Un palestinese rilasciato dal carcere israeliano descrive i pestaggi, la violenza sessuale e la tortura

Gideon Levy e Alex Levac

28 aprile 2024 – Haaretz

Amer Abu Halil, un abitante della Cisgiordania che è stato attivista di Hamas ed è stato incarcerato senza processo, racconta la quotidianità in tempo di guerra che ha vissuto nel carcere israeliano di Ketziot

Non vi è somiglianza tra il giovane seduto insieme a noi per ore nel suo cortile questa settimana e il video del suo rilascio dalla prigione la settimana scorsa. Nella clip lo stesso giovane – con la barba, trasandato, pallido e scarno – sembra camminare a stento; ora è ben curato e sfoggia una giacca rossa con un fazzoletto a quadretti infilato nel taschino. Per 192 giorni in prigione è stato costretto a indossare gli stessi abiti – forse questo spiega la sua attuale estrema eleganza.

E non vi è neppure somiglianza tra ciò che lui racconta in un ininterrotto fiume di parole che è difficile arrestare – resoconti sempre più scioccanti, uno dopo l’altro, supportati da date, esemplificazioni fisiche e nomi – e ciò che sapevamo finora riguardo a quanto accade nelle strutture carcerarie israeliane dall’inizio della guerra. Dal momento del suo rilascio lunedì della scorsa settimana non ha mai dormito di notte per la paura di essere nuovamente arrestato. E vedere un cane per strada lo terrorizza.

La testimonianza di Amer Abu Halil, della città di Dura vicino Hebron, già attivista di Hamas, su quanto avviene nel carcere di Ketziot nel Negev è persino più scioccante dello spaventoso racconto riportato su queste colonne un mese fa da un altro prigioniero, Munther Amira di 53 anni, detenuto nella prigione di Ofer. Amira paragonava la sua prigione a Guantanamo, Abu Halil chiama Abu Ghraib il suo carcere, evocando la famigerata struttura nell’Iraq di Saddam Hussein utilizzata in seguito dagli alleati dopo la caduta di Saddam.

Tra i candidati alle sanzioni USA il Servizio Penitenziario Israeliano dovrebbe essere il prossimo della lista. È palesemente l’ambito in cui gli istinti sadici del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir trovano sfogo.

Siamo stati accompagnati in visita a casa di Abu Halil a Dura questa settimana da due ricercatori sul campo di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: Manal al-Ja’bari e Basel al-Adrah. Il trentenne Abu Halil è sposato con la 27enne Bushra ed è padre di Tawfiq di 8 mesi, nato mentre lui era in prigione. Abu Halil lo ha incontrato per la prima volta la scorsa settimana, ma per lui è ancora emotivamente difficile tenere in braccio il neonato.

Abu Halil è laureato in comunicazioni all’università Al-Quds di Abu Dis, adiacente a Gerusalemme, dove è stato attivo nel settore scolastico di Hamas ed è un ex portavoce dell’agenzia palestinese per le comunicazioni cellulari e wireless Jawwal.

Dal suo primo arresto nel 2019 ha passato un periodo totale di 47 mesi nelle carceri israeliane, molti dei quali in “detenzione amministrativa” – in cui il detenuto non è sottoposto a processo. Una volta lo ha trattenuto anche l’Autorità Nazionale Palestinese, ma non ha riferito dell’interrogatorio. Come alcuni dei suoi fratelli Amer è attivista di Hamas, ma non è “una figura di spicco di Hamas”, dice nelle poche parole in ebraico apprese in carcere.

I fratelli: Umar, di 35 anni, vive in Qatar; Imru, che soffre di un tumore, è detenuto nel carcere di Ofer per la sua attività in Hamas e ha passato sette anni in carceri israeliane e 16 mesi in una prigione palestinese; il 23enne Amar è seduto con noi in una veste bianca e una kefiah – è imam della moschea di Dura e spera di ricoprire presto lo stesso ruolo in una moschea in Nord Carolina, dove vorrebbe emigrare. Dal 2013 tutti i fratelli – Amer, Amar, Imru e Umar, non si sono mai seduti insieme a un pranzo di festa. Qualcuno di loro era sempre in carcere.

