Basta ai palestinesi poter accedere alle proprie terre due volte all’anno?

Amira Hass

20 agosto 2023 Haaretz

L’Alta Corte di Israele ha respinto la petizione degli abitanti del villaggio di Anin per poter lavorare i propri terreni oltre il muro di separazione ogni giorno, ed ha stabilito che due volte a settimana fosse sufficiente. Ora l’esercito israeliano dice che gli agricoltori potranno accedere ai propri terreni solo due volte all’anno.

I contadini del villaggio di Anin vogliono lavorare la propria terra ogni giorno, perciò hanno chiesto che il varco nella barriera di separazione che divide i loro campi dal villaggio venisse aperto quotidianamente, non due volte a settimana. Hanno inoltrato questa richiesta nel 2007, circa cinque anni dopo che Israele ha costruito il muro sulla loro terra, ma è stata respinta.

Un anno fa hanno nuovamente fatto la richiesta, di nuovo rifiutata e in marzo hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia. Allora l’esercito ha informato loro e la Corte che in realtà sta programmando di rendere “stagionale” l’apertura del varco: invece di due volte alla settimana, verrà aperto due volte all’anno per l’aratura e la raccolta delle olive. E se i contadini sono così desiderosi di recarsi sul proprio terreno ogni giorno potranno guidare per 25 chilometri, sia per andare che per tornare, attraverso un altro varco. Quindi l’Ufficio del Procuratore di Stato ha raccomandato alla Corte di respingere la petizione.

I giudici non hanno nemmeno tenuto un’udienza con i richiedenti e la loro avvocata, Tehila Meir dell’associazione israeliana per i diritti HaMoked. Nella prima settimana di agosto hanno semplicemente emesso la sentenza: due giorni alla settimana sono ampiamente sufficienti, ha scritto la giudice Ruth Ronnen in accordo con i suoi colleghi Yael Willner e Alex Stein. Se davvero il varco diventasse stagionale i richiedenti potrebbero tentare un ricorso legale, ha precisato.

Dei circa 17.000 dunam (4.200 acri) del villaggio in Cisgiordania, 11.000 sono incastrati tra il muro di separazione e la Linea Verde, in un’enclave di 31.000 dunam. E’ l’enclave di Barta’a, che ospita 7.000 palestinesi in sette villaggi, il più grande dei quali è la stessa Barta’a. Ci vivono anche circa 3.000 coloni in quattro insediamenti; c’è pure una zona industriale israeliana.

E’ difficile dire che è la Cisgiordania e non Israele. I lavori di costruzione e altri lavori per lo sviluppo nei villaggi palestinesi sono pesantemente limitati. I palestinesi che non vivono nell’enclave sono impossibilitati ad entrare, anche se pochi privilegiati ricevono un permesso speciale. Sono i residenti dei villaggi ad est del muro, i cui terreni si trovano ad ovest del muro di cemento (fino a poco tempo fa una staccionata), come gli abitanti di Anin.

Viaggio estenuante, lunga attesa

I soldati aprono il varco a Anin solo il lunedì e il mercoledì e solo due volte al giorno per brevi periodi: dalle 6,50 alle 7,10 del mattino e dalle 15,50 alle16,10 del pomeriggio. Il varco si trova a 5 minuti di cammino dalle case dei richiedenti e la loro terra dista dai 5 ai 20 minuti dal varco.

Prima del 1948 Anin aveva 45.000 dunam”, dice al telefono a Haaretz il capo del consiglio del villaggio Mohammed Issa. Circa 27.000 di essi sono finiti in Israele. Dal 2002 la maggior parte della terra coltivabile che ci è rimasta è al di là del muro. Ogni famiglia ha il terreno là.”

