Sono trascorsi dieci anni, ma il massacro della Mavi Marmara, a cui ho assistito, ancora mi segna

Jamal Elshayyal

30 maggio 2020 – Al Jazeera

Quando, nel 2010, i commando israeliani presero d’assalto la nave Mavi Marmara, vennero uccise nove persone mentre un’altra morì in seguito alle ferite.

Fu una notte che non dimenticherò mai. Un’esperienza che ha consolidato in me la missione fondamentale di essere un giornalista, ma mi ha anche ricordato in che mondo ingiusto viviamo. Dieci anni dopo, la necessità di una stampa libera è ancora più grande e l’ingiustizia del mondo è ancora più evidente.

Ero a bordo della Mavi Marmara, la nave ammiraglia di una flottiglia di natanti che trasportavano aiuti umanitari alla Striscia di Gaza sotto assedio illegale (sulla base del diritto internazionale). Era un grande evento, oltre 600 attivisti umanitari, politici e medici di 40 diverse Nazioni avevano messo insieme questa flotta per consegnare oggetti come incubatrici per bambini e medicine per la gente di Gaza.

I precedenti tentativi di rompere l’assedio marittimo imposto da Israele erano falliti, ma erano stati portati avanti con piccole imbarcazioni che trasportavano una manciata di passeggeri. Questo era diverso. Una campagna coordinata a livello internazionale per far luce sulla difficile situazione dei palestinesi a Gaza, che le Nazioni Unite avevano descritto come “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”. La domanda che tutti si ponevano era: Israele avrebbe ceduto alle pressioni internazionali e avrebbe permesso agli aiuti di entrare, o avrebbe messo in pratica la sua minaccia e fermato le navi “ad ogni costo”, come aveva annunciato sfacciatamente l’allora ministro degli Esteri Avigdor Lieberman.

Un’alba mortale

Verso le 4 del mattino del 31 maggio 2010 ricevemmo la risposta. Nonostante gli attivisti per la pace presenti nella flottiglia avessero cambiato la rotta delle navi e fossero rimasti in acque internazionali, i commando israeliani, a bordo di elicotteri e motoscafi e supportati a distanza da un’enorme nave da guerra, attaccarono. Mentre molti passeggeri pregavano, forti esplosioni di granate assordanti e candelotti lacrimogeni e poi il fragore degli spari di proiettili veri riempirono l’aria. In un attimo, quella che era una notte pacifica nel mezzo del Mar Mediterraneo si trasformò in un’alba di morte e orrore.

Otto cittadini turchi e un cittadino turco americano furono colpiti e uccisi durante l’assalto alla nave, e un altro cittadino turco morì in seguito per le ferite. Altre decine di persone rimasero ferite.

È stato il mio primo reportage importante per Al Jazeera, la prima volta in cui vidi colpire a morte qualcuno di fronte a me: era un collega giornalista. Ucciso da un proiettile alla testa mentre impugnava la macchina fotografica per scattare foto dell’attacco, cercando di documentare ciò che stava accadendo. Quando cadde a terra, parte del suo sangue mi ricoprì le scarpe. Fu un momento vividamente surreale; sono ancora scioccato da come fui allora in grado di girargli intorno puntando su di lui la telecamera per riprendere la sua morte. La testimonianza sulla sua morte venne registrata solo un paio di giorni dopo, mentre ero seduto dentro una cella israeliana dopo essere stato illegalmente arrestato insieme agli altri giornalisti.

Scrissi un breve resoconto, centrato sulla cronologia degli avvenimenti di quella notte, dopo il nostro rilascio dal carcere. Ma 10 anni dopo, mi ritrovo a raccontare alcuni degli avvenimenti più sconvolgenti a cui ho assistito. Come l’impotenza sui volti dei medici mentre lottavano invano per salvare la vita di tre passeggeri che erano stati colpiti dagli israeliani, ma sapendo benissimo che non sarebbero stati in grado di farlo perché non avevano gli strumenti necessari . O l’altruismo dell’organizzatore della flottiglia nel togliersi la camicia bianca e usarla come una bandiera, in piedi di fronte al commando israeliano, per esortarli a smettere di uccidere i passeggeri. O l’anziano palestinese che era stato espulso da casa sua nel 1948 da bambino e sognava di tornare in patria, per poi vederlo piangere nel momento in cui si rese conto che il suo sogno non avrebbe mai potuto diventare realtà.

