Cosa rivela l’uscita di Gantz sulla fallita strategia israeliana a Gaza

 Meron Rapoport

11 giugno 2024 – +972 magazine

Il 7 ottobre è fallita la pluridecennale ‘politica di separazione’ israeliana nei confronti di Gaza. Gantz e Gallant lo sanno, ma Netanyahu e l’estrema destra non vogliono ancora ammetterlo.

A prima vista è difficile capire la spaccatura nel governo israeliano sul “giorno dopo” a Gaza che ha portato domenica Benny Gantz ad abbandonare la coalizione. Annunciando la sua decisione In una conferenza stampa Gantz ha accusato il primo ministro Benjamin Netanyahu di “impedire… una vera vittoria” non presentando un piano attuabile per la governance della Striscia dopo la guerra.

Gantz, che è entrato a far parte del governo e del gabinetto di guerra dopo il 7 ottobre in qualità di ministro senza portafoglio, per mesi ha esortato Netanyahu affinché esponesse il suo piano per il “giorno dopo”. Il primo ministro, che ha un interesse personale e politico nel prolungare la guerra, fino ad ora si è rifiutato di produrne uno, anzi, ha solo insistito ripetutamente di respingere sia la continua esistenza di un “Hamastan” che la sua sostituzione con un “Fatahstan” gestito dall’Autorità Palestinese (ANP).

Comunque neppure Gantz ha un piano attuabile. La sua proposta di rimpiazzare Hamas con un “sistema civile di governance internazionale” che include alcuni componenti palestinesi, pur mantenendo nel complesso il controllo israeliano sulla sicurezza, è così inverosimile che il suo significato pratico è di continuare la guerra per sempre. In altre parole esattamente quello che vogliono Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra.

Lo stesso si può dire del ministro della DIfesa Yoav Gallant, che era il più stretto alleato di Gantz nel consiglio di guerra. A quel che si dice lo scorso mese Gallant se ne sarebbe andato da un incontro del gabinetto di sicurezza quando altri ministri l’hanno rimproverato per aver preteso che Netanyahu escludesse un prolungato controllo israeliano civile o militare su Gaza. Ma la proposta alternativa del ministro della Difesa è essenzialmente la stessa di Gantz: insediare un governo gestito da “entità palestinesi”, ma non Hamas, con il sostegno internazionale che nessun interlocutore, palestinese, arabo, o internazionale accetterebbe. 

È vero che Gantz e Gallant hanno anche chiesto che Netanyahu dia la priorità a un accordo con Hamas per liberare gli ostaggi, mentre il primo ministro sta temporeggiando. Ma a un’analisi attenta anche questo apparente disaccordo scompare qualsiasi accordo comporterebbe una significativa, o addirittura totale, ritirata israeliana da Gaza e un cessate il fuoco di mesi, se non permanente. Tale scenario darebbe come risultato una di due possibilità: un ritorno al governo di Hamas o il reinsediamento dell’ANP, entrambe inaccettabili per Gantz e Gallant da un lato e da Netanyahu e dai suoi alleati di estrema destra dall’altro.

Allora perché la destra israeliana vede come una minaccia esistenziale le proposte fondamentalmente incoerenti di Gantz e Gallant? La risposta va più in profondità rispetto al disaccordo sulla questione del “giorno dopo” a Gaza. Quello che Gantz e Gallant stanno implicitamente riconoscendo, e Netanyahu e i suoi alleati si rifiutano di ammettere, è che la pluridecennale “politica di separazione” israeliana è crollata in seguito agli attacchi del 7 ottobre. Non più in grado di mantenere l’illusione che la Striscia di Gaza sia separata dalla Cisgiordania e perciò da qualsiasi futuro accordo politico palestinese, i leader israeliani si trovano in un vicolo cieco.

Dalla separazione all’annessione

La politica israeliana di separazione risale agli inizi degli anni ’90 quando, sullo sfondo della prima Intifada e della guerra del Golfo, il governo cominciò a imporre ai palestinesi un regime di permessi che limitavano gli spostamenti tra Cisgiordania e Gaza. Tali restrizioni si intensificarono durante la Seconda Intifada e culminarono sulla scia del “disimpegno” israeliano da Gaza nel 2005 e con la successiva salita al potere di Hamas.

La maggioranza degli israeliani pensò che Israele avesse lasciato Gaza e perciò non avesse più nessuna responsabilità per quello che succedeva nella Striscia. Gran parte della comunità internazionale respinse questa posizione e continuò a considerare Israele una potenza occupante a Gaza, ma il governo israeliano si sottrasse sempre alle proprie responsabilità nei confronti degli abitanti dell’enclave. Al massimo il governo era disposto a concedere ai palestinesi permessi di viaggio per entrare in Cisgiordania o in Israele per speciali motivi umanitari.

Quando Netanyahu ridivenne primo ministro nel 2009 lavorò per rafforzare la politica di separazione. Ampliò la spaccatura tra Gaza e la Cisgiordania convogliando i fondi verso il governo di Hamas nella Striscia, basandosi sulla convinzione che dividere i palestinesi geograficamente e politicamente avrebbe limitato la possibilità di uno Stato palestinese indipendente. 

A sua volta ciò ha spianato la strada a Israele per annettere parte o persino tutta la Cisgiordania. Quando nel 2021 chiesero a Yoram Ettinger, “esperto” demografo israeliano di destra, come avrebbe gestito il fatto che fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’è circa lo stesso numero di ebrei e palestinesi, ha spiegato che “Gaza non fa parte del gioco e non è rilevante … Le zone contese sono la Giudea e la Samaria.” [termine usato dagli israeliani per indicare la Cisgiordania occupata, ndt.].

David Friedman, l’ambasciatore USA pro annessione nominato da Donald Trump, era d’accordo sul fatto che, dopo il ritiro da Gaza, restava rilevante solo la questione della Cisgiordania. Nel 2016 disse: “L’evacuazione [degli israeliani] da Gaza ha avuto un effetto benefico: ha rimosso 2 milioni di arabi dall’equazione demografica.” Togliendo Gaza dal discorso, spiegò l’ex ambasciatore, Israele potrebbe mantenere una maggioranza ebraica anche se si annettesse la Cisgiordania e si concedesse la cittadinanza ai suoi abitanti palestinesi.

Un vuoto di potere strategico

Una delle ragioni dichiarate da Hamas per l’attacco del 7 ottobre è quella di mandare in frantumi l’illusione che Gaza sia un’entità separata e di riportare sul palcoscenico della storia la causa della Striscia e dell’intera Palestina. In questo indubbiamente ha avuto successo.

Tuttavia anche dopo il 7 ottobre Israele ha continuato in buona misura a ignorare il legame fra Gaza e la Cisgiordania e la sua centralità nella lotta palestinese nel suo complesso. Israele ha sistematicamente rifiutato di elaborare un piano coerente per il “giorno dopo” perché farlo richiederebbe inevitabilmente affrontare lo status della Striscia entro il più ampio contesto israelo-palestinese. Qualsiasi discussione del genere mina alla radice la politica di separazione israeliana attentamente coltivata.

Oltre alla sua totale brutalità, il presente attacco israeliano a Gaza si differenzia in modo significativo dalle guerre precedenti. Mai prima Israele aveva permesso che un territorio sotto il suo controllo militare rimanesse sostanzialmente senza governo. Quando nel 1967 l’esercito israeliano occupò per la prima volta la Cisgiordania e Gaza stabilì immediatamente un governo militare che si assunse la responsabilità dell’amministrazione civile delle vite degli abitanti occupati. Quando nel 1982 occupò il Libano non smantellò il governo libanese esistente; nel 1985 dopo aver stabilito una “zona di sicurezza” Israele passò la responsabilità per gli affari civili a una milizia locale.

Tutto ciò è in violento contrasto con l’attuale operazione. Nonostante il fatto che controlli effettivamente larghe parti di Gaza, Israele tratta i suoi 2.3 milioni di abitanti come se vivessero in un vuoto. 

Per ovvie ragioni Israele considera illegittimo il governo di Hamas che ha governato la Striscia per 16 anni, ma non vede come un’alternativa adatta l’ANP, che amministra parti della Cisgiordania. Tale scenario minerebbe totalmente la politica di separazione israeliana: la stessa entità palestinese governerebbe entrambi i territori occupati e Israele dovrebbe fronteggiare una maggiore pressione per negoziare la creazione di uno Stato palestinese. 

Quindi fintanto che esiste il vuoto di potere a Gaza la destra può ottenere ciò che vuole: la guerra può continuare, Netanyahu può prolungare il suo periodo in carica e non ci può essere una vera possibilità di iniziare i negoziati di pace che adesso persino gli americani sembrano ansiosi di riprendere. Anche la destra messianica e nazionalista vuole mantenere questo limbo perché apre la porta alla possibilità della cosiddetta “migrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza, il desiderio di Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, o alla “distruzione totale” dei centri popolati di Gaza, che è l’obiettivo del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Entrambi credono che le colonie israeliane con i tetti rossi [per evitare di essere bombardati dagli israeliani, ndt.] si trovino alla fine di questo periodo di limbo.

Due visioni per Gaza

Tuttavia l’esercito sembra stanco di questo vuoto. Esso gli prospetta solo infiniti combattimenti senza raggiungere un obiettivo, il burn-out fra i soldati e i riservisti e uno scontro crescente con gli americani, con cui l’establishment della difesa israeliana ha una relazione stretta ed esclusiva. L’invasione di Rafah ha solo aumentato il malcontento dell’esercito

L’occupazione del valico di Rafah con l’Egitto da parte di Israele ha ulteriormente compromesso l’idea che non abbia responsabilità per quello che succede a Gaza. Gallant ha correttamente riconosciuto che il controllo del valico di Rafah e del Corridoio Filadelfia ha portato Israele più vicino alla creazione di un governo militare nella Striscia: senza volerlo, e sicuramente senza ammetterlo, Israele sembra sul punto di governare Gaza come governa la Cisgiordania.

