Una critica della società civile palestinese alla Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo

La “Jerusalem Declaration on Antisemitism” (JDA), nonostante le sue carenze descritte di seguito, presenta un’ alternativa mainstream alla disonesta cosiddetta definizione IHRA di antisemitismo e una “valida guida ” nella lotta contro il reale antisemitismo, come lo definiscono molti gruppi ebraici progressisti – difendendo gli ebrei, in quanto ebrei, da discriminazione, pregiudizi, ostilità e violenza. Rispetta in larga misura il diritto alla libertà di espressione relativo alla lotta per i diritti dei palestinesi come stabilito dal diritto internazionale, anche attraverso il BDS, e alla lotta contro il sionismo e il regime israeliano di occupazione, colonialismo di insediamento e apartheid.

La JDA può essere utile nella lotta contro il maccartismo anti-palestinese e la repressione che i fautori della definizione IHRA, con i suoi “esempi”, hanno promosso e indotto, di proposito. Ciò è dovuto ai seguenti vantaggi della JDA:

  • Nonostante le sue problematiche linee guida incentrate su Israele, fornisce una definizione coerente e accurata di antisemitismo. I suoi autori rifiutano esplicitamente di codificarla in legge o di usarla per limitare il legittimo esercizio della libertà accademica o per “sopprimere il dibattito pubblico libero e aperto che sia entro i limiti stabiliti dalle leggi che regolano i crimini d’odio”. Ciò è utile per contrastare i tentativi della definizione IHRA di proteggere Israele dalla responsabilità nei confronti del diritto internazionale e di proteggere il sionismo da critiche razionali ed etiche.
  • Riconosce l’antisemitismo come una forma di razzismo, con la sua storia e la sua particolarità, in gran parte confutando l’eccezionalità che la definizione IHRA (con i suoi esempi) gli dà.
  • Riconoscendo che l’antisemitismo e l’antisionismo sono “categoricamente diversi”, non considera antisemita la difesa dei diritti dei palestinesi secondo il diritto internazionale e la fine del regime di oppressione israeliano di per sé. Quindi confuta le parti più pericolose e utilizzate come armi degli “esempi” della definizione IHRA. In particolare, la JDA riconosce come legittima libertà di parola i seguenti esempi: sostegno al movimento BDS non violento e alle sue tattiche; critica o opposizione al sionismo; condanna del colonialismo di insediamento o dell’apartheid di Israele; appello per pari diritti e democrazia per tutti ponendo fine a tutte le forme di supremazia e “discriminazione razziale sistematica”; e critiche alla fondazione di Israele e alle sue istituzioni o politiche razziste.
  • Afferma che “ritenere gli ebrei collettivamente responsabili della condotta di Israele o trattare gli ebrei, semplicemente perché sono ebrei, come agenti di Israele” è antisemita, una regola con cui siamo pienamente d’accordo. Chiediamo l’applicazione di questa regola su tutta la linea, anche quando Israele e sionisti, sia ebrei che cristiani fondamentalisti, sono colpevoli di violarla. I leader fanatici sionisti e israeliani, come Netanyahu, per esempio, spesso parlano a nome di tutti gli ebrei e incoraggiano le comunità ebraiche negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia e altrove a “tornare a casa” in Israele.
  • Teoricamente riconosce che il contesto è importante nel senso che situazioni particolari determinano se una certa espressione o azione può essere considerata antisemita o meno.

Tuttavia, i palestinesi, il movimento di solidarietà palestinese e tutti i progressisti sono invitati ad avvicinarsi alla JDA con una mente critica e una cautela a causa delle sue carenze, alcune dei quali sono connaturate:

  1. Con l’infelice titolo della JDA e con la maggior parte delle sue linee guida, si concentra su Palestina / Israele e sul sionismo, rafforzando ingiustificatamente i tentativi di accoppiare il razzismo antiebraico con la lotta per la liberazione palestinese, e quindi avendo un impatto sulla nostra lotta. Nonostante questo impatto, la JDA esclude le opinioni che rappresentano i palestinesi, un’omissione che parla abbastanza delle relazioni asimmetriche di potere e dominio e di come alcuni liberali cercano ancora di prendere decisioni che ci riguardano profondamente, senza di noi. Come palestinesi non possiamo permettere che qualsiasi definizione di antisemitismo sia impiegata per controllare o censurare la difesa dei nostri diritti inalienabili o la nostra narrazione delle nostre esperienze vissute e della storia basata sull’evidenza della lotta contro il colonialismo di insediamento e l’apartheid.
  2. La sua mal concepita omissione di ogni menzione della supremazia bianca e dell’estrema destra, i principali responsabili degli attacchi antisemiti, scagiona inavvertitamente l’estrema destra, nonostante una menzione passeggera nelle FAQ. La maggior parte dei gruppi di estrema destra, specialmente in Europa e Nord America, sono profondamente antisemiti eppure amano Israele e il suo regime di oppressione.
  3. Nonostante le garanzie sulla libertà di espressione nelle sue FAQ, le “linee guida” della JDA ancora cercano di mettere sotto controllo alcuni discorsi critici delle politiche e delle pratiche israeliane, non riuscendo a sostenere pienamente la necessaria distinzione tra ostilità o pregiudizio nei confronti degli ebrei da un lato e legittima opposizione alle politiche, all’ideologia e al sistema di ingiustizia israeliani dall’altro. Ad esempio, la JDA considera antisemiti i seguenti casi:

A. “Descrivere Israele come il male supremo o esagerare grossolanamente la sua effettiva influenza” come un possibile “modo codificato di razzializzare e stigmatizzare gli ebrei”. Mentre in alcuni casi tale rappresentazione di Israele o la grossolana esagerazione della sua influenza possono rivelare indirettamente un sentimento antisemita, nella maggioranza assoluta dei casi relativi alla difesa dei diritti dei palestinesi tale inferenza sarebbe del tutto fuori luogo. Quando i palestinesi che perdono i loro cari, case e frutteti a causa delle politiche israeliane di apartheid condannano pubblicamente Israele come “il male supremo”, per esempio, questo non può essere ragionevolmente interpretato come un attacco “codificato” contro gli ebrei.

Interpretare l’opposizione ai crimini israeliani e al regime di oppressione come antiebraica, come spesso fanno Israele e i suoi sostenitori di destra anti-palestinesi, rende effettivamente Israele sinonimo o coestensivo di “tutti gli ebrei”. Eticamente parlando, oltre ad essere anti-palestinese, questa equazione è profondamente problematica perché in effetti essenzializza e omogeneizza tutte le persone ebree. Ciò contraddice l’affermazione iniziale della JDA secondo cui è “razzista essenzializzare … una data popolazione”.

B. “Applicare i simboli, le immagini e gli stereotipi negativi dell’antisemitismo classico … allo Stato di Israele.” Come la stessa JDA ammette altrove, una generalizzazione così ampia è falsa in tutti i casi “basati sull’evidenza”. Si consideri, ad esempio, i palestinesi che condannano il premier israeliano Netanyahu come un “assassino di bambini”, dato che almeno 526 bambini palestinesi sono stati massacrati nella strage israeliana del 2014 a Gaza, su cui la Corte penale internazionale ha recentemente deciso di indagare. Può essere considerato antisemita? Sebbene le prove concrete siano irreprensibili, i palestinesi dovrebbero evitare di usare quel termine in questo caso semplicemente perché è un tropo antisemita e Netanyahu è ebreo? È islamofobo chiamare il dittatore saudita Muhammad Bin Salman – che si dà il caso sia un musulmano – un macellaio per aver orchestrato il raccapricciante omicidio di Khashoggi, per non parlare dei crimini del regime saudita contro l’umanità nello Yemen? Mostrare MBS in possesso di un pugnale insanguinato sarebbe considerato un tropo islamofobico, dato che le caricature islamofobiche spesso raffigurano uomini musulmani con spade e pugnali intrisi di sangue? Ovviamente no. Allora perché eccezionalizzare Israele?

C. “Negare il diritto degli ebrei nello Stato di Israele di esistere e prosperare, collettivamente e individualmente, come ebrei, in conformità con il principio di uguaglianza”. Il principio di uguaglianza è assolutamente fondamentale nella protezione dei diritti individuali in tutti gli ambiti, nonché nella salvaguardia dei diritti culturali, religiosi, linguistici e sociali collettivi. Ma alcuni possono abusarne per implicare uguali diritti politici per i colonizzatori e i gruppi colonizzati in una realtà di colonialismo di insediamento, o per i gruppi dominanti e dominati in una realtà di apartheid, perpetuando così l’oppressione. Dopo tutto, ancorato al diritto internazionale, il principio fondamentale di uguaglianza non ha come scopo, né può essere utilizzato per, assolvere crimini o legittimare l’ingiustizia.

Che dire del presunto “diritto” dei coloni ebreo-israeliani a sostituire i palestinesi nella terra vittima di pulizia etnica di Kafr Bir’im in Galilea o Umm al Hiran nel Naqab / Negev? Che dire del “diritto” apparente di imporre comitati di ammissione razzisti in decine di insediamenti per soli ebrei nell’attuale Israele, che negano l’ammissione ai cittadini palestinesi di Israele per motivi “culturali / sociali”? Inoltre, ai rifugiati palestinesi dovrebbe essere negato il diritto di tornare a casa stabilito dalle Nazioni Unite per non disturbare un presunto “diritto ebraico collettivo” alla supremazia demografica? Che dire della giustizia, del rimpatrio e delle riparazioni in conformità con il diritto internazionale e del modo in cui possono influire su alcuni “diritti” presunti degli ebrei-israeliani che occupano case o terre palestinesi?

Soprattutto, cosa ha a che fare tutto questo con il razzismo antiebraico?

1. Come recentemente rivelato da Der Spiegel, un rapporto della polizia in Germania, ad esempio, mostra che nel 2020 la destra e l’estrema destra sono state responsabili del 96% di tutti gli incidenti antisemiti in Germania attribuibili a un chiaro motivo. https://twitter.com/bdsmovement/status/1362411616638275586

Fonte: BNC

Traduzione di BDS Italia




La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo

La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo è uno strumento per identificare, confrontare e sensibilizzare sull’antisemitismo, per come si manifesta oggi nei vari paesi del mondo. La Dichiarazione include un preambolo, una definizione e 15 linee guida che forniscono indicazioni dettagliate per coloro che cercano di riconoscere l’antisemitismo al fine di elaborare risposte appropriate. È stata realizzata da un gruppo di studiosi nei campi della storia dell’Olocausto, degli studi ebraici e degli studi sul Medio Oriente, per affrontare quella che è diventata una sfida crescente: fornire una guida chiara per identificare e combattere l’antisemitismo proteggendo al contempo la libertà di parola. È stata sottoscritta da 200 firmatari.

Preambolo

Noi sottoscritti, presentiamo la Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo, prodotto di un’iniziativa nata a Gerusalemme. Includiamo nel novero dei firmatari studiosi internazionali che lavorano in studi sull’antisemitismo e campi correlati, inclusi studi sull’ebraico, l’Olocausto, Israele, la Palestina e il Medio Oriente. Il testo della Dichiarazione si è avvalso della consulenza di studiosi di diritto e membri della società civile.

Ispirati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, dalla Convenzione sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale del 1969, dalla Dichiarazione del Forum Internazionale di Stoccolma sull’Olocausto del 2000 e dalla Risoluzione delle Nazioni Unite sulla Giornata della Memoria del 2005, noi riteniamo che, sebbene l’antisemitismo abbia alcuni tratti distintivi, la lotta contro di esso è inseparabile dalla lotta globale contro tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere.

Consapevoli della persecuzione storica degli Ebrei nel corso dei tempi e delle lezioni universali dell’Olocausto, e vedendo con allarme il riaffermarsi dell’antisemitismo da parte di gruppi che promuovono odio e violenza nella politica, nella società e su internet, cerchiamo di fornire una definizione di base dell’antisemitismo utilizzabile, coincisa e storicamente informata, insieme ad alcuni esempi.

La Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo è una risposta alla “Definizione IHRA”, il documento che è stato adottato nel 2016 dall’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto]). Poiché la Definizione IHRA è poco chiara in alcuni punti chiave e largamente aperta a differenti interpretazioni, ha causato confusione e generato controversie, indebolendo perciò la lotta contro l’antisemitismo. Notando che si auto-definisce “una dichiarazione operativa”, abbiamo cercato di migliorarla offrendo (a) una definizione di base più chiara e (b) un insieme coerente di linee guida. Speriamo che sia utile per monitorare e combattere l’antisemitismo, così come per scopi educativi. Proponiamo la nostra Dichiarazione non legalmente vincolante come un’alternativa alla Definizione IHRA. Le istituzioni che già hanno adottato la Definizione IHRA possono usare il nostro testo come uno strumento per interpretarla.

La Definizione IHRA include 11 “esempi” di antisemitismo, 7 dei quali incentrati sullo Stato di Israele. Poiché questo pone una sproporzionata enfasi su un ambito specifico, c’è un bisogno ampiamente sentito di chiarezza sui limiti di accettabilità di azioni e discorsi politici riguardanti il sionismo, Israele e la Palestina. Il nostro scopo è duplice: (1) rafforzare la lotta all’antisemitismo, chiarendo cos’è e come si manifesta, (2) proteggere lo spazio di un dibattito aperto sulla controversa questione del futuro di Israele/Palestina. Non tutti condividiamo le stesse opinioni politiche e non cerchiamo di promuovere una agenda politica di parte. Stabilire che una visione o un’azione controversa non è antisemita non implica né che la approviamo né che la disapproviamo.

Le linee guida che si concentrano su Israele-Palestina dovrebbero essere considerate nel loro insieme. In generale, quando si applicano queste linee guida, ognuna dovrebbe essere letta alla luce delle altre e sempre con un’analisi del contesto. Il contesto può includere l’intenzione dietro un enunciato, o un’espressione che evolve nel tempo, o anche l’identità di chi parla, specialmente quando l’argomento è Israele o il sionismo. Così, per esempio, l’ostilità verso Israele potrebbe essere un’espressione di ostilità antisemita, ma potrebbe essere anche una reazione alla violazione dei diritti umani, o il sentimento che una persona palestinese prova a causa dell’esperienza fatta trovandosi nelle mani di quello Stato. In poche parole, discernimento e sensibilità sono necessari nell’applicare queste linee guida alle situazioni concrete.

Definizione

Antisemitismo è discriminazione, pregiudizio, ostilità e violenza contro gli Ebrei in quanto Ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche).