Una volta Amer Abu Halil è stato convocato per un interrogatorio dal servizio di sicurezza (interna) Shin Bet con una telefonata a suo padre: “Perché ultimamente non sei andato a pregare in moschea?” gli ha chiesto l’agente dello Shin Bet. “La tua tranquillità è sospetta”. “Quando sono tranquillo mi sospettate, quando non lo sono, ugualmente”, ha detto a chi lo interrogava. Ecco come lo hanno “incastrato”, come si suol dire.

È passato da un interrogatorio all’altro fino al 4 dicembre 2022 quando la sua casa è stata devastata nel cuore della notte, lui è stato nuovamente arrestato e nuovamente posto in detenzione amministrativa senza processo. Questa volta è stata per 4 mesi, rinnovati per due volte, ogni volta per ulteriori 4 mesi. Abu Halil doveva essere scarcerato nel novembre 2023. Ma è scoppiata la guerra e nelle carceri è avvenuto un cambiamento radicale. I termini previsti per il rilascio di tutti i prigionieri di Hamas, tra i quali Abu Halil, sono stati prorogati automaticamente e radicalmente.

Nell’ultimo periodo lavorava come cuoco nel braccio del carcere riservato a Hamas. Il giovedì prima dello scoppio della guerra pensava di preparare dei falafel per i 60 detenuti del reparto, ma poi ha deciso di rimandare i falafel a sabato. Venerdì ha tenuto il sermone per le preghiere del pomeriggio ed ha parlato di speranza.

Sabato si è svegliato alle 6 del mattino per preparare i falafel. Ma i detenuti non avevano più il permesso di prepararsi il cibo o tenere sermoni. Poco più tardi Channel 13 trasmette immagini di fuoristrada di Hamas che attraversano Sderot e una pioggia di razzi sparati da Gaza cade nell’area del carcere, che si trova a nord di Gerusalemme, in Cisgiordania. “Allahu akbar” – “Dio è grande” – dicono i prigionieri di conseguenza, come una benedizione. Si sono rifugiati sotto i letti per ripararsi dai razzi; per un attimo hanno pensato che Israele fosse stato conquistato.

Intorno a mezzogiorno sono arrivati gli agenti penitenziari ed hanno requisito tutte le televisioni, le radio e i telefoni cellulari che erano stati fatti entrare di contrabbando. Il mattino seguente non hanno aperto le celle. L’ammanettamento, le percosse e le violenze sono cominciati il 9 ottobre. Il 15 ottobre numerose forze sono entrate nel carcere ed hanno confiscato tutti gli oggetti personali nelle celle, compresi orologi e addirittura l’anello che portava Abu Halil ed era appartenuto al defunto padre. Quello è stato l’inizio di 192 giorni durante i quali non ha potuto cambiarsi d’abito. La sua cella, prevista per ospitare cinque persone, ne conteneva 20, poi 15 e più di recente 10. Molti di loro dormivano sul pavimento.

Il 26 ottobre numerose forze dell’unità Keter del Servizio Penitenziario, un’unità di intervento tattico, accompagnate da cani di cui uno slegato, sono entrate nel carcere. I guardiani e i cani si sono scatenati attaccando i detenuti le cui urla hanno gettato nel terrore l’intera prigione, ricorda Abu Halil. I muri si sono presto imbrattati del sangue dei reclusi. “Voi siete Hamas, voi siete ISIS, avete stuprato, ucciso, rapito e adesso è arrivato il vostro turno”, ha detto una guardia ai prigionieri. I colpi che sono seguiti sono stati brutali, i detenuti sono stati incatenati.

