gli artisti palestinesi e senza qualificare questo atto come crimine di odio.

MEE ha sollecitato l’ufficio stampa di Documenta relativamente alla scelta dei termini, ma non ha ricevuto alcuna risposta. 

Il fatto è che, per cominciare, non sono neanche capaci di definire (questo attacco) per quello che è. Il problema riguardo alla maggior parte delle risposte agli attacchi razzisti da parte di Documenta 15, a prescindere dalla loro buona volontà, è che contribuiscono a questa mancanza di chiarezza”, lamenta con MEE Edwin Nasr, operatore culturale e giornalista che vive ad Amsterdam.

Firas Shehadeh, artista palestinese che vive a Vienna, spiega a MEE che il tentativo di Documenta di presentare l’attacco come un incidente isolato “svia l’attenzione dal fatto che si tratta di un attacco razzista.”

Aggiunge che Documenta ha pubblicato questo comunicato solo in seguito alla pressione esercitata dalla solidarietà palestinese e internazionale.

Tuttavia, ha aggiunto, questo comunicato non fa che ripetere il discorso anti-palestinese. “Non hanno nemmeno nominato la vittima – la Palestina o i palestinesi” ribadisce. “Al contrario, questo comunicato serve a nascondere il loro fallimento nel proteggere gli artisti invitati che volevano solamente contribuire al panorama artistico contemporaneo internazionale.”

Documenta è un ente finanziato da fondi pubblici. Secondo Lara Khalidi questo lo rende soggetto all’autocensura, cosa che limita la sua capacità di esprimersi sulla questione per timore di venire privato dei finanziamenti.

Non c’è alcun dubbio che, se si trattasse di un ente del tutto diverso, si definirebbe tutto questo un crimine di odio”, assicura.

Per garantire la sicurezza degli artisti ed attivisti palestinesi e filopalestinesi non vogliamo solo misure di sicurezza e un maggior numero di poliziotti, ma una posizione forte e chiara che lo denunci per quello che è: razzismo antipalestinese.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La Corte annulla la messa fuori legge di associazioni di solidarietà con la Palestina

Ali Abunimah

2 maggio 2022 – The Electronic Intifada

Venerdì la guerra di Emmanuel Macron contro gli attivisti per i diritti dei palestinesi ha subito un’altra battuta d’arresto.

Il Consiglio di Stato, che in Francia svolge la funzione di corte suprema che giudica le azioni del governo, ha sospeso l’ordinanza del presidente che metteva al bando due associazioni di solidarietà con la Palestina.

La corte sostiene il diritto di fare appello al boicottaggio dei prodotti israeliani ed ha ritenuto infondate le accuse governative di “antisemitismo” contro le due associazioni.

A febbraio, su indicazione di Macron, il Ministro dell’Interno Gérald Darmanin aveva ordinato lo scioglimento del ‘Collettivo Palestina Vincerà’ e del ‘Comitato Azione Palestina’.

Il governo ha accusato le due associazioni di incitamento all’odio e alla violenza nei confronti di Israele.

In una sintesi delle sue decisioni il Consiglio di Stato ha comunicato di aver sospeso gli ordini del governo non avendo riscontrato prove del fatto che “le posizioni assunte da queste associazioni, benché molto nette e aspre, configurino un invito alla discriminazione, all’odio o alla violenza o una istigazione a commettere atti di terrorismo.”

Riguardo al ‘Comitato Azione Palestina’ la corte ha sentenziato che l’ordine del governo è stato “una grave e palesemente illegittima violazione della libertà di associazione e di espressione.”

In una conclusione relativa alla campagna BDS – boicottaggio, disinvestimento e sanzioni – a guida palestinese, il Consiglio di Stato ha stabilito che “l’appello al boicottaggio di determinati prodotti israeliani da parte del ‘Collettivo Palestina Vincerà’ non può di per sé giustificare un ordine di scioglimento in assenza di altri elementi di incitamento all’odio e alla violenza.”

Questo è in linea con la decisione unanime del giugno 2020 della Corte Europea per i Diritti Umani secondo cui le illegittime persecuzioni della Francia nei confronti degli attivisti che hanno invitato a questi boicottaggi violano le garanzie fondamentali di libertà di espressione.