Linee guida

A. Generali

  1. È razzista “essenzializzare” (trattare un tratto caratteriale come innato) o fare generalizzazioni negative indiscriminate su una data popolazione. Quel che è vero per il razzismo in generale è vero in particolare per l’antisemitismo.
  2. Quel che è peculiare nell’antisemitismo classico è l’idea che gli Ebrei siano legati alle forze del male. Questo sta al centro di molte fantasie antiebraiche, come l’idea di una cospirazione ebraica nella quale “gli Ebrei” possiedono un potere nascosto che usano per promuovere la loro agenda collettiva a spese degli altri popoli. Questo collegamento tra gli Ebrei e il male continua nel presente: nella fantasia che “gli Ebrei” controllino i governi con una “mano nascosta”, che possiedano banche, controllino i media, agiscano come “uno stato nello stato” e siano responsabili della diffusione di malattie (come il Covid-19). Tutte queste caratteristiche possono essere strumentalizzate da diverse (e anche antagonistiche) cause politiche.
  3. L’antisemitismo si può manifestare con parole, immagini e azioni. Esempi di antisemitismo a parole includono affermazioni del tipo: gli Ebrei sono ricchi, intrinsecamente avari o antipatriottici. Nelle caricature antisemite, gli Ebrei sono spesso rappresentati come grotteschi, con grandi nasi e sono associati alla ricchezza. Esempi di atti antisemiti sono: aggredire qualcuno solo perché ebreo/ebrea, attaccare una sinagoga, imbrattare con svastiche le tombe ebraiche, o rifiutare di assumere o promuovere qualcuno perché ebreo.
  4. L’antisemitismo può essere diretto o indiretto, esplicito o criptico. Per esempio, “I Rothschild controllano il mondo” è un’affermazione velata sul presunto potere degli “Ebrei” sulle banche e la finanza internazionale. Ugualmente, ritrarre Israele come il male supremo o esagerare grossolanamente la sua reale influenza può essere un modo criptico di ‘razzializzare’ e stigmatizzare gli Ebrei. In molti casi, identificare un discorso in codice è una questione di contesto e buonsenso, tenendo conto di questi esempi.
  5. Negare o minimizzare l’Olocausto sostenendo che il deliberato genocidio nazista degli Ebrei non ebbe luogo, o che non c’erano campi di sterminio o camere a gas, o che il numero delle vittime fu una piccola parte del totale reale, è antisemita.

B. Israele e Palestina: esempi che, a ben vedere, sono antisemiti

  1. Applicare i simboli, immagini e stereotipi negativi dell’antisemitismo classico (vedi gli esempi precedenti 2 e 3) allo Stato di Israele.
  2. Ritenere gli Ebrei collettivamente responsabili per la condotta di Israele o trattare gli Ebrei, semplicemente perché Ebrei, come agenti di Israele.
  3. Richiedere alle persone, perché Ebree, di condannare pubblicamente Israele o il sionismo (per esempio, in una riunione politica).
  4. Presumere che gli Ebrei non israeliani, semplicemente perché Ebrei, siano necessariamente più fedeli a Israele che non al proprio paese.
  5. Negare il diritto agli Ebrei dello Stato d’Israele di esistere e prosperare, collettivamente e individualmente, come Ebrei, secondo il principio di uguaglianza.

C. Israele e Palestina: esempi che, a ben vedere, non sono antisemiti (che si approvi o meno l’opinione o l’azione considerata)

  1. Sostenere la richiesta di giustizia e di piena concessione dei diritti politici, nazionali, civili e umani dei Palestinesi, come sancito dal diritto internazionale.
  2. Criticare o opporsi al sionismo come forma di nazionalismo, o schierarsi a favore di un qualche tipo di accordo costituzionale per Ebrei e Palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo. Non è antisemita sostenere intese che accordino piena uguaglianza a tutti gli abitanti “tra il fiume e il mare”, sia che ciò avvenga con due stati, con uno stato binazionale, con uno stato democratico unitario, con uno stato federale o in qualsiasi altra forma.
  3. La critica, basata sull’evidenza, di Israele come Stato. Ciò include le sue istituzioni e i suoi principi fondanti. Include anche la sua politica e le sue pratiche, interne ed estere, come l’operato di Israele in Cisgiordania e Gaza, il ruolo che Israele gioca nella regione, o qualsiasi altro modo in cui, come Stato, influenza eventi nel mondo. Non è antisemita segnalare la sistematica discriminazione razziale. In generale, le stesse norme di dibattito che si applicano agli altri Stati e agli altri conflitti per l’autodeterminazione nazionale si applicano nel caso di Israele e della Palestina. Quindi, anche se polemico, non è antisemita, in sé e per sé, paragonare Israele ad altri esempi storici, tra cui il colonialismo di insediamento o l’apartheid.
  4. Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni sono forme comuni e nonviolente di protesta politica contro gli Stati. Nel caso di Israele non sono, in sé e per sé, antisemite.
  5. Il discorso politico non deve essere misurato, proporzionale, temperato o ragionevole per essere protetto dall’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani o dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e da altri strumenti legali. La critica che alcuni possono vedere come eccessiva o controversa, o come espressione di un “doppio standard”, non è, in sé e per sé, antisemita. In generale, il confine tra il discorso antisemita e quello che non lo è, è diverso dal confine tra il discorso ragionevole e quello irragionevole.

Firmatari:

Ludo Abicht, Professor Dr., Political Science Department, University of Antwerp

Taner Akçam, Professor, Kaloosdian/Mugar Chair Armenian History and Genocide, Clark University

Gadi Algazi, Professor, Department of History and Minerva Institute for German History, Tel Aviv University

Seth Anziska, Mohamed S. Farsi-Polonsky Associate Professor of Jewish-Muslim Relations, University College London

Aleida Assmann, Professor Dr., Literary Studies, Holocaust, Trauma and Memory Studies, Konstanz University

Jean-Christophe Attias, Professor, Medieval Jewish Thought, École Pratique des Hautes Études, Université PSL Paris

Leora Auslander, Arthur and Joann Rasmussen Professor of Western Civilization in the College and Professor of European Social History, Department of History, University of Chicago

Bernard Avishai, Visiting Professor of Government, Department of Government, Dartmouth College

Angelika Bammer, Professor, Comparative Literature, Affiliate Faculty of Jewish Studies, Emory University

Omer Bartov, John P. Birkelund Distinguished Professor of European History, Brown University

Almog Behar, Dr., Department of Literature and the Judeo-Arabic Cultural Studies Program, Tel Aviv University

Moshe Behar, Associate Professor, Israel/Palestine and Middle Eastern Studies, University of Manchester

Peter Beinart, Professor of Journalism and Political Science, The City University of New York (CUNY); Editor at large, Jewish Currents

Elissa Bemporad, Jerry and William Ungar Chair in East European Jewish History and the Holocaust; Professor of History, Queens College and The City University of New York (CUNY)

Sarah Bunin Benor, Professor of Contemporary Jewish Studies, Hebrew Union College-Jewish Institute of Religion

Wolfgang Benz, Professor Dr., fmr. Director Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Doris Bergen, Chancellor Rose and Ray Wolfe Professor of Holocaust Studies, Department of History and Anne Tanenbaum Centre for Jewish Studies, University of Toronto

Werner Bergmann, Professor Emeritus, Sociologist, Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Michael Berkowitz, Professor, Modern Jewish History, University College London

Louise Bethlehem, Associate Professor and Chair of the Program in Cultural Studies, English and Cultural Studies, The Hebrew University of Jerusalem

David Biale, Emanuel Ringelblum Distinguished Professor, University of California, Davis

Leora Bilsky, Professor, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University

Monica Black, Associate Professor, Department of History, University of Tennessee, Knoxville

Daniel Blatman, Professor, Department of Jewish History and Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Omri Boehm, Associate Professor of Philosophy, The New School for Social Research, New York

Daniel Boyarin, Taubman Professor of Talmudic Culture, UC Berkeley

Christina von Braun, Professor Dr., Selma Stern Center for Jewish Studies, Humboldt University, Berlin

Micha Brumlik, Professor Dr., fmr. Director of Fritz Bauer Institut-Geschichte und Wirkung des Holocaust, Frankfurt am Main

Jose Brunner, Professor Emeritus, Buchmann Faculty of Law and Cohn Institute for the History and Philosophy of Science, Tel Aviv University

Darcy Buerkle, Professor and Chair of History, Smith College

John Bunzl, Professor Dr., The Austrian Institute for International Politics

Michelle U. Campos, Associate Professor of Jewish Studies and History Pennsylvania State University

Francesco Cassata, Professor, Contemporary History Department of Ancient Studies, Philosophy and History, University of Genoa

Naomi Chazan, Professor Emerita of Political Science, The Hebrew University of Jerusalem

Bryan Cheyette, Professor and Chair in Modern Literature and Culture, University of Reading

Stephen Clingman, Distinguished University Professor, Department of English, University of Massachusetts, Amherst

Raya Cohen, Dr., fmr. Department of Jewish History, Tel Aviv University; fmr. Department of Sociology, University of Naples Federico II

Alon Confino, Pen Tishkach Chair of Holocaust Studies, Professor of History and Jewish Studies, Director Institute for Holocaust, Genocide, and Memory Studies, University of Massachusetts, Amherst

Sebastian Conrad, Professor of Global and Postcolonial History, Freie Universität Berlin

Lila Corwin Berman, Murray Friedman Chair of American Jewish History, Temple University

Deborah Dash Moore, Frederick G. L. Huetwell Professor of History and Professor of Judaic Studies, University of Michigan

Natalie Zemon Davis, Professor Emerita, Princeton University and University of Toronto

Sidra DeKoven Ezrahi, Professor Emerita, Comparative Literature, The Hebrew University of Jerusalem

Hasia R. Diner, Professor, New York University

Arie M. Dubnov, Max Ticktin Chair of Israel Studies and Director Judaic Studies Program, The George Washington University

Debórah Dwork, Director Center for the Study of the Holocaust, Genocide and Crimes Against Humanity, Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Yulia Egorova, Professor, Department of Anthropology, Durham University, Director Centre for the Study of Jewish Culture, Society and Politics

Helga Embacher, Professor Dr., Department of History, Paris Lodron University Salzburg

Vincent Engel, Professor, University of Louvain, UCLouvain

David Enoch, Professor, Philosophy Department and Faculty of Law, The Hebrew University of Jerusalem

Yuval Evri, Dr., Leverhulme Early Career Fellow SPLAS, King’s College London

Richard Falk, Professor Emeritus of International Law, Princeton University; Chair of Global Law, School of Law, Queen Mary University, London

David Feldman, Professor, Director of the Institute for the Study of Antisemitism, Birkbeck, University of London

Yochi Fischer, Dr., Deputy Director Van Leer Jerusalem Institute and Head of the Sacredness, Religion and Secularization Cluster

Ulrike Freitag, Professor Dr., History of the Middle East, Director Leibniz-Zentrum Moderner Orient, Berlin

Ute Frevert, Professor of Modern History, Department of History, University of Zurich

Katharina Galor, Professor Dr., Hirschfeld Visiting Associate Professor, Program in Judaic Studies, Program in Urban Studies, Brown University

Chaim Gans, Professor Emeritus, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University

Alexandra Garbarini, Professor, Department of History and Program in Jewish Studies, Williams College

Shirli Gilbert, Professor of Modern Jewish History, University College London

Sander Gilman, Distinguished Professor of the Liberal Arts and Sciences; Professor of Psychiatry, Emory University

Shai Ginsburg, Associate Professor, Chair of the Department of Asian and Middle Eastern Studies and Faculty Member of the Center for Jewish Studies, Duke University

Victor Ginsburgh, Professor Emeritus, Université Libre de Bruxelles, Brussels

Carlo Ginzburg, Professor Emeritus, UCLA and Scuola Normale Superiore, Pisa

Snait Gissis, Dr., Cohn Institute for the History and Philosophy of Science and Ideas, Tel Aviv University

Glowacka Dorota, Professor, Humanities, University of King’s College, Halifax

Amos Goldberg, Professor, The Jonah M. Machover Chair in Holocaust Studies, Head of the Avraham Harman Research Institute of Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Harvey Goldberg, Professor Emeritus, Department of Sociology and Anthropology, The Hebrew University of Jerusalem

Sylvie-Anne Goldberg, Professor, Jewish Culture and History, Head of Jewish Studies at the Advanced School of Social Sciences (EHESS), Paris

Svenja Goltermann, Professor Dr., Historisches Seminar, University of Zurich

Neve Gordon, Professor of International Law, School of Law, Queen Mary University of London

Emily Gottreich, Adjunct Professor, Global Studies and Department of History, UC Berkeley, Director MENA-J Program

Leonard Grob, Professor Emeritus of Philosophy, Fairleigh Dickinson University

Jeffrey Grossman, Associate Professor, German and Jewish Studies, Chair of the German Department, University of Virginia

Atina Grossmann, Professor of History, Faculty of Humanities and Social Sciences, The Cooper Union, New York

Wolf Gruner, Shapell-Guerin Chair in Jewish Studies and Founding Director of the USC Shoah Foundation Center for Advanced Genocide Research, University of Southern California

François Guesnet, Professor of Modern Jewish History, Department of Hebrew and Jewish Studies, University College London

Ruth HaCohen, Artur Rubinstein Professor of Musicology, The Hebrew University of Jerusalem

Aaron J. Hahn, Tapper Professor, Mae and Benjamin Swig Chair in Jewish Studies, University of San Francisco

Liora R. Halperin, Associate Professor of International Studies, History and Jewish Studies; Jack and Rebecca Benaroya Endowed Chair in Israel Studies, University of Washington

Rachel Havrelock, Professor of English and Jewish Studies, University of Illinois, Chicago

Sonja Hegasy, Professor Dr., Scholar of Islamic Studies and Professor of Postcolonial Studies, Leibniz-Zentrum Moderner Orient, Berlin

Elizabeth Heineman, Professor of History and of Gender, Women’s and Sexuality Studies, University of Iowa

Didi Herman, Professor of Law and Social Change, University of Kent

Deborah Hertz, Wouk Chair in Modern Jewish Studies, University of California, San Diego

Dagmar Herzog, Distinguished Professor of History and Daniel Rose Faculty Scholar Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Susannah Heschel, Eli M. Black Distinguished Professor of Jewish Studies, Chair, Jewish Studies Program, Dartmouth College

Dafna Hirsch, Dr., Open University of Israel

Marianne Hirsch, William Peterfield Trent Professor of Comparative Literature and Gender Studies, Columbia University

Christhard Hoffmann, Professor of Modern European History, University of Bergen

Dr. habil. Klaus Holz, General Secretary of the Protestant Academies of Germany, Berlin

Eva Illouz, Directrice d’etudes, EHESS Paris and Van Leer Institute, Fellow

Jill Jacobs, Rabbi, Executive Director, T’ruah: The Rabbinic Call for Human Rights, New York

Uffa Jensen, Professor Dr., Center for Research on Antisemitism, Technische Universität, Berlin

Jonathan Judaken, Professor, Spence L. Wilson Chair in the Humanities, Rhodes College

Robin E. Judd, Associate Professor, Department of History, The Ohio State University

Irene Kacandes, The Dartmouth Professor of German Studies and Comparative Literature, Dartmouth University

Marion Kaplan, Skirball Professor of Modern Jewish History, New York University

Eli Karetny, Deputy Director Ralph Bunche Institute for International Studies; Lecturer Baruch College, The City University of New York (CUNY)