Le percosse sono diventate quotidiane. A volte le guardie chiedevano ai prigionieri di baciare una bandiera israeliana e declamare “Am Yisrael Chai!” – “Il popolo di Israele vive”. Gli si ordinava anche di ingiuriare il profeta Maometto. La solita chiamata alla preghiera nelle celle è stata proibita. I prigionieri avevano paura di pronunciare qualunque parola con la iniziale “h” per timore che le guardie sospettassero che avessero detto “Hamas”.

Il 29 ottobre è stata interrotta la fornitura di acqua corrente nelle celle, tranne che tra le 14 e le 15,30. E a ogni cella veniva concessa solo una bottiglia per riempirla d’acqua per l’intero giorno, che doveva essere spartita tra 10 compagni, compreso l’uso del bagno dentro la cella. Le porte dei bagni erano state eliminate dalle guardie; i detenuti si coprivano con una coperta quando facevano i loro bisogni. Per evitare il fetore nella cella cercavano di trattenersi fino a che l’acqua fosse disponibile.

Durante l’ora e mezza in cui vi era acqua corrente i prigionieri assegnavano cinque minuti nel bagno ad ogni compagno di cella. In assenza di prodotti per la pulizia, pulivano la toilette e il pavimento con il poco shampoo che gli era fornito, usando le mani nude. Non vi era elettricità. Il pranzo consisteva in una piccola scodella di yogurt, due piccole salsicce mezze crude e sette fette di pane. Alla sera ricevevano una ciotolina di riso. A volte le guardie consegnavano il cibo gettandolo in terra.

Il 29 ottobre i detenuti nella cella di Abu Halil hanno chiesto uno straccio per pulire il pavimento. La risposta è stata mandare nella loro cella la terribile unità Keter. “Ora farete come i cani”, ha ordinato la guardia. Le mani dei prigionieri sono state ammanettate dietro la schiena. Anche prima di essere ammanettati è stato loro ordinato di muoversi solo con la schiena curva. Sono stati portati in cucina dove sono stati denudati e costretti a sdraiarsi uno sopra l’altro, una pila di 10 prigionieri nudi. Abu Halil era l’ultimo. Sono stati picchiati con bastoni e gli hanno sputato addosso.

Poi una guardia ha cominciato a infilare carote nell’ano di Abu Halil e degli altri prigionieri. Ora, seduto in casa raccontando la sua storia, Abu Halil abbassa lo sguardo e il flusso di parole rallenta. E’ molto in imbarazzo nel parlarne. Poi, continua, i cani si sono avventati su di loro attaccandoli. Infine gli è stato permesso di mettersi le mutande prima di essere riportati in cella, dove hanno trovato i loro vestiti gettati in un mucchio.

L’altoparlante nella stanza non taceva un secondo, con insulti al leader di Hamas Yahya Sinwar o una prova suono nel mezzo della notte sulle note di “Svegliatevi maiali!”, per privare del sonno i prigionieri. Le guardie druse insultavano e offendevano in arabo. Sono stati sottoposti a controlli con un metal detector mentre erano nudi e lo strumento è stato usato anche per colpire i testicoli. Durante un controllo di sicurezza il 2 novembre sono stati costretti a cantare “Am Yisrael am hazak” (“Il popolo di Israele è un popolo forte”), una variazione sul tema. I cani hanno urinato sui loro sottili materassi, lasciando un’orribile puzza. Un prigioniero, Othman Assi di Salfit, nella Cisgiordania centrale, ha implorato un trattamento meno severo: “Sono disabile”. Le guardie gli hanno detto: “Qui nessuno è disabile”, ma hanno acconsentito a togliergli le manette.

Ma il peggio doveva ancora arrivare.