Ottenere un permesso per entrare nei terreni coltivabili è una procedura molto complicata; i permessi sono concessi solo agli abitanti i cui documenti di proprietà soddisfano le condizioni dell’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania. Inoltre occorre provare la parentela diretta con i proprietari (cioè coniugi e figli; i nipoti non ottengono i permessi). Tutto ciò è sottoposto ad un rigoroso controllo burocratico e di sicurezza. Il permesso va rinnovato ogni pochi mesi, ogni anno o ogni due anni, a seconda del tipo di permesso.

Gli abitanti di Anin che fanno la procedura attraverso il controllo dell’Amministrazione Civile e il servizio di sicurezza dello Shin Bet possono raggiungere la loro terra attraverso il varco di Barta’a, 25 chilometri a sud. Questo varco è aperto tutti i giorni, ma è un viaggio di circa un’ora e mezza da Anin e la strada è in parte costituita da pista sterrata che solo un trattore o un veicolo fuoristrada possono percorrere.

Questo lontano posto di blocco è utilizzato da centinaia di palestinesi di altri villaggi che vivono nell’enclave di Barta’a o hanno dei permessi per attraversarla, perciò per passare di là vi sono lunghe attese specialmente al mattino – il momento migliore per l’attività agricola.

Tanto per cominciare, passare con un trattore richiede un permesso che spinge i richiedenti ad una corsa a ostacoli burocratica. I contadini che portano attrezzi da lavoro attraverso il varco di Barta’a devono subire un lungo controllo di sicurezza – e poi, dopo circa due ore in strada, devono tornare di nuovo verso nord per guidare fino al loro terreno che è a portata di vista e di cammino dalle loro case.

Anche gli alti costi del viaggio spaventano i richiedenti: 80 shekel (21,20 dollari) al giorno con il proprio veicolo, oppure 60 shekel al giorno col trasporto pubblico, che non è disponibile a tutte le ore del giorno.

Tutte queste argomentazioni, dettagliate nella petizione da Meir di HaMoked, non hanno convinto i giudici. Ronnen si è allineata all’esercito e all’Amministrazione Civile in ogni aspetto, affermando che “le uniche colture attualmente esistenti nei terreni sono uliveti che richiedono una coltivazione solo stagionale durante le stagioni dell’aratura e della raccolta.” Ha aggiunto che “i richiedenti non contestano questa affermazione”.

Invece i richiedenti la hanno contestata. Una replica di Meir alla risposta dell’Ufficio del Procuratore di Stato alla petizione afferma che prima della costruzione del muro di separazione i contadini del villaggio coltivavano cereali come grano e frumento e verdure come pomodori, cipolle, sesamo e cetrioli. La costruzione del muro e la limitazione dei giorni in cui si può attraversarlo hanno costretto gli agricoltori a rinunciare alle colture che necessitano di irrigazione, cura e sorveglianza quotidiane, ha detto Meir.

La linea dura della Corte

Durante una visita al varco a maggio, su iniziativa dell’esercito e dell’Ufficio del Procuratore di Stato dopo che è stata presentata la petizione, gli agricoltori hanno spiegato la situazione agli alti funzionari, come documentato da Meir, che ha partecipato all’incontro con altre persone di HaMoked. Meir ha allegato alla sua risposta un parere di Bimkom, un’associazione israeliana per i diritti che perora l’uguaglianza nella pianificazione ed ha lavorato per molti anni con le comunità palestinesi nell’enclave di Barta’a.

Fornendo dati e fotografie aeree, Bimkom dimostra che molti degli appezzamenti di terra di Anin, che prima del 2000 erano intensamente coltivati, sono inariditi a causa delle restrizioni all’ingresso. Gli alberi negli uliveti di Anin, che non necessitano di irrigazione, sono meticolosamente curati.

Alla domanda se gli abitanti del villaggio sperassero di tornare a coltivare verdura, grano e cereali, Issa, il capo del consiglio del villaggio, ha risposto a Haaretz: “Adesso stiamo parlando di come mantenere e salvare ciò che abbiamo, gli alberi che abbiamo.”