Gantz e Gallant hanno reagito a questa situazione in modi simili. Entrambi sono in stretto contatto con gli Stati Uniti e sono anche più esposti alle pressioni da parte delle famiglie degli ostaggi, il cui sostegno continua a crescere nell’opinione pubblica israeliana. Entrambi comprendono molto bene che i continui rifiuti di Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich a discutere il “giorno dopo” impedisce qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo per il rilascio degli ostaggi e li condanna a una morte lenta e certa nei tunnel di Hamas.

Le proposte di Gallant e Gantz per il governo palestinese non sono serie e non possono essere accettate da nessuna autorevole entità palestinese, araba o internazionale. Ma sono sufficienti a sfidare le preferenze di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir per un limbo eterno, per provocare la loro scellerata rabbia e minare la stabilità del governo.

Le dichiarazioni di Gantz e Gallant esprimono anche un’ammissione inconscia che attualmente Israele si trova di fronte solo due possibilità concrete. La prima è un accordo che riconosca Gaza come parte integrante di qualsiasi entità politica palestinese, il che comporterebbe il ritorno dell’ANP e l’insediamento di un governo palestinese unitario. L’alternativa è una guerra di attrito che la destra messianica spera finirà con l’espulsione o l’annientamento de palestinesi, ma che più probabilmente finirà come la prima guerra del Libano: il ritiro di Israele sottoposto a una forte pressione militare e il radicamento di una abile formazione di guerriglieri sul confine israeliano.

Meron Rapoport è un editorialista di Local Call. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Gaza: la causa avviata dalla società civile presso la Corte Penale Internazionale contro Ursula von der Leyen alza la posta in gioco sulla complicità nel genocidio

Richard Falk

6 giugno 2024-Middle East Eye

Molti esperti sollecitano la Corte Penale Internazionale ad indagare la Presidente della Commissione Europea sul suo presunto sostegno all’assalto genocida di Israele contro il popolo palestinese

Nei quasi 80 anni di esistenza delle Nazioni Unite mai prima d’ora è stata intrapresa una tale gamma di strategie giudiziarie presso i tribunali internazionali nel tentativo, finora inutile, di fermare un genocidio che continua a devastare la vita di 2,3 milioni di palestinesi a Gaza.

Da gennaio non solo la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha emesso tre ordinanze provvisorie che impongono a Israele di fermare il suo “plausibile genocidio”, ma a quello Stato è stato anche ordinato di smettere di interferire con la fornitura di aiuti di emergenza ai palestinesi affamati.

Durante lo stesso periodo il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI), Karim Khan, ha richiesto mandati di arresto contro i leader israeliani e di Hamas.

Questa impennata dell’attività giudiziaria internazionale arriva in mezzo alle frustrazioni delle Nazioni Unite per i tentativi falliti di imporre un cessate il fuoco mentre la guerra israeliana determina condizioni sempre più drammatiche a Gaza. Gli Stati Uniti hanno usato il veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per proteggere il loro alleato criminale dalle pressioni delle Nazioni Unite.

Israele ha reagito agli ultimi sviluppi con furia e atteggiamenti di sfida e ha goduto, seppur espresso in modo più discreto, del sostegno degli Stati Uniti.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha ripetutamente sostenuto che, alla luce dell’Olocausto, Israele non potrà mai essere accusato del crimine di genocidio, che dal 7 ottobre Israele esercita il proprio diritto all’autodifesa contro un attacco terroristico di Hamas e che i mandati di arresto proposti dalla Corte Penale Internazionale, se emessi, minerebbero la capacità delle democrazie di difendersi in futuro.

Ha anche invitato, con un certo successo, il governo degli Stati Uniti e altre Nazioni che sostengono Israele a esercitare pressioni sulla Corte Penale Internazionale affinché respinga la richiesta dal procuratore.

Massimizzare la pressione

In mezzo a tutte queste controversie legali sta diventando evidente che a Israele importa moltissimo di essere marchiato come criminale da questi tribunali che deride in quanto non avrebbero competenza per accogliere denunce sul suo comportamento.

Questa apparente contraddizione suggerisce che Israele si rende conto che il suo rifiuto di conformarsi alle sentenze di questi tribunali internazionali non cancellerà la loro influenza sull‘opinione pubblica e questo rende vitale esercitare la massima pressione per scoraggiare tali valutazioni della CIG/CPI sul presunto comportamento criminale di Israele a Gaza, in particolare per quanto riguarda il genocidio, il crimine dei crimini.

In questo contesto, alla fine del mese scorso il Geneva International Peace Research Institute [Istituto Internazionale di Ricerca sulla pace di Ginevra] (GIPRI) ha aggiunto un’ulteriore dimensione di complessità giuridica invitando la Corte Penale Internazionale a indagare sulla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, per presunta “complicità nei crimini di guerra e genocidio commessi da Israele”.

Lo Statuto di Roma del 2002, che stabilisce il quadro del trattato che modella il lavoro della CPI, conferisce alle ONG e ai singoli individui il diritto, ai sensi dell’articolo 15, di portare prove di atti criminali all’attenzione del procuratore, che può decidere se le prove presentate sono sufficientemente convincenti da giustificare un’indagine.

A differenza della CIG– che si occupa di risolvere controversie legali tra Stati sovrani, funzionando come il braccio giudiziario delle Nazioni Unite – la CPI ha l’autorità di indagare, arrestare, incriminare, perseguire e punire individui giudicati da un collegio di giudici di essere colpevoli di un crimine previsto dal diritto internazionale.

Tutti i membri delle Nazioni Unite aderiscono allo statuto che governa la CIG, mentre gli Stati devono dare la loro approvazione per diventare parti della CPI e non hanno alcun obbligo di farlo – sebbene 124 Stati lo abbiano fatto, comprese le democrazie dell’Europa occidentale e la Palestina (considerata a questo fine come Stato).

Di rilievo è il fatto che né Israele né gli Stati Uniti hanno aderito allo Statuto di Roma, né lo hanno fatto Russia, Cina, India e pochi altri. Gli Stati Uniti, tuttavia, non hanno esitato a spingere la Corte Penale Internazionale ad incriminare il presidente russo Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina del 2022, opponendosi nel medesimo tempo alla sua applicabilità a Israele per la situazione di Gaza sulla base del fatto che quest’ultima non ne fa parte. (Lo Statuto di Roma conferisce alla CPI l’autorità di agire contro individui che commettono crimini nel territorio di qualsiasi Stato che aderisce al trattato, in questo caso la Palestina).

Complicità e favoreggiamento

L’iniziativa del GIPRI è interessante perché riguarda la questione relativamente trascurata della complicità o del favoreggiamento nella commissione di un crimine internazionale. Questa questione si basa sul dovere legale, incorporato nella Convenzione sul Genocidio e nello Statuto di Roma, che rende perseguibile il favoreggiamento e la complicità nei crimini in violazione del diritto umanitario internazionale.

Il Nicaragua ha avviato una denuncia di questo tipo presso la CIG contro la Germania, chiedendo un ordine di emergenza per far cessare attività che potrebbero plausibilmente essere considerate come complicità con un genocidio. L’accusa principale contro la Germania era quella di aver fornito a Israele armamenti funzionali alla condotta genocida di Israele.

Ad aprile, l’ICJ ha respinto la richiesta del Nicaragua con un voto di 15-1, affermando che le circostanze non giustificavano un ordine di emergenza. Ma la corte ha anche bocciato il tentativo della Germania di respingere la denuncia del Nicaragua per complicità: il che significa che la Corte Internazionale di Giustizia a tempo debito esaminerà le argomentazioni di entrambe le parti sul merito fattuale della controversia e alla fine raggiungerà una decisione di merito.

Al contrario l’iniziativa del GIPRI è arrivata sotto forma di una dichiarazione approvata da vari esperti di diritto internazionale, compreso il sottoscritto, consegnata al procuratore della CPI a maggio.

Anche la dichiarazione del GIPRI si basa su una ipotesi di complicità penale e di favoreggiamento, ma il bersaglio è necessariamente un individuo, Von der Leyen, piuttosto che uno Stato. Il GIPRI sostiene che il sostegno della Commissione Europea “ha avuto un effetto sostanziale sulla commissione e sulla continuazione di crimini da parte di Israele, compreso il genocidio”.

La GIPRI fa notare che questo favoreggiamento è consistito nel sostegno politico, nel materiale militare e nella mancata adozione di misure ragionevoli per prevenire il genocidio.

Comunque vada a finire l’iniziativa del GIPRI, essa illustra l’ampiezza del potenziale della Corte Penale Internazionale e mostra un tentativo della società civile di ricorrere al diritto internazionale visto il fallimento delle Nazioni Unite o del sistema intergovernativo nel prevenire e punire un genocidio così evidente.

Insieme a iniziative di solidarietà come la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e le proteste universitarie, soprattutto negli Stati Uniti, la società civile si sta rivelando un attore politico che persino Israele capisce di non poter ignorare se vuole avere qualche speranza di evitare nel lungo termine lo status di paria.

Qualunque sia la risposta della Corte Penale Internazionale a questa iniziativa del GIPRI, si tratta di un ulteriore segno che la società civile sta diventando un attore politico sulla scena globale.

Richard Falk è uno studioso di diritto internazionale e relazioni internazionali che ha insegnato all’Università di Princeton per quarant’anni. Nel 2008 è stato anche nominato dalle Nazioni Unite per un mandato di sei anni come relatore speciale sui diritti umani palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Gaza 2035 Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu svela un piano regionale per costruire una “vasta zona di libero scambio” e un collegamento ferroviario con NEOM

Daniel Roche 

21 maggio 2024 – The Architect Newspaper

 

L’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha recentemente presentato un documento PowerPoint che ci offre uno scorcio su quello che il partito Likud ha in mente per il futuro di Gaza, e Medio Oriente in generale. Il 3 maggio Netanyahu ha svelato Gaza 2035: un piano complessivo in tre fasi per costruire quello che lui chiama “La Zona di libero scambio Gaza-Arish-Sderot.” Il piano è stato pubblicato per la prima volta da The Jerusalem Post e poi da Al Jazeera.