L’amministrazione Macron ha cercato di eludere quella sentenza europea per continuare la sua repressione a favore di Israele.

Nessuna prova di antisemitismo

Con un colpo inferto ai tentativi di equiparare le critiche ad Israele e alla sua ideologia di Stato sionista al fanatismo anti-ebraico, il Consiglio di Stato ha ritenuto che il governo non ha fornito prove di “azioni antisemite” da parte delle due associazioni.

La sentenza integrale relativa al ‘Comitato Azione Palestina’ afferma chiaramente che “non è stabilito, contrariamente a quanto pretende il Ministero dell’Interno, che l’associazione abbia diffuso sul suo sito web pubblicazioni antisemite.”

Il governo deve ora corrispondere ad ognuna delle associazioni circa 3.000 dollari. La sentenza sospende con effetto immediato l’ordine di sciogliere le due associazioni in pendenza della sentenza definitiva attesa in un secondo momento.

Le decisioni del Consiglio di Stato non ammettono appello.

Il ‘Collettivo Palestina Vincerà’ ha salutato con favore la sentenza del Consiglio di Stato per “aver riaffermato la legittimità del sostegno al popolo palestinese” ed ha affermato di “festeggiare il fatto che potrà liberamente proseguire la sua lotta”.

L’associazione ha ringraziato gli attivisti che hanno protestato contro la misura del governo e diverse organizzazioni di solidarietà, comprese l’“Associazione di Solidarietà franco-palestinese” e l’“Unione per la Pace franco-ebraica” (UJFP), che hanno inoltrato al Consiglio di Stato comunicati in loro supporto.

UJFP ha salutato la sentenza come una “vittoria contro la criminalizzazione del movimento di solidarietà”.

Quasi 11.000 persone hanno firmato una petizione contro gli ordini di scioglimento.

Il ‘Comitato Azione Palestina’ ha detto che “vorrebbe dedicare questa vittoria al popolo palestinese e alla sua lotta.”

Questo è il secondo importante rifiuto nell’arco di una settimana contro le violazioni di Macron dei diritti fondamentali dei cittadini francesi.

Martedì il Consiglio di Stato ha annullato un decreto governativo che imponeva la chiusura di una moschea a Bordeaux.

Il Ministro dell’Interno di Macron ha emesso l’ordine all’inizio di quest’anno col pretesto che la moschea diffondeva odio contro Francia e Israele ed incitava al terrorismo.

Sentenza storica in Germania

La settimana scorsa in Germania un tribunale ha appoggiato il comitato locale di solidarietà con la Palestina contro le autorità cittadine di Stoccarda.

Il Centro Europeo di Supporto Legale (ELSC), un’organizzazione in difesa della libertà di espressione sulla Palestina, ha acclamato la decisione come “una sentenza storica” che “riafferma il diritto al boicottaggio”.

In seguito ad una campagna di diffamazione sui media israeliani, le autorità di Stoccarda hanno iniziato a negare all’ associazione di solidarietà l’accesso ai locali della città e si sono rifiutate di pubblicizzare le sue iniziative sul sito web della città.

Il Comune ha citato la risoluzione del 2019 approvata dal Bundestag, la camera bassa del parlamento tedesco, che denigrava come “anti-semita” il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni.

Il tribunale tedesco ha affermato che la risoluzione del Bundestag non è vincolante e che le attività dell’associazione di solidarietà con la Palestina costituiscono una libera espressione tutelata dalla Costituzione.

Il Centro ELSC ha sottolineato che questa recente decisione è “coerente con una crescente tendenza nella giurisprudenza tedesca, che sostiene il diritto degli attivisti di utilizzare le strutture pubbliche per eventi collegati al BDS.”

Ali Abunimah

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di ‘The battle for justice in Palestine’ (La lotta per la giustizia in Palestina), edito da Haymarket Books.

È anche autore di ‘One country: a bold proposal to end the israeli-palestinian impasse’. (Un unico Paese: una proposta coraggiosa per porre fine allo stallo israelo-palestinese).

Le opinioni sono esclusivamente dell’autore.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)