Nahum Karlinsky, The Ben-Gurion Research Institute for the Study of Israel and Zionism, Ben-Gurion University of the Negev

Menachem Klein, Professor Emeritus, Department of Political Studies, Bar Ilan University

Brian Klug, Senior Research Fellow in Philosophy, St. Benet’s Hall, Oxford; Member of the Philosophy Faculty, Oxford University

Francesca Klug, Visiting Professor at LSE Human Rights and at the Helena Kennedy Centre for International Justice, Sheffield Hallam University

Thomas A. Kohut, Sue and Edgar Wachenheim III Professor of History, Williams College

Teresa Koloma Beck, Professor of Sociology, Helmut Schmidt University, Hamburg

Rebecca Kook, Dr., Department of Politics and Government, Ben Gurion University of the Negev

Claudia Koonz, Professor Emeritus of History, Duke University

Hagar Kotef, Dr., Senior Lecturer in Political Theory and Comparative Political Thought, Department of Politics and International Studies, SOAS, University of London

Gudrun Kraemer, Professor Dr., Senior Professor of Islamic Studies, Freie Universität Berlin

Cilly Kugelman, Historian, fmr. Program Director of the Jewish Museum, Berlin

Tony Kushner, Professor, Parkes Institute for the Study of Jewish/non-Jewish Relations, University of Southampton

Dominick LaCapra, Bowmar Professor Emeritus of History and of Comparative Literature, Cornell University

Daniel Langton, Professor of Jewish History, University of Manchester

Shai Lavi, Professor, The Buchmann Faculty of Law, Tel Aviv University; The Van Leer Jerusalem Institute

Claire Le Foll, Associate Professor of East European Jewish History and Culture, Parkes Institute, University of Southampton; Director Parkes Institute for the Study of Jewish/non-Jewish Relations

Nitzan Lebovic, Professor, Department of History, Chair of Holocaust Studies and Ethical Values, Lehigh University

Mark Levene, Dr., Emeritus Fellow, University of Southampton and Parkes Centre for Jewish/non-Jewish Relations

Simon Levis Sullam, Associate Professor in Contemporary History, Dipartimento di Studi Umanistici, University Ca’ Foscari Venice

Lital Levy, Associate Professor of Comparative Literature, Princeton University

Lior Libman, Assistant Professor of Israel Studies, Associate Director Center for Israel Studies, Judaic Studies Department, Binghamton University, SUNY

Caroline Light, Senior Lecturer and Director of Undergraduate Studies Program in Women, Gender and Sexuality Studies, Harvard University

Kerstin von Lingen, Professor for Contemporary History, Chair for Studies of Genocide, Violence and Dictatorship, Vienna University

James Loeffler, Jay Berkowitz Professor of Jewish History, Ida and Nathan Kolodiz Director of Jewish Studies, University of Virginia

Hanno Loewy, Director of the Jewish Museum Hohenems, Austria

Ian S. Lustick, Bess W. Heyman Chair, Department of Political Science, University of Pennsylvania

Sergio Luzzato, Emiliana Pasca Noether Chair in Modern Italian History, University of Connecticut

Shaul Magid, Professor of Jewish Studies, Dartmouth College

Avishai Margalit, Professor Emeritus in Philosophy, The Hebrew University of Jerusalem

Jessica Marglin, Associate Professor of Religion, Law and History, Ruth Ziegler Early Career Chair in Jewish Studies, University of Southern California

Arturo Marzano, Associate Professor of History of the Middle East, Department of Civilizations and Forms of Knowledge, University of Pisa

Anat Matar, Dr., Department of Philosophy, Tel Aviv University

Manuel Reyes Mate Rupérez, Instituto de Filosofía del CSIC, Spanish National Research Council, Madrid

Menachem Mautner, Daniel Rubinstein Professor of Comparative Civil Law and Jurisprudence, Faculty of Law, Tel Aviv University

Brendan McGeever, Dr., Lecturer in the Sociology of Racialization and Antisemitism, Department of Psychosocial Studies, Birkbeck, University of London

David Mednicoff, Chair Department of Judaic and Near Eastern Studies and Associate Professor of Middle Eastern Studies and Public Policy, University of Massachusetts, Amherst

Eva Menasse, Novelist, Berlin

Adam Mendelsohn, Associate Professor of History and Director of the Kaplan Centre for Jewish Studies, University of Cape Town

Leslie Morris, Beverly and Richard Fink Professor in Liberal Arts, Professor and Chair Department of German, Nordic, Slavic & Dutch, University of Minnesota

Dirk Moses, Frank Porter Graham Distinguished Professor of Global Human Rights History, The University of North Carolina at Chapel Hill

Samuel Moyn, Henry R. Luce Professor of Jurisprudence and Professor of History, Yale University

Susan Neiman, Professor Dr., Philosopher, Director of the Einstein Forum, Potsdam

Anita Norich, Professor Emeritus, English and Judaic Studies, University of Michigan

Xosé Manoel Núñez Seixas, Professor of Modern European History, University of Santiago de Compostela

Esra Ozyurek, Sultan Qaboos Professor of Abrahamic Faiths and Shared Values Faculty of Divinity, University of Cambridge

Ilaria Pavan, Associate Professor in Modern History, Scuola Normale Superiore, Pisa

Derek Penslar, William Lee Frost Professor of Jewish History, Harvard University

Andrea Pető, Professor, Central European University (CEU), Vienna; CEU Democracy Institute, Budapest

Valentina Pisanty, Associate Professor, Semiotics, University of Bergamo

Renée Poznanski, Professor Emeritus, Department of Politics and Government, Ben Gurion University of the Negev

David Rechter, Professor of Modern Jewish History, University of Oxford

James Renton, Professor of History, Director of International Centre on Racism, Edge Hill Universit

Shlomith Rimmon Kenan, Professor Emerita, Departments of English and Comparative Literature, The Hebrew University of Jerusalem; Member of the Israel Academy of Science

Shira Robinson, Associate Professor of History and International Affairs, George Washington University

Bryan K. Roby, Assistant Professor of Jewish and Middle East History, University of Michigan-Ann Arbor

Na’ama Rokem, Associate Professor, Director Joyce Z. And Jacob Greenberg Center for Jewish Studies, University of Chicago

Mark Roseman, Distinguished Professor in History, Pat M. Glazer Chair in Jewish Studies, Indiana University

Göran Rosenberg, Writer and Journalist, Sweden

Michael Rothberg, 1939 Society Samuel Goetz Chair in Holocaust Studies, UCLA

Sara Roy, Senior Research Scholar, Center for Middle Eastern Studies, Harvard University

Miri Rubin, Professor of Medieval and Modern History, Queen Mary University of London

Dirk Rupnow, Professor Dr., Department of Contemporary History, University of Innsbruck, Austria

Philippe Sands, Professor of Public Understanding of Law, University College London; Barrister; Writer

Victoria Sanford, Professor of Anthropology, Lehman College Doctoral Faculty, The Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Gisèle Sapiro, Professor of Sociology at EHESS and Research Director at the CNRS (Centre européen de sociologie et de science politique), Paris

Peter Schäfer, Professor of Jewish Studies, Princeton University, fmr. Director of the Jewish Museum Berlin

Andrea Schatz, Dr., Reader in Jewish Studies, King’s College London

Jean-Philippe Schreiber, Professor, Université Libre de Bruxelles, Brussels

Stefanie Schüler-Springorum, Professor Dr., Director of the Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Guri Schwarz, Associate Professor of Contemporary History, Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Università di Genova

Raz Segal, Associate Professor, Holocaust and Genocide Studies, Stockton University

Joshua Shanes, Associate Professor and Director of the Arnold Center for Israel Studies, College of Charleston

David Shulman, Professor Emeritus, Department of Asian Studies, The Hebrew University of Jerusalem

Dmitry Shumsky, Professor, Israel Goldstein Chair in the History of Zionism and the New Yishuv, Director of the Bernard Cherrick Center for the Study of Zionism, the Yishuv and the State of Israel, Department of Jewish History and Contemporary Jewry, The Hebrew University of Jerusalem

Marcella Simoni, Professor of History, Department of Asian and North African Studies, Ca’ Foscari University, Venice

Santiago Slabodsky, The Robert and Florence Kaufman Endowed Chair in Jewish Studies and Associate Professor of Religion, Hofstra University, New York

David Slucki, Associate Professor of Contemporary Jewish Life and Culture, Australian Centre for Jewish Civilisation, Monash University, Australia

Tamir Sorek, Liberal Arts Professor of Middle East History and Jewish Studies, Penn State University

Levi Spectre, Dr., Senior Lecturer at the Department of History, Philosophy and Judaic Studies, The Open University of Israel; Researcher at the Department of Philosophy, Stockholm University, Sweden

Michael P. Steinberg, Professor, Barnaby Conrad and Mary Critchfield Keeney Professor of History and Music, Professor of German Studies, Brown University

Lior Sternfeld, Assistant Professor of History and Jewish Studies, Penn State Univeristy

Michael Stolleis, Professor of History of Law, Max Planck Institute for European Legal History, Frankfurt am Main

Mira Sucharov, Professor of Political Science and University Chair of Teaching Innovation, Carleton University Ottawa

Adam Sutcliffe, Professor of European History, King’s College London

Aaron J. Hahn Tapper, Professor, Mae and Benjamin Swig Chair in Jewish Studies, University of San Francisco

Anya Topolski, Associate Professor of Ethics and Political Philosophy, Radboud University, Nijmegen

Barry Trachtenberg, Associate Professor, Rubin Presidential Chair of Jewish History, Wake Forest University

Emanuela Trevisan Semi, Senior Researcher in Modern Jewish Studies, Ca’ Foscari University of Venice

Heidemarie Uhl, PhD, Historian, Senior Researcher, Austrian Academy of Sciences, Vienna

Peter Ullrich, Dr. Dr., Senior Researcher, Fellow at the Center for Research on Antisemitism, Technische Universität Berlin

Uğur Ümit Üngör, Professor and Chair of Holocaust and Genocide Studies, Faculty of Humanities, University of Amsterdam; Senior Researcher NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies, Amsterdam

Nadia Valman, Professor of Urban Literature, Queen Mary, University of London

Dominique Vidal, Journalist, Historian and Essayist

Alana M. Vincent, Associate Professor of Jewish Philosophy, Religion and Imagination, University of Chester

Vered Vinitzky-Seroussi, Head of The Truman Research Institute for the Advancement of Peace, The Hebrew University of Jerusalem

Anika Walke, Associate Professor of History, Washington University, St. Louis

Yair Wallach, Dr., Senior Lecturer in Israeli Studies School of Languages, Cultures and Linguistics, SOAS, University of London

Michael Walzer, Professor Emeritus, Institute for Advanced Study, School of Social Science, Princeton

Dov Waxman, Professor, The Rosalinde and Arthur Gilbert Foundation Chair in Israel Studies, University of California (UCLA)

Ilana Webster-Kogen, Joe Loss Senior Lecturer in Jewish Music, SOAS, University of London

Bernd Weisbrod, Professor Emeritus of Modern History, University of Göttingen

Eric D. Weitz, Distinguished Professor of History, City College and the Graduate Center, The City University of New York (CUNY)

Michael Wildt, Professor Dr., Department of History, Humboldt University, Berlin

Abraham B. Yehoshua, Novelist, Essayist and Playwright

Noam Zadoff, Assistant Professor in Israel Studies, Department of Contemporary History, University of Innsbruck

Tara Zahra, Homer J. Livingston Professor of East European History; Member Greenberg Center for Jewish Studies, University of Chicago

José A. Zamora Zaragoza, Senior Researcher, Instituto de Filosofía del CSIC, Spanish National Research Council, Madrid

Lothar Zechlin, Professor Emeritus of Public Law, fmr. Rector Institute of Political Science, University of Duisburg

Yael Zerubavel, Professor Emeritus of Jewish Studies and History, fmr. Founding Director Bildner Center for the Study of Jewish Life, Rutgers University

Moshe Zimmermann, Professor Emeritus, The Richard Koebner Minerva Center for German History, The Hebrew University of Jerusalem

Steven J. Zipperstein, Daniel E. Koshland Professor in Jewish Culture and History, Stanford University

Moshe Zuckermann, Professor Emeritus of History and Philosophy, Tel Aviv University

https://jerusalemdeclaration.org/

Traduzione di Elisabetta Valento – AssoPacePalestina




Il boicottaggio dei prodotti israeliani nuovamente di fronte a un tribunale francese

Redazione di MEE

16 marzo 2021 – Middle East Eye

La militante Olivia Zemor è imputata di “diffamazione” e “istigazione alla discriminazione economica” per aver propagandato gli appelli al boicottaggio contro il gigante farmaceutico israeliano Teva.

La direttrice editoriale del sito Europalestine è stata citata in giudizio martedì 16 marzo davanti alla giustizia francese dall’azienda farmaceutica israeliana Teva, per aver propagandato un appello al boicottaggio lanciato a Lione da militanti della causa palestinese.

Olivia Zemor comparirà davanti al tribunale penale di tale città per diffamazione e istigazione alla discriminazione economica, dopo aver riportato sul suo sito, con il titolo ‘Teva, non ti vogliamo’, l’azione di militanti lionesi filopalestinesi davanti alla principale farmacia della città.

La società Teva Santé, con una filiale in Francia e la cui casa madre ha sede in Israele, è un leader mondiale dei farmaci generici.

Indossando felpe verdi sulle quali si poteva leggere “Free Palestine” e “Boycott Israel”, degli attivisti incitavano i consumatori a non acquistare farmaci prodotti dalla Teva.

L’azione si inseriva nel quadro del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni), una campagna mondiale di boicottaggio economico, culturale e scientifico di Israele, allo scopo di ottenere la fine dell’occupazione e della colonizzazione israeliana dei territori palestinesi.

Teva non è coinvolta in un conflitto geopolitico, etnico o religioso e queste azioni compromettono la sua attività economica”, commenta Frédéric Jeannin, avvocato della società farmaceutica.

Con il suo apporto finanziario allo Stato di Israele, questo gigante farmaceutico contribuisce al finanziamento delle operazioni militari a Gaza e allo sviluppo della colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est, in spregio dei diritti del popolo palestinese e delle risoluzioni internazionali, in totale impunità! Fare appello al boicottaggio nei suoi confronti è quindi necessario”, ha spiegato di rimando Olivia Zemor al Courrier de l’Atlas [giornale francese specializzato in problemi del mondo arabo in Europa, ndtr.].

Commistione pretestuosa

Il suo sito, Europalestine, ha anche accusato SLE, la filiale di Teva responsabile dello stoccaggio e della distribuzione dei vaccini contro il COVID-19, di consegnare i vaccini in Cisgiordania solo ai coloni.

Dei cinque milioni di dosi stoccate nello scorso gennaio, Teva, il cui senso etico si evince dalle sue numerose condanne per corruzione e condotta negligente nei confronti dei pazienti, non ha trovato modo di consegnarne ai palestinesi, compresi i circa 30.000 che lavoravano in Israele come manodopera a buon mercato, principalmente nel settore edilizio”, scrive Europalestine.