La Zona di libero scambio Gaza-Arish-Sderot comprenderebbe i 365 km2 della Striscia di Gaza dove oltre 34.500 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane nel corso degli ultimi mesi e dove gli esperti riferiscono di una carestia in corso. La zona includerebbe anche il porto El-Arish, a sud di Gaza, nella penisola del Sinai egiziana, e Sderot, una città israeliana a nord di Gaza.

Il 2 maggio funzionari ONU hanno rilasciato un rapporto affermando che oltre il 70% del patrimonio edilizio di Gaza è stato distrutto e che la ricostruzione costerebbe 40–50 miliardi di dollari. Questo ha spinto Abdallah al-Dardari, un funzionario ONU, a dire: “Non abbiamo visto nulla di simile dal 1945.

Sotto gli auspici di Gaza 2035, la nuova zona di libero scambio sarebbe amministrata da Israele, Egitto e da quello che il primo ministro israeliano chiama Gaza Rehabilitation Authority [Autorità di Riabilitazione di Gaza] (ARG)— un’agenzia prevista con gestione palestinese che supervisionerebbe la ricostruzione di Gaza e “gestirebbe le finanze della Striscia.”

Il PowerPoint afferma che l’ARG non concederebbe la sovranità ai palestinesi e non menziona la soluzione a due Stati. Invece entro il 2035 Gaza e la Cisgiordania verrebbero sottoposte all’ “amministrazione formale” della Autorità Palestinese (AP) e Israele sarebbe responsabile della sicurezza della zona di libero scambio. Ron Ben Yishai, corrispondente di yNet, ha definito Gaza 2035 “la visione Singapore” di Netanyahu.”

Gaza 2035 è ufficialmente intitolato Piano per la Trasformazione della Striscia di Gaza e promette di far passare Gaza “dalla crisi alla prosperità.” L’idea di Netanyahu prevede di “ricostruire dal nulla”. 

Il piano regionale è stato accolto con una certa opposizione. Il 16 maggio il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Abdullah bin Zayed Al Nahyan ha condannato il piano con una dichiarazione pubblica. Lara Elborno, avvocata dei diritti umani americana-palestinese, ha detto sui social media: “Il piano israeliano di rubare il nostro gas e imporci questo futuro distopico va urgentemente e inequivocabilmente contrastato. Gaza non è ‘niente’.”

Il “piano Marshall” di Netanyahu

Se il “piano Marshall” di Netanyahu avrà successo, ha detto il primo ministro, può essere “ripetuto in Yemen, Siria e Libano.” Gaza 2035 arriva meno di un anno dopo la presentazione da parte di Netanyahu alle Nazioni Unite del suo progetto “Grande Israele” che ipotizza l’assorbimento di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est entro i confini ufficiali dello Stato di Israele.

Complessivamente Gaza 2035 si svilupperebbe in tre fasi. La prima, detta “Aiuti umanitari,” consiste in un programma di un anno che “deradicalizzerebbe” Gaza e sradicherebbe Hamas. La seconda fase durerebbe fra i 5 ai 10 anni durante i quali Arabia Saudita, EAU, Egitto, Bahrain, Giordania e Marocco “supervisionerebbero” la ricostruzione di Gaza. Lo stadio finale arriverebbe quando la Palestina firmerà gli Accordi di Abramo, che indicano l’“autogoverno palestinese,” seppure senza uno Stato.

Dei Paesi arabi citati gli EAU sono gli unici ad aver commentato il piano. Il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Abdullah bin Zayed Al Nahyan ha detto: “Gli Emirati Arabi Uniti condannano le dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che chiede [agli EAU] di partecipare all’amministrazione civile della Striscia di Gaza, che è sotto l’occupazione israeliana.” La dichiarazione continua: “Gli EAU sottolineano che il primo ministro israeliano non ha il potere giuridico di fare questo passo e lo Stato rifiuta di essere coinvolto in qualsiasi piano che miri a offrire copertura alla presenza israeliana nella Striscia di Gaza.”

Collegare Gaza a NEOM?

I rendering del documento Gaza 2035, creati con IA, mostrano grattacieli futuristici, campi di pannelli fotovoltaici e impianti di desalinizzazione dell’acqua nella penisola del Sinai, un nuovo corridoio ferroviario ad alta velocità lungo la strada Salah al-Din (la principale superstrada di Gaza che collega Gaza City e Rafah), e piattaforme petrolifere al largo della costa di Gaza. 

Le piattaforme petrolifere e le navi container non sono un dettaglio: nel 2019 analisti delle Nazioni Unite avevano stimato che oltre 3.2 miliardi di barili di petrolio giacciono sotto la zona portuale di Gaza e la Cisgiordania con un valore stimato di miliardi di dollari. Secondo l’ONU il Mediterraneo orientale potrebbe contener 1.7 miliardi di barili e la Cisgiordania potrebbe averne 1.5 miliardi. Questi ritrovamenti hanno indotto la giornalista ambientale Yessenia Funes (citando Shereen Talaat, fondatrice e direttrice del movimento MENAFem per lo sviluppo economico e l’ecogiustizia) a descrivere su Atmos le azioni militari di Israele 2023–24 a Gaza come motivate dalle risorse: “Questo genocidio è tutta una questione di petrolio.” 

Oltre i rendering generati da IA anche i diagrammi sono importanti. Oggi Gaza è il fulcro di una via commerciale storica in Medio Oriente tra Il Cairo e Baghdad, e l’Europa e lo Yemen. Gaza 2035 capitalizzerebbe questa posizione geografica aggiungendovi un nuovo servizio ferroviario est-ovest fra Alessandria d’Egitto e Gaza City, in Palestina. Aggiungerebbe anche un servizio ferroviario nord-sud fra Gaza e NEOM, l’ipotetica città saudita di 500 miliardi di dollari a circa 200 chilometri a sud di Rafah.  Il documento dice che tutte queste connessioni aprirebbero opportunità perché aziende tecnologiche, industrie e “città per la produzione di veicoli elettrici” migrino verso la Zona di libero scambio Gaza-Arish-Sderot.

Al momento le ferrovie israeliane hanno 66 stazioni e a sud il servizio termina a Dimona. Secondo Gaza 2035 la nuova linea Gaza-NEOM espanderebbe il servizio di circa 160 chilometri da Dimona ad Aqaba, in Giordania e poi si collegherebbe a NEOM. La linea Gaza-NEOM farebbe una fermata a Be’er Shiva, in Israele, e poi si dividerebbe a un raccordo vicino a Sderot, da dove i treni andrebbero a Rafah o Tel Aviv – Haifa.

La proposta della nuova ferrovia Gaza-NEOM si inserisce nella Visione 2030 saudita che cerca di normalizzare in parte le relazioni con Israele costruendo l’ipotetica città la cui lunghezza è stata recentemente ridimensionata da 170 a 2.5 chilometri.

Anche nel nord di Gaza ci sarebbe una nuova “città per la produzione di veicoli elettrici.” A sud ci sarebbe la nuova ferrovia fra Gaza e il porto marittimo di El-Arish e l’aeroporto El-Gora nella penisola del Sinai, un piccolo hub regionale a una ventina di chilometri a sud di Rafah. Questo si collegherebbe con il Corridoio economico India-Medio Oriente -Europa (IMEC), la Via della Seta per unire Asia ed Europa. 

 Il lungomare di Gaza avrebbe un gran valore”

Gaza 2035 è il primo strumento di pianificazione ufficiale per Gaza presentato dal primo ministro israeliano dall’ottobre 2023, che va ora a unirsi ad altre idee non autorizzate da parte di leader israeliani e statunitensi il futuro di Gaza.

Il 13 ottobre a pochi giorni dall’uccisione da parte di Hamas di almeno 1.139 israeliani e dal rapimento di 240 ostaggi, il Misgav Institute for National Security & Zionist Strategy, un think tank israeliano, ha lanciato una strategia dicendo che “al momento c’è una rara e unica opportunità di evacuare l’intera Striscia di Gaza.” Il piano, presentato da Gila Gamliel, attivista del Likud e ministra dell’Intelligence israeliana, prevede l’espulsione forzata di 2.2 milioni di gazawi nella penisola del Sinai. 

A dicembre, Harey Zahav, un gruppo immobiliare israeliano, ha fatto uscire degli annunci pubblicitari di case sul lungomare di Gaza. (Più tardi Harey Zahav ha detto che le sue pubblicità volevano essere uno “scherzo.”) Jared Kushner ha detto che “il lungomare di Gaza avrebbe un gran valore” e che sarebbe interessato a costruire “proprietà con vista mare” mentre Israele “ripulisce” la Striscia di Gaza. Ad aprile Bill Ackman, manager di un fondo speculativo, ha presentato il proprio piano per Gaza e non è molto diverso da quello che al momento sta immaginando Netanyahu. 

Resta da vedere se Gaza 2035 sarà messo in pratica o no. Il 15 maggio Joav Gallant, ministro della Difesa israeliano, ha dichiarato la propria opposizione a Gaza 2035 e a ogni governo militare di Gaza a lungo termine da parte di Israele. Le critiche degli EAU sono state pubblicate il giorno dopo, il 16 maggio. 

Il 21 maggio la Corte Penale Internazionale (CPI) ha detto di aver richiesto mandati di arresto per Netanyahu e Gallant, oltre a quelli per Yahya Sinwar, capo di Hamas, e altri due leader di Hamas.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Cosa accadrà quando l’Olocausto non impedirà più al mondo di vedere Israele così com’è?

Hagai El-Had

13 maggio 2024 – Haaretz Opinion

Per chiunque volesse osservarla, la verità era già abbondantemente chiara nel 1955: “Trattano gli arabi, quelli che si trovano ancora qui, in un modo che di per sé basterebbe a mobilitare il mondo intero contro Israele”, scriveva Hannah Arendt.

Ma era il 1955, appena un decennio dopo lOlocausto la nostra grande catastrofe e, allo stesso tempo, la veste protettiva del sionismo. Quindi no, ciò che la Arendt vide a Gerusalemme allepoca non fu sufficiente a mobilitare il mondo contro Israele.

