Discriminazione politica dei palestinesi di Israele

Eletti ma sotto attacco: come in Israele si sta riducendo lo spazio per i deputati palestinesi

Un nuovo rapporto di Amnesty International evidenzia la discriminazione radicata all’interno della Knesset israeliana

 

Ben White

4 settembre 2019 – Middle East Eye

 

 

Mentre Israele si prepara alle seconde elezioni in un anno, Amnesty International ha pubblicato un nuovo rapporto che evidenzia quelle che descrive come “crescenti minacce” alla “libertà di espressione” dei membri palestinesi della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.].

[Il rapporto] “Eletti ma condizionati: spazio che si sta riducendo per i parlamentari palestinesi nella Knesset israeliana” è stato reso pubblico due settimane prima che gli israeliani vadano a votare il 17 settembre, e costituisce una cruda sintesi di quello che Amnesty descrive come uno “spazio ridotto” per le critiche e una discriminazione “radicata”.

Al centro delle preoccupazioni di Amnesty c’è l’uso “discriminatorio” dei regolamenti e delle leggi che compromette la possibilità dei palestinesi eletti alla Knesset di rappresentare i propri elettori.

 

Rifiuto del dissenso politico

Un esempio degli esempi citati è una modifica legislativa del 2016 che consente alla Knesset di “espellere i deputati eletti attraverso un voto a maggioranza dei loro colleghi parlamentari,” dando facoltà “alla maggioranza politica di far dimettere un deputato eletto” per aver manifestato opinioni politiche ritenute inaccettabili, persino quando queste dichiarazioni “non sono state sottoposte ad alcun procedimento penale o di altro genere.”

Nel contempo “i regolamenti della Knesset, che si presume siano in vigore per imporre comportamenti etici ai parlamentari, sono stati utilizzati per limitare il diritto di parola, colpendo i parlamentari palestinesi in modo discriminatorio,” afferma Amnesty, evidenziando una loro modifica nel 2018 “per non concedere a un deputato della Knesset il permesso di viaggiare all’estero se il viaggio viene finanziato da ‘un ente che chiede il boicottaggio dello Stato di Israele’.”

Preso nel suo complesso, il rapporto di Amnesty mina seriamente le ricorrenti argomentazioni del governo israeliano, compresa la spesso ripetuta affermazione che la semplice presenza di parlamentari “arabi israeliani” sia la prova di quella che sarebbe una democrazia vitale.

“Importanti dirigenti del governo israeliano” hanno rivolto “dichiarazioni incendiarie” contro i deputati palestinesi, afferma Amnesty, “intese a delegittimare loro e il loro lavoro”. Per aver osato criticare le politiche del governo, questi parlamentari hanno dovuto affrontare la richiesta che venissero “messi fuori legge” o processati per “tradimento”.

 

Mancanza di democrazia

Oltre a questi discorsi, leggi presentate da parlamentari palestinesi sono state bocciate su basi politiche. Secondo Amnesty, dal 2011 “la Knesset ha bocciato quattro leggi riguardanti diritti o rivendicazioni politiche dei palestinesi.”

Tra queste una legge proposta nel 2018 da deputati palestinesi in cui si dava una definizione di Israele come “un Paese per tutti i suoi cittadini”, a cui è stato impedito di “arrivare alla discussione parlamentare” sulla base del fatto che “avrebbe negato la definizione di Israele come Stato ebraico”.

“A giudizio di Amnesty International,” sostiene il rapporto, “la decisione ha discriminato i parlamentari palestinesi, a quanto pare sulla base della loro origine nazionale o etnica.”

In vista delle elezioni di questo mese, questo nuovo documento è un importante promemoria delle difficoltà che incontrano i deputati palestinesi – limitazioni che per alcuni cittadini palestinesi sono sufficientemente pesanti da rendere di per sé inutile o controproducente la partecipazione al sistema parlamentare.

Il nuovo rapporto è anche un’opportunità per una riflessione critica più generale sulle presunte credenziali democratiche di Israele. Oltre ai condizionamenti che i cittadini palestinesi devono affrontare nella Knesset, ci sono tre fattori chiave che indicano il deficit democratico di Israele.

 

Discorso divisivo

Il primo luogo c’è la discriminazione istituzionalizzata presente dal 1948. Come nota anche Amnesty, i cittadini palestinesi di Israele rappresentano circa il 20% della popolazione totale “e, come per ogni altro cittadino israeliano, i loro diritti alla partecipazione politica e ad essere rappresentati sono riconosciuti dalle leggi israeliane.”

Tuttavia, “le leggi israeliane consentono discriminazioni dirette o indirette contro i palestinesi ed altri cittadini non ebrei in molti ambiti, comprese la cittadinanza, la terra e la pianificazione territoriale, la casa, l’educazione e la salute.” Non certo la solida democrazia liberale che rivendicano gli apologeti di Israele.

Questa discriminazione, durata decenni, si è inasprita negli ultimi anni, in quanto le autorità israeliane hanno “incrementato i discorsi divisivi contro le minoranze e le comunità emarginate,” e “minacciato e calunniato i difensori palestinesi ed israeliani dei diritti umani.”

In secondo luogo, c’è il problema di chi è escluso dal voto. Mentre Israele esalta il fatto che i suoi cittadini palestinesi possono votare, nel corso di questo mese molti più palestinesi non saranno in grado di votare benché le loro vite siano controllate dallo Stato israeliano e dalle decisioni prese dalla Knesset.

Gli esclusi dal voto includono la grande maggioranza dei più di 300.000 palestinesi con residenza permanente, senza la cittadinanza, che vivono a Gerusalemme est, occupata ed illegalmente annessa.

Tuttavia questo numero è oscurato dai quasi cinque milioni di palestinesi che vivono nei territori palestinesi occupati, sottoposti negli ultimi 50 anni a un regime militare. In Cisgiordania i coloni israeliani che vivono nelle colonie illegali voteranno; i palestinesi nelle comunità limitrofe non lo potranno fare.

 

Disumanizzazione dei palestinesi

È importante ricordare anche i milioni di palestinesi al di fuori della Palestina storica, espulsi dalle proprie case dalle autorità israeliane nel 1948, e i loro discendenti. Le leggi israeliane li hanno privati della nazionalità, impedendo loro di tornare, e quindi hanno creato la maggioranza ebraica tra i cittadini israeliani.

In terzo e ultimo luogo, la mancanza di democrazia in Israele è evidenziata anche dal diffuso appoggio alla disumanizzazione dei palestinesi e dalla negazione dei loro diritti nelle tendenze politiche principali di Israele.

Indipendentemente dai risultati delle elezioni, il prossimo governo israeliano, come tutti quelli che l’hanno preceduto, non terrà in alcun conto le leggi internazionali, compresa la perpetrazione di crimini di guerra, e continuerà a violare i diritti fondamentali dei palestinesi.

È un consenso criminale condiviso sia dal Likud che dall’alleanza di opposizione “Blu e Bianco”.

Mettendo insieme tutto questo, con la discriminazione istituzionalizzata e il fatto che milioni di palestinesi non possano votare per il governo che controlla le loro vite, viene alla mente la citazione del deputato Ahmed Tibi, secondo cui Israele è “democratico verso gli ebrei, ed ebreo verso gli arabi.”