Sostenere la forza della testimonianza

Il mio lavoro all’epoca era quello di raccontare questa storia in modo onesto e preciso, ed era ciò in cui credo, cosa che ha fatto infuriare le autorità israeliane che durante la mia detenzione hanno finito per trattarmi peggio rispetto agli altri giornalisti. All’epoca il governo israeliano cercò di giustificare il suo attacco alla flotta umanitaria disarmata sostenendo che i passeggeri fossero in possesso di armi e affermando persino che la nave fosse entrata nelle acque territoriali israeliane. Probabilmente sarebbero riusciti a convincere il mondo di tale versione, se non fosse per il fatto che giornalisti come me erano a bordo ed in grado di trasmettere in video le prove che non solo non esistevano armi a bordo, ma anche che al momento dell’attacco ci trovavamo in acque internazionali. Questa è la parte che ha rafforzato in me [la consapevolezza, ndtr.] del potere del giornalismo: garantire che la testimonianza sia sempre chiara e che i potenti non riescano a riscrivere i libri di storia.

Tuttavia la questione è: a che serve mettere le cose in chiaro se le persone innocenti vengono comunque uccise, gli assassini non vengono puniti e i giornalisti che le documentano sono presi di mira?

Non sono sicuro di avere una risposta convincente, perché negli ultimi 10 anni gli alleati di Israele hanno usato il loro potere di veto alle Nazioni Unite per proteggere la potenza occupante dall’affrontare la giustizia, la Corte Penale Internazionale non ha perseguito coloro che hanno ordinato o perpetrato omicidi in alto mare e governi che affermano di sostenere gli ideali di libertà e i diritti umani non hanno fatto nulla per far sì che venga fatta giustizia. Di conseguenza, dal punto di vista di un giornalista, ciò ha portato i miei colleghi non solo ad essere illegalmente detenuti da Israele, come me, ma da allora ha provocato la morte di sette di loro.

Mentre ripenso a quella notte storica e rifletto su cosa è cambiato da allora, mentre sono infuriato perché non è stata fatta giustizia e, per molti aspetti, il mondo si è ancora di più abituato all’assassinio di persone innocenti, sono convinto nel mio intimo che se vogliamo avere qualche possibilità di rendere la nostra realtà un po’ meno ingiusta, dobbiamo proteggere i giornalisti e l’idea di una stampa libera. Perché, mentre le vittime potrebbero non avere mai giustizia, l’opinione pubblica possa almeno essere in grado di avere le idee chiare dopo aver riscontrato delle prove concrete sui suoi schermi e nelle sue fonti di informazione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La riduzione della zona di pesca di Gaza è “una punizione collettiva illegale”

Maram Humaid

30 aprile 2019,  Al Jazeera

La mossa arriva pochi giorni dopo che Israele ha esteso la zona di pesca a 15 miglia nautiche come parte di un accordo di cessate il fuoco

Per i 4.000 pescatori dell’enclave la decisione da parte dell’esercito israeliano di ridurre la zona di pesca accessibile nella Striscia di Gaza assediata non è “una sorpresa”.

Non è arrivata inaspettata. L’occupazione viola sempre gli accordi che riguardano i pescatori della Striscia,” ha detto ad Al Jazeera Zakaria Bakr, capo dell’Unione dei pescatori di Gaza.

Citando un presunto attacco con i razzi, martedì l’esercito israeliano ha detto che fino a nuovo avviso la pesca a Gaza sarà consentita solo fino a 6 miglia nautiche (11 km).

L’iniziativa arriva dopo che il 1 aprile Israele ha esteso la zona fino a un massimo di 15 miglia nautiche, come parte di un cessate il fuoco mediato dall’Egitto tra Israele e Hamas, il gruppo che governa la Striscia di Gaza.

Martedì in un comunicato l’esercito israeliano ha detto che la decisione è stata la risposta a un razzo lanciato dal gruppo Jihad Islamica lunedì sera, un’affermazione che il gruppo palestinese nega. “Le accuse di Israele sono parte della campagna di menzogne contro il movimento della Jihad Islamica,” ha detto ad Al Jazeera il portavoce della Jihad Islamica Mosaab al-Breim.

Fa anche parte della guerra psicologica che ha condotto a lungo contro il popolo palestinese…Il braccio armato della Jihad Islamica non ha confermato il lancio di un razzo verso l’occupazione (israeliana),” ha detto.