Da allora sono trascorsi quasi 70 anni. Nel frattempo, Israele è diventato dipendente sia dal regime di supremazia ebraica sui palestinesi sia dalla sua capacità di sfruttare la memoria dellOlocausto in modo che i crimini che commette contro di loro non mobilitino il mondo contro di sé.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu non sta inventando nulla: né i crimini, né lo sfruttamento dell’Olocausto per mettere a tacere la coscienza del mondo. Ma è primo ministro da quasi una generazione. Durante questo periodo Israele, sotto la sua guida, ha compiuto un altro grande passo verso un futuro in cui il popolo palestinese sarà cancellato dalla scena della storia certamente se la scena in questione è la Palestina, la sua patria storica.

Tutto questo non solo è stato realizzato gradualmente prima un dunam [mille metri quadri di terreno, ndt.] e una capra, poi un insediamento coloniale e una fattoria ma alla fine è stato anche dichiarato pubblicamente, dalla Legge Fondamentale su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico del 2018 alla politica di base dellattuale governo, e prima di tutto attraverso la dichiarazione: Il popolo ebraico ha diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra dIsraele”. E la verità è che il consenso è molto più ampio e diffuso del sostegno allo stesso Netanyahu. Dopotutto, chi in Israele non ha apprezzato la brillante mossa, alla vigilia del 7 ottobre 2023, di attuare una normalizzazione con l’Arabia Saudita al fine di imprimere nella coscienza dei palestinesi il fatto che sono una nazione sconfitta?

Ma i palestinesi, questo popolo testardo, non hanno abbandonato la scena. In qualche modo, nel corso di tutti questi anni, attraverso loppressione, gli insediamenti coloniali e i pogrom in Cisgiordania, e le ripetute fasidel conflitto con Gaza, la violenza dellesercito, la mancata resa dei conti di fronte alla giustizia, gli espropri a Gerusalemme, nel Negev e nella Valle del Giordano, e in effetti ovunque un palestinese cerchi di conservare la sua terra, dopo molti anni, molto sangue e molti crimini, il trucco riciclato dellhasbara israeliana[termine ebraico: gli sforzi propagandistici per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni ndt.], o della diplomazia pubblica, ha cominciato a perdere efficacia, da quando la semplice verità è che no, non tutti coloro che vedono i palestinesi come esseri umani dotati di diritti sono antisemiti.

Nel frattempo è arrivata la guerra a Gaza, con la distruzione di proporzioni bibliche che abbiamo portato sulla Striscia e sulle decine di migliaia di palestinesi uccisi. C’è stato così tanto sangue e distruzione che la questione se si tratti di genocidio ha cominciato a essere seriamente discussa presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Riprendendo le parole di Arendt, quello che stiamo facendo ai palestinesi quelli che si trovano ancora a Gaza non sta ancora mobilitando il mondo contro Israele. Ma il mondo sta ormai osando esprimere il proprio pensiero ad alta voce.

Tutto questo non ci sta ancora facendo riconsiderare il modo in cui trattiamo gli arabi. Cerchiamo invece ancora una volta di infondere nuova vita alla logora nuvola dell’hasbara. Se nel 2019 Netanyahu ha dichiarato che l’indagine della Corte Penale Internazionale è un “provvedimento antisemita” (il che non ha fermato le indagini) e nel 2021 ha affermato che si tratta di “puro antisemitismo” (e non ha fermato le indagini), poi una settimana fa ha iniziato a inveire contro un “crimine di odio antisemita”.

Netanyahu, come al solito, inserisce qualche parola di verità tra una menzogna e laltra. Nel suo discorso alla vigilia del Giorno della Memoria presso il memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem è stato sincero nel descrivere la Corte Penale Internazionale come un organismo “istituito in risposta all’Olocausto e ad altri orrori, per garantire che ‘Mai più'”. Ma se si pensa per un attimo al contesto spazio- temporale, tutto ciò che Netanyahu ha aggiunto con eccezionale faccia tosta in riferimento a tale dichiarazione è stato menzognero, soprattutto quando ha affermato che se fosse stato emesso un mandato di arresto contro di lui, “Questo passo lascerebbe una macchia indelebile sullidea stessa di giustizia e di diritto internazionale”.

La verità è che la macchia che scuote le fondamenta del diritto internazionale è il fatto che anche dopo anni di indagini, per quanto ne sappiamo, non è ancora stato emesso un mandato di arresto contro Netanyahu o altri criminali di guerra israeliani. Questo nonostante il fatto che da decenni Israele perpetra, alla luce del sole, crimini contro i palestinesi, crimini che rientrano nella politica del governo, crimini approvati dallAlta Corte di Giustizia, protetti dalle opinioni dei procuratori generali e insabbiati dall’avvocatura militare e sebbene tutto ciò sia palese e conosciuto, riportato e pubblicato, nessuno è stato ritenuto responsabile di ciò, né in Israele né allestero, almeno finora.

Ci stiamo avvicinando al momento, e forse è già qui, in cui il ricordo dell’Olocausto non impedirà al mondo di vedere Israele così com’è. Il momento in cui i crimini storici commessi contro il nostro popolo smetteranno di costituire la nostra Cupola di Ferro, proteggendoci dallessere chiamati a rispondere dei crimini che stiamo commettendo nel presente contro la nazione con cui condividiamo la patria storica.

Anche se in ritardo, è ora che quel momento arrivi. Israele non disporrà dell’Olocausto, ma la sua immagine sarà difesa dal genio arabo israeliano dell’hasbara Yoseph Haddad e dalla creatrice di contenuti Ella Travels [influencer popolari sui social media israeliani impegnati nella difesa di Israele, ndt.]

Coraggio. Forse faremmo meglio ad aprire gli occhi e adottare un atteggiamento diverso nei confronti dei palestinesi: vederli come esseri umani uguali. Questa sarebbe certamente una lezione di gran lunga migliore per lOlocausto. Arendt probabilmente sarebbe d’accordo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele chiude Al Jazeera e continua a uccidere giornalisti

Tamara Nassar

11 maggio 2024 The Electronic Intifada

Il genocidio di Israele a Gaza ha distrutto la facciata della libertà di stampa.

Mentre il New York Times riceve un Premio Pulitzer per i suoi reportage internazionali (nonostante le rivelazioni che hanno smentito gli articoli pubblicati che accusavano Hamas di usare lo stupro di massa come arma di guerra), e mentre lélite dei principali media occidentali si riuniva alla cena incontro stampa della Casa Bianca con il Presidente Joe Biden (nonostante il suo incessante sostegno al genocidio israeliano a Gaza), continuano gli attacchi senza freni di Israele contro i giornalisti.

La settimana scorsa il gabinetto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha votato la chiusura dell’attività della rete Al Jazeera in Israele.

La mossa fa seguito a una recente legge approvata dalla Knesset, il parlamento israeliano, che consente la chiusura temporanea delle emittenti straniere se il governo israeliano ritiene che rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale nel contesto dei bombardamenti in corso sui palestinesi a Gaza.

Domenica scorsa la polizia israeliana ha fatto irruzione negli uffici di Al Jazeera a Gerusalemme, revocando gli accrediti stampa e vietando alla rete di mandare in onda le sue trasmissioni.

Al Jazeera ha condannato la chiusura delle sue operazioni da parte di Israele come “atto criminale”, affermando che costituisce una violazione del diritto internazionale e umanitario.

“Al Jazeera afferma il suo diritto di continuare a fornire notizie e informazioni al suo pubblico nel mondo“, ha affermato la rete.

Le aggressioni dirette e l’uccisione di giornalisti, gli arresti, le intimidazioni e le minacce da parte di Israele non scoraggeranno Al Jazeera nel suo impegno a coprire gli avvenimenti, mentre più di 140 giornalisti palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra a Gaza”.

Al Jazeera è il principale organo di informazione internazionale a trasmettere quelle che sono diventate le immagini distintive del genocidio di Israele a Gaza, con i suoi giornalisti che coraggiosamente riferiscono sul terreno nell’enclave costiera, anche dalle aree settentrionali.

È anche la principale piattaforma che trasmette video delle operazioni di resistenza, spesso in esclusiva, delle Brigate Qassam, il braccio armato di Hamas.

Riprese effettuate con droni

Nelle ultime settimane Al Jazeera ha anche trasmesso numerosi video che afferma essere stati ripresi da droni israeliani a Gaza.

La rete con sede in Qatar non rivela esplicitamente la fonte di tali filmati. Gli analisti ipotizzano che i droni vengano probabilmente acquisiti dai gruppi di resistenza a Gaza o, come hanno dimostrato, catturando i quadricotteri in volo, oppure abbattendoli e conservandone i dati.

I video servono come documentazione dei potenziali crimini di guerra perpetrati dall’esercito israeliano.

Un video in particolare, girato da un drone in volo, mostrava l’uccisione spietata di quattro palestinesi che attraversavano un quartiere nella zona meridionale di Khan Younis per osservare le conseguenze dell’invasione di terra israeliana nell’area.

Il drone filma l’incalzante inseguimento dei quattro uomini mentre continua a sparare missili contro di loro finché non vengono tutti uccisi.

Un altro video trasmesso da Al Jazeera mostra soldati israeliani che giustiziano due uomini che tentano di camminare verso nord e che chiaramente non rappresentano alcuna minaccia. Un bulldozer israeliano poi ne interra i corpi.

Filmati più recenti trasmessi da Al Jazeera mostrano soldati israeliani che usano un palestinese come scudo umano. L’uomo è costretto ad entrare in una scuola abbandonata per perlustrarne i locali sotto la sorveglianza di due droni israeliani.

Lo stesso segmento di video presenta anche ulteriori filmati ripresi da un drone israeliano che rivelano veicoli corazzati israeliani di stanza in quella che sembra essere una base militare improvvisata all’interno di una scuola abbandonata nel quartiere Shujaiya di Gaza City.

Nel corso del genocidio a Gaza l’esercito israeliano ha ucciso e ferito numerosi giornalisti e personale di Al Jazeera, nonché le loro famiglie.

A dicembre un attacco di droni israeliani ha ucciso un cameraman di Al Jazeera e ferito Wael al-Dahdouh, capo dell’ufficio della rete. Il 25 ottobre Israele aveva ucciso la moglie, il figlio, la figlia e il nipote di al-Dahdouh nel campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza.