E per quanti sono impegnati a favore del principio di uguaglianza, ovviamente non la si può affatto definire una democrazia.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide” [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di “Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi media, tra cui Middle East Monitor, Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, The Electronic Intifada, The Guardian ed altri ancora.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Amos Oz: il mito tenace del sionismo progressista

Ben White

1 gennaio 2018, Middle East Eye

L’ammirazione dell’Occidente per Amos Oz è collegata al romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sul processo di pace e, soprattutto, al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina

Da molto tempo emarginata dalla destra nazionalista in forte ascesa in Israele, all’estero la cosiddetta “sinistra sionista” ha conservato un’influenza morale e intellettuale di prima grandezza.

Lo scrittore Amos Oz, deceduto lo scorso 28 dicembre all’età di 79 anni, era forse l’incarnazione più conosciuta di questa corrente politica. Noto come il “padrino dei pacifisti israeliani” –come l’ha presentato il “New Yorker” [settimanale di politica e cultura USA di tendenza progressista, ndtr.] nel 2004 -, era ammirato da molti a livello internazionale.

Tuttavia questa immagine dell’artista o del profeta progressista – alla quale hanno contribuito in buona misura i cambiamenti politici in Israele, che hanno fatto sì che persino i critici più clementi siamo ormai definiti “traditori” – contrasta chiaramente con le opinioni di Amos Oz su eventi passati e presenti, e in particolare su quello che il sionismo ha rappresentato per i palestinesi.

Giustificare la Nakba

La sinistra sionista, a cui Amos Oz apparteneva, ha dedicato un notevole impegno per giustificare la pulizia etnica della Palestina. La seguente metafora è stata alla base del contributo di Amos Oz a questi sforzi: “La giustificazione (del sionismo) per quanto riguarda gli arabi che vivevano su questa terra è il giusto diritto del naufrago che si aggrappa all’unica tavola che trova”, ha scritto nel suo libro “In terra di Israele” [Marietti, Torino, 1992, ndtr.].

E ogni regola di giustizia naturale, obiettiva e universale autorizza l’uomo che annega e che si aggrappa a quell’asse a ritagliarvisi uno spazio, anche se per questo deve spingere un po’ gli altri. Anche se gli altri, seduti su quella stessa tavola, non gli lasciano altra alternativa che la forza.”

Solo che i palestinesi non sono stati invitati a “condividere un asse”: sono stati espulsi in massa, i loro villaggi sono stati rasi al suolo e i loro centri urbani spopolati, e continuano ad essere esclusi dalla loro patria semplicemente perché non sono ebrei.

Inoltre chi, a parte un mostro, rifiuterebbe a un naufrago un posto su una tavola a cui aggrapparsi? La metafora di Amos Oz ha una duplice funzione: fa sparire la Nakba e rimprovera alle sue vittime di essere dei bruti senza pietà che hanno dovuto essere “obbligati” a “condividere una tavola”.

La falsa simmetria dell’occupazione

Amos Oz ha creato numerose metafore per presentare una falsa simmetria tra palestinesi e israeliani e sottrarsi a qualunque responsabilità politica. I palestinesi e gli israeliani sono dei “vicini” che hanno bisogno di “buone recinzioni”, una coppia di sposi che ha bisogno di un “divorzio equo”, un paziente che ha bisogno di una “dolorosa” operazione chirurgica.

Nel 2005 Amos Oz ha dichiarato a Libération [quotidiano francese di sinistra, ndtr.]: “Israele e Palestina (…) somigliano a un carceriere e al suo prigioniero, ammanettati uno all’altro. Dopo tanti anni, non c’è praticamente più nessuna differenza tra di loro: il carceriere non è libero più del suo prigioniero.” Questa cancellazione delle strutture di potere, questa mescolanza tra la realtà dell’occupato e la soggettività dell’occupante erano tipici dell’autore.

Lo scontro tra gli ebrei che ritornano a Sion e gli abitanti arabi del luogo non assomiglia ad un western o a un’epopea, ma piuttosto a una tragedia greca”, ha scritto (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]). Le variazioni su questo tema sono state numerose: “Il conflitto tra un ebreo israeliano e un arabo palestinese (…) è uno scontro tra una ragione e un’altra ragione (…), un conflitto tra vittime.”

Ora, parlare di “tragedia” equivale a confondere deliberatamente i rapporti di causa e effetto e a sostituire le responsabilità con una spiacevole disgrazia e, verosimilmente, a presentare il movimento sionista (ossia lo stesso Oz) come un eroe tragico che, benché le sue azioni abbiano delle conseguenze deleterie per gli altri, è nobilitato dalla propria auto consapevolezza

In effetti, come ha sottolineato il critico letterario americano di origine palestinese Saree Makdisi, “non è per niente vero che per Oz in questo conflitto esistano due contendenti più o meno ugualmente colpevoli. In fin dei conti, i veri cattivi nella versione della storia secondo Oz sono i palestinesi, che avrebbero dovuto riconoscere il sionismo come un movimento di liberazione nazionale (e) accoglierlo a braccia aperte.”

In un articolo apparso qualche anno fa Amos Oz affermava che “l’esistenza o la distruzione di Israele non sono mai state una questione di vita o di morte,” in particolare per Paesi come la Siria, la Libia, l’Egitto e l’Iran, prima di aggiungere con disinvoltura una frase rivelatrice: “Può darsi che questa sia stata l’ipotesi per i palestinesi – ma, per nostra fortuna, essi sono troppo deboli per sconfiggerci.”

Il colonialismo è sempre una “questione di vita o di morte” per i colonizzati – e Amos Oz lo sapeva.

Proteggere Israele dalle critiche all’estero

Nonostante la sua fama di detrattore delle azioni del governo israeliano, Amos Oz ha giocato un ruolo importante nella giustificazione dei crimini di guerra di Israele sulla scena internazionale.

Come ricorda un necrologio a lui dedicato, durante l’invasione del Libano e l’annientamento delle due Intifada palestinesi da parte di Israele, quest’ultimo “aveva bisogno di voci per parlare al mondo esterno e mostrare un volto più altruistico di quello di Ariel Sharon.” Tre settimane dopo l’inizio della Seconda Intifada, quando erano già stati uccisi circa 90 palestinesi, Amos Oz è servito in questo modo di un articolo sul Guardian [quotidiano inglese di centro sinistra, ndtr.] per attaccare “il popolo palestinese”, definendolo “soffocato e avvelenato da un odio cieco.”

In seguito, durante l’assalto devastante di Israele contro la Striscia di Gaza nel 2014, Amos Oz si è affrettato a condividere le frasi fatte promosse dal suo governo presso i media internazionali: “Cosa fareste voi se il vostro vicino di fronte si sedesse sul balcone, mettesse il suo ragazzino sulle ginocchia e cominciasse a sparare con una mitragliatrice contro la stanza del vostro bambino?”

Amos Oz ha anche respinto i tentativi, anche modesti, intesi a chiedere conto a Israele: nel 2010 ha scritto insieme ad altri una lettera per opporsi alla petizione, formulata da studenti ebrei e palestinesi presso l’università californiana di Berkeley affinché essa cessasse gli investimenti in due imprese di armamenti che avevano come cliente l’esercito israeliano. Amos Oz ha anche accusato di antisemitismo la mozione per il disinvestimento.

Un argomento noto

Di fatto Amos Oz ha creduto e ribadito un buon numero di argomenti anti-palestinesi avanzati dai governi israeliani che si sono succeduti e dalla destra nazionalista del Paese. In una postfazione del 1993 al suo libro “In terra di Israele” Oz ha denunciato “il movimento nazionale palestinese (…) come uno dei movimenti nazionalisti più estremisti e intransigenti della nostra epoca,” che è stato causa della miseria “del suo stesso popolo.”