E’ indignato dalla sentenza secondo cui il varco sarà aperto solo due volte all’anno. “Una mandria di buoi (da un vicino villaggio israeliano nell’area di Wadi Ara) raggiunge i nostri alberi e li danneggia, perciò dobbiamo essere là ogni giorno”, ha detto Issa.

Il timore è che ciò che succede in altri luoghi dove l’esercito e l’Amministrazione Civile concede l’ingresso ai contadini solo due o tre volte all’anno avverrà anche ad Anin: gli uliveti verranno invasi dai cardi selvatici e devastati da frequenti incendi boschivi e la loro produzione diminuirà drasticamente.

Nella loro risposta alla petizione gli avvocati dell’Ufficio del Procuratore di Stato, Yael Kolodny e Jonathan Berman, hanno sostenuto a nome dell’esercito e dell’Amministrazione Civile che il varco viene usato dagli abitanti di Anin con permessi agricoli soprattutto per entrare senza autorizzazione in Israele. Hanno detto di sostenere questo sulla base di un filmato di un drone e di una improvvisa visita al varco alla fine di marzo, quando sono state interrogate le persone che lo attraversavano. Hanno detto che molti avevano con sé un cambio di abiti e alcuni erano “vestiti elegantemente”. Nessuno aveva attrezzi da lavoro, hanno aggiunto gli avvocati.

In risposta i contadini hanno detto a Meir che alcuni di loro effettivamente escono di casa in abiti puliti e si cambiano in tenuta da lavoro, che indossano anche per riparare veicoli, per costruire, per tinteggiare le case e svolgere altre attività. Inoltre i lavoratori che attraversano il varco normalmente lasciano i loro attrezzi nell’appezzamento piuttosto che portarli avanti e indietro. Meir ha scritto, citando Bimkom, che gli uliveti curati dimostrano che i contadini si recano regolarmente dove sono gli alberi e se ne prendono cura con dedizione.

Quanto al filmato del drone, Meir ha scritto che è stato ripreso in Cisgiordania e non mostra nessuno che entra in Israele. I richiedenti, che hanno notato il drone, dicono che il filmato è selettivo, mostra persone che salgono nelle auto (che secondo l’esercito le portano in Israele), ma non mostra quelli che continuano a piedi fino ai loro appezzamenti. I richiedenti aggiungono che alcuni contadini trovano dei passaggi in auto israeliane (di proprietà di palestinesi cittadini dello Stato) per arrivare più in fretta ai loro terreni.

Meir ha detto a Haaretz che la sentenza mostra un drastico peggioramento nel rispetto da parte della Corte degli obblighi dello Stato verso i palestinesi danneggiati dal muro di separazione. Ha sottolineato che la Corte ha approvato la costruzione del muro all’inizio del 2000 dopo che lo Stato si è impegnato a ridurre i danni ai palestinesi separati dai loro terreni al minimo indispensabile, consentendo loro un accesso ragionevole alle loro terre.

Ora che accade che l’accesso non sia ragionevole, la Corte respinge l’appello dei contadini senza un’udienza, ha precisato. “E’ triste vedere quanto poco costi considerare giustificabile danneggiare i diritti umani dei palestinesi che cercano di lavorare i propri terreni”, ha detto Meir.

HaMoked ha anche evidenziato un altro inquietante aspetto della sentenza: i giudici hanno stabilito che queste terre “formalmente” appartengono all’ “area di Giudea e Samaria”, la Cisgiordania, che è occupata da Israele dal 1967. Questa affermazione indica che nella sostanza, al contrario che nella forma, questo territorio palestinese, noto in gergo militare come “zona di congiunzione”, non fa parte dell’ “area di Giudea e Samaria.”