Per la cronaca, questa causa, che avrebbe inizialmente dovuto essere portata in giudizio al tempo del primo confinamento, giunge in tribunale dopo che lo scorso giugno la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha condannato la Francia per la sua sentenza contro militanti filopalestinesi in una causa analoga (si erano introdotti in un supermercato in Alsazia per invitare al boicottaggio dei prodotti israeliani).

Il proseguimento di questo procedimento giudiziario è tanto più scandaloso in quanto la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), con un’importante sentenza emessa l’11 giugno 2020, precisa che ‘l’azione di appello al boicottaggio per contestare la politica di uno Stato si configura come espressione politica e militante e riguarda un argomento di interesse generale’, nella misura in cui non implica conseguenze di violenza e odio o intenzioni razziste”, ha ricordato l’Associazione di Solidarietà franco-palestinese. La CEDU aveva ritenuto che i fatti “si configuravano come espressione politica e militante”.

Spero che i giudici di Lione sapranno applicare la legge, senza lasciarsi influenzare, leggendo con attenzione la sentenza della CEDU che afferma che le nostre azioni non costituiscono discriminazione”, afferma Olivia Zemor, per la quale la Francia è il solo Paese al mondo che mette sotto processo militanti che denunciano la politica di annessione e di apartheid di Israele.”

Eric Dupond-Moretti (Ministro della Giustizia) non chiede solo ai magistrati di condannarci penalmente, ma auspica anche che ci vengano imposte dei “corsi sulla Shoah”. Si vede bene qui la commistione pretestuosa che viene creata tra la difesa legittima dei diritti dei palestinesi e l’antisemitismo, che è un reato e va combattuto. È la politica di colonizzazione di Israele che genera l’antisemitismo e che mette in pericolo gli ebrei di ogni Paese”, ha denunciato Olivia Zemor sul Courrier d’Atlas.

Anche tre associazioni di difesa di Israele e di lotta contro l’antisemitismo si sono costituite parte civile a sostegno di Teva in questa causa.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Intervista: Quegli israeliani che si battono a fianco dei palestinesi

Hassina Mechaï

16 marzo 2021 – Orient XXI

Mentre si preparano le elezioni legislative israeliane del 23 marzo 2021, dominate dalla competizione tra partiti di destra estrema e di estrema destra, qualche voce dissidente si fa sentire. Parliamo con una di loro, Tali Shapiro.

Visto dalla Francia il campo politico [israeliano] può sembrare totalmente dominato da un misto di nazionalismo e religione, testimoniato dalle alleanze del Likud al potere con diversi piccoli partiti religiosi. Questa ideologia si incarna in Benjamin Netanyahu. Egli è stato primo ministro senza interruzione dal 2009, ma la sua prima elezione a questa carica risale al 1996.

Di fronte a quello che si potrebbe vedere come un blocco politico monolitico, la società civile israeliana offre delle sfumature che la dicono lunga sulle sfide che il Paese si trova ad affrontare, così come sulle sue contraddizioni. In questa società civile si distinguono i militanti israeliani che hanno scelto di agire, o di vivere, a fianco dei palestinesi. A volte definiti smolanim (estremisti di sinistra), detestati dalla destra e dall’estrema destra, propongono una voce dissidente che contraddice il discorso dominante, praticano la disobbedienza civile o l’obiezione di coscienza. Tra loro Tali Shapiro, una cittadina israeliana il cui percorso, anche se particolare, illustra una tendenza sicuramente minoritaria, ma che resiste.

Hassina Mechaï. — Come e perché è diventata una militante?

Tali Shapiro. — Sono cresciuta con una certa forma di ignoranza politica, più precisamente in una famiglia ashkenazita [ebrei di origine centro-europea, ndtr.] in cui i miti sionisti erano considerati scontati. A 20 anni circa ho avuto un fidanzato cresciuto in una famiglia più a sinistra della mia. È grazie a questo rapporto che ho sentito per la prima volta un discorso diverso, contrastante con quello con cui ero cresciuta. Mi ci sono voluti parecchi anni per mettere insieme i pezzi del puzzle. Ci è voluto del tempo, perché tentavo di mettere insieme i frammenti di informazioni che mi arrivavano. Non affrontavamo la questione in modo formale. Non erano che chiacchierate, in genere commenti sulle notizie che vedevamo o uno sguardo diverso sui media israeliani. Nel 2009, quando Israele bombardò Gaza [operazione Piombo Fuso, dal dicembre 2008 al gennaio 2009, ndtr.] tutto divenne chiaro. Lo choc e la rabbia mi spinsero ad avviare un processo di comprensione più rigorosa della situazione. Da allora lì mi sono rapidamente unita alle manifestazioni a Bil’in e in altri villaggi della Cisgiordania e grazie ad amicizie e rapporti stretti laggiù, al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS).

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H. M.Perché questo tipo di impegno?

T. S. — Partecipare alle manifestazioni nei villaggi è stato soprattutto un atto spontaneo. Volevo incontrare queste persone che soffrono perché io possa vivere una vita soddisfacente. Volevo essere veramente lì per loro, in un modo che avesse un senso per loro. Volevo anche, in modo molto viscerale, esprimere il mio rifiuto di partecipare alla distruzione, il mio rifiuto di fronte al meccanismo di cancellazione e di controllo sistematico che è l’occupazione.

Unirmi al movimento BDS si è inserito nella logica di questo impegno. Il BDS mina il cuore stesso del sistema israeliano di oppressione attraverso il ricorso a un’analisi economica, istituzionale e culturale. Mettiamo in evidenza il modo complesso con cui le imprese, le istituzioni educative e culturali, il governo, l’esercito e le colonie sono collegati all’oppressione e la perpetuano. Esigiamo la fine di questa complicità, sottolineando che il quadro giuridico, politico e sociale esistente deve essere messo in pratica perché questa situazione cessi.

H. M.Durante queste manifestazioni come agiscono i soldati israeliani con voi? C’è una differenza di trattamento tra voi e i manifestanti palestinesi?

T. S.— La prima cosa da capire è che gli israeliani e gli attivisti internazionali non sono un bersaglio dei soldati. Quando sparano i soldati praticano il profilamento etnico, con una preferenza per i ragazzi e gli uomini. Se hai la pelle scura o la barba sei un bersaglio privilegiato. Tuttavia il solo fatto di stare insieme ai palestinesi durante una manifestazione può avere delle gravi conseguenze. Se sei troppo vicino rischi di essere arrestato o picchiato. In generale i soldati sono estremamente ostili e le loro reazioni vanno dalla villania alla brutalità. Gli israeliani che manifestano con i palestinesi sono considerati dei traditori. Ma nel complesso le conseguenze per noi sono meno pesanti e gli arresti più brevi e meno brutali.

Ciò detto, le conseguenze personali non sono trascurabili. Nei miei otto anni di proteste sono stata ferita, arrestata, imprigionata e ho visto degli amici feriti con danni permanenti. Un momento particolarmente significativo è stato quando sono stata liberata sotto cauzione grazie ad amici palestinesi. Mentre uscivamo dal posto di polizia, il comandante che mi aveva arrestata mi ha detto che avrebbe preferito sparare a me piuttosto che a loro, perché loro li capiva, mentre io ai suoi occhi ero una traditrice.

H. M.Che difficoltà e ostacoli ha trovato dal punto di vista personale, familiare, istituzionale? Il suo impegno ha avuto un impatto sulla sua vita?

T. S.— Io sono probabilmente più fortunata della maggioranza delle altre persone a questo proposito. Sono una libera professionista e non ho rapporti o legami istituzionali. Per quanto riguarda la mia famiglia ci siamo sforzati di mantenere la pace in casa. È tutt’altro che una situazione ideale, ma ci siamo posti dei limiti accettabili entro i quali possiamo vivere tutti. Il mio impegno è comunque cambiato perché, dopo aver preso coscienza della brutalità della colonizzazione, non potevo continuare lungo la strada che avevo intrapreso fino ad allora. Mi sono dedicata quasi interamente alla lotta palestinese contro la colonizzazione. Ciò ha cambiato la mia visione della vita, la cerchia di amici, il mio percorso professionale e il contesto in cui ho scelto di vivere. Sono diventata critica, non solo della violenza che mi circonda, ma anche del sistema socio-economico che la perpetua. I miei amici e le persone che mi sono vicine sono tutti militanti. Ho abbandonato il sogno della mia vita, diventare un’artista, per accettare un lavoro qualunque e poter agire in questo modo. Ho anche scelto di vivere a Ramallah. Se a 18 anni mi avessero detto che a 38 anni avrei vissuto lì sarei rimasta sconcertata.?

H. M.Nota dei punti in comune tra i militanti israeliani che frequenta?

T. S.— È un percorso molto personale, che resta unico per ciascuno di noi. Ognuno proviene da contesti socio-economici, razziali, sessuali e religiosi diversi. L’adesione al movimento è individuale, con punti di partenza differenti per ognuno. Se sapessimo come riprodurre dei fenomeni di dissidenza interna, lo faremmo.

H. M.Come siete accolti dai palestinesi? Come lavorate con militanti palestinesi?

T. S.— Viviamo una relazione tra gruppi oppressi e alleati privilegiati. I palestinesi sono stati molto gentili e pazienti. Hanno accettato le nostre azioni di solidarietà e ci hanno permesso di partecipare direttamente alle loro campagne. È un rapporto molto delicato, che si basa sul nostro impegno a non tradirli, e sulla loro fiducia. È anche un rapporto diseguale, in cui loro hanno tutto da perdere e in cui noi arriviamo con un “credito di militanza”. È una realtà che deve essere riconosciuta. Noi rifiutiamo ogni approccio feticista e insulso, che il più delle volte serve a depoliticizzare i rapporti e a perpetuare la supremazia e gli abusi. Quando gli israeliani si guadagnano la fiducia dei palestinesi stringono delle vere amicizie.

H. M.La società israeliana è ricettiva nei confronti delle vostre azioni?

T. S.— Un maggior numero di persone firma il nostro appello al boicottaggio dall’interno. Attraverso le reti sociali abbiamo anche osservato che sempre più gente di sinistra è d’accordo con l’idea del boicottaggio. Tuttavia osservo un’evoluzione nella sinistra israeliana: oggi essa ha una comprensione più vasta del rapporto tra la colonizzazione e l’economia. Ci sono delle voci nuove, delle nuove alleanze, una maggiore apertura al movimento BDS. Ciononostante, anche se la sinistra si è evoluta, rimane ancora una parte marginale della società israeliana. D’altronde è questa constatazione che può portare molti ad unirsi al movimento BDS.

H. M.Le istituzioni israeliane (polizia, esercito, servizi di sicurezza) vi permettono di agire liberamente?

T. S.— Non penso che le autorità israeliane accordino per loro stessa natura questa libertà. Per quanto riguarda il modo in cui ostacolano le nostre libertà, ciò dipende. Diverse leggi impediscono la libertà di espressione, in particolare la legge che definisce il BDS un “reato civile”. Ciò ci può portare a dover pagare multe di decine di migliaia di shekel [1 shekel = 0,25 euro]. La questione della nostra possibilità di agire dipende molto dalla visibilità o meno delle nostre azioni per le autorità. Ci sono più probabilità di essere arrestati durante una manifestazione che per aver scritto una mail nell’intimità della nostra casa a un fondo pensioni per chiedergli di disinvestire dal mercato israeliano. I meccanismi di dissuasione ci sono. Poi è solo una questione di impegno.

H. M.Lei osserva un allontanamento morale e politico degli ebrei americani rispetto alla politica israeliana?

T. S.— Non penso affatto che gli ebrei americani siano disinteressati alla politica israeliana. Sono stati educati nel sionismo quasi quanto gli israeliani. Ciò avviene attraverso la famiglia, ma anche attraverso le organizzazioni religiose e le ramificazioni dell’Agenzia Ebraica. Tra il campo filoisraeliano e i dissidenti non penso che si possa trovare un solo ebreo americano che non abbia in realtà un’opinione in proposito.

H. M.La società israeliana è comunque più complessa di come la si percepisce a volte all’estero, in particolare riguardo alla vivacità del dibattito…

T. S.— Se la società israeliana fosse disponibile alla discussione su queste questioni il dibattito ci sarebbe. Penso che ciò che è tabù viene sanzionato in modo aggressivo. È così in tutte le società. Questo non significa che noi non dovremmo cercare e che non cerchiamo di creare le condizioni per poter fare questa discussione. Ciò significa anche che, in base alle nostre risorse limitate, dobbiamo scegliere le nostre battaglie. Una vittoria ne porta un’altra. Ogni coscienza politica non è una cosa statica, ma piuttosto una dinamica continua.

H. M.Pensa che la soluzione a due Stati sia ancora possibile?

T. S.— Penso che il paradigma dei due Stati non avrebbe mai dovuto essere messo sul tavolo. È un consolidamento della colonizzazione. Ora, la colonizzazione è la dominazione o l’espulsione di una popolazione etnicamente identificata e la sua sostituzione con un’altra popolazione. Questo paradigma fallisce dopo il 1949. Israele, nonostante le apparenze, è uno Stato fallito che non riesce ad assicurare il benessere e neppure la sopravvivenza di milioni di esseri umani sotto il suo regime. Tuttavia pretende di non aver alcun obbligo giuridico nei loro confronti. Avrebbe dovuto essere creata una missione di pace per proteggere le popolazioni, permettere il ritorno immediato dei rifugiati. Avrebbero dovuto essere intraprese delle iniziative diplomatiche serie per giudicare gli autori di quei crimini. Tutto il paradigma della partizione era destinato a fallire.

H. M.Cosa pensa dell’attuale contesto politico israeliano? Sembra in grado di proporre una soluzione?

T. S.— L’attuale contesto israeliano non sembra in grado di proporre altro che un genocidio. Non è un’iperbole. Le elezioni si giocano tra Netanyahu, il promotore del piano di annessione Trump-Kushner, e Benny Ganz, che si vanta di aver “riportato Gaza all’età della pietra”, come se fosse un merito politico. Non penso che si debba chiedere a loro di trovare delle soluzioni al problema delle violenze che stanno perpetrando.

L’unica soluzione è la cessazione immediata della violenza e la rimozione dal potere degli autori di questi atti. Benché ci siano forze di opposizione, principalmente i partiti palestinesi, è poco, è come tappare con un dito una diga che sta crollando. Ma non è che a questa condizione che si potrà cominciare a prendere in considerazione delle azioni di riparazione e di responsabilizzazione. Tutto ciò dovrà essere fatto dalle vittime e incoraggiato dalla comunità internazionale.

Hassina Mechaï

Giornalista, coautrice con Sihem Zine de L’état d’urgence (permanent) [Lo stato d’emergenza (permanente)], uscito nell’aprile 2018, Edizioni Meltingbook (Parigi).