Giornalisti massacrati

Un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Jabaliya, nel nord di Gaza, ha ucciso sabato il fotografo Baha Okasha insieme ad alcuni membri della sua famiglia, portando a 143 il numero dei giornalisti palestinesi uccisi nella Striscia nel corso del genocidio di Israele, secondo l’ufficio stampa di Hamas a Gaza.

Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti afferma di poter confermare la morte di almeno 92 giornalisti palestinesi e tre giornalisti libanesi.

A partire dal 7 ottobre gli attacchi israeliani hanno ucciso anche quattro collaboratori di The Electronic Intifada, nonché membri delle loro famiglie.

Tra questi figura Mohammed Hamo, giornalista e traduttore di stanza a Gaza, ucciso a novembre insieme ai suoi familiari.

Hamo aveva scritto un articolo per The Electronic Intifada nell’agosto 2023 su un fotografo di Gaza che era stato catturato dai soldati israeliani mentre stava seguendo la Grande Marcia del Ritorno nel maggio 2018.

Le forze israeliane avevano sparato contro Hatim Abu Sharia e il suo collega per poi catturarli, accusando Abu Sharia di essere entrato illegalmente in Israele e di aver fotografato strutture militari senza autorizzazione. Era stato condannato a cinque anni di reclusione ed è stato rilasciato nel 2023.

La settimana scorsa Abu Sharia è stato ucciso in un attacco aereo israeliano insieme a molti membri della sua famiglia. Adesso il giornalista Hamo e l’oggetto del suo articolo sono stati entrambi uccisi nel genocidio in corso.

Questo è il “conflitto più pericoloso per i giornalisti nella storia recente”, hanno affermato a febbraio gli esperti delle Nazioni Unite.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Ventisei Stati membri dell’Unione Europea chiedono a Netanyahu un cessate il fuoco

Redazione di MEM

7 maggio 2024 – Middle East Monitor

Nella giornata di oggi i ministri degli Esteri di ventisei Stati membri dell’Unione Europea hanno emesso una dichiarazione congiunta come risposta all’ordine di evacuazione della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza.

I ministri degli Esteri hanno chiesto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di non proseguire nell’attacco.

L’alto rappresentante per gli Affari Esteri e le Politiche di Sicurezza dell’Unione Europea Josep Borrell ha affermato che Israele dovrebbe rinunciare al suo attacco di terra a Rafah e ha sottolineato che l’Unione Europea e la comunità internazionale dovrebbero agire per prevenire un simile scenario.

Borrell ha affermato che Israele dovrebbe porre fine al suo attacco di terra a Rafah, aggiungendo che l’Unione Europea e la comunità internazionale potrebbero e dovrebbero agire per prevenire un simile scenario.

Borrell ha condiviso un post sulla rete sociale X: “L’ordine di evacuazione dei civili da Rafah preannuncia il peggio: più guerra e carestia.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Perché gli israeliani si sentono così minacciati da un cessate il fuoco?

Meron Rapoport

29 marzo 2024-+972Magazine

Fermare la guerra di Gaza significa riconoscere che gli obiettivi militari di Israele sono irrealistici – e che Israele non può sottrarsi a un processo politico con i palestinesi.

La decisione americana di non porre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza – la prima volta dall’inizio della guerra che avevano consentito l’approvazione di una risoluzione del genere – ha provocato ondate di shock in Israele. Il successivo annullamento da parte di Benjamin Netanyahu di un previsto incontro israeliano con l’amministrazione Biden a Washington non ha fatto altro che aumentare l’impressione che Israele fosse rimasto isolato sulla scena internazionale e che Netanyahu stesse mettendo a repentaglio la risorsa più importante del paese: la sua alleanza con gli Stati Uniti.

Eppure, nonostante ci siano state critiche diffuse sulla gestione di queste questioni delicate da parte di Netanyahu, anche i suoi oppositori – sia nel campo “liberal” che nella destra moderata – sono stati unanimi nel respingere il voto delle Nazioni Unite. Yair Lapid, capo del partito di opposizione Yesh Atid, ha affermato che la risoluzione è “pericolosa, ingiusta e Israele non la accetterà”. Il ministro Hili Tropper, stretto alleato del rivale di Netanyahu Benny Gantz – che secondo i sondaggi vincerebbe facilmente se le elezioni si tenessero oggi – ha detto: “La guerra non deve finire”. Questi commenti non differivano molto dalle reazioni rabbiose di leader di estrema destra come Bezalel Smotrich o Itamar Ben Gvir.

Questo rifiuto quasi unanime del cessate il fuoco rispecchia il sostegno trasversale dei partiti per un’invasione della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, anche se Netanyahu non sostiene che l’operazione otterrà la tanto attesa “vittoria totale” da lui promessa.

Ad alcuni l’opposizione al cessate il fuoco potrà sembrare strana. Molti israeliani accettano l’affermazione secondo cui Netanyahu sta continuando la guerra per promuovere i suoi interessi politici e personali. Le famiglie degli ostaggi israeliani, ad esempio, stanno diventando sempre più critiche nei confronti del “trascinare i piedi” di Netanyahu e amplificano le loro richieste per un “accordo adesso”.

Anche all’interno dell’establishment della sicurezza israeliana sempre più persone affermano apertamente che “eliminare Hamas” non è un obiettivo raggiungibile. “Dire che un giorno ci sarà una vittoria completa a Gaza è una completa menzogna”, ha recentemente affermato l’ex portavoce dell’IDF Ronen Manelis. “Israele non può eliminare completamente Hamas in un’operazione che dura solo pochi mesi”.

Quindi, se cresce l’opinione che Netanyahu stia continuando la guerra per interessi personali; se diventa sempre più chiara l’inutilità di continuare la guerra, sia per quanto riguarda il rovesciamento di Hamas che il rilascio degli ostaggi; se diventa evidente che la continuazione della guerra rischia di danneggiare le relazioni con gli Stati Uniti, come si può spiegare il consenso in Israele sul “pericolo” di un cessate il fuoco?

Questioni di fondo

Una spiegazione è il trauma inflitto dal massacro di Hamas del 7 ottobre. Molti israeliani si dicono che, finché Hamas esiste e gode del sostegno popolare, non c’è alternativa alla guerra. Una seconda spiegazione riguarda l’innegabile talento retorico di Netanyahu, che, nonostante la sua debolezza politica, è riuscito a instillare lo slogan della “vittoria totale” anche tra coloro che non credono a una parola di quello che dice, e tra coloro che capiscono, consciamente o inconsciamente, che questa vittoria non è possibile.

Ma c’è un’altra spiegazione. Fino al 6 ottobre il consenso tra l’opinione pubblica ebraico-israeliana era che la “questione palestinese” non avrebbe dovuto preoccuparli troppo. Il 7 ottobre ha sfatato questo mito. La “questione palestinese” è tornata all’ordine del giorno in tutta la sua sanguinosa rilevanza.

Sono venute alla luce due possibili risposte alla fine di questo status quo: un accordo politico che riconosca realmente la presenza di un altro popolo in questa terra e il suo diritto a una vita di dignità e libertà, o una guerra di sterminio contro il nemico al di là del muro. Il pubblico ebraico, che non ha mai veramente interiorizzato la prima opzione, ha scelto la seconda.

Alla luce di ciò, l’idea stessa di un cessate il fuoco sembra minacciosa. Costringerebbe l’opinione pubblica ebraica a riconoscere che gli obiettivi presentati da Netanyahu e dall’esercito – “rovesciare Hamas” e liberare gli ostaggi attraverso la pressione militare – sono semplicemente irrealistici. L’opinione pubblica dovrebbe ammettere quello che potrebbe essere percepito come un fallimento, addirittura una sconfitta, nei confronti di Hamas. Dopo il trauma e l’umiliazione del 7 ottobre, per molti è difficile digerire una simile sconfitta.

Ma c’è una minaccia più profonda. Un cessate il fuoco potrebbe costringere l’opinione pubblica ebraica ad affrontare questioni più basilari. Se lo status quo non funziona, e una guerra costante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata, allora ciò che resta è la verità: che l’unico modo per gli ebrei di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi.

Il rifiuto totale del cessate il fuoco e la sua presentazione come una minaccia per Israele dimostrano che siamo lontani dal riconoscimento di questa verità. Ma stranamente potremmo anche essere più vicini di quanto si pensi. Nel 1992, quando gli israeliani furono costretti a scegliere tra una frattura con gli Stati Uniti – a causa del rifiuto dell’allora primo ministro Yitzhak Shamir di accettare lo schema presentato dagli americani per i colloqui con i palestinesi – o la ricucitura della frattura, scelsero la seconda opzione. Yitzhak Rabin fu eletto primo ministro e un anno dopo furono firmati gli accordi di Oslo.

Riuscirà l’attuale spaccatura con l’amministrazione americana a convincere gli ebrei israeliani ad abbandonare l’idea di una guerra perpetua e ad accettare di dare una possibilità ad un accordo politico con i palestinesi? Non è molto chiaro. Ma quello che è certo è che Israele si sta rapidamente avvicinando a un bivio in cui dovrà scegliere: o un cessate il fuoco e la possibilità di dialogo con i palestinesi, o una guerra senza fine e un isolamento internazionale come non ha mai conosciuto. Perché la possibilità di tornare indietro, allo status quo del 6 ottobre, è chiaramente impossibile.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con The Nation e Local Call.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




Guerra a Gaza: mentre gli occhi sono puntati su Rafah, Israele sta consolidando il controllo del nord di Gaza

Ameer Makhoul

25 marzo 2024-Middle East Eye

Israele sta costruendo infrastrutture per dividere Gaza, impedire il ritorno dei palestinesi sfollati e cambiare la situazione geografica e demografica sul terreno.

Dopo la recente approvazione di un piano per invadere Rafah – dove sono rifugiati 1,4 milioni di palestinesi – il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la scorsa settimana che l’esercito si sta preparando ad avanzare.