Nella medesima postfazione Amos Oz ha respinto le affermazioni palestinesi secondo le quali il sionismo sarebbe un “fenomeno colonialista”, scrivendo con involontaria ironia: “I primi sionisti arrivati in terra d’Israele alla fine del secolo non avevano niente da colonizzarvi.” Nel 2013 Oz ha dichiarato: “Gli membri dei kibbutz non volevano impadronirsi della terra di nessuno. Si sono deliberatamente installati negli spazi vuoti del Paese, nelle zone interne e disabitate, dove non viveva nessuno.”

In un editoriale del 2015 lo scrittore israeliano ha espresso il proprio orrore di fronte all’idea di una maggioranza palestinese all’interno di un unico Stato democratico: “Iniziamo con una questione di vita o di morte. Se non ci sono due Stati, ce ne sarà uno. Se ce ne sarà uno, sarà arabo. Se sarà arabo, è impossibile prevedere la sorte dei nostri figli e dei loro.”

Molto è stato detto sul l’“itinerario” politico di Amos Oz, a partire dalla sua infanzia in una famiglia di sionisti revisionisti [nazionalisti di destra, ndtr.]. Tuttavia il suo rifiuto di una soluzione sulla base di uno Stato unico ricorda le parole del dirigente revisionista Vladimir Jabotinsky, che affermava: “Il nome della malattia è minoranza, il nome della cura è maggioranza.”

Colonialismo di insediamento

L’immagine politica di Amos Oz in Occidente non si limita alla vita e al lavoro di un solo uomo. Deriva anche anche dal romanticismo che continua ad essere associato al kibbutz, alle illusioni sulla realtà degli accordi di Oslo e del processo di pace promosso dagli USA. Soprattutto, forse, è collegata al profondo sostegno offerto al colonialismo di insediamento in Palestina e alla tenace forza della mitologia sionista.

Un recente articolo del New York Times [principale quotidiano statunitense, ndtr.] sulla vita di Amos Oz afferma che Israele è “nato da un sogno, da un desiderio” e descrive Oz come “per molti aspetti, il perfetto nuovo ebreo che il sionismo aveva sperato di creare. Adolescente ha lasciato da solo Gerusalemme (…) e si è insediato in un kibbutz, una delle comunità agricole socialiste in cui gli israeliani hanno realizzato i propri sogni più radicati: coltivare se stessi e la terra in modo da diventare robusti e generosi.” (corsivo dell’autore [dell’articolo di MEE, ndtr.]).

Il colonialismo di insediamento è sempre stato sinonimo di incremento della soggettività del colono e di eliminazione brutale del colonizzato. La storia del movimento sionista in Palestina non è diversa.

Così la Palestina non era presentata come un luogo nel tempo, con la propria storia, i propri costumi, i propri popoli e le proprie narrazioni, ma piuttosto come un ambiente favorevole alla realizzazione della visione di “restaurazione” dei coloni. I palestinesi non erano presentati come individui reali, vivi, ma come dei buoni selvaggi, dei barbari e dei fanatici religiosi.

Come ha dichiarato il regista israeliano Udi Aloni, “la sinistra ebraica israeliana (…) non considera i palestinesi come soggetti della lotta, non vede che se stessa.”

Dans une critique cinglante du livre d’Amos Oz, Dear Zealots, publié en 2017, l’ancien président de la Knesset Avraham Burg a décrit Oz comme « un partisan fanatique de la partition, qui piétine tout sur son passage pour parvenir à sa solution surannée [à deux États] ». Pour Amos Oz, « un seul État arabe est inconcevable » ; ses « opinions des Arabes, qui affleurent ici et là, ne sont pas vraiment flatteuses ». Comme l’a résumé Burg : « Il y a beaucoup de questions, et ce petit livre d’Amos Oz n’offre aucune solution. »

In una sferzante critica al libro di Amos Oz Cari fanatici [Feltrinelli, Milano, 2017, ndtr.], pubblicato nel 2017, l’ex presidente della Knesset Avraham Burg ha descritto Oz come “un sostenitore fanatico della spartizione, che lungo il suo passaggio calpesta tutto per raggiungere la propria soluzione ormai superata (a due Stati).” Per Amos Oz “uno Stato unico arabo è inconcepibile”; le sue “opinioni sugli arabi, che affiorano qua e là, non sono davvero lusinghiere.” Come ha riassunto Burg: “Ci sono numerosi problemi, e questo libriccino di Amos Oz non offre alcuna soluzione.”

Ben White è autore di “Israeli Apartheid: A Beginner’s Guide [Apartheid israeliano: una guida per principianti] e di Palestinians in Israel: Segregation, Discrimination and Democracy” [Palestinesi in Israele: segregazione, discriminazione e democrazia]. Scrive per Middle East Eye e i suoi articoli sono stati pubblicati anche da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, e nella rubrica del “The Guardian” “Comment for Free” [Commento gratis] ed altri.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




I Democratici stanno abbandonando Israele?

Rod Such

7 agosto 2018, The Electronic Intifada

Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel di Ben White, Pluto Press (2018)

Recentemente la deputata del Minnesota Betty McCollum ha preso la parola alla Camera dei Rappresentanti degli USA invitando i suoi colleghi a firmare una legge senza precedenti che vieterebbe ad Israele l’uso degli aiuti militari USA per incarcerare minori palestinesi.

Questo sviluppo evidenzia quello che il giornalista e scrittore Ben White descrive nel suo ultimo libro, Cracks in the Wall [“Crepe nel Muro, ndtr.] come l’inizio della fine dell’appoggio bipartisan allo Stato di Israele [negli USA].

White identifica tre fratture che hanno importanti conseguenze per il futuro della Palestina: Democratici USA che parlano a favore dei diritti dei palestinesi, ebrei americani che si oppongono all’occupazione e in qualche caso appoggiano il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni [contro Israele] e il crescente numero di autorità locali che in Europa stanno aderendo al BDS.

White esamina in modo sintetico e senza esagerazioni la strada percorsa finora dal partito Democratico. Peraltro dimostra in modo convincente che le crepe esistono davvero, notando solo come esempio l’inequivocabile opposizione dei Democratici alla nomina di David Friedman come ambasciatore USA in Israele da parte del presidente Donald Trump.

Laddove in precedenza una tale nomina è passata senza alcuna complicazione nel congresso USA, questa volta 46 senatori democratici hanno votato contro la nomina di Friedman, un esplicito sostenitore della colonizzazione illegale da parte di Israele.

La cosa ancora più importante, forse, sono i passi avanti evidenti nella base progressista del partito Democratico. White cita un sondaggio del 2015 che ha rilevato che il 47% della “élite d’opinione” democratica – una categoria descritta come molto colta e politicamente attiva – vede Israele come un “Paese razzista”. Ora che una percentuale molto maggiore di repubblicani rispetto ai democratici appoggia Israele, White nota che l’impopolarità di Trump tra i democratici e gli indipendenti non farà che accelerare la tendenza. Gli elettori repubblicani, per esempio, hanno approvato l’iniziativa di Trump di spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme con il 76% contro l’11%, rispetto al solo 12% di approvazione tra i democratici – con il 65% di contrari.