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Vittoria del BDS: un giudice respinge il tentativo sionista di reprimere la libertà di espressione

Yvonne Ridley

8 marzo 2021 – Monitor de Oriente

Una soldatessa israeliana che negli Stati Uniti ha intentato un’azione penale per diffamazione da 6 milioni di dollari contro una palestinese cristiana ha visto come la sua iniziativa giudiziaria sia diventata controproducente. Nonostante il suo avvocato abbia sollecitato il giudice statunitense ad applicare la legge israeliana sulla diffamazione, che condanna le critiche contro lo Stato sionista a una pena fino a un anno di carcere, Rebecca Rumshiskaya ha perso la causa.

Il giudice californiano Craig Griffin ha rigettato ed escluso la sua richiesta e il tentativo di far applicare le leggi israeliane in una corte dassise della contea di Orange. Nella sua sentenza il giudice ha anche accolto la mozione contro la SLAPP della palestinese Suhair Nafal ed ha stabilito che Rumshiskaya deve pagare le spese giudiziarie della persona denunciata. Le leggi contro la SLAPP sono state ideate per dissuadere le persone dall’utilizzare i tribunali degli USA e la possibile minaccia di una denuncia per intimidire chi sta esercitando i propri diritti in base al Primo Emendamento [della costituzione USA, ndtr.] sulla libertà di espressione. Una “domanda strategica contro la partecipazione pubblica” [“azione temeraria”, nel codice civile italiano, ndtr.] (SLAPP), che il querelante non si aspetta di vincere, intende impedire la libertà di espressione.

Il risultato di questa denuncia è un duro colpo, in particolare per i tentativi che Israele sta facendo in tutto il mondo per mettere a tacere il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), soprattutto sulle reti sociali. È anche una grande vittoria per Nafal e i suoi sostenitori. Tuttavia lei ha sottolineato che si è trattato di una vittoria per tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio. “Abbiamo molto lavoro davanti a noi, ma siamo instancabili e non ci arrenderemo fino a quando non vedremo che si sta facendo giustizia.”

Nel 2012 la californiana Rumshiskaya, 26 anni, andò a vivere in Israele e si arruolò nelle Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndtr.] come istruttrice del Corpo di Educazione Giovanile. Due anni dopo che nel 2018 l’attivista del BDS Nafal aveva pubblicato sulla sua pagina Facebook una sua fotografia con armi e uniforme, [Rebecca] ha chiesto assistenza agli specialisti di “lawfare” [guerra giudiziaria, ndtr.] di “Shurat HaDin”[ong israeliana legata al governo che si occupa di intentare azioni legali contro chi critica Israele, ndtr.]. La palestinese aveva scaricato l’immagine della ragazza dal manifesto delle IDF dalla stessa pagina Facebook ufficiale dell’esercito.

Il post di Nafal faceva riferimento all’eroica paramedica palestinese di 21 anni Razan Al-Najjar, assassinata da un cecchino israeliano mentre stava prestando servizio come volontaria per aiutare i feriti durante le manifestazioni pacifiche della Grande Marcia del Ritorno che si sono tenute nel 2018 nei pressi del confine fittizio della Striscia di Gaza. Per stabilire un confronto tra le due donne Nafal ha collocato la foto promozionale di Rumshiskaya a fianco di quella della giovane paramedica. Non c’era assolutamente nessuna intenzione di suggerire che proprio questa soldatessa israeliana fosse stata coinvolta nell’assassinio di Al-Najjar. Lei aveva lasciato le IDF tre anni prima. Tuttavia alcuni sostenitori di Israele hanno cercato di stravolgere la storia e di affermare che il post di Nafal suggeriva che Rumshiskaya fosse responsabile della morte dell’operatrice sanitaria.

Nafal si è messa in contatto con l’ Arab American Anti-Discrimination Committee [Comitato Arabo Americano contro la Discriminazione] (ADC) per chiedere aiuto nella causa ed è stata rappresentata dall’avvocato Haytham Faraj, membro del consiglio nazionale dell’ADC. Secondo Faraj il lavoro principale dell’ufficio che rappresentava la soldatessa israeliana nella denuncia é incentrato nel far tacere e minacciare gli attivisti del BDS, quelli che criticano le violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale da parte di Israele.

Nel testo della denuncia presentata l’anno scorso da Shurat HaDin al tribunale californiano gli avvocati di Rumshiskaya hanno detto che l’“accusa”era chiaramente falsa, dato che durante il suo servizio militare lei non aveva mai combattuto nella Striscia di Gaza. Hanno aggiunto che la loro cliente lavorava per i diritti umani e partecipava a delegazioni congiunte di israeliani e arabi in Giordania e nella Cisgiordania occupata.

Con una dichiarazione drammatica che ha sfiorato l’isteria, l’avvocatessa israeliana Nitsana Darshan-Leitner ha affermato nella sua comunicazione: “Pare che stiamo tornando alla (infame falsificazione) dei “Protocolli dei Saggi di Sion” e ai sanguinari libelli antisemiti del passato. Rebecca e la sua famiglia hanno ricevuto minacce di morte solo perché lei ha deciso di unirsi alle IDF.”

Darshan-Leitner, fondatrice del centro giuridico israeliano Shurat HaDin, ha aggiunto: “La guerra contro l’antisemitismo si è estesa anche alla sfera giudiziaria e la richiesta di Rebecca è la punta di lancia della nostra lotta contro il movimento globale di boicottaggio contro Israele. Questo è un messaggio per tutti gli attivisti del BDS, che devono sapere che anche loro possono essere considerati responsabili della loro attività antisionista e potrebbero persino pagarne un prezzo alto.”

In un certo senso l’avvocatessa di Shurat HaDin ha avuto ragione. Questa causa giudiziaria ha sicuramente mandato un forte messaggio ai sostenitori del BDS, e cioè che devono continuare con il loro impegno fondamentale e totalmente pacifico per far sì che Israele paghi per le sue violazioni dei diritti umani.

L’avvocato statunitense Faraj ha affermato che la sentenza del giudice Griffin ha salvaguardato i diritti della comunità arabo-americana e palestinese alla libertà di espressione, compresa quella politica, stabiliti dal Primo Emendamento. Sottolineando che “gli Stati Uniti non sono Israele” ha aggiunto: “L’ex-soldatessa israeliana che ha denunciato la signora Nafal pretendeva che il tribunale applicasse la legge israeliana, che condanna chi critica Israele fino a un massimo di un anno di prigione. Il giudice ha rigettato la richiesta e il tentativo di applicare la legge israeliana.”

L’avvocato ha affermato che, concedendo a Nafal l’eccezione anti-SLAPP, il giudice ha inviato un chiaro messaggio secondo il quale gli Stati Uniti tollerano e attribuiscono importanza alla diversità di opinioni e punti di vista politici, e chi cerchi indebitamente di far tacere le critiche politiche dovrà pagarne il prezzo.

Non resta che sperare che il caso della California abbia un impatto qui in Gran Bretagna, dove i sionisti sono protagonisti di una caccia alle streghe per cercare di confondere le critiche a Israele con l’antisemitismo. La lobby filo-israeliana utilizza la screditata “definizione” di antisemitismo stilata dall’International Holocaust Remembrance Aliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] (IHRA) per cercare di bloccare qualunque discussione sullo Stato di Israele e sul suo disprezzo per le leggi e convenzioni internazionali. Alcuni degli esempi di “antisemitismo” citati nel documento dell’IHRA, che persino la persona che lo ha stilato ha affermato essere una “bozza di lavoro”, si riferiscono alle critiche contro Israele. Gli accademici hanno criticato la definizione, che è stata descritta come “non rispondente allo scopo”.

Il BDS deve affrontare molte sfide da parte degli alleati di Israele che gli permettono di agire impunito. Ironicamente alcuni di questi alleati sono veri antisemiti ai quali si lascia libertà di praticare il proprio peggior razzismo al mondo ogni volta che la lobby filo-israeliana fa dell’antisemitismo un’arma contro il popolo palestinese e i suoi sostenitori nella lotta per la pace e la giustizia. C’è gente che non impara mai.

Suhair Nafal ha detto: “Questa vittoria non è stata solo mia, è stata una vittoria di tutti gli attivisti filo-palestinesi, sia sulle reti sociali che sul territorio,” ha aggiunto. “Abbiamo davanti a noi molto lavoro da fare, ma siamo instancabili e non cederemo finché non sarà fatta giustizia.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

Yvonne Ridley

La giornalista e scrittrice britannica Yvonne Ridley propone analisi politiche su questioni relative al Medio Oriente, all’Asia e alla guerra mondiale contro il terrorismo. Il suo lavoro è stato pubblicato in molti quotidiani e riviste in tutto il mondo, da oriente a occidente, da testate come il Washington Post fino al Tehran Times e il Tripoli Post, riscuotendo riconoscimenti e premi negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Il lavoro di dieci anni per grandi testate in Fleet Street [via di Londra in cui si trovano le sedi dei principali quotidiani inglesi, ndtr.] ha esteso il suo ambito di azione ai media elettronici e radiofonici, ed ha prodotto una serie di documentari su temi palestinesi e internazionali, da Guantanamo alla Libia e alle Primavere Arabe.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




“Facebook, dobbiamo parlarne”: sulla distinzione tra antisemitismo e antisionismo negli spazi pubblici

Benay Blend

22 febbraio 2021 – Palestine Chronicle

Nel gennaio 2021 Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, associazione di ebrei antisionisti, ndtr.] (JVP) ha annunciato la campagna internazionale “Facebook, we need to talk” [Facebook, dobbiamo parlarne] sull’indagine del gigante delle reti sociali per stabilire se le critiche contro il movimento sionista “rientrino all’interno della categoria ‘discorsi d’odio’ in base agli standard della comunità di Facebook.”

Nella sua forma corrente la discussione riguarda il fatto di obbligare università, piattaforme delle reti sociali e altri spazi pubblici ad adottare le norme dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, a cui aderiscono 31 Paesi, ndtr.] (IHRA), che definisce l’odierno antisemitismo includendo “la negazione del diritto del popolo ebraico all’autodeterminazione, ad esempio affermando che l’esistenza di uno Stato di Israele sia un comportamento razzista” e “applicando un doppio standard” nei confronti di Israele, nel complesso una definizione che in pratica bloccherebbe qualunque critica dello Stato sionista.

Secondo Lara Friedman l’obiettivo delle organizzazioni sioniste che hanno fatto pressioni per questa iniziativa “non è quello di fare sì che Facebook escluda dalla piattaforma l’antisemitismo, ma le critiche a Israele.”

In risposta, centinaia di attivisti, intellettuali ed artisti di tutto il mondo hanno lanciato una petizione per evitare che Facebook non includa nella sua politica riguardante i discorsi di odio “sionista” come categoria protetta, cioè tratti “sionista” come un equivalente di “ebreo o ebraico”. Nelle prime 24 ore la lettera aperta ha raccolto oltre 14.500 firme, tra cui quelle di personalità come Hanan Ashrawi [nota politica palestinese, ndtr.], Norita Cortiñas [cofondatrice delle Madres de Plaza de Mayo in Argentina, ndtr.], Wallace Shawn [attore e commediografo statunitense, ndtr.] e Peter Gabriel [famoso cantante rock inglese, ndtr.].

La petizione sottolinea che “collaborare con la richiesta del governo israeliano danneggerebbe i tentativi di sradicare l’antisemitismo, priverebbe i palestinesi di uno spazio fondamentale per esporre al mondo il proprio punto di vista politico e contribuirebbe ad impedire che il governo israeliano debba rendere conto delle sue violazioni dei diritti dei palestinesi.”

Questi punti sono particolarmente importanti in quanto la Corte Penale Internazionale sta avviando un’indagine su Israele per crimini di guerra, e quindi ogni notizia su questa inchiesta sarebbe definita antisemita. Oltretutto il tentativo di utilizzare il termine “sionista” come sinonimo di popolo ebraico implicherebbe che ogni ebreo pensi allo stesso modo, il che di per sé è un’affermazione razzista, indipendentemente dal gruppo a cui si fa riferimento nell’argomentazione.

Affermazioni come “tutti i neri sono…,” “tutte le donne sono…” e via di seguito sono considerate ragionamenti che non consentono il libero arbitrio e in genere riducono la popolazione presa di mira ai peggiori luoghi comuni. Ciò banalizza l’antisemitismo reale, per cui quando viene evidenziata questa forma di fanatismo la risposta potrebbe essere il rifiuto di credere a una accusa simile.

Pertanto confondere il sionismo con l’ebraismo non contribuisce per niente a fa sì che il popolo ebraico sia più sicuro contro affermazioni razziste. Anzi, come sostiene la petizione,

quanti alimentano l’antisemitismo in rete continueranno a farlo, con o senza la parola “sionista”. Di fatto molti antisemiti, soprattutto tra i suprematisti bianchi e i cristiano-sionisti evangelici appoggiano esplicitamente il sionismo e Israele, impegnandosi nel contempo in discorsi e azioni che disumanizzano, insultano e isolano il popolo ebraico.”

Cosa altrettanto grave, opporsi all’iniziativa di Facebook solo sulla base della libertà di parola mette al centro i valori occidentali, mentre sono in effetti i palestinesi che sono privati dei loro diritti sotto l’occupazione [israeliana].

Ovviamente la libertà di sostenere la causa palestinese senza timore di intimidazioni da parte di organizzazioni sioniste o di rappresaglie da parte del governo è una questione importante. Nel passato il fatto di essersi concentrati sulla libertà di parola è stata una tattica da parte di gruppi progressisti che volevano coinvolgere un pubblico più ampio. Tuttavia ciò pone al centro preoccupazioni dei gruppi dominanti dei Paesi centrali, il nostro diritto alla libertà di parola, mentre ai palestinesi vengono negati nella loro vita quotidiana diritti molto più significativi.

Questo tentativo di soffocare l’antisionismo è parte di un modello emergente da parte di Israele e dei suoi sostenitori, ma finora ciò è stato limitato a censurare discussioni riguardo al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) sulla base dell’effettivo successo della campagna. Tuttavia pare che i tentativi di criminalizzare il discorso si siano estesi fino ad includere qualunque critica alle pratiche sioniste.

Secondo la petizione di JVP, questi tentativi “proibirebbero ai palestinesi di condividere con il resto del mondo le proprie esperienze e storie quotidiane, che sia una foto con le chiavi della casa persa dai loro nonni quando vennero attaccati da milizie sioniste nel 1948 o siano immagini in diretta di coloni sionisti che vandalizzano i loro ulivi nel 2021. E ciò impedirebbe agli utenti ebrei di discutere del proprio rapporto con l’ideologia politica sionista.”

Il fatto che Facebook ceda o meno alle pressioni,” nota Friedman, dipenderà da “se l’opinione pubblica, ebrea e non, finalmente riconoscerà che timori riguardo all’ antisemitismo sono sfruttati per favorire una ristretta agenda politica e ideologica mettendo a rischio la libertà di parola su Israele/Palestina e, di conseguenza, il discorso politico in generale.”