Il cosiddetto gabinetto di guerra “triumvirato”, composto da Netanyahu, dal ministro della Difesa Yoav Gallant e dall’ex leader dell’opposizione Benny Gantz, aveva già raggiunto un consenso su un’incursione a Rafah per prendere il controllo del corridoio di Filadelfia (chiamato anche via di Filadelfia o asse di Saladino).

In un discorso rivolto alla lobby filo-israeliana statunitense Aipac Netanyahu ha insistito sul fatto che “la strada verso la vittoria passa attraverso Rafah”: una strategia che, secondo lui, gode di “un sostegno schiacciante” all’interno della società israeliana.

Eppure, mentre le minacce dei politici israeliani di un’imminente invasione di Rafah stanno dirigendo l’attenzione del mondo verso il sud, il governo ha accelerato i passi sul territorio nel nord di Gaza per consolidare la sua occupazione e garantirne la longevità.

Una caratteristica fondamentale della sua strategia è prevenire il ritorno dei palestinesi sfollati dal sud mentre cerca di cambiare le caratteristiche geografiche e demografiche della Striscia di Gaza.

“Occupazione permanente”

Le immagini satellitari analizzate dalla CNN mostrano che una strada costruita dall’esercito israeliano per dividere Gaza in due ha raggiunto la costa mediterranea.

Secondo il rapporto della CNN un’immagine satellitare del 6 marzo “rivela che la strada est-ovest, in costruzione da settimane, si estende ora dalla zona di confine tra Gaza e Israele per tutta la larghezza di circa 6,5 km della striscia che divide il nord di Gaza, inclusa Gaza City, dal sud dell’enclave.”

Il rapporto rileva che i militari hanno utilizzato “una grande quantità di mine ed esplosivi” per ripulire l’area. Le bombe di fabbricazione americana sono state usate per distruggere le restanti case e infrastrutture nel nord di Gaza, in particolare nell’area di Beit Hanoun, che confina con il valico di Erez.

Altre aree vicino a Gaza City, soprattutto nella periferia orientale, sono diventate parte della zona cuscinetto che Israele sta costruendo a Gaza e lungo il confine.

Nel quartiere di Zaytoun, nel mezzo di negoziati senza fine per il cessate il fuoco, l’esercito israeliano sta portando avanti un “progetto pilota” di gestione civile destinato a controllare completamente la distribuzione di cibo e altre provviste. Si basa sulla convinzione che chi controlla il cibo controlla le persone.

Questo progetto è accompagnato dal severo divieto di Israele di fornire aiuti a Gaza e dall’espulsione delle organizzazioni umanitarie dall’area, una politica che Israele cerca di estendere ad altre aree di Gaza. Israele ha specificamente preso di mira e intende a distruggere l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, come parte dei suoi sforzi per eliminare la questione dei rifugiati e il diritto al ritorno dei palestinesi.

Le forze israeliane cercano inoltre di reclutare agenti palestinesi con i quali cooperare con il pretesto della distribuzione di cibo e aiuti. Tuttavia, in realtà puntano ad addestrare quegli agenti al mantenimento della sicurezza e trasformarli in milizie che opprimeranno i palestinesi. Queste milizie diventeranno un’estensione dell’occupazione e trarranno beneficio dal suo sistema corrotto.

In particolare la strada di nuova costruzione nella regione settentrionale frammenta la città, trasformandola in enclave residenziali isolate. La posizione della strada, che si estende fino al mare, sembra corrispondere a quella del “molo galleggiante” progettato dagli Stati Uniti, che l’amministrazione Biden ha proposto di costruire.

In realtà Israele sta sviluppando le infrastrutture per un’occupazione permanente della Striscia di Gaza in condizioni fondamentalmente diverse da quelle esistenti fino al disimpegno del 2005. Nello specifico, Gaza non sarà più considerata un’estensione della popolazione palestinese o parte della regione geografica palestinese.

L’obiettivo è piuttosto impedire il ritorno degli abitanti sfollati, mentre chi riuscirà a rientrare non troverà più nulla a cui tornare, poiché non ci sono più case, né quartieri, né città.

Questa è una dottrina in vigore sin dalla Nakba palestinese del 1948 e dalla creazione della questione dei rifugiati palestinesi, che è ancora definita come sfollamento “temporaneo”.

Reinsediamento israeliano

Israele è in procinto di ripristinare la sua occupazione di Gaza prendendo il controllo delle strade principali, dei corridoi e delle altre vie di comunicazione. Fino al suo ritiro unilaterale nel 2005 ai palestinesi era negato l’accesso a queste aree.

L’idea di dividere la Striscia di Gaza in aree accessibili agli israeliani e altre riservate ai palestinesi risale all’occupazione del 1967.

Nel 1971 Ariel Sharon, il comandante dell’esercito israeliano della regione meridionale che in seguito divenne primo ministro, preparò un piano per dividere Gaza e il Nord Sinai in cinque aree di insediamento che impedissero la contiguità geografica tra i palestinesi del nord, del centro e del sud.

Israele avrebbe circondato quest’area da nord con insediamenti e posti di blocco e da sud con un blocco di insediamenti nel deserto settentrionale del Sinai.

Sharon lo chiamò “Piano delle cinque dita” e il governo guidato da Golda Meir lo adottò integralmente nel 1972.

Il primo è il “Dito Nord”, che comprendeva un blocco di insediamenti nell’estremo nord della Striscia di Gaza – Beit Hanoun e il valico di Erez. Mirava ad espandere le propaggini di Ashkelon (Asqalan al-Burj) alle aree all’interno di Gaza.

Il secondo è il “dito di Netzarim”, che si estende tra il valico di al-Montar, o Karni, e il mare. È lungo 8 km e separa Gaza City dalla Gaza Valley e dal centro della Striscia. Prima del 2005 l’insediamento di Netzarim era situato nella parte occidentale di Gaza, lungo la costa. Attraversava al-Rashid e Salah al-Din Road, l’autostrada principale di Gaza, e si estendeva da nord a sud della striscia costituendo un punto di controllo per il porto di Gaza.

Il terzo dito è l’asse Kissufim, un insediamento vicino a Shuhada Street, che separa Deir al-Balah dalle aree centrali di Gaza fino a Khan Younis, dove è stato istituito il blocco di insediamenti Gush Katif.

Il quarto è il kibbutz Sufa tra Khan Younis e Rafah. È stato fondato nel 1974 come postazione militare nella penisola del Sinai e trasformato in una fattoria civile nel 1977. È stato progettato per estendersi fino al mare.

Il quinto dito è il blocco degli insediamenti Yamit nel nord del Sinai, alla periferia sud di Rafah, che impedisce qualsiasi contiguità geografica tra Rafah e il Sinai.

Dodici dei suoi centri abitati e un aeroporto israeliano furono annessi nel 1982 dopo l’accordo di Camp David con l’Egitto. Successivamente fu istituito il corridoio di Filadelfia (Saladin). Invadendo Rafah Israele cerca di controllare il passaggio con l’Egitto.

Vale la pena notare che la maggior parte delle “dita” vanno da est a ovest, raggiungendo il mare, per impedire la contiguità geografica nella Striscia di Gaza. L’obiettivo di Israele era isolare Gaza dal nord e dal sud in diverse aree strategiche.

Tuttavia la maggior parte dei piani “finger” non sono durati nel tempo e si sono conclusi nel 2005 quando il governo guidato da Sharon ha deciso di ritirarsi del tutto da Gaza.

In una recente escalation il consiglio di insediamento in Cisgiordania ha tenuto una conferenza popolare per reinsediare Gaza, alla quale hanno partecipato 12 ministri del Sionismo religioso e del partito Likud.

Il consiglio ha riesaminato i piani per ricostruire blocchi di insediamenti negli stessi luoghi da cui erano stati ritirati e demoliti nel 2005, in concomitanza con l’attuazione del piano di disimpegno da Gaza e dalla Cisgiordania settentrionale.

Concentrazione sugli aiuti

Le minacce di Netanyahu di prendere d’assalto Rafah e il corridoio Filadelfia sono probabilmente una tattica negoziale per fare pressione e ricattare i leader di Hamas e l’Egitto. Ciononostante gli analisti israeliani insistono sul fatto che i veri interessi strategici di Israele risiedono nel nord di Gaza e che un confronto con l’Egitto potrebbe innescare un dilemma strategico.

Ciò significa che non esiste alcuna opzione per prendere in considerazione una soluzione globale alla guerra, ma solo accordi parziali e temporanei dopo i quali la guerra continuerà – per cui Israele non si ritirerà e le famiglie sfollate non ritorneranno.

Nella migliore delle ipotesi qualsiasi discussione sul ritorno degli sfollati a Gaza sarà insignificante e non porterà al loro effettivo ritorno. Infatti prima di qualsiasi cessate il fuoco Israele avrà completato il suo sistema di controllo e consolidato la sua presenza coloniale a Gaza. In altre parole Israele non sta portando avanti una campagna militare che si concluderà con la fine di questa guerra.

Palestinesi e arabi sono troppo concentrati sui negoziati, sui colloqui di cessate il fuoco e sulle tattiche di ostruzionismo di Israele. Ciò si traduce in una corsa continua alla ricerca di dettagli che costituiscono una serie di distrazioni, mentre le azioni di Israele sul terreno rivelano chiaramente un ritorno all’occupazione totale di Gaza e alla sua distruzione come una coesa unità geografica per il suo popolo.

L’ossessione della comunità internazionale per gli aiuti umanitari, ignorando i piani a lungo termine di Israele, porterà ulteriormente allo sfollamento indefinito dei palestinesi.

Un’altra questione riguarda la proposta del “molo galleggiante”, che secondo la Casa Bianca verrà utilizzato per consegnare a Gaza due milioni di pasti al giorno. Secondo questo piano, Israele assumerà il controllo della sicurezza del porto improvvisato, in collaborazione con l’esercito americano, che non dovrà entrare a Gaza. Eppure Netanyahu ha recentemente affermato che questo bacino potrebbe aiutare a “deportare” i palestinesi da Gaza e attraverso il quale Israele potrebbe effettuare la loro espulsione di massa.