Allo stesso modo le crescenti divisioni all’interno della comunità ebraica USA promettono di stravolgere il concetto secondo cui le critiche alle politiche del governo israeliano sono indice di antisemitismo. L’autore cita in particolare la crescente solidarietà con i palestinesi ed il loro diritto all’autodeterminazione tra gli ebrei USA, come esemplificato dalla rapida crescita di “Jewish Voice for Peace” [gruppo di ebrei USA contrari all’occupazione, ndtr.] con le sue oltre 70 sezioni, più di 250.000 sostenitori on line e 15.000 iscritti paganti.

Potere in diminuzione” della lobby

Ma non esclude da questa tendenza il gruppo progressista sionista “J Street” [ebrei USA moderatamente critici nei confronti del governo israeliano, ndtr.], notando che, nonostante il suo programma conservatore, “ha giocato un ruolo fondamentale nella crescente divisione tra gli ebrei americani riguardo ad Israele.”

Inoltre, sia “J Street” che “Jewish Voice for Peace” si sono uniti a sostegno dell’accordo sul nucleare iraniano, che ha rappresentato una sfida significativa per la tradizionale lobby israeliana e per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Netanyahu si è inimicato molti nella la comunità ebraica e nel partito Democratico quando si è sfrontatamente allineato ai repubblicani scavalcando la Casa Bianca di Barak Obama, cosa mai avvenuta prima, per rivolgersi ad una sessione congiunta del Congresso nel 2015.

Questo discorso non è riuscito ad evitare la successiva approvazione dell’accordo [con l’Iran] da parte del Senato USA, con solo quattro senatori democratici che hanno votato contro insieme ai Repubblicani. Al Congresso, 25 Democratici hanno votato con i Repubblicani, ma quel voto è servito solo come rifiuto dell’accordo del presidente Obama e non è riuscito a far fallire il patto, nonostante gli intensi tentativi da parte del gigante della lobby israeliana, l’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, principale gruppo di pressione filoisraeliano negli USA, ndtr.].

Il “New York Times” ha affermato che il voto “ha messo in rilievo il ridotto potere della forza lobbystica israeliana,” un’affermazione che rimane vera nonostante la decisione di Trump di revocare l’accordo.

La terza crepa nel muro che White mette in evidenza è la crescente adesione al BDS in Europa, un mercato fondamentale delle esportazioni di Israele. L’adesione al BDS da parte di consigli comunali in Spagna e in parte di Italia, Francia, Irlanda e Gran Bretagna minaccia di ridurre le esportazioni di Israele e lo isola ulteriormente sul piano internazionale.

Ristabilire l’umanità

Nonostante le crescenti divisioni, White comprende che nessuna crepa sembra essersi aperta tra gli ebrei israeliani. Analizzando i risultati delle elezioni israeliane nel corso dei decenni, conclude che gli ebrei israeliani continuano ad essere uniti attorno alle politiche governative.

Non c’è un blocco di sinistra visibile in Israele, scrive, e l’unica divisione è tra quelli che vogliono mantenere lo status quo e quelli che vogliono annettere esplicitamente la Cisgiordania. Attribuisce questa situazione all’ideologia sionista, che gli ebrei israeliani continuano ad accettare come il loro sguardo sul mondo.

Ciò rende il superamento dell’apartheid più difficile, ma non impossibile.

Indagando sul suo sottotitolo – “Oltre l’apartheid in Palestina/Israele” – White suggerisce che garantire agli ebrei israeliani la loro sicurezza e la loro possibilità di vivere in una società democratica basata su uguali diritti rimane un compito importante. Citando figure quali Edward Said, Virginia Tilley e Omar Barghouti, White enfatizza l’importanza di catturare l’immaginazione degli oppressori dei palestinesi e di convincerli che decolonizzare Israele significa porre fine alla dominazione, non ai diritti o alla sicurezza.

La creazione di un unico Stato democratico prospetta il ritorno dell’umanità per gli stessi colonizzatori, che altrimenti, egli suppone, continueranno a disumanizzare tutto.

Cracks in the Wall” apre una discussione attesa da tempo all’interno del movimento di solidarietà con la Palestina sul significato di queste crescenti fratture e su come approfondirle. Anche altre crepe nella società civile, tuttavia, meritano attenzione, ma purtroppo White le ignora – soprattutto quelle tra le denominazioni cristiane progressiste e gli evangelici di destra, e tra gli stessi movimenti della sinistra progressista, che sempre più appoggiano i diritti dei palestinesi come cogenti nelle alleanze tra vari settori.

Solo questo tipo di sostegno di base sempre più ampio a favore dei palestinesi può mettere alla prova l’establishment del partito Democratico, che continua a vedere Israele come un alleato egemone in Medio Oriente, piuttosto che come il peso che esso rappresenta.

Il lettore che intraprende con White questa esplorazione di fratture e possibili risultati illuminati riceverà in cambio la sua lucida e sintetica prosa che di tanto in tanto raggiunge vette di eloquenza.

White lo è in particolare quando fornisce il più convincente risultato che vede per la regione, citando anche il libro “I saw Ramallah” [“Ho visto Ramallah”] di Mourid Barghouti:

Quindi un unico Stato democratico offre qualcosa di straordinariamente ordinario: la prospettiva di ebrei israeliani e palestinesi che sfuggono al ‘cerchio infernale della disumanità’ creato dalla ‘radicale distinzione sionista tra ebrei privilegiati in Palestina e non ebrei senza privilegi,’ andando oltre l’apartheid, e quindi, cooperando e discutendo, amando e odiando, pregando e protestando, lavorando e riposando – in altre parole, vivendo– come cittadini uguali di una patria comune.”

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Book” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Perché definire Israele uno Stato di apartheid o razzista non è antisemita

Ben White

giovedì 2 agosto 2018, Middle East Eye

Per i palestinesi e per i loro sostenitori una definizione di antisemitismo non può essere slegata dalla storia e dalla natura della fondazione di Israele e dalle sue politiche in corso

Il convulso dibattito sulla definizione di antisemitismo della “International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA) [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa che intende promuovere la memoria dell’Olocausto formata da 31 Paesi membri, ndtr.] – o, più precisamente, sulla definizione ed esemplificazione dell’antisemitismo – si è concentrato su quanto il documento limiti la possibilità di criticare lo Stato di Israele e delegittimi la solidarietà con i palestinesi.

Qualcuno, come Jonathan Freedland, editorialista di “The Guardian” [quotidiano inglese di centro-sinistra, ndtr.], scrivendone lo scorso venerdì, ha difeso il documento dell’IHRA dal timore che “metterà a tacere le voci a favore dei palestinesi”, dando un’interpretazione in malafede e improbabile del testo, e delle sue implicazioni.

Si può, se si vuole, dire che tutto ciò che lo Stato di Israele ha fatto dalla sua nascita è stato razzista,” ha sostenuto Freedland. “Quello che è proibito è etichettare come impresa razzista “uno Stato di Israele” – il principio per cui gli ebrei, come qualunque altro popolo sulla terra, dovrebbero avere una patria e un rifugio per sè.”

Una posizione debole

Per prima cosa, rivediamo esattamente il testo in questione, parte del quale compare nel documento IHRA come lista di esempi di antisemitismo contemporaneo: “Negare al popolo ebraico il diritto all’autoedeterminazione, ad esempio sostenendo che l’esistenza di uno Stato di Israele è un’iniziativa razzista.”

Mettere in rilievo il riferimento a “uno” e non “allo” Stato di Israele è una posizione molto debole. Il documento dell’IHRA ospita nove riferimenti ad Israele in totale, e tutti chiaramente riguardanti lo Stato di Israele attualmente esistente, non uno [Stato] ipotetico (il che, ovviamente, non avrebbe alcun senso).