In base alla definizione di Steven Salaita [docente universitario statunitense licenziato per i suoi tweet contro sionismo e Israele, ndtr.], l’antisionismo è “una politica e un discorso, a volte una vocazione, al suo massimo anche una sensibilità, in sintonia con il disordine e la sovversione. È un impegno per possibilità inimmaginabili, cioè realizzare quello che agli arbitri di buon senso piace definire ‘impossibile.’”

Rimproverando quanti equiparano l’antisemitismo all’antisionismo, Salaita afferma che “(l’antisionismo) si oppone ad ogni forma di razzismo, compreso l’antisemitismo. Questo principio di per sé condanna il sionismo.”

Se più persone abbandonassero la politica del “possibile” a favore dell’appello di Salaita, se più persone non solo firmassero la petizione di JVP ma organizzassero anche proteste davanti alle sedi locali di Amazon, sarebbe possibile far sentire la loro voce.

Oltretutto rovesciare la situazione utilizzando lo stesso mezzo di comunicazione che minaccia di censurare l’antisionismo per rendere edotta l’opinione pubblica della situazione dell’occupazione potrebbe portare proprio a ciò che i sionisti temono di più: uno Stato laico con diritti uguali per tutti.

Benay Blend ha ottenuto il dottorato in Studi Americani presso l’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro di studiosa include: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [‘Saperi contestualizzati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e nativi americani] (2017) in “’Neither Homeland Nor Exile are Words’” [Nè Patria né Esilio sono parole], curato da Douglas Vakoch e Sam Mickey.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In Germania l’antisemitismo è in aumento: quello di destra

Ali Abunimah

15 febbraio 2021 – Electronic Intifada

L’estrema destra tedesca è responsabile dell’aumento di episodi di antisemitismo e aggressioni contro musulmani e persone immigrate.

La polizia ha registrato un incremento degli incidenti di antisemitismo in Germania lo scorso anno.

Ma, contrariamente ai tentativi della lobby israeliana di incolpare i musulmani, la sinistra e il movimento di solidarietà con la Palestina, il fenomeno è originato quasi esclusivamente dalla destra.

La scorsa settimana il giornale Der Tagesspiegel [giornale più venduto a Berlino, ndtr.] ha informato che nel 2020 la polizia tedesca ha registrato 2.275 rapporti riguardanti episodi di antisemitismo, più di ogni altro anno dal 2001. Ciò include 55 delitti di violenza. I dati del 2020 rappresentano un incremento dell’11% rispetto all’anno precedente.

Eppure, nonostante il fatto che la polizia sia stata in grado di identificare quasi 1.400 sospetti, ci sono stati solo 5 arresti.

I dati sono stati forniti dal governo federale in risposta a un’interpellanza parlamentare da parte di Petra Pau, deputata di sinistra.

Più di 1.300 rapporti sono stati catalogati in base alle sospette motivazioni politiche dell’incidente.

Il quadro fornito dalle statistiche è chiarissimo: 1.247 sono stati definiti di destra; 9 di sinistra; 18 come “di ideologia straniera” e 20 motivati dalla religione. Altri 39 incidenti non si sono potuti classificare.

In base a queste cifre il 94% degli episodi di antisemitismo è stato motivato da ragioni politiche di destra.

Questi dati giungono mentre ci sono crescenti preoccupazione di infiltrazioni neonaziste nelle forze di polizia e nell’esercito tedesco.

Accusa fuorviante

Ciò contrasta con l’idea diffusa dalle associazioni della lobby israeliana che intendono mettere sotto accusa in modo fuorviante i sostenitori dei diritti dei palestinesi, così come le comunità musulmane e immigrate.

Questi avvertimenti sono stati evidenti dopo che nel 2015 la Germania ha iniziato ad accogliere centinaia di migliaia di rifugiati siriani e da altri Paesi.

Josef Schuster, presidente del Consiglio Centrale degli Ebrei in Germania, un’organizzazione comunitaria e un gruppo della lobby filoisraeliana, ha affermato che “molti dei rifugiati stanno scappando dal terrorismo dello Stato Islamico e vogliono vivere in pace e libertà, ma nel contempo arrivano da culture in cui l’odio e l’intolleranza verso gli ebrei ne sono parte integrante.”

E lo scorso anno il Congresso Ebraico Europeo ha pubblicato un rapporto stilato insieme a ricercatori dell’università di Tel Aviv in cui si attira l’attenzione sull’allarmante numero di aggressioni contro ebrei da parte di neonazisti e suprematisti bianchi nel 2019 e all’inizio del 2020.

Gli autori del rapporto non hanno potuto celare la realtà per cui la stragrande maggioranza di questo incremento è originato dall’estrema destra. Eppure il loro rapporto dedica molto spazio ad attaccare il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi e a cercare di associare senza fondamento i suoi sostenitori con l’aumento dell’antisemitismo.

Benché non ci siano prove che l’appoggio ai diritti dei palestinesi abbia alimentato il fanatismo antiebraico, nel documento di 17 pagine il BDS è citato addirittura 24 volte.

Il rapporto afferma anche pretestuosamente che in Germania “l’antisemitismo legato ad Israele, originato principalmente da studenti e personale musulmano, è già stato reso accettabile tra studenti e insegnanti.”

Questa narrazione falsa si è fatta strada anche nella destra americana, dove sostenitori di Israele, come Jonathan Tobin della National Review [quindicinale di destra, ndtr.], hanno cercato di scagionare l’estrema destra tedesca dall’accusa di essere antisemita.

Nel 2019 Tobin ha affermato che in Germania “la recente ondata di immigrati da Paesi musulmani e arabi ha creato un nuovo e vasto elettorato a favore dell’odio antiebraico.”

Ha anche lodato Alternativa per la Germania [AfD], un partito di estrema destra che include molti nazisti, perché “ha rotto con la sua tradizione affermando di sostenere Israele.”

Il tentativo di accusare i musulmani dell’antisemitismo tedesco nasconde come l’antisemitismo di destra derivi dallo stesso razzismo violento e reazionario che prende di mira i musulmani e gli immigrati.

Nel febbraio 2020 un estremista di destra si è messo a sparare all’impazzata nella città di Hanau. Ha preso di mira due shisha bar [locali in cui si fuma il narghilé, ndtr.] frequentati da membri della comunità turca in Germania e da altre comunità di immigrati, uccidendo nove persone, tutte di origine immigrata.

Questo è stato solo l’ultimo di una lunga serie di complotti e uccisioni da parte di neonazisti che hanno preso di mira musulmani e immigrati.

Definizione fuorviante di antisemitismo

Benché la destra nazionalista continui ad essere di gran lunga la principale fonte dell’antisemitismo tedesco, i politici concentrano sforzi esorbitanti per reprimere il movimento BDS.

Il loro falso pretesto è che criticare Israele e chiedere che venga chiamato a rispondere dei suoi crimini contro i palestinesi equivalga a odiare gli ebrei.

Questa oziosa e ingannevole equazione è intrinseca alla cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo a cui aderiscono 34 Paesi, ndtr.] che Israele e la sua lobby stanno sollecitando governi e istituzioni in tutto il mondo ad adottare. Sette degli 11 “esempi” di antisemitismo allegati alla definizione dell’IHRA riguardano le critiche a Israele e al sionismo, la sua razzista ideologia di Stato.

Un manuale recentemente pubblicato dall’UE per promuovere questa definizione contiene menzogne assolute secondo cui alcune proteste riguardanti Israele in Europa sarebbero state motivate da animo antisemita.

Questo manuale è stato stilato di fatto dal RIAS, un ente ufficiale tedesco che pretende di documentare l’antisemitismo.

Attivisti per i diritti umani e sostenitori delle libertà civili hanno respinto questa definizione dell’IHRA, che vedono come uno strumento non per lottare contro il fanatismo ma per censurare l’appoggio ai diritti dei palestinesi.

La scorsa settimana il consiglio accademico dell’University College di Londra ha deciso di annullare [l’adozione della] definizione dell’IHRA e chiedere all’università di sostituirla con un’altra che “salvaguardi la libertà di espressione” e “protegga la libertà accademica”.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La legge anti-BDS dell’Arkansas viola il Primo Emendamento, afferma il tribunale

Michael Arria

15 febbraio 2021 Mondoweiss

Con due voti a favore ed uno contrario l’Ottavo Distretto della Corte d’Appello ha dichiarato incostituzionale una legge che proibisce all’Arkansas di lavorare con aziende che boicottino Israele.

L’Arkansas Times ha contestato con successo una normativa che proibisce allo Stato di avere rapporti di affari con aziende che boicottano Israele.

Il settimanale di Little Rock [capitale dell’Arkansas, ndtr], che aveva intentato la causa legale nel 2018, era rappresentato dall’ACLU [American Civil Liberties Union, organizzazione non governativa USA per la difesa dei diritti civili che ha giocato un ruolo importante nell’evoluzione del diritto costituzionale USA, ndtr]. Pur non avendo adottato alcuna posizione ufficiale sul BDS, il periodico aveva intrapreso questa battaglia legale in seguito al rifiuto da parte del Pulaski Technical College dell’Università dell’Arkansas di firmare un contratto pubblicitario con l’Arkansas Times se questo non avesse sottoscritto l’impegno (a non boicottare Israele, ndtr). L’istanza era stata respinta da un giudice distrettuale nel 2019, ma la settimana scorsa l’Ottavo Distretto della Corte d’Appello ha sentenziato con due voti a favore ed uno contrario che la legge è incostituzionale.

“Siamo entusiasti per la decisione della Corte, che sostiene il diritto fondamentale a partecipare a campagne politiche di boicottaggio,”, ha dichiarato il legale dell’ACLU Brian Hauss. “Il governo non può obbligare a scegliere se mantenere le proprie fonti di reddito oppure i diritti garantiti dal Primo Emendamento, che è esattamente ciò che fa questa legge. I boicottaggi politici sono una forma legittima di protesta nonviolenta, protetti dal Primo Emendamento.”

Sulla stessa scia la dichiarazione di Nihad Awad, direttore generale del CAIR [Council on American-Islamic Relations, gruppo musulmano per i diritti civili in USA, ndtr]. “Questa sentenza federale rappresenta un momento cruciale nella lotta per la protezione della libertà di parola qui negli USA e per la promozione dei diritti umani all’estero,” ha affermato. “Dall’Arizona al Texas fino all’Arkansas numerosi tribunali cominciano a riconoscere ciò che è ovvio: gli Stati non possono chiedere né a soggetti individuali né ad aziende di sottoscrivere l’impegno a sostenere lo Stato di Israele come condizione per poter lavorare con il governo di uno Stato dell’Unione.”

Leslie Rutledge, Procuratore Generale dell’Arkansas, ha invece espresso la sua frustrazione per la sentenza. “Il Procuratore Generale è delusa per la decisione dell’Ottavo Distretto. Tale decisione interferisce con la legge dell’Arkansas che proibisce la discriminazione contro Israele, importante alleato degli USA,” ha dichiarato all’Associated Press un portavoce dell’Ufficio del Procuratore.

Nella stessa giornata della sentenza in Arkansas, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu attaccava il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite per avere pubblicato la lista delle aziende che operano nei Territori Occupati. Nella sua dichiarazione Netanyahu ha ammesso che Israele promuove norme anti-BDS all’interno degli USA: “Negli anni recenti abbiamo promosso leggi nella maggioranza degli Stati dell’Unione che stabiliscono che si debbano adottare misure forti contro chiunque cerchi di boicottare Israele.”

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Artisti come me vengono censurati in Germania perché sosteniamo i diritti dei palestinesi

 Brian Eno

4 febbraio 2021  The Guardian

Una risoluzione parlamentare del 2019 ha avuto un effetto raggelante sui critici della politica israeliana. Adesso il settore culturale si fa sentire.

Sono solo uno dei tanti artisti che sono stati colpiti da un nuovo Maccartismo che ha preso piede in un clima crescente di intolleranza in Germania. La romanziera  Kamila Shamsie, il poeta Kae Tempest, i musicisti Young Fathers e il rapper Talib Kwelli, l’artista visuale Walid Raad e il filosofo Achille Mbembe * sono tra gli artisti, accademici, curatori e altri che sono stati coinvolti in un sistema di interrogatori politici, liste nere ed esclusione che è ormai diffuso in Germania grazie all’approvazione di una risoluzione parlamentare del 2019. In definitiva, si tratta di prendere di mira i critici della politica israeliana nei confronti dei palestinesi.

Recentemente, una mostra delle mie opere d’arte è stata cancellata nelle sue fasi iniziali perché sostengo il movimento non-violento, guidato dai palestinesi, per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS). La cancellazione non è mai stata dichiarata pubblicamente, ma a quanto mi risulta, è stata la conseguenza del timore di operatori culturali in Germania che loro e la loro istituzione sarebbero stati puniti per aver promosso qualcuno etichettato come “antisemita”. Così funziona la tirannia: creare una situazione in cui le persone siano abbastanza spaventate da tenere la bocca chiusa e l’autocensura farà il resto.

Ma poiché la mia storia è relativamente minore, vorrei parlarvi della mia amica, la musicista Nirit Sommerfeld.

Nirit è nata in Israele e cresciuta in Germania, e da tutta la vita mantiene il suo legame con entrambi i luoghi, inclusa la sua famiglia allargata in Israele. Come artista, si occupa da più di 20 anni in canzoni, testi e performance del rapporto tra tedeschi, israeliani e palestinesi, dedicando tutti i suoi spettacoli alla comprensione internazionale e interreligiosa.

Eppure ora Nirit si ritrova impedita nello svolgere liberamente il suo lavoro culturale. Nel considerare la sua domanda di finanziamento artistico, i funzionari statali hanno detto a Nirit che dovevano controllare il suo lavoro; quando ha cercato di prenotare un luogo per un suo concerto a Monaco, la sua città natale, le è stato detto dagli organizzatori che lo spettacolo sarebbe stato cancellato a meno che non avesse confermato per iscritto che non avrebbe espresso alcun “sostegno per il contenuto, l’argomento e gli obiettivi” della campagna BDS. È stata ripetutamente bersaglio di campagne diffamatorie.

Perché è successo?

Perché ha parlato di ciò che ha visto con i suoi occhi: le leggi razziste di Israele contro i suoi stessi cittadini che sono palestinesi; i posti di blocco militari israeliani, le demolizioni di case, il muro di separazione, l’accaparramento delle terre, l’incarcerazione di bambini e i soldati israeliani che umiliano e uccidono palestinesi di tutte le età. È stata testimone dell’uso illegale di bombe al fosforo contro Gaza e dell’indifferenza – nella migliore delle ipotesi – di molti nella società israeliana.