Così c’è soltanto un passo tra la sentenza della Corte ed il suo assenso all’annessione della terra oltre il muro. I giudici sanno bene che solo gli israeliani e i turisti stranieri hanno libero accesso a questa area, mentre i palestinesi ne sono del tutto impediti, e che solo le colonie e l’Amministrazione Civile vi possono mettere in atto piani edilizi, mentre le autorità locali palestinesi, che posseggono questa terra, non possono. Del resto la Corte ha approvato questo stato di cose nel 2011.

Fondamentalmente oltre 500 chilometri quadrati di terra (9,4% dell’intera Cisgiordania) sono imprigionati tra il muro di separazione e la Linea Verde. Quindi la realtà è che un’enorme fetta di terra è stata sostanzialmente annessa ad Israele senza una dichiarazione “formale”.

Per adempiere alla promessa dello Stato di permettere ai contadini di lavorare la propria terra sono stati costruiti 79 varchi nel muro di separazione. Solo cinque sono aperti tutto il giorno, 11 sono aperti per poco tempo due o tre volte al giorno e 10 sono aperti per alcuni brevi intervalli due o tre giorni alla settimana.

Con la chiusura del varco di Anin questo numero scenderà a 9 e il varco di Anin si aggiungerà a 53 altri “varchi stagionali”, aperti solo alcuni giorni all’anno per l’aratura, la raccolta e a volte per diserbare. La gente di Anin ha tempo fino a lunedì per fare appello contro la decisione di chiudere il loro varco.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gestire l’occupazione e nascondere i crimini di guerra: come Israele ha trasformato il paesaggio in Palestina

Clothilde Mraffko

sabato 1 agosto 2020 – Middle East Eye

Vegetazione, architettura, strade, muri…Il progetto sionista ha rimodellato il paesaggio in Israele e nei territori occupati, creando complessi intrecci in cui la presenza palestinese è nascosta, quando non è messa sotto sorveglianza o rinchiusa

Per il viaggiatore europeo che arriva dall’aeroporto di Tel Aviv l’ingresso a Gerusalemme offre un panorama stranamente familiare. Poco prima che la città santa scopra le sue prime colline, l’autostrada si snoda tra monti verdeggianti. Qui gli alberi ricordano più le foreste europee che i paesaggi del vicino Libano. Lungi dall’immagine biblica di uliveti, sono pini e cipressi a coprire i rilievi.

Ancor prima della creazione di Israele nel 1948 “gli immigrati sionisti che arrivarono qui dall’Europa, in particolare da quella dell’est, volevano che il paesaggio fosse più verde, con alberi, che assomigliasse a quello che conoscevano”, ricorda a Middle East Eye Noga Kadman, ricercatrice indipendente, autrice del libro Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948 [Cancellati dallo spazio e dalla consapevolezza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati del 1948].

Allora molti emigrarono con in testa un mito: la Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra, gli ebrei. Solo che in realtà, all’inizio del 1948 circa 900.000 palestinesi vivevano all’interno delle frontiere di quello che sarebbe diventato Israele.

Nell’immaginario dei nuovi arrivati ebrei sussisteva nonostante tutto l’“idea che il paese fosse stato abbandonato per centinaia di anni,” continua Noga Kadman. Quindi gli immigrati si misero a piantare a tutto spiano sul territorio, ricorrendo principalmente a due specie di alberi: l’eucalipto e il pino di Aleppo, o pino di Gerusalemme.

Importato dall’Australia l’eucalipto venne inizialmente piantato ovunque: serviva a prosciugare le paludi e soprattutto cresceva molto in fretta. Ma, troppo avido di acqua, non era effettivamente adatto alla Palestina.

Venne sostituito un po’ alla volta dal pino di Aleppo che, a differenza di quello che farebbe pensare il suo nome, non è neppure lui una specie locale. Si trova piuttosto nel Mediterraneo occidentale, ad esempio nel sud della Francia. Anch’esso cresce rapidamente, resiste alla siccità, ma al contempo è più vulnerabile agli incendi.