5 novembre. Era una domenica pomeriggio, ricorda. L’amministrazione ha deciso di spostare i prigionieri di Hamas dal blocco 5 al blocco 6. I detenuti delle celle 10, 11 e 12 sono stati fatti uscire con le mani legate dietro la schiena e la solita camminata curva. Cinque guardie, i cui nomi Abu Halil riferisce, li hanno portati nella cucina. Sono stati nuovamente denudati. Questa volta sono stati presi a calci sui testicoli. Le guardie gli si avventavano addosso e colpivano, ancora ed ancora. Una brutalità senza tregua per 25 minuti. “Noi siamo Bruce Lee”, gridavano le guardie. Li hanno sbattuti e spinti come palle da un angolo all’altro della stanza, poi li hanno spostati nelle loro nuove celle del blocco 6.

Le guardie sostenevano di aver sentito Abu Halil dire una preghiera per Gaza. A sera l’unità Keter è entrata nella sua cella e ha cominciato a picchiare tutti, compreso il 51enne Ibrahim al-Zir di Betlemme, che è ancora in prigione. Aveva un occhio quasi fuori dall’orbita per i colpi. Poi i prigionieri sono stati fatti stendere a terra mentre le guardie li calpestavano. Abu Halil ha perso conoscenza. Due giorni dopo c’è stato un altro pestaggio ed è nuovamente svenuto. “Questa è la vostra seconda Nakba”, hanno detto le guardie, riferendosi alla catastrofe subita dai palestinesi quando fu fondato Israele. Una delle guardie ha colpito Abu Halil alla testa con un elmetto.

Tra il 15 e il 18 novembre sono stati picchiati tre volte al giorno. Il 18 novembre le guardie hanno chiesto chi di loro fosse di Hamas e nessuno ha risposto. I colpi non hanno tardato ad arrivare. Poi è stato chiesto “Chi di voi è Bassam?” Di nuovo nessuno ha risposto, perché nessuno di loro si chiamava Bassam – e di nuovo è stata chiamata l’unità Keter. Sono arrivati la sera. Abu Halil dice che questa volta è svenuto prima che lo colpissero, per lo spavento.

In quel periodo Tair Abu Asab, un prigioniero di 38 anni, è morto nel carcere di Ketziot. Si sospetta che sia stato picchiato a morte dalle guardie per aver rifiutato di chinare la testa come ordinato. 19 guardie sono state trattenute per essere interrogate col sospetto di aver aggredito Abu Asab. Tutte sono state rilasciate senza accuse.

In risposta ad una richiesta di commento, questa settimana il portavoce del Servizio Penitenziario ha inviato a Haaretz la seguente dichiarazione:

L’Autorità Penitenziaria è una delle organizzazioni di sicurezza di Israele ed agisce secondo la legge, sotto la stretta supervisione di molte autorità di controllo. Tutti i prigionieri sono trattenuti secondo la legge e con rigorosa protezione dei loro diritti fondamentali sotto la supervisione di un personale penitenziario professionale e qualificato.

Non conosciamo le denunce descritte (nel vostro articolo) e per quanto ne sappiamo non sono corrette. Tuttavia ogni prigioniero e detenuto ha il diritto di lamentarsi tramite i canali riconosciuti e i loro reclami verranno esaminati. L’organizzazione opera sulla base di una chiara politica di tolleranza zero di ogni azione che violi i valori del Servizio Penitenziario.

Riguardo alla morte del prigioniero dovreste contattare l’unità per le indagini degli agenti carcerari.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Da quando è iniziata la guerra intere zone della Cisgiordania sono state svuotate delle loro comunità palestinesi

Hagar Shezaf

5 maggio 2024 – Haaretz

Il 7 ottobre ha portato al massimo la violenza dei coloni: da allora 18 comunità di pastori palestinesi sono state espulse dalle proprie case, e ora gli abitanti vivono in abitazioni di fortuna nei pressi di altri villaggi, impoveriti e in ansia per il loro futuro.

Ibrahim Mohammed Malihat guarda verso la valle del Giordano. Dalla zona in cui vive, a circa 20 minuti di macchina da Gerusalemme, si possono vedere ampie distese dove la gente del suo villaggio era solita pascolare le greggi, ma che ora sono sbarrate.

“Ora da qui a Gerico tutto è vuoto. Non