Ho chiesto a Nirit come si sente riguardo a questa situazione: “Dopo essere tornata per due anni a Tel Aviv e molte visite nei territori palestinesi occupati, ho capito che Israele non è all’altezza dei suoi elevati standard morali che dichiara. La lezione appresa dall’Olocausto è stata ‘Mai più!’ Ma è inteso solo per proteggere noi ebrei? Per me ‘Mai più!’ Deve includere ‘mai più razzismo, oppressione, pulizia etnica ovunque – così come mai più antisemitismo’. “

La musica di Nirit celebra il suo passato e presente ebraico attraverso il canto. In qualità di artista, il cui nonno è stato assassinato nel genocidio nazista, trova “profondamente inquietante” il fatto di essere soggetta alla censura e al maccartismo inquisitorio da parte di funzionari e istituzioni pubbliche tedesche.

Secondo Nirit, “quando i difensori di Israele insistono sul fatto che queste politiche di occupazione e di apartheid sono fatte a nome di tutti gli ebrei nel mondo, alimentano l’antisemitismo. La lotta all’antisemitismo non dovrebbe e non può essere fatta demonizzando la lotta per i diritti dei palestinesi “.

L’esperienza di Nirit è un esempio della situazione kafkiana in cui siamo scivolati: una donna ebrea, il cui lavoro è incentrato sulla storia, la memoria, la giustizia, la pace e la comprensione, falsamente accusata di antisemitismo dalle istituzioni tedesche. L’assurdità dell’accusa rende chiara una cosa: non si tratta affatto di antisemitismo, ma di limitare la nostra libertà di discutere la situazione politica e umanitaria in Israele e Palestina.

Allora come si è verificata questa situazione?

Nel 2019 in Germania è stata approvata una risoluzione parlamentare vagamente formulata non vincolante, che falsamente equipara il movimento BDS all’antisemitismo. In un breve lasso di tempo, questa risoluzione ha aperto la strada a un’atmosfera di paranoia, alimentata da disinformazione e opportunismo politico.

Il BDS è un movimento pacifico che mira a fare pressione su Israele affinché ponga fine alle sue violazioni dei diritti umani palestinesi e rispetti il ​​diritto internazionale. È modellato sui precedenti del movimento per i diritti civili degli Stati Uniti e, soprattutto, del movimento contro l’apartheid in Sud Africa. Si rivolge alla complicità con un regime ingiusto e prende di mira le istituzioni, non gli individui o l’identità. Il BDS avverte la coscienza pubblica di uno status quo insostenibile e profondamente ingiusto e mobilita l’azione per porre fine a qualsiasi coinvolgimento nel sostenerlo.

Eppure i direttori di festival, coloro che fanno programmazione e istituzioni interamente finanziate con fondi pubblici stanno sottoponendo gli artisti a test politici, controllando se hanno mai criticato la politica israeliana. Questo sistema di sorveglianza e autocensura è nato perché le istituzioni culturali si trovano sotto attacco da parte di gruppi anti-palestinesi quando invitano un artista o accademico che ritiene inaccettabile per loro la visione dell’occupazione israeliana.

Per fare un esempio tra i tanti, il direttore del Museo ebraico di Berlino, Peter Schäfer, è stato costretto a rassegnare le dimissioni dopo che il museo ha twittato il collegamento a un articolo su un giornale tedesco relativo ad una lettera aperta di 240 studiosi ebrei e israeliani, inclusi i massimi esperti di antisemitismo, che era critico nei confronti della risoluzione anti-BDS.

Ma ora, con una mossa senza precedenti, i rappresentanti di 32 delle principali istituzioni culturali tedesche, incluso l’ Istituto Goethe, si sono espressi insieme, manifestando allarme per la repressione delle voci critiche e delle minoranze in Germania a seguito della risoluzione anti-BDS del parlamento.

La loro dichiarazione congiunta afferma: “Invocando questa risoluzione, le accuse di antisemitismo vengono utilizzate in modo improprio per mettere a tacere voci importanti e distorcere le posizioni critiche”. Pochi giorni dopo, più di 1.000 artisti e accademici hanno firmato una lettera aperta a sostegno della protesta delle istituzioni culturali.

In un momento in cui le eredità coloniali sono sempre più messe in discussione, discutere di questo particolare esempio di colonialismo in corso sta invece diventando tabù. Ma non è mai stato più urgente: la situazione per i palestinesi che vivono sotto l’apartheid e l’occupazione peggiora di settimana in settimana.

Dovremmo essere tutti allarmati da questo nuovo maccartismo. Gli artisti, come tutti i cittadini, devono essere liberi di parlare apertamente e intraprendere azioni significative, inclusi boicottaggi su questioni di principio, contro i sistemi di ingiustizia. Se lasciato incontrastato, il silenziamento del dissenso e l’emarginazione dei gruppi minoritari non si fermerà ai palestinesi e a coloro che li sostengono.

Brian Eno è un musicista, artista, compositore e produttore

Traduzione di Flavia Donati

da Palestinaculturalibertà




Come i media reprimono le critiche contro Israele

Nathan J. Robinson

10 febbraio 2021 – Current Affairs

Sono stato licenziato da giornalista dopo che ho ironizzato sull’aiuto militare USA a Israele su una rete sociale

È ampiamente riconosciuto che chi critica Israele, indipendentemente da quanto fondate siano le sue argomentazioni, è regolarmente punito sia da istituzioni pubbliche che private per quello che ha detto. L’American Civil Liberties Union [Unione Americana per le Libertà Civili, [ong USA impegnata a difendere la libertà di parola, ndtr.] (ACLU) ha documentato un modello per cui “quelli che intendono protestare, boicottare o criticare in altro modo il governo israeliano sono stati messi a tacere,” una tendenza che “si manifesta nei campus universitari, nei contratti statali e persino in leggi per cambiare il codice penale federale” e “sopprime il diritto di parola solo contro una parte della disputa su Israele/Palestina.” Il Center for Constitutional Rights [Centro per i Diritti Costituzionali, ong USA per il patrocinio legale, ndtr.] ha dimostrato che “organizzazioni, università, soggetti pubblici e altre istituzioni che appoggiano Israele” hanno preso di mira attivisti filo-palestinesi con una serie di tattiche “compresi la cancellazione di eventi, denunce giudiziarie senza fondamento, azioni disciplinari amministrative, licenziamenti e accuse false e provocatorie di terrorismo e antisemitismo” e conclude che c’è una “eccezione palestinese per quanto riguarda la libertà di parola.”

A volte, il tentativo di far tacere le critiche contro Israele ha preso la forma di esplicite azioni governative, c’è un’aperta campagna di criminalizzazione dei discorsi che criticano Israele e alcuni Stati hanno persino chiesto a dipendenti pubblici l’impegno a non boicottare Israele. Ma, come ha notato il giornalista israeliano Gideon Levy su Middle East Eye, ciò si è spesso manifestato nella forma di accuse senza fondamento (e offensive) in base alle quali le critiche a Israele sono per definizione antisemite. Negli Stati Uniti le critiche accademiche contro Israele hanno avuto come risultato la rescissione di offerte di lavoro o hanno impedito di insegnare, e la CNN [nota rete televisiva USA, ndtr.] ha licenziato il docente universitario Marc Lamont Hill per un appello a favore della liberazione della Palestina. In Gran Bretagna, c’è stata una assurda campagna durata un anno per calunniare in quanto antisemita l’ex segretario del partito Laburista (e critico verso le politiche del governo israeliano) Jeremy Corbyn. Human Rights Watch [importante ong per i diritti umani, ndtr.] ha evidenziato che il governo degli Stati Uniti ha scagliato accuse infondate di antisemitismo contro questa e altre organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty e Oxfam, che hanno denunciato i pessimi dati di Israele in materia di diritti umani. All’interno di Israele, il diritto di parola dei palestinesi è brutalmente represso e persino gli ebrei che sostengono i diritti dei palestinesi sono regolarmente vessati dallo Stato. Lo scorso anno Abeer Alnajjar di OpenDemocracy [sito web di discussione di politica internazionale e cultura, ndtr.] ha scritto di come “i principali mezzi di comunicazione siano molto sensibili contro qualunque riferimento ai diritti dei palestinesi o alle leggi internazionali, e contro ogni critica a Israele o alle sue politiche.”

Personalmente non ho mai riflettuto sulla questione se potessi subire conseguenze per aver criticato il governo di Israele (e l’appoggio USA nei suoi confronti). Ho goduto di tutta la “libertà di parola” che si può avere in questo mondo. Tuttavia forse ci avrei dovuto pensare un po’ di più, perché, appena ho superato una linea invisibile, ciò mi è diventato subito chiaro. Appena ho dato fastidio ai difensori di Israele su una rete sociale, sono stato licenziato in tronco dal mio lavoro di editorialista.

Ho scritto per Guardian-USA dal 2017, prima come collaboratore e poi come editorialista a pieno titolo. Scrivo quasi esclusivamente di politica USA. Non ho mai scritto su Israele. Il mio caporedattore è sempre stato soddisfatto del mio lavoro, per cui ho continuato a ottenere richieste di articoli. Sono bravo a pubblicare rapidamente commenti politici acuti, con buone fonti e che richiedono poche modifiche. Per quanto posso ricordare, solo una volta un mio articolo è stato corretto, ed è successo quando ho criticato Joe Biden sui legami di Hunter Biden [figlio dell’attuale presidente USA, ndtr.] con casi di corruzione.

Ecco il contesto del mio licenziamento. Alla fine di dicembre il Congresso ha autorizzato un nuovo pacchetto di aiuti finanziari per il COVID. Nel contempo, ha anche approvato altri 500 milioni di dollari di aiuti militari a Israele. Per molto tempo Israele è stato uno dei maggiori beneficiari di aiuto militare USA, superato negli ultimi anni solo dall’Afghanistan (benché non come quantità di dollari pro-capite). Secondo il Servizio Ricerche del Congresso, è il “maggiore percettore complessivo dell’assistenza estera degli USA dalla Seconda Guerra Mondiale,” e l’aiuto USA rappresenta circa il 20% del bilancio israeliano per la difesa. Ecco una cartina del 2015 ripresa dalla CNN

È stato sconfortante vedere che, mentre il Congresso stava concedendo al popolo americano un aiuto troppo ridotto per il COVID, dava all’esercito più tecnologicamente avanzato al mondo altri missili da crociera. I difensori dell’accordo hanno evidenziato che tecnicamente i soldi a Israele per comprare armi non facevano parte della stessa legge sugli aiuti per il COVID, ma di una legge per stanziamenti approvata contemporaneamente, che è una valida risposta a quanti affermavano che il denaro era “parte della legge per gli aiuti contro il COVID”, ma ciò non giustifica affatto la spesa.

Personalmente ero allibito e depresso di vedere nuovi finanziamenti per missili israeliani approvati contemporaneamente a scarsissimi aiuti per il COVID. Israele è una potenza nucleare (una cosa che ufficialmente non conferma né smentisce, ma generalmente gli esperti la considerano vera e Benjamin Netanyahu una volta inavvertitamente l’ha ammesso). Ha un dominio praticamente totale sui palestinesi. Gli abbiamo già dato talmente tanti aiuti militari che non ne ha bisogno. Perché, durante la pandemia, il Congresso dirotta soldi per nuovi sistemi missilistici?

Sono, con mia grande vergogna, discretamente attivo su Twitter, così ho manifestato la mia rabbia con un tweet ironico. Sarcasticamente ho scritto due tweet collegati: (1) “Sapete che il Congresso non è in realtà autorizzato ad approvare nessuna nuova spesa finché una parte di essa non è destinata a comprare armi per Israele? Questa è la legge.” (2) “o se non proprio una legge scritta, comunque è talmente radicata nel costume politico da essere per il suo funzionamento indistinguibile da una legge.” Ovviamente il primo tweet era ironico (cosa comune su Twitter), ma per essere assolutamente sicuro che nessuno pensasse che fosse una sorta di legge realmente esistente, ho aggiunto un secondo tweet per rendere chiarissimo che stavo scherzando, che era al 100% una battuta, che non ci fosse posto per un’interpretazione errata riguardo a questa battuta. Non leggo le risposte su Twitter perché sono regolarmente piene solo di cose sgradevoli e non mi piace mettermi a discutere. Ma un collega mi ha detto che alcune persone mi avevano definito “antisemita”.

Mi sono messo a ridere perché era chiaramente assurdo, un esempio che più fumettistico non si può di una critica legittima definita fanatismo. Avevo solo evidenziato il fatto, assolutamente veritiero, che noi inviamo grandi quantità di aiuti militari a Israele, che noi privilegiamo con un appoggio speciale persino durante una pandemia. Una volta Nancy Pelosi ha detto: “Se Washington crollasse al suolo l’ultima cosa che resterebbe è il nostro appoggio a Israele,” e io le credo. Una volta Joe Biden ha detto che se non ci fosse Israele gli USA “dovrebbero inventarselo” per proteggere i nostri interessi. Come ha notato in un rapporto il Servizio Ricerche del Congresso, gli USA sono direttamente impegnati in un rapporto speciale con Israele che lo aiuterà a conservare una “superiorità militare qualitativa” su altri Paesi. Che Israele abbia un accesso prioritario alla tecnologia bellica USA è una politica esplicita del governo USA.

Quando twitti, soprattutto riguardo a qualcosa di discutibile, puoi aspettarti che qualcuno si arrabbi e ti insulti. Non avevo la minima idea di quanto rapidamente sarei stato licenziato.

Più tardi quel giorno ho ricevuto una mail da John Mulholland, direttore del Guardian USA. In precedenza non avevo mai ricevuto un messaggio da lui, dato che la maggior parte dei miei contatti con il Guardian passano dal caporedattore che si occupa del mio lavoro. Non lo citerò, perché è una persona corretta e non vorrei danneggiare la sua situazione. L’oggetto del messaggio di Mulholland era “privato e riservato”. Lo riproduco qui per intero:

Ciao Nathan.

Dato che tu ti presenti in parte come editorialista del Guardian permettimi di esprimere la mia preoccupazione quando fai un’affermazione come la seguente [link al tweet di Robinson, ndtr.]. Una legge simile non esiste, nel qual caso questa è, per così dire, una fake news, a prescindere dal successivo tweet in cui tu affermi che essa è “indistinguibile da una legge.” Non è una legge. Punto.

Dati i discorsi sconsiderati dell’anno scorso, e oltre, su come mitici “gruppi/associazioni ebraiche” detengano il potere su ogni forma di vita pubblica negli USA, non capisco come ciò possa contribuire al dibattito pubblico. E non capisco perché prendere di mira l’aiuto finanziario a Israele in un tweet e fuori da ogni contesto – senza parlare anche dell’aiuto ora o in passato ad altri Paesi– sia un utile contributo al dibattito pubblico.

Ovviamente sei libero di utilizzare Twitter in qualunque modo tu decida, ma mi sgomenta che qualcuno che si presenta come editorialista del Guardian possa fare un’affermazione così chiaramente sbagliata senza, come ho osservato, alcuna contestualizzazione/giustificazione.

Affermare che l’unico Stato ebraico controlla il Paese più potente al mondo è chiaramente antisemita. Il mito del ‘potere ebraico’ segnala un odio letale. Cancella e chiedi scusa.”