Vale anche la pena ricordare che l’ampia strada che l’esercito israeliano sta costruendo dal sud-est di Gaza City al mare è geograficamente coerente con la proposta avanzata dal ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ai leader dell’UE riguardo allo spostamento forzato dei palestinesi su un’isola artificiale.

Inoltre, la costante attenzione al nord di Gaza come regione a sé stante suggerisce la ricerca di un riconoscimento internazionale del fatto che il nord di Gaza sia separato dal sud. Stabilendo strutture separate di distribuzione degli aiuti per il nord e il sud – che saranno gestite da Israele – la comunità internazionale garantisce la continua presenza e occupazione di Gaza da parte di Israele.

Significa anche che gli aiuti umanitari americani potrebbero diventare un’estensione dell’occupazione israeliana e dei suoi meccanismi di controllo su Gaza. Questo progetto è stato elaborato anche sulla base del fatto che i sostenitori del governo Netanyahu impediscono l’ingresso di aiuti a Gaza attraverso il valico di frontiera Karem Abu Salem, o Kerem Shalom.

Discorso irrealistico

Inoltre, il discorso politico all’interno delle fazioni palestinesi è irrealistico e tratta la situazione come se le condizioni fossero le stesse precedenti il 7 ottobre e non fossero cambiate drasticamente. Affermano che i palestinesi devono semplicemente superare le loro divisioni anche se la Valle di Gaza è diventata un confine che limita il movimento dei palestinesi a Gaza, simile al muro dell’apartheid in Cisgiordania.

Il muro dell’apartheid ha cambiato drasticamente le caratteristiche politiche e geografiche della popolazione in Cisgiordania. È stato costruito sulle rovine della presenza urbana palestinese e di una popolazione che è stata sfollata con la forza e a cui è stato impedito per sempre il ritorno.

Portando avanti i suoi piani a Gaza, in particolare nel nord, Israele sta assicurando la sua occupazione duratura di Gaza. Palestinesi e arabi – così come la comunità internazionale – dovrebbero concentrare la loro attenzione sui drastici cambiamenti avvenuti nella situazione geografica e demografica sul terreno.

È necessaria una pressione araba diretta sugli Stati Uniti per costringere Israele a consentire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza attraverso i suoi confini terrestri e a non sottostare alle condizioni del governo israeliano, poiché Gaza rimane un’area palestinese, non israeliana.

Devono inoltre assumere una posizione ferma e lanciare una massiccia campagna per fare pressione sull’amministrazione Biden affinché smetta di fornire a Israele aiuti militari e armi utilizzate per sradicare tutti gli elementi fondamentali della vita a Gaza, fornendo al contempo un’assistenza umanitaria inadeguata, che, di fatto, è priva di qualsiasi umanità.

Tale pressione esterna è necessaria poiché sia il governo Netanyahu che l’opposizione stanno bloccando tutti i passi verso una soluzione politica.

Nel frattempo, mentre consolidano la loro occupazione a Gaza, stanno sistematicamente affamando la popolazione palestinese e commettendo atti gravi che equivalgono a crimini di guerra e atti mortali di genocidio – le cui conseguenze potrebbero essere più terribili dei bombardamenti quotidiani della città e della sua gente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Rachel Corrie ha dato la vita per la Palestina

Tom Dale

16 marzo 2024 – Jacobin

In questo giorno nel 2003 l’IDF (esercito israeliano) uccise l’attivista americana Rachel Corrie mentre difendeva le case di Rafah dalla distruzione. Ora che Israele minaccia di invadere questa città un volontario che fu accanto a Rachel scrive della sua eredità – un invito alla ferma solidarietà con i gazawi.

Oggi non c’è nessuna città al mondo più colma di sofferenza e inquietudine di Rafah, addossata al

A partire da metà ottobre le forze Israeliane hanno già spianato la loro strada attraverso Gaza City e Khan Younis, compiendo massacri, distruggendo case e lasciandosi dietro terrore e morte per fame. Più di un milione di palestinesi sono fuggiti a sud a Rafah, facendo aumentare la sua popolazione di sette volte la sua dimensione precedente.

Ma adesso l’obbiettivo di Israele è puntato sulla stessa Rafah, con la minaccia di un’invasione devastante.

Rafah oggi è una città fatta di strutture di tela e plastica quanto di cemento; fredda e spesso fradicia, affamata e devastata. Le malattie si diffondono mentre la gente baratta quel poco cibo di cui dispone con le medicine e le donne strappano pezzi delle tende per usarli come assorbenti. Gli orfani – forse diecimila a Rafah – badano a sé stessi come meglio possono.

L’anno scorso Israele ha lanciato volantini su Khan Younis dicendo ai palestinesi di andare nei “rifugi” a Rafah, per sfuggire al conflitto. Ma là non ci sono rifugi e non c’è stata via di fuga. All’inizio della guerra un amico ha perso 35 membri della sua famiglia estesa in un solo attacco aereo sulla città. In maggioranza erano donne e bambini.

Più frequente degli attacchi a Rafah stessa è il suono dell’eco degli attacchi aerei dal nord, un sinistro avvertimento che il peggio può ancora arrivare.

Il mese scorso il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha sostenuto che rinunciare a invadere Rafah equivarrebbe ad una sconfitta del suo Paese e che ordinerà l’invasione anche se tutti gli ostaggi fossero rilasciati.

Il segretario di stato USA Anthony Blinken ha detto che Washington non sosterrà un’invasione di Rafah in assenza di un “chiaro” piano di protezione dei civili e che non è ancora stato approntato alcun piano. Si dice che i dirigenti israeliani stiano elaborando uno schema per trasferire i palestinesi che sono a Rafah in “isole umanitarie” a nord – dove già scarseggiano cibo e medicinali e la gente è morta di fame.

Il presidente Joe Biden ha detto che un’invasione di Rafah costituirebbe una “linea rossa”, ma non ha ventilato alcuna conseguenza nel caso Israele oltrepassi tale linea rossa, come ne ha oltrepassate tante altre. Netanyahu, come ha già fatto in precedenza, ha risposto sprezzantemente: “Ci andremo. Non li risparmieremo.”

Rasa al suolo, crivellata di proiettili e svuotata”

All’epoca della seconda Intifada, nel 2002-2003, vivevo a Rafah come volontario per l’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione a guida palestinese che sostiene la resistenza nonviolenta all’occupazione. Tra i miei colleghi c’era Rachel Corrie, una volontaria americana di Olimpia, nello stato di Washington negli Stati Uniti, con uno spassoso senso dell’umorismo che nascondeva la serietà riguardo alla vita – ed al suo scopo – che non avrei del tutto compreso fino a quando lessi i suoi scritti anni dopo. Più tardi si unì al gruppo Tom Hurndall, un talentuoso fotografo che venne colpito alla testa da un cecchino dell’esercito israeliano nell’aprile 2003 e morì l’anno seguente dopo 9 mesi di coma.

Anche allora Rafah fu “rasa al suolo e crivellata di proiettili e svuotata”, come scrisse Rachel in un messaggio ai suoi genitori. Passavamo la maggior parte delle notti nelle case di famiglie vicino al confine con l’Egitto. Israele vi aveva creato una striscia di terra vuota, demolendo case per creare una zona di tiro libero e quindi un vantaggio tattico per le sue truppe posizionate lungo il confine. A volte avvertivano coi megafoni le famiglie di andare via, a volte sparavano nelle case finché le famiglie fuggivano. In ogni momento del giorno o della notte, attraverso demolizioni o no, potevano sparare inondando le case di pallottole.

Non tutti i proiettili sparati contro un muro entravano nell’edificio, ma alcuni sì, specialmente quelli sparati da armi più potenti. Tutti coloro che si trovavano in casa del nostro amico Abu Jamil, compresa Rachel, non poterono non accorgersi, mentre giocavano con i suoi figli, dei fori lasciati dai proiettili che avevano colpito il muro interno ad altezza della testa, sopra il lavello della cucina.

Quando i palestinesi ci chiamavano andavamo ad opporci ai bulldozer armati israeliani che lavoravano lungo la striscia di confine, tenendoli d’occhio e cercando di intervenire se andavano a demolire una casa. Alcune volte li abbiamo rallentati, abbiamo creato impaccio, concedendo a una famiglia qua o là una tregua di qualche giorno o settimana. Forse abbiamo attirato l’attenzione del mondo su quella striscia di terra più frequentemente che se non fossimo stati là. Ma la demolizione andava avanti e il mondo aveva altre preoccupazioni: l’invasione dell’Iraq era imminente.

Il 16 marzo 2003 poco dopo le 17 vidi che uno dei bulldozer di Israele di fabbricazione USA, enorme e imponente, si dirigeva verso la casa del dottor Samir Nasrallah e della sua giovane famiglia. Rachel, amica del dottor Samir, si mise tra il bulldozer e la casa. Mentre il bulldozer si muoveva verso di lei la sua lama iniziò spingere davanti a sé a un monticello di terra. Quando il monticello raggiunse Rachel lei vi si arrampicò, faticando per mantenersi in appoggio sulla terra molle, reggendosi con le mani fin quando la sua testa fu sopra il livello della lama. Il conducente deve averla guardata negli occhi, ma proseguì imperterrito e lei cominciò a perdere l’equilibrio.

Qualche settimana prima di quel giorno Rachel sognò di cadere e lo scrisse sul suo diario:

…cadevo verso la morte da qualcosa di polveroso e liscio e frammentato come le scogliere dello Utah, ma mi sono aggrappata e quando ogni nuovo punto d’appoggio o pezzo di roccia si rompeva io allungavo la mano mentre cadevo e ne afferravo un altro. Non ho avuto il tempo di pensare a niente – solo di reagire…e ho sentito “Non posso morire, non posso morire”, ancora e ancora nella mia testa.

Il terreno sul confine di Rafah, un’irregolare mistura di argilla e terra, ha una tonalità calda non tanto diversa da quella delle scogliere dello Utah. A distanza di anni, come molti degli scritti di Rachel, l’incubo sembra essere stato premonitore.