Il paesaggio si trasformò dunque un po’ alla volta, soggetto alle iniziative del Fondo Nazionale Ebraico (FNE). L’agenzia, creata dall’inizio del XX secolo per acquisire terre in Palestina per gli immigrati ebrei, dal 1948 venne incaricata di occuparsi delle terre da cui erano stati cacciati i palestinesi, definite, in assenza dei loro proprietari, proprietà dello Stato.

Attualmente il Fondo gestisce soprattutto le foreste in Israele e si vanta di aver piantato “centinaia di milioni di alberi”, asserisce in sua difesa uno dei portavoce del Fondo, Alon Brandt, in una lettera di risposta a Middle East Eye. Precisa che l’organizzazione non ha piantato solo pini di Aleppo, ma anche ulivi, la specie locale per eccellenza.

Ma alcune critiche fanno notare che le piantagioni del FNE non hanno creato dei veri ecosistemi. Al contrario, dato che queste specie non sono abbastanza diversificate, questi luoghi non hanno l’aspetto di vere foreste: i pini hanno reso il suolo acido e gli animali non abitano effettivamente in questi luoghi in cui il sottobosco non ha messo radici.

Prendere possesso della terra”

Ma il FNE non cerca solo di rinverdire la Palestina. “Piantare alberi era un modo per prendere possesso della terra,” sostiene Noga Kadman. A tutt’oggi, nelle “località palestinesi in Israele, se non si vuole che le città si ingrandiscano con la costruzione di nuove case, gli si piantano attorno dei boschi,” aggiunge.

Nel Negev, nel sud di Israele, le autorità israeliane hanno demolito addirittura un intero villaggio per rimboschire il deserto. Lo scorso 12 febbraio la località di al-Araqib è stata distrutta per la 175sima volta. Su appezzamenti di terra che gli abitanti, beduini arabi israeliani discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948, sostengono essere loro, nel 2006 il FNE ha iniziato a piantare alberi: conta di crearvi con il tempo due boschi.

Gli alberi servono anche a nascondere le stigmate della nascita violenta di Israele: “La priorità della politica di riforestazione portata avanti dal FNE è di nascondere i suoi crimini di guerra in modo che Israele sia considerato come l’unica democrazia del Medio Oriente,” denunciava nel 2005 il militante israeliano dei diritti civili Uri Davis.

Tra il 1947 e il 1949, dai 750.000 agli 800.000 palestinesi vennero espulsi dalle proprie terre dalle milizie sioniste, cacciati con la forza o in fuga dai combattimenti per trovare rifugio nei Paesi confinanti. Nel maggio 1948 venne creato lo Stato di Israele; per i palestinesi questa data infausta è commemorata come la Nakba, la “catastrofe” in arabo.

Più di 400 villaggi vennero allora distrutti, ricorda Noga Kadman: “La metà di questi villaggi sono sepolti sotto cittadine israeliane o sono stati inglobati in esse.”

Ma una parte di essi, secondo lei 68, si trovano oggi su terre appartenenti al FNE, di cui “46 sono sepolti sotto un bosco.” Dal 1948 gli alberi vennero rapidamente piantati sulle rovine delle case palestinesi; Israele sperava così di dissuadere i rifugiati dal tentare di tornare e ricostruire le loro abitazioni.

Una politica proseguita nel 1967. Durante la guerra dei Sei Giorni le battaglie di Latrun permisero agli israeliani di impossessarsi di tutta Gerusalemme. Spinsero anche sulla via dell’esilio circa 10.000 palestinesi che vivevano in questa enclave, all’epoca sotto controllo della Transgiordania, molto vicina alla città santa.

Oggi palestinesi e israeliani conoscono il luogo soprattutto perché è uno degli spazi di svago più belli nei dintorni di Gerusalemme: 700 ettari con cascate, piste ciclabili e tavoli per scampagnate all’ombra.