Allo stesso modo la definizione di antisemitismo in una bozza di lavoro diffusa (e poi lasciata cadere) dall’ormai defunto Centro Europeo di Monitoraggio su Razzismo e Xenofobia – su cui il documento dell’IHRA è in gran parte basato – mette anche in chiaro che l’esempio in questione si riferisce all’attuale Stato di Israele.

Ma non basta. Il documento dell’IHRA introduce la lista di casi affermando che essi “potrebbero” essere esempi di antisemitismo, “prendendo in considerazione il contesto generale”. Queste specificazioni vengono enfatizzate da quanti intendono minimizzare la possibilità che il documento abbia un effetto deterrente.

Tuttavia, dato che questo elenco include casi ben definiti di antisemitismo come “invocare, favorire o giustificare l’uccisione o il ferimento di ebrei” e la negazione dell’Olocausto, non c’è da stupirsi che la specificazione “potrebbero” sia spesso in pratica omessa in tutti gli esempi illustrativi.

E in pratica il documento dell’IHRA è già stato utilizzato per attaccare i palestinesi e i loro sostenitori e per sostenere che descrivere Israele nei termini di apartheid o colonialismo di insediamento sia “antisemita”.

Esempi istruttivi

L’anno scorso alcuni funzionari dell’”Università del Lancashire Centrale” hanno annullato un dibattito dell’”Israeli Apartheid Week” [Settimana contro l’Apartheid Israeliano, iniziative annuali organizzate dai movimenti filopalestinesi in tutto il mondo, ndtr.] perché avrebbe presumibilmente contravvenuto alla definizione dell’IHRA. All’inizio di quest’anno “Campagna contro l’Antisemitismo” [ong costituita dalla comunità ebraica britannica, ndtr.] ha sbandierato “successi simili” nell’ottenere la cancellazione di eventi organizzati da studenti.

Anche alcuni militanti della “Federazione Sionista del Regno Unito”, il “Centro di Comunicazione e Ricerca Britannico-Israeliano” (BICOM), insieme a parlamentari come Joan Ryan del partito Laburista e il conservatore Matthew Offord, hanno presentato una richiesta al governo per vietare eventi di “Israeli Apartheid Week” nelle università – citando di nuovo la definizione dell’IHRA.

Persino il “Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici” – sostenitore del documento dell’IHRA – ha riconosciuto che “c’è una preoccupante resistenza da parte delle università nell’adottarla (la definizione) e la libertà di parola è presentata come ragione principale della loro riluttanza.”

Proprio questa settimana un consigliere conservatore di Barnet – la prima autorità locale ad aver adottato la definizione dell’IHRA – ha presentato una mozione che intende proibire a qualunque gruppo o persino singolo individuo che appoggi la campagna guidata dai palestinesi di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) [contro Israele] di affittare strutture comunali.

Con un altro esempio istruttivo, quest’anno esponenti di organizzazioni come il “Comitato degli Ebrei Americani” e il “Congresso degli Ebrei Europei” hanno cercato di vietare all’attivista del BDS palestinese e difensore dei diritti umani Omar Barghouti di parlare al parlamento europeo.

In una lettera co-firmata le organizzazioni hanno sostenuto che “gli attivisti del BDS sono sistematicamente impegnati in pratiche considerate antisemite in base alla definizione di antisemitismo dell’ International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA),” visto che citano regolarmente l’esempio di Israele come un’“impresa razzista”.

Si noti ancora come, nella pratica, la specificazione “potrebbe” sia resa irrilevante: un palestinese che desideri porre fine alla violazione dei diritti del suo popolo è palesemente calunniato come razzista.

Impreciso e redatto male

Significativamente, anche due figure chiave che hanno partecipato alla formulazione del testo dell’IHRA riconoscono il suo impatto sulla libertà di parola, benché da prospettive molto diverse.

Kenneth Stern, uno dei principali estensori della definizione dell’EUMC, in seguito ha denunciato come i gruppi filoisraeliani abbiano utilizzato il documento “con la delicatezza di un maglio”. A novembre Stern ha detto al congresso USA che l’inserimento della definizione nel sistema giuridico avrebbe “congelato” il “discorso politico” degli studenti filopalestinesi.

Se Stern ha manifestato disappunto per come il testo dell’EUMC è stato in seguito utilizzato (pur senza riconoscere il proprio ruolo nel aver collaborato ad un simile risultato), invece l’architetto del documento dell’IHRA è assolutamente soddisfatto del suo ruolo nel censurare il punto di vista palestinese.

Mark Weitzman, che lavora al “Centro Simon Wiesenthal” con sede negli USA, è stato la “figura principale” nel riuscire a proporre e far adottare il documento dell’IHRA. Quando lo scorso anno l’”Università del Lancashire Centrale” ha annullato l’evento dell’”Israeli Apartheid Week”, Weizman ha salutato la decisione come “una chiara prova che questa definizione accettata a livello internazionale può giocare un ruolo fondamentale nella lotta contro l’antisemitismo.”

Nonostante l’evidenza, qualcuno sostiene che quelli che utilizzano il documento dell’IHRA per censurare semplicemente non lo stanno applicando “correttamente”. Ma, nel migliore dei casi, ciò conferma semplicemente le critiche sollevate da gente come David Feldman, direttore del “Pears Institute for the study of Antisemitism” [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, con sede a Londra, ndtr.], e Geoffrey Bindman, avvocato della Corona – cioè che la definizione è “imprecisa in modo sconcertante” e “redatta male”.

Non c’è niente di contraddittorio nell’affermazione che un documento impreciso possa essere utilizzato per censurare (come a quanto pare crede Freedman). Al contrario, come abbiamo visto con i tentativi di fare leggi contro l’”estremismo”, un linguaggio generico porta direttamente a preoccupazioni riguardo all’impatto sulla libertà di parola.

Stato etnico

In conclusione, torniamo all’affermazione sostenuta da Freedland ed altri, secondo cui l’esempio dell’IHRA in questione riguardi un “principio” – cioè “che gli ebrei, come qualunque altro popolo sulla terra, dovrebbero avere una patria e un rifugio per sè.”

Qui, e non per la prima volta, Freedland utilizza termini come “patria” e “rifugio” mentre quello di cui si sta realmente discutendo è uno Stato. Il documento dell’IHRA non riguarda un “principio” – riguarda l’associazione dell’autodeterminazione non solo a uno Stato, ma a uno Stato etnico.

Per i palestinesi le conseguenze di tale associazione non sono per niente teoriche: la creazione dello Stato di Israele come “Stato ebraico” ha significato pulizia etnica ed esilio forzato, e la sua continua esistenza come tale significa spoliazione, discriminazione e disumanizzazione continue.

Come hanno notato recentemente due difensori dei diritti umani palestinesi che vivono a Londra: “Per i palestinesi l’idea che sostenere che ‘l’esistenza dello Stato di Israele è un’impresa razzista’ sia in sé antisemita è slegata dalla storia e dalla natura della fondazione di Israele, e dalle sue continue politiche.”

Leggendo una lettera, pubblicata da “The Guardian” questa settimana, di un gruppo di palestinesi-britannici, che affermano il proprio diritto ad una “dimensione pubblica” della “realtà” della loro esperienza passata e presente, mi sono ricordato di qualcosa che un docente palestinese mi aveva detto quando ero uno studente universitario

Come può essere antisemita per me oppormi alla mia spoliazione?”, ha chiesto in forma retorica. “E di conseguenza,” ha aggiunto, “come può essere antisemita per te essere solidale con me?” Infatti. Eppure questa è l’assurda equazione su cui Israele ed i suoi amici hanno sempre cercato di insistere e a cui bisogna continuamente opporsi.

Ben White è autore del recente libro “Cracks in the Wall: Beyond Apartheid in Palestine/Israel” [Crepe nel muro: oltre l’apartheid in Israele/Palestina]. È un giornalista e scrittore freelance e i suoi articoli sono stati pubblicati da Al Jazeera, al-Araby, Huffington Post, the Electronic Intifada, the Guardian’s Comment is Free ed altri.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Perché Israele sta inasprendo il blocco di Gaza?

di Ben White

Middle East Monitor 21 ottobre 2016

Iniziamo con i fatti: nel corso dell’ultimo anno le autorità israeliane hanno inasprito il blocco di Gaza che dura da molto tempo.

Iniziamo con i fatti: nel corso dell’ultimo anno le autorità israeliane hanno inasprito il blocco di Gaza che dura da molto tempo.

Anche prima delle ulteriori recenti restrizioni, il blocco israeliano – una politica illegale di punizione collettiva secondo le parole del segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon – stava continuando a danneggiare gravemente la vita dei due milioni di abitanti di Gaza, accentuando il processo di de-sviluppo nell’enclave.

Nell’aprile di quest’anno l’ONU ha affermato chiaramente che il passo più urgente necessario per la ricostruzione di Gaza rimaneva “la fine delle restrizioni (israeliane) sull’importazione di materiale da costruzione, nella prospettiva di una conclusione completa del blocco.” Invece le cose sono andate in senso opposto.

In luglio il giornale israeliano Haaretz ha informato che ” sono state inasprite le restrizioni contro i palestinesi che cercano di partire dalla Striscia di Gaza e sulle importazioni consentite nel territorio”, compreso il divieto imposto a “certi uomini d’affari di importare le loro merci a Gaza.

I dati dell’ONU confermano che il blocco si è inasprito in luglio, mentre in agosto solo 110 camion di prodotti sono usciti da Gaza, meno della metà di quelli di gennaio (e il 14% di quelli del 2005). Anche agosto ha mostrato il livello più basso da sette anni del tasso di pareri favorevoli israeliani per la concessione di permessi a pazienti di lasciare Gaza e per essere curati.

Poi a settembre l’ong israeliana Gisha [che si occupa di difendere la libertà di movimento dei palestinesi, soprattutto di Gaza. Ndtr.] ha pubblicato statistiche che mostrano che “1.211 gazawi sono stati convocati al valico di Eretz per interrogatori su questioni relative alla sicurezza durante la prima metà dell’anno”- circa 2,5 volte il numero di persone interrogate durante lo stesso periodo un anno prima.

All’inizio di ottobre un alto funzionario della Camera di Commercio ed Industria di Gaza ha descritto l’attuale situazione come “la peggiore di sempre”. Il 13 ottobre il funzionario dell’ONU Nickolay Mladenov ha messo in guardia “quanti pensano che sia possibile punire la Striscia di Gaza e mantenerla sotto assedio.”

Nel frattempo, tuttavia, il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha dato istruzioni all’esercito israeliano di inasprire il blocco, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti “beni con un doppio uso [cioé civile e militare. Ndtr.]” soggetti a restrizioni. Secondo Gisha, questa lista “include prodotti il cui uso è eminentemente civile ed essenziale per la vita dei civili.”

Oltre a quanto detto finora, un alto funzionario dell’ONU ha descritto di recente come “le condizioni siano diventate molto più difficili” per le “la comunità umanitaria”. In gennaio è stato rigettato il 3% delle richieste di permesso per entrare in Israele da Gaza da parte dei suoi dipendenti palestinesi; in agosto questa percentuale è salita al 65%.

Questa settimana alle sue parole ha fatto eco il direttore operativo dell’UNRWA [agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi. Ndtr.] a Gaza, Bo Schack, che a sua volta ha scritto un editoriale in cui ha auspicato la fine del blocco. Parlando al telefono con me, Schack ha confermato che le restrizioni israeliane all’ingresso di cemento stanno ritardando i tempi della ricostruzione.

Secondo Schack, 400 famiglie le cui abitazioni devono ancora essere ricostruite stanno tuttora aspettando l’approvazione (come parte del “Meccanismo di Ricostruzione di Gaza” [accordo temporaneo, appoggiato dall’ONU, tra il governo palestinese e quello israeliano. Ndtr.]). Oltretutto negli ultimi 6 mesi, fino a maggio di quest’anno, “non abbiamo ricevuto nessun permesso per nessuno dei casi che abbiamo presentato”, ha detto Schack.

Il funzionario dell’ONU, che si trova a Gaza, ha anche affermato che, insieme all’ “incremento delle restrizioni sui palestinesi a Gaza”, ci sono anche “maggiori restrizioni di movimento del personale dell’ONU – in misura molto maggiore di quanto fosse prima.”

Ai commercianti e agli operatori umanitari di Gaza possiamo ora aggiungere importanti funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese, dopo la recente notizia che lo Shin Bet ha annullato i permessi di uscita permanenti per 12 dei 14 responsabili per la mediazione tra i civili palestinesi e le autorità israeliane. In altre parole i funzionari incaricati di garantire i permessi di uscita hanno perso i loro permessi di uscita.

Numerosi osservatori hanno sostenuto che Israele non ha intenzione di iniziare una nuova offensiva contro la Striscia di Gaza, per lo meno a breve termine, e che Lieberman, ora che occupa il ministero della Difesa, ha moderato, se non cambiato, il suo atteggiamento, la precedente aggressività e la promessa di abbattere il regime di Hamas a Gaza.

Ma cosa spiega le evidenti misure restrittive? Non è che le conseguenze del blocco siano un grande mistero. Pare che le stesse “istituzioni per la sicurezza” israeliane siano preoccupate dell’ “instabilità” a Gaza, facendo riferimento a una crescente crisi di Hamas ed a impressionanti livelli di povertà.

Un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese ritiene che Lieberman, annullando i permessi di uscita da Gaza di 12 funzionari, stia mettendo in atto la sua preannunciata politica di interruzione della comunicazione israeliana con le istituzioni rette da Mahmoud Abbas e di “creazione di rapporti diretti con gli abitanti palestinesi.”

Amira Hass, scrivendo questa settimana del rifiuto dei permessi di uscita per i palestinesi di Gaza, ha affermato con sferzante sarcasmo che lo Shin Bet “mi vuole convincere che una donna banchiere è diventata pericolosa e che lo è diventato anche un adolescente con il cancro, che è stato curato in Israele fin dall’infanzia e ora ha bisogno di un trapianto di mascella ad Haifa.”

Lo Shin Bet sa che “tutto ciò è insensato”, ha scritto Hass. Ma cosa c’è dietro? “Non abbiamo bisogno di aspettare che gli archivi vengano aperti per rispondere alla nostra domanda iniziale,” sostiene. “Lo Shin Bet e i suoi responsabili sono interessati ad un altro terribile spargimento di sangue – perché la Striscia di Gaza non obbedisce ai suoi ordini e continua a rimanere parte della società e della geografia palestinesi.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Un anno di rivolta: chi erano i palestinesi uccisi dalle forze israeliane?

Middle East Monitor – 1 ottobre 2016

Ben White

E’ passato un anno da quando è iniziata la rivolta anticoloniale condotta da giovani palestinesi, caratterizzata da proteste e attacchi contro le forze israeliane ed i coloni nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), insieme alla brutale violenza ed alle misure punitive delle autorità israeliane.

La cronologia non è definita; verso il primo ottobre 2015 la violenza dei palestinesi contro l’occupazione è andata gradualmente aumentando, con alti e bassi, per un anno. Qualcuno l’ha definita l'”Intifada di Gerusalemme”. Altri l’hanno descritta come “meno di un’Intifada e più di una esplosione di protesta popolare.”

Secondo un articolo di Quds News Network pubblicato questa settimana, 246 palestinesi sono stati uccisi durante lo scorso anno, e altri 18.500 sono stati feriti. Altre fonti parlano di 230 vittime (l’agenzia “Ma’an News”) o “più di 225” (Amnesty International).

La maggior parte dei palestinesi è stata uccisa mentre stava compiendo attacchi, o presunti attacchi; in luglio, per esempio, la Mezzaluna rossa palestinese ha affermato che 139 degli allora 218 morti in totale erano assalitori o presunti tali (poco meno dei 2/3).

Tuttavia, come l’Associated Press [agenzia di stampa USA. Ndtr.] ha affermato all’inizio di questo mese: “I palestinesi hanno spesso accusato gli israeliani di utilizzo eccessivo della forza contro aggressori e detto in molti casi che i supposti assalitori non lo erano neppure.” Questa fondamentale informazione è, purtroppo, raramente presente in molti articoli delle agenzie di notizie.

Sicuramente un certo numero di palestinesi – in genere giovani adulti – ha condotto attacchi durante lo scorso anno, la maggior parte dei quali ha preso di mira le forze militari israeliane di occupazione o coloni nei TPO. Alcuni di questi aggressori sono stati uccisi quando non rappresentavano più un pericolo.

Ma le forze israeliane – anche durante incidenti in cui i soldati hanno cambiato per varie volte la loro versione dei fatti – hanno ucciso anche palestinesi falsamente etichettati come aggressori, così come palestinesi a cui hanno sparato in irruzioni per arrestarli o durante la repressione di manifestazioni.

E’ significativo notare che, persino secondo le autorità israeliane, il numero di palestinesi uccisi in un contesto esclusivamente di proteste e incursioni durante lo scorso anno (71) è il doppio del numero totale di israeliani uccisi da palestinesi (33, più due persone straniere).

I palestinesi uccisi dalle forze armate israeliane sono di rado “umanizzati” in Occidente. Nei media, la loro morte merita – al massimo – un paio di righe che includono sempre la versione dei fatti del portavoce dell’esercito israeliano (e spesso solo la sua versione). E poi tutti passano ad altro.

Ecco allora un’istantanea dei costi umani del regime di apartheid israeliano e alcune delle storie di questi palestinesi che hanno perso la vita nell’ anno trascorso.

Abd al-Rahman Obeidallah, 13 anni. Ucciso il 5 ottobre 2015

Obeidallah è stato colpito a morte da un soldato israeliano nel campo di rifugiati di Aida, a nord di Betlemme. Era in piedi e stava osservando gli scontri tra gli abitanti e le forze di occupazione a circa 70 metri di distanza, quando è stato raggiunto da un proiettile letale al petto. Obeidallah era uno di cinque figli, e il suo fratello diciassettenne Mohammed lo ha descritto come il suo “miglior amico”. Secondo sua madre Dalal, il ragazzino aveva “sempre sognato di andare a trovare” una zia di Gerusalemme, ma, ha aggiunto, ” ci viene negato visitare Gerusalemme”. L’esercito israeliano in seguito ha sostenuto che l’uccisione di Obeidallah non era stata “intenzionale”. Un’inchiesta penale sulla sparatoria è stata aperta dall’Avvocatura Generale dell’Esercito Israeliano (AGE) , ma dopo un anno non ci sono notizie di una conclusione.

Shadi Dawla, 24 anni. Ucciso il 9 ottobre 2015.

Shadi è stato ucciso quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro manifestanti palestinesi che lanciavano pietre verso le torri di guardia dell’esercito lungo la recinzione di confine a est di Gaza City. Quel giorno 6 palestinesi sono stati uccisi e 145 feriti, quando soldati israeliani ben protetti hanno falciato manifestanti disarmati con proiettili letali. Shadi lavorava con suo padre come elettricista, e secondo il suo fratello minore stava pensando di sposarsi. “(Shadi) non era solo mio fratello”, ha detto, “era un buon amico. Stavamo sempre insieme. Parlavamo sempre tra di noi e ci chiedevamo consigli a vicenda.” Più di 20 palestinesi, compreso un bambino di 10 anni, sono stati uccisi lo scorso anno dall’esercito israeliano nelle proteste contro la barriera a Gaza. Nessuna inchiesta israeliana è stata aperta su nessuna di queste morti.

Nur Hassan, 26 anni. Uccisa l’11 ottobre 2015.

Nur Hassan,all’epoca incinta di 5 mesi, è stata uccisa insieme alla sua figlia di tre anni Rahaf in un attacco aereo israeliano contro la sua casa nel quartiere di a-Zeitun della Striscia di Gaza. La casa è stata colpita in pieno e completamente distrutta. Il bombardamento, avvenuto in piena notte mentre la famiglia dormiva, è stato descritto dall’esercito israeliano come un attacco contro un “luogo di produzione di armi”. La casa di Hassan si trovava in una zona agricola, circondata da oliveti e frutteti, con cui la famiglia si guadagnava da vivere. In un video ampiamente diffuso, il padre sopravvissuto, Yihya, sorregge il corpo di Rahaf dicendo ripetutamente: “Svegliati, figlia mia.” Anche Mohammed, il secondo figlio, di cinque anni, è sopravvissuto al bombardamento. Non c’è stata nessuna inchiesta israeliana.

Dania Ershied, 17 anni. Uccisa il 25 ottobre 2015.

Ershied è stata uccisa ad un checkpoint davanti alla moschea di Ibrahim di Hebron, in quello che secondo le autorità israeliane era stato un tentativo di accoltellamento da parte di una “terrorista”. Tuttavia resoconti di testimoni oculari riportati da gruppi per i diritti umani lo smentiscono. Durante una seconda indagine, ufficiali della polizia di frontiera avrebbero iniziato a gridarle di far vedere il suo coltello. Secondo Amnesty International, “colpi di avvertimento sono stati sparati ai suoi piedi, spingendola a retrocedere e ad alzare le mani. Ha gridato alla polizia di non avere nessun coltello ed aveva ancora le mani in alto quando la polizia ha di nuovo aperto il fuoco, colpendola sei o sette volte.” Dania era studentessa della Scuola Superiore Femminile Al-Rayyan di Hebron, ed è stata uccisa con la sua uniforme scolastica. Non c’è nessuna inchiesta sulla sua morte.

Ra’ed Jaradat, 22 anni. Ucciso il 26 ottobre 2015.

Jaradat è stato ucciso dopo aver attaccato le forze di occupazione israeliane fuori dal villaggio di Beit Einun, nei pressi di Hebron. Ha accoltellato un soldato prima di essere colpito più volte, anche dopo che era steso a terra immobile. Jaradat era uno studente di contabilità all’università Al-Quds, ed era originario del villaggio di Sair, un altro villaggio della zona di Hebron. Dopo l’uccisione di Dania Ersheid (vedi sopra), Jaradat ha scritto su Facebook: “Immagina se fosse tua sorella!” Suo padre affranto ha detto ai giornalisti: “Noi viviamo bene, mio figlio non aveva bisogno di niente. Ma l’unica cosa che manca nelle vite di questi giovani è la libertà.”

Tharwat al-Sharawi, 72 anni. Uccisa il 6 novembre 2015.

Al-Sharawi è stata uccisa dalle forze di occupazione israeliane mentre si stava avvicinando a un distributore di Hebron. L’esercito israeliano sostiene che questa madre di sei figli aveva tentato un attacco con la macchina. Eppure un video dell’incidente rivela che l’auto stava andando abbastanza piano da permettere ai soldati di spostarsi tranquillamente dalla sua direzione prima di aprire il fuoco sul veicolo mentre stava entrando nello spiazzo della stazione di servizio. Gli spari, continuati ben dopo che aveva superato i soldati, hanno ferito anche un dipendente della stazione di servizio. Il figlio di Al-Sharawi ha detto che la madre stava andando a pranzo a casa di sua sorella. Secondo Amnesty International l’uso di una violenza omicida da parte delle forze israeliane sarebbe stato illegale anche se la signora anziana stesse ponendo in pratica un attacco. Tuttavia la procura generale militare ha deciso di non aprire nessuna indagine penale.

Abdullah Shalaldah, 28 anni. Ucciso il 12 novembre 2015.

Abdullah Shalaldah è stato ucciso in una stanza di ospedale dalle forze di occupazione israeliane mascherate da civili palestinesi (di cui uno su una sedia a rotelle che fingeva di essere incinta). I soldati sono entrati in una stanza del terzo piano dell’ospedale con l’intenzione di arrestare il paziente, Azzam Shalaldah. Appena hanno fatto irruzione nella stanza, hanno sparato per tre volte alla testa ed alla parte superiore del corpo del cugino del paziente, Abdullah. L’esercito israeliano ha sostenuto che aveva aggredito i soldati, ma alcuni testimoni hanno detto che era disarmato ed è stato ucciso mentre usciva dal bagno dove era andato a lavarsi per pregare. A Sair migliaia di persone hanno partecipato al funerale di Shalaldah. Non c’è nessuna inchiesta israeliana sulla sua morte.

Lafi Awad, 22 anni. Ucciso il 13 novembre 2015.

Awad è stato ucciso durante una manifestazione presso il “Muro di separazione” a Budrud. Dopo le preghiere del venerdì, gli abitanti hanno marciato verso il “Muro”, costruito sulla terra del villaggio, dove le forze israeliane li stavano aspettando. Dopo qualche ora di scontri, un gruppo più ridotto di giovani si è avvicinato al “Muro”, solo per essere preso in un imboscata dai soldati. Awad è stato agguantato e aggredito, ma ha cercato di liberarsi. Quando si è messo a scappare, un soldato israeliano gli ha sparato alle spalle. Altri soldati israeliani hanno impedito di portarlo al più presto in ospedale. L’esercito israeliano ha sostenuto che un “rivoltoso” aveva cercato di impadronirsi dell’arma di un soldato. Lafi era uno di otto figli. Nel 2013 era stato arrestato e detenuto per 17 mesi per aver aiutato a distruggere una videocamera di sorveglianza dell’odiato “Muro”. Nessuna indagine penale è stata aperta sulla sua uccisione.

Mohammed Abu Khalaf, 20 anni. Ucciso il 19 febbraio 2016

Abu Khalaf, di Kafr Aqab, nella Gerusalemme est occupata, è stato colpito ed ucciso dalle forze israeliane fuori dalla Porta di Damasco, dopo aver accoltellato e ferito due poliziotti di frontiera. In una ripresa video girata da una troupe di Al Jazeera che si trovava per caso sul posto, le forze israeliane hanno sparato a lungo su Abu Khalaf anche dopo che era steso al suolo immobile. Le autorità israeliane hanno trattenuto il corpo di Mohammed per 200 giorni, restituendolo alla famiglia per il funerale solo il 6 settembre 2016. “Oggi la sofferenza per una ferita inguaribile è stata riaperta quando abbiamo ricevuto il suo corpo e lo abbiamo sepolto,” ha detto ai giornalisti sua madre Rula. Le autorità israeliane hanno in seguito deciso che nessuna imputazione sarebbe stata presentata contro i poliziotti coinvolti.

Anwar Al-Salaymeh, 22 anni. Ucciso il 13 luglio 2016.

Al-Salaymeh è stato colpito a morte dalle forze di occupazione israeliane mentre stava viaggiando con i suoi amici a a-Ram, in Cisgiordania. L’esercito israeliano ha affermato che i soldati hanno solo aperto il fuoco per impedire un tentativo di investimento con l’auto. I passeggeri sopravvissuti, tuttavia, hanno affermato che si stavano dirigendo verso una panetteria e non sapevano della presenza di forze israeliane nella zona, una versione dei fatti confermata da prove raccolte dall’associazione per i diritti umani B’Tselem. Al-Salaymeh, che si era sposato tre mesi prima della morte, stava andando a prendere dei biscotti per la moglie incinta quando è stato ucciso. Secondo suo padre, Al-Salaymeh “era stato di grande aiuto per la famiglia – e per questo aveva lasciato la scuola superiore e si era messo a lavorare.” Non c’è stata nessuna indagine sulla sua morte.

Muhyee al-Din Tabakhi, 10 anni. Ucciso il 19 luglio 2016.

Tabakhi è stato colpito da una cosiddetta granata “spugna nera” [proiettili ricoperti di materiale spugnoso nero, usati contro le manifestazioni e considerati non letali. Ndtr.], sparata da membri della polizia di frontiera a a-Ram, nella Gerusalemme est occupata. E’ morto poco dopo in ospedale. Scontri tra i giovani del luogo e le forze israeliane nella zona sono frequenti a causa di lavori in corso sul “Muro di separazione”. Poco prima che Tabakhi venisse colpito, alcuni giovani avevano lanciato pietre contro una jeep della polizia di frontiera, inducendo un poliziotto a scendere dal veicolo e a inseguirli. Il bambino di 10 anni è stato colpito al petto da una distanza di circa 30 metri. Anche un adulto che era intervenuto in soccorso è stato colpito ad una mano. Un portavoce della polizia israeliana ha semplicemente notato che non era stato usato nessun “proiettile letale”.

Muhammad Abu Hashhash, 19 anni. Ucciso il 16 agosto 2016.

Abu Hashhash è stato ucciso dalle forze di occupazione israeliane durante una brutale incursione durata un giorno nel campo di rifugiati di al- Fawwar, nei pressi di Hebron. E’ stato colpito alla schiena nel momento in cui stava uscendo dalla porta di casa da un cecchino israeliano nascosto in una casa palestinese a circa 30-40 metri di distanza. I soldati israeliani avevano fatto un piccolo buco nel muro della casa, attraverso il quale il ragazzo è stato ucciso. Abu Hashhash era un appassionato giocatore di pallone in un campo di circa 9.500 abitanti. Durante quella stessa incursione, le forze israeliane hanno ferito almeno 52 altri abitanti. anche con munizioni letali. Nel momento in cui sto scrivendo, non ci sono notizie di un’inchiesta dell’esercito israeliano sulla sua morte.

(traduzione di Amedeo Rossi)