Benché ci provasse, Rachel non riuscì a mantenere l’equilibrio; il bulldozer avanzò deciso, la travolse, la spinse sotto la terra, la schiacciò. Morì mentre le tenevo le mani nell’ambulanza verso l’ospedale. Nel mio primo resoconto dei fatti, scritto due giorni dopo, specificai che dieci palestinesi erano stati uccisi a Gaza dopo Rachel, senza che lo si sapesse al di fuori dell’enclave stessa.

A parte la mia personale amicizia con Rachel, c’è disagio nel raccontare ciò che è necessario ribadire soprattutto oggi, alla luce della devastazione che Rafah subisce. Parte del nostro obbiettivo, tutti quegli anni addietro, era far risaltare un sistema razzista di violenza e il sistema razzista di narrazione che lo accompagna, al fine di sovvertire quei sistemi stessi. Alcuni potrebbero pensare che un simile tentativo sia sempre stato idealista o che qualunque tentativo di mettere in luce un simile sistema razzista, come il nostro sforzo di attirare lo sguardo internazionale su Gaza, è inevitabile che avvalori quel sistema.

Ciononostante, avendo fatto la mia scelta più di vent’anni fa, mi ritengo impegnato. Ogni qualvolta mi si chiede di parlare di Rachel lo faccio, non solo per onorare un’amica, ma con l’idea che forse la sua storia è un modo per far capire ad alcune persone, lontane dalla Palestina, delle verità più ampie sulla violenza dell’occupazione e sulle politiche che la rendono possibile. E che quelle verità in definitiva ci riportano indietro ai palestinesi e a Rafah. Credo che conducano anche ad altri luoghi.

L’esercito israeliano agisce nella convinzione dell’impunità. Perciò quando un fatto eccezionale, come l’uccisione di un non-palestinese, lascia presagire una resa dei conti, il sistema è poco preparato a rispondere. Il risultato spesso consiste in una serie di stravaganti menzogne. Nel caso di Rachel le autorità evitarono di contestare i dettagli dei nostri testimoni oculari. Sostennero invece che Rachel “si era nascosta dietro un terrapieno” e fu colpita dalla caduta di una lastra di cemento. I nostri fotografi sul posto, sia prima che dopo l’uccisione di Rachel, dimostrarono che lei si trovava in terreno aperto.

Secondo uno schema abituale la risposta ufficiale fu, in ordine approssimativo: non lo abbiamo fatto noi, lo abbiamo fatto ma non è stata colpa nostra, anche se è stata colpa nostra non siamo responsabili e comunque erano dei terroristi. Il comandante dell’esercito nel sud della Striscia di Gaza all’epoca dell’uccisione disse a un tribunale di Haifa, probabilmente con un’espressione seria, che “un’organizzazione terroristica ha inviato Rachel Corrie a intralciare i soldati dell’esercito. Lo dico con conoscenza di causa.” Gli osservatori dell’attuale guerra ricorderanno una serie di analoghe dichiarazioni “categoriche”.

L’impunità di Israele è merce di esportazione americana

I volontari che vanno in luoghi di guerra per stare accanto a chi è in prima linea sono sempre stati il fulcro della tradizione internazionalista. E ciò è vero ancora oggi, sia che accompagnino i pastori e i raccoglitori di olive sulle colline della Cisgiordania, sia che portino rifornimenti ai soldati ucraini sul fronte della guerra con la Russia, o forniscano assistenza medica ai rivoluzionari del Myanmar, o combattano il cosiddetto stato islamico insieme alle Unità di Protezione Popolare nel nordest della Siria. Questi impegni e le persone che li assumono non vanno idealizzati. Ma la profonda solidarietà e relazione che incarnano sono straordinarie.

Però questo genere di cose non è per tutti. E non deve esserlo. La solidarietà dei volontari che si recano in una zona di guerra per stare accanto a chi è in prima linea deve accompagnarsi ad un progetto complementare che cerca di mobilitare la potenza degli Stati – soprattutto degli Stati Uniti – verso gli stessi obbiettivi. E’ qualcosa in cui la maggioranza della gente può essere coinvolta in qualche modo. Nel caso della Palestina comincia con la creazione di sostegno pubblico e pressione politica verso un cessate il fuoco e un’interruzione degli aiuti militari a Israele. Ciò include una pressione incessante nei confronti di Biden e la difesa dei sostenitori del cessate il fuoco nel Congresso da coloro che vogliono punire la loro posizione.

Gli Stati Uniti avallano l’occupazione israeliana attraverso un massiccio aiuto militare e finanziario e ciò significa avallare l’attuale guerra a Gaza. Jeremy Konyndyk, un ex alto funzionario dell’amministrazione Biden, ha detto al Washington Post che l’amministrazione aveva agevolato “un numero straordinario di vendite nel corso di un brevissimo intervallo di tempo, il che suggerisce fortemente che la campagna israeliana non sarebbe stata sostenibile senza questo livello di supporto USA.”

Il risultato, sempre dolorosamente evidente a Rafah, è che l’impunità di Israele è merce di esportazione americana. Ma l’annullamento del sostegno non sarà con tutta probabilità sufficiente. Saranno necessarie sanzioni finalizzate a costringere al riconoscimento dei diritti fondamentali dei palestinesi. Dovranno andare ben oltre il prendere di mira singoli coloni o i loro sostenitori.

La richiesta di sanzioni è una sfida diretta al principale cardine non dichiarato della politica USA verso Israele. Biden e i suoi subalterni parleranno della necessità di uno Stato palestinese e della necessità per Israele di mostrare moderazione. Ma il loro principio fondamentale, che è stato assoluto per tre decenni ed era predominante nei decenni precedenti, è che Israele non deve mai essere costretto a fare simili concessioni. Israele può essere blandito, lusingato, persuaso e spronato, ma mai obbligato. La conseguenza è che la Palestina è tenuta in permanente stato di eccezione.

Un parente del dottor Nasrallah, il farmacista la cui casa di famiglia Rachel stava difendendo quando fu uccisa, mi ha detto che era come se Rafah fosse stata risucchiata in un “buco nero dove le leggi internazionali non valgono e il mondo non ci può vedere né sentire.”

Descrive quando è tornato a casa un pomeriggio sulla scena di una carneficina, in seguito ad un attacco aereo su un edificio vicino in cui almeno due famiglie sono state interamente spazzate via e un’altra ha perso due bambini. (Gli amici di Nasrallah stanno raccogliendo soldi per aiutarli a mettersi al sicuro.) Un parente che ha chiesto di non rivelare il suo nome ha detto che era ormai normale vedere uomini scoppiare in lacrime al minimo attacco perché indifesi e incapaci di provvedere alle loro mogli o figli. “Stiamo parlando, dice, del labile confine tra la vita e la morte.”

Un’invasione di Rafah, che potrebbe avvenire tra qualche settimana, sarebbe un disastro “oltre ogni immaginazione”, dicono i medici delle Nazioni Unite. Come ha detto Rachel poche settimane prima di essere uccisa: “Penso che per tutti noi sia una buona idea abbandonare tutto e dedicare la nostra vita a far sì che questo abbia fine.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Reportage: un ministro israeliano ha bloccato un carico di farina verso Gaza

Redazione di Middle East Monitor

13 febbraio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che il ministro ultranazionalista delle Finanze Bezalel Smotrich sta bloccando un carico di farina diretto alla Striscia di Gaza, affermando che le forniture finanziate dagli Stati Uniti sono dirette all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA).

Il carico è stato bloccato per settimane nel porto di Ashdod, nella parte meridionale di Israele, dal momento che Smotrich ha ordinato alle autorità doganali di “non lasciar passare la spedizione fin quando l’UNRWA sia il destinatario,” ha riferito martedì il sito americano di notizie Axios.

I più alti livelli dell’amministrazione Biden hanno ventilato la possibilità della spedizione di farina più di un mese fa, si afferma sul sito, citando funzionari statunitensi e israeliani.

Funzionari statunitensi hanno affermato che questa è una violazione dell’impegno che Benjamin Netanyahu ha personalmente preso con il presidente Biden molte settimane fa ed è un’altra ragione per cui il leader statunitense è deluso dal primo ministro israeliano” ha affermato la testata.

I gabinetti di guerra e di sicurezza israeliani hanno approvato la consegna della farina dal porto di Ashdod attraverso il valico di Kerem Shalom, si afferma sul sito web, citando anonimi funzionari israeliani.

Questi hanno aggiunto che Smotrich ha ordinato ai servizi doganali israeliani di “non lasciar proseguire la spedizione fin quando l’UNRWA è il destinatario.”

Smotrich e gli Stati Uniti non hanno emesso alcuna dichiarazione ufficiale sul rapporto.

Molti Stati, inclusi gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Germania, la Svizzera, l’Italia e il Canada, hanno sospeso i finanziamenti per l’UNRWA in seguito ad accuse israeliane.

L’agenzia delle Nazioni Unite ha affermato che sta indagando su queste accuse.

Israele ha ripetutamente equiparato lo staff dell’UNRWA ai membri di Hamas nel tentativo di discreditarli, senza fornire alcuna prova delle dichiarazioni, mentre ha fatto dure azioni di pressione per chiudere l’UNRWA, dato che è l’unica agenzia ONU ad avere lo specifico mandato di occuparsi dei bisogni elementari dei rifugiati palestinesi. Se l’agenzia non esisterà più, sostiene Israele, allora non esisterà più neppure la questione dei rifugiati e il loro legittimo diritto a tornare alla loro terra è ingiustificato. Israele ha negato il diritto al ritorno fin dagli ultimi anni quaranta, anche se la sua adesione all’ONU è stata condizionata al fatto di permettere ai rifugiati palestinesi di tornare alle loro case e alla loro terra.

La guerra di Israele a Gaza ha spinto l’85% della popolazione del territorio ad una deportazione interna a fronte di gravi carenze di cibo, acqua pulita, e medicine, mentre secondo le Nazioni Unite il 60% dell’infrastruttura dell’enclave è stata danneggiata o distrutta.

Israele viene accusata di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia, che questo gennaio con una sentenza preliminare ha ordinato a Tel Aviv di fermare gli atti di genocidio e di prendere misure per garantire che ai civili a Gaza sia fornita assistenza umanitaria.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)