Solo che il parco Ayalon in realtà è stato costituito sulle rovine di due villaggi palestinesi, Amwas e Yalu, totalmente rasi al suolo nel 1967, così come sulle terre di un’altra località, Beit Nuba. Oggi non ne resta che un santuario e dei fichi d’india che, in Palestina, servivano per delimitare i terreni delle famiglie. Le forme spinose con frutti rossi e gialli, che hanno paradossalmente dato il loro nome agli israeliani (sabra [frutto dei fichi d’india in ebraico. Si riferisce agli ebrei nati n Palestina, ndtr.]), costellano i sentieri del parco, come per ricordare che una volta vi si trovavano dei villaggi palestinesi.

I generosi donatori canadesi che resero possibile la costituzione del parco Ayalon, inaugurato dal FNE nel 1976, di questa tragica storia non ne sapevano niente.

Nel 1991 un servizio della televisione canadese rivelò al pubblico d’oltre Atlantico che il parco non solo venne in parte costituito dall’altra parte della Linea verde, la frontiera internazionalmente riconosciuta nel 1949 tra un futuro Stato palestinese e Israele – quindi su territorio occupato -, ma che servì soprattutto a seppellire le rovine di più di un migliaio di case distrutte. Il FNE fu costretto a scusarsi. Non ha risposto alle domande di MEE su questo argomento.

Si dovrà attendere il 2006 e una decisione della giustizia israeliana perché i visitatori potessero finalmente venire a conoscenza della tragica storia del luogo, sintetizzata in ebraico su cartelli in legno. L’organizzazione israeliana “Zochrot”, “Ricordi” in ebraico [associazione israeliana che si dedica a mantenere viva la memoria dei villaggi palestinesi distrutti da Israele, ndtr.], ha intentato un’azione legale contro il FNE per obbligarlo a non cancellare la memoria di Amwas e Yalu.

Una segregazione visibile

Se centinaia di villaggi palestinesi vennero rasi al suolo quando fu creato Israele, le grandi città vennero preservate, ma depurate da ogni presenza araba. Così, racconta lo storico israeliano Ilan Pappé nella sua opera “La pulizia etnica della Palestina”, nel 1948, insieme al mercato, “uno dei più belli del suo genere”, 227 case furono demolite a Haifa e circa 500 altre abitazioni palestinesi furono ridotte in polvere a Tiberiade, nel nord-est del Paese, a Jaffa e ancora a Gerusalemme ovest.

Israele si costruì così su un principio: nessuna mescolanza tra ebrei israeliani e quelli che vengono chiamati arabi israeliani, discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948 e che vissero sotto amministrazione militare fino al 1966.

Salvo rare eccezioni, spesso nelle zone più povere, “su tutto il territorio si nota una segregazione tra israeliani e palestinesi,” spiega a Middle East Eye Efrat Cohen-Bar, architetto dell’Ong israeliana per la difesa dei diritti umani “Bimkom”. L’idea principale “è che non si voglia stare insieme, e questo vale per entrambe le parti,” ritiene. A ognuno il suo quartiere, ognuno nella sua città.

Un credo ancora più evidente in Cisgiordania, territorio palestinese sotto occupazione israeliana dal 1967. Qui due mondi, i coloni israeliani e i palestinesi sotto occupazione, si incrociano ma non si incontrano mai. Una segregazione iscritta, in modo molto più brutale, nel paesaggio.

Così, dall’uscita da Gerusalemme, lungo la strada di Betlemme, il simbolo più evidente di questi paesaggi sotto occupazione compare da quando si supera il primo tunnel: a volte fatto di blocchi di cemento, a volte di staccionate più alte dei muri antirumore delle autostrade o ancora imponente recinzione, il muro di separazione costruito da Israele negli anni 2000, giudicato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia chiude l’orizzonte. In basso le case palestinesi si distinguono appena.