Bakr, dell’Unione dei pescatori, ha affermato che la decisione di Israele arriva in un momento critico e che l’accordo di cessate il fuoco non è riuscito ad alleviare l’opprimente blocco di Israele contro la Striscia.

Lo scopo dell’estensione era di migliorare l’economia di Gaza, che si basa molto sul settore ittico.

Molti pescatori hanno manifestato la propria soddisfazione per il gesto insolito, soprattutto in quanto il mese santo del Ramadan è imminente. Ma oggi, dicono, è una situazione “molto triste e difficile”.

Israele inventa sempre dei pretesti (per ridurre la zona di pesca consentita), soprattutto quando si avvicina la stagione della pesca,” dice Bakr.

Le barche nella Striscia di Gaza sono “più attive” durante la primavera che in qualunque altro periodo dell’anno, afferma, sottolineando che la mossa è una continuazione della “sistematica oppressione” di Israele contro i pescatori di Gaza, così come contro i quasi due milioni di abitanti.

Barche disperse

Oltre ai 4.000 pescatori che dipendono dal settore in quanto rappresenta una delle poche opportunità a disposizione per lavorare a Gaza, ci sono almeno altre 1.500 persone che beneficiano della vendita e dell’esportazione del pesce pescato là.

Ma le esportazioni si sono ridotte nel corso degli anni e il declino del settore della pesca a Gaza è tra le molte conseguenze della politica israeliana.

Nel 2007, in seguito alla vittoria di Hamas nelle elezioni che le hanno dato il controllo del territorio assediato, Israele ha imposto un rigido blocco terrestre, aereo e navale.

L’iniziativa ha anche ridotto l’ingresso di materie prime, lasciando la maggior parte delle barche senza le necessarie riparazioni per operare al massimo delle loro potenzialità.

Il limite sempre modificato da Israele riguardante fin dove i pescatori hanno il permesso di navigare nel Mediterraneo ha posto molte barche – e vite – in pericolo.

La barca di Omar Mounir è stata tra le 50 imbarcazioni salpate dalla costa di Gaza martedì mattina.

Questa mattina eravamo in mare, cercando di pescare come al solito,” dice a Al Jazeera il cinquantunenne.

Afferma che le barche erano arrivate al segnale delle 11 miglia nautiche quando hanno visto imbarcazioni della marina militare israeliana arrivare nella loro direzione.

Hanno sparato con cannoni ad acqua per disperdere le barche – alcune si sono rotte e altre più piccole sono affondate,” dice Mounir.

Ci hanno obbligati a girare e a tornare verso la riva, affermando che il limite era stato riportato indietro a sei miglia nautiche…Non abbiamo avuto il tempo di ritirare le nostre reti che avevamo sistemato nell’acqua.”

In base agli accordi di Oslo firmati nel 1993 Israele è obbligato a consentire di pescare fino a 20 miglia marine, ma ciò non è mai stato messo in pratica.

Israele nell’ultimo decennio ha lanciato tre grandi attacchi contro Gaza, che hanno pesantemente danneggiato la maggior parte delle infrastrutture della città. Durante questi attacchi la pesca è stata totalmente vietata.

I pescatori con cui Al Jazeera ha parlato hanno affermato che fare una spedizione di pesca al largo delle coste di Gaza potrebbe arrivare a costare 400 dollari.

Benché la zona consentita fosse stata estesa a 15 miglia nautiche, molti dei pescatori non hanno l’equipaggiamento adeguato o il combustibile per fare tutto il percorso.

Miriam Marmur di “Gisha”, un’organizzazione israeliana per i diritti, ha detto a Al Jazeera che l’ultima mossa israeliana costituisce “una punizione collettiva illegale”.

Israele restringe ed estende regolarmente la zona di pesca di Gaza, spesso come misura punitiva, provocando una grande incertezza e insicurezza,” dice Marmur.

Secondo lei le restrizioni israeliane contro Gaza sono state messe in atto come parte di una politica ufficiale di “guerra economica” contro la Striscia e hanno “poco” a che vedere con la sicurezza.

Dal 30 marzo 2018 i palestinesi della Striscia di Gaza hanno chiesto una fine del blocco e anche il diritto al ritorno nelle terre da cui le loro famiglie sono state espulse durante la fondazione di Israele nel 1948.

Secondo il ministero della Salute di Gaza almeno 6.500 manifestanti sono stati colpiti da cecchini israeliani, che hanno ucciso più di 250 persone tra cui minorenni, giornalisti e medici.

(traduzione di Amedeo Rossi)