Ora, alcune cose dovrebbero colpirvi. Primo, il fatto che l’oggetto del messaggio di Mulholland sia “privato e riservato” significa che non voleva che altre persone sapessero quello che mi stava dicendo. Avrebbe preferito che le sue parole rimanessero segrete. L’avebbe preferito, ma definire una mail come privata è una richiesta, non un obbligo giuridico.

Secondo, la sua affermazione che il mio tweet sia una “fake news” che potrebbe ingannare delle persone è chiaramente senza senso. Il sarcasmo, come ho detto, è normale su Twitter e, nell’eventualità che qualcuno fosse così ottuso da credere che non stessi scherzando e che ogni nuova spesa richiedesse un nuovo aiuto a Israele, ho incluso un tweet allegato chiarendolo. Non c’è assolutamente nessuna possibilità che Mulholland mi mandasse questo messaggio se l’argomento non fosse stato Israele. Il suo problema non era che abbia utilizzato l’ironia. Se avessi detto “negli USA c’è una legge che impone al Congresso di approvare una legge di spesa solo se contiene una grande somma di inutili sprechi (non una vera legge, ma in pratica c’è),” nessuna persona ragionevole avrebbe potuto pensare che sarebbe stato richiamato dal direttore del Guardian.

No, questo è stato un pretesto. Il grosso problema è stato, come ho detto, che io avrei preso di mira l’unico Stato ebraico, criticandolo senza notare l’aiuto ricevuto da altri Stati. La sua mail sembra citare alla fine qualcuno che lo ha definito antisemitismo, benché non sia chiaro da dove sia ricavata la citazione.

Ciò che risultava chiaramente dal messaggio è che Mulholland era molto incazzato. Come ho detto, l’accusa è assurda:, non sono stato io ad aver privilegiato Israele, ma la politica USA! Io ho solo evidenziato che ciò è quello che facciamo e che lo facciamo intenzionalmente, perché crediamo che Israele abbia un particolare diritto a un “vantaggio militare qualitativo” che i suoi vicini non hanno. Ma ho rapidamente percepito che il mio lavoro poteva essere in pericolo. Così ho cancellato il tweet ed ho risposto a Mulholland scusandomi per aver fatto una cosa che potesse essere interpretato come compromettente per il giornale. Ho bisogno del mio stipendio, e, benché fosse profondamente frustrante per me che il Guardian sindacasse sui miei tweet, a malincuore mi sono reso conto che avrei dovuto accettare i nuovi limiti che mi aspettavo sarebbero stati posti al mio discorso pubblico. Sapevo che la censura sarebbe stata irritante, ma sembrava inevitabile e speravo che sarebbe stata limitata. Lavoro precario significa che il datore di lavoro esercita un potere coercitivo sulla libertà di parola dei dipendenti, anche fuori dal lavoro, e io, come chiunque altro, ho l’affitto da pagare.

Mulholland mi ha risposto, affermando che apprezzava le mie scuse e suggeriva di lasciarci alle spalle l’incidente. Il mio capo redattore mi ha scritto chiedendo informazioni sui tweet, affermando che il Guardian era dispiaciuto, ma mi ha detto di non preoccuparmi. L’ho interpretato come se ciò significasse che finché avessi tenuto la bocca chiusa riguardo a Israele su Twitter, il Guardian avrebbe continuato a pubblicare i miei articoli su altri argomenti. Un ignobile compromesso, sicuramente, che retrospettivamente non avrei dovuto neppure prendere in considerazione. È difficile giustificare il fatto di stare zitto riguardo all’aiuto militare degli Stati Uniti a un Paese che viola i diritti umani, solo perché hai bisogno di uno stipendio, ma chi scrive e dipende da quello che guadagna scrivendo deve affrontare scelte difficili quando il padrone ti dice quali opinioni hai il diritto di avere in pubblico. Eppure sul momento ho conservato la speranza che ci fosse un modo per cui avrei potuto continuare a scrivere. Mi sono detto che avrei fatto del mio meglio per affermare ciò che penso in modo onesto senza incorrere nella censura editoriale, benché temessi ciò che avrebbe potuto comportare.

Ma poi è successa una cosa strana. Nelle settimane successive il mio capo-redattore ha curiosamente smesso di comunicare con me. Gli ho mandato suggerimenti su suggerimenti per nuovi articoli. Nessuna risposta. Eppure avevo avuto la promessa che avrebbero parlato presto con me, senza conseguenze. Era molto strano, perché l’anno prima mi aveva sempre chiamato chiedendomi nuovo materiale per gli articoli. Improvvisamente, silenzio totale.

Finalmente lunedì 8 [febbraio] ho ricevuto una chiamata da lui. Mi ha detto che avrebbero voluto pubblicare i miei articoli, ma che le cose con Mulholland per il momento lo avevano reso impossibile e che dovevano avere un colloquio con lui per chiarire la situazione. Ho cercato ancora una volta di essere accomodante, ho detto che mi sarei adeguato alle nuove regole e che sarei stato felice di parlare con Mulholland per discutere delle sue aspettative.

Ormai era chiaro che mi stavano esplicitamente censurando per aver mandato un tweet critico nei confronti di Israele. Il mio capo-redattore ha chiarito che, se non fosse stato per il tweet, avrebbero accettato le mie proposte di articoli. Le garanzie di Mulholland, secondo cui chi scrive per il Guardian ha la “libertà” di esprimere le proprie opinioni erano chiaramente false. Sei libero, ma se te la prendi con Israele i tuoi suggerimenti finiscono nel cestino. Il mio editore lo ha ammesso esplicitamente con me, affermando che il rifiuto delle mie proposte di articoli era il diretto risultato del tweet.

Ma ho scoperto di non essere stato ignorato solo temporaneamente. Martedì il mio capo-redattore mi ha chiamato e mi ha detto che, dopo una conversazione con Mulholland, si era deciso di eliminare definitivamente la mia rubrica. Ho chiesto se sarebbe stato possibile per me parlare con Mulholland e trovare una soluzione. Il mio capo-redattore mi ha risposto di no e che Mulholland aveva deciso che il giornale non avrebbe più lavorato con me in futuro, intendendo che non dovessi neppure perdere tempo a mandare bozze di articoli occasionali come freelance. Hanno offerto di pagarmi due articoli come “liquidazione” che non avrebbe coperto lo stipendio di un mese. Non c’è stato neppure il tentativo di criticare il mio lavoro; in effetti il capo-redattore ha affermato esplicitamente che i miei suggerimenti per gli articoli sarebbero stati accettati se Mulholland non si fosse risentito per il mio tweet. Ciò mi è stato detto molto chiaramente: il tuo tweet su Israele ha fatto arrabbiare il direttore. Ora sei licenziato. Non farti più vedere.

*    *    *

Essere licenziato è orribile, soprattutto quando ciò avviene senza preavviso nel bel mezzo di una pandemia, quando è difficile trovare lavoro. Non guadagnavo molto dal mio lavoro al giornale (15.000 dollari [circa 12.000 euro] lo scorso anno), ma scrivere di politica a sinistra non è remunerativo e avevo bisogno di quei soldi. Avrei dovuto essere disposto ad accettare un qualche controllo sulle mie reti sociali da parte del Guardian nel disperato tentativo di conservare il mio lavoro. Ma quando si tratta di critiche contro Israele non c’è una seconda opportunità, indipendentemente da quanto sia giustificata la critica e per quanto ciò sia lontano dal vero antisemitismo. Non importa che abbia prontamente cancellato le mie parole. Hai superato il limite, sei fuori. Non è a causa di una vasta cospirazione, ma di una politica in base la quale un alleato degli Stati Uniti è considerato al di sopra di ogni critica (anche l’Arabia Saudita è spesso esente da critiche).

Il Guardian è probabilmente il più “progressista” tra igiornali importanti degli Stati Uniti, quindi in base al suo modo di fare c’è parecchio da parlare dei limiti riguardanti il discorso su Israele. Il giornale non è di destra e pubblica critiche contro Israele, che sicuramente porterebbe a dimostrazione del suo impegno a favore del libero dibattito. Non sto sostenendo che il Guardian non dia mai voce alle critiche contro Israele o alla politica USA nei confronti di Israele, ma che vuole controllare attentamente le affermazioni dei propri giornalisti sull’argomento ed essere sicuro che dicano solo quello che i direttori del giornale ritengono accettabile.

Oltretutto è chiaro che il Guardian non vuole che si sappia che censurerà i post sulle reti sociali dei suoi giornalisti riguardo a Israele. Mulholland non vuole che racconti a qualcuno quello che mi ha detto. Vuole sottolineare che io ero assolutamente libero di dire quello che volevo. Nessuno mi ha dato una serie di direttive su quello che potevo o non potevo dire, perché ciò sarebbe stato un esplicito riconoscimento che i giornalisti non sono liberi, che devono rispettare una certa direttiva riguardo a Israele e scrivere solo quello che è approvato dalla linea editoriale. Ho chiesto esplicitamente linee guida riguardo a cosa potessi o non potessi dire, ma, mentre il Guardian ha linee guida aziendali sul design e sullo stile, non ha un codice formale riguardo al contenuto, ne ha solo uno non scritto.

A lungo ho criticato quanti dipingono la sinistra come un gruppo di guerrieri totalitari “con una cultura della censura” che cercano di soffocare la libertà di parola. Questa immagine è l’esatto contrario. Reazionari e fanatici hanno in genere a disposizione grandi megafoni. D’altra parte attivisti del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) agiscono sotto la minaccia di denunce penali. Sono assolutamente a favore della libertà di parola, sia per ragioni di principio che pratiche, ma ho criticato alcuni dei discorsi a favore della libertà di parola che trattano la sinistra come la principale minaccia e non citano il modo in cui chi critica Israele possa essere licenziato per i propri discorsi. Per esempio, la lettera aperta della rivista Harper [storico mensile USA di cultura, politica e arte, ndtr.] a favore di un dibattito libero e aperto esprime nobili sentimenti, ma sembra più preoccupata della minaccia alla giustizia sociale che di quella agli attivisti filopalestinesi.

Il Guardian non è obbligato ad assumermi come editorialista, benché io sia un ottimo editorialista. Essendo io stesso direttore di una rivista, non pubblico tutti i punti di vista. Siamo selettivi. Facciamo delle scelte editoriali. Questa è una nostra prerogativa (benché io non pensi di avere mai criticato un giornalista per qualcosa che abbia twittato nel tempo libero e offrirei ai giornalisti la massima libertà d’azione con i loro tweet prima ancora di considerare che affermazioni sulle reti sociali possano compromettere l’assunzione di un giornalista da parte di Current Affairs). Non penso che il New York Times sbagli a dire di non voler pubblicare editoriali che chiedono la repressione militare contro i dissidenti. Non penso che una casa editrice debba pubblicare qualunque libro. Se la posizione del Guardian è che i suoi opinionisti possono avere solo una gamma limitata di opinioni o debbano essere controllati molto attentamente perché non la violino, pazienza. Il defunto antropologo David Graeber, un tempo collaboratore fisso del giornale, negli ultimi anni di vita si è rifiutato di averci a che fare affermando che il Guardian utilizzava la presenza di collaboratori di sinistra come copertura per portare avanti le sue pretestuose accuse di antisemitismo contro il partito Laburista di Jeremy Corbyn, e più di un critico ha affermato che il Guardian ha cinicamente brandito l’antisemitismo per difendere l’ala centrista del Labour contro la sinistra).

Ma ammettiamo che il Guardian abbia ragione riguardo a quello che fa e alle posizioni ideologiche che pretende dai suoi giornalisti. Ammettiamo che gli abbonati e i lettori del Guardian sappiano che se gli editorialisti del giornale oltrepassano il limite verranno licenziati, il che significa che i lettori non ascoltano necessariamente le opinioni che ascolterebbero se il giornale non esercitasse un controllo attivo sull’opinione degli editorialisti. A un certo punto il mio capo-redattore mi ha detto che il giornale considera quello che gli editorialisti dicono sui media sociali un continuo problema e sta cercando di trovare un modo per risolvere la questione. Suppongo che effettivamente sia difficile, perché il Guardian vuole avere il diritto di licenziare le persone se dicono qualcosa di sbagliato, continuando nel contempo a sostenere di non fare una cosa del genere e mantenendo la disciplina con mail “private e riservate” invece di stendere un vademecum.

In ogni caso sono fortunato. Ho la mia rivista, sulla quale posso parlare in modo assolutamente libero, dovendo rendere conto solo ai nostri abbonati. Se non avessi un modesto stipendio da un’altra parte, perdere questo reddito sarebbe ancora più disastroso. Ho molti dubbi che, considerando che ora sono stato licenziato da un quotidiano per presunto antisemitismo, sarò assunto da un altro giornale. Devo augurarmi che Current Affairs continui a sopravvivere. Non è sicuro. Siamo una piccola rivista indipendente finanziata esclusivamente dagli abbonati e da piccoli donatori. Invece il Guardian è finanziato da una grande fondazione con un contributo di 1 miliardo di sterline [1 miliardo 14 milioni di euro, ndtr.].

Ho notato che molte persone che sono esplicitamente a favore della libertà di parola hanno poco da dire quando chi critica Israele deve affrontare conseguenze professionali. Eppure il mio caso è relativamente banale e l’attenzione dovrebbe concentrarsi sui palestinesi che sono stati massacrati e mutilati dalle aggressioni dell’esercito israeliano. Le vite di questi palestinesi non valgono assolutamente niente per quanti hanno manifestato più indignazione riguardo al mio tweet che al concreto uso dei sistemi d’arma che stiamo vendendo a Israele.

Il vero problema con la censura ai danni di chi critica Israele è che rende più facile al governo di quel Paese continuare ad assassinare manifestanti e a mantenere un blocco che, secondo le Nazioni Unite, “nega fondamentali diritti umani contravvenendo alle leggi internazionali e che rappresenta una punizione collettiva.” Nel 2018 centinaia di palestinesi, compresi minori e medici, sono stati colpiti da cecchini israeliani durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno – secondo Middle East Monitor “in un solo giorno, il 14 maggio, l’esercito israeliano ha colpito e ucciso sette minorenni” e oltre 1.000 manifestanti sono stati colpiti da proiettili veri – ma Israele non ha mai dovuto renderne conto e gli Stati Uniti continuano a rifornirlo di armi.

Spero tuttavia che si possa vedere esattamente come funziona la repressione delle critiche a Israele. Dici la cosa sbagliata, perdi il posto. Non hai una seconda possibilità. Sarai tacciato di antisemitismo e perderai il tuo lavoro da un giorno all’altro. Questa è una delle ragioni fondamentali per cui Israele continua a cavarsela nonostante commetta crimini orribili. Parlare onestamente e francamente dei fatti rischia di portare a una immediata censura. Le violazioni dei diritti umani continuano impunemente. E quando i cecchini israeliani prendono di mira i minori palestinesi, il Guardian è suo complice.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)