Questa frontiera, iscritta nel paesaggio, incarna di per sé sola tutte le altre strutture militari contro cui vanno a sbattere i palestinesi quando si avventurano fuori dalle loro città e villaggi: blocchi stradali, check point, torri di guardia, barriere…

Al contrario, attraverso un ingegnoso dedalo di tunnel, strade riservate alle vetture israeliane e ponti, i coloni israeliani passano da una colonia all’altra senza mai entrare in contatto con una località palestinese. Uno stato di fatto che l’annessione delle colonie, promessa da Israele in questi ultimi mesi con l’appoggio degli Stati Uniti, dovrebbe rafforzare. La segregazione non potrà che essere più impressionante.

La collocazione stessa delle colonie racconta questa storia di dominazione: “Storicamente i villaggi palestinesi erano costruiti in base a dove si trovavano le fonti d’acqua, quindi generalmente non sulla cima delle colline,” spiega Efran Cohen-Bar.

Ma praticamente tutte le colonie israeliane sono iniziate dalla cima. Anche un modo per dire: noi possediamo questa terra, è nostra.” La cima delle colline, meno fertile, è anche spesso il luogo più a disposizione per nuove costruzioni.

L’occupazione israeliana si sviluppa in modo strategico: il paesaggio cambia in base all’evoluzione degli interessi israeliani.

All’inizio era un tentativo di controllare il territorio, un po’ come se le colonie fossero dei mezzi corrazzati e delle basi militari. Poi sono state piazzate in modo da bloccare la creazione di uno spazio palestinese contiguo, distruggendo così la possibilità di uno Stato,” precisa a Middle East Eye Eyal Weizman, fondatore di “Forensic Architecture” [Architettura Forense], un’organizzazione che indaga le violazioni dei diritti dell’uomo utilizzando, tra le altre cose, l’architettura.

Del resto la mappa dello Stato palestinese immaginato da Donald Trump nel quadro del suo “piano di pace” è il risultato di questa strategia: vi si individua un insieme di isolette palestinesi legate le une alle altre da tunnel e ponti, senza omogeneità geografica.

Così in Cisgiordania il visitatore può identificare due mondi con un solo colpo d’occhio: da una parte case palestinesi con i tetti piatti, sparse sul fianco della collina, sopra i campi, dall’altra le colonie, spesso un insieme di edifici tutti uguali, identificabili per i loro tetti rossi, a punta, all’occidentale, e arroccati sulla cima dei rilievi.

In Israele non abbiamo bisogno di quel tipo di tetti, che servono per la neve,” rileva Efran Cohen-Bar. “Ma non volevamo assomigliare a loro (ai palestinesi), volevamo differenziarci.”

Per parte sua Eyal Weizman sostiene che i tetti rossi erano obbligatori: permettono all’esercito israeliano di individuare rapidamente dal cielo le colonie, e quindi i luoghi da non bombardare.

Le case dei coloni israeliani sono disposte in cerchio e “si affacciano sul paesaggio per sorvegliare, per ragioni militari e di sicurezza e per godere del panorama”, spiega. “Da un lato gli israeliani non vogliono palestinesi sul posto, hanno distrutto la loro cultura e vogliono che se ne vadano. Ma dall’altra leggono gli elementi tradizionali del paesaggio, ad esempio gli uliveti e le case di pietra, come rappresentazioni bibliche.”

Perché Israele, pur avendo modificato profondamente il paesaggio palestinese per i suoi scopi strategici, continua a vendere ai turisti e ai suoi abitanti l’immagine di una terra vergine, identica a quella dove gli ebrei vivevano ai tempi della Bibbia.

Quando fanno pubblicità (per spingere la gente a sistemarsi nelle colonie) dicono: ‘Venite a vivere nella natura, venite a vivere nel Paese della Bibbia’,” evidenzia Eyal Weizman. Un paesaggio tuttavia plasmato da quelli che essi [gli israeliani] non vogliono vedere: i palestinesi. È un paradosso,” conclude l’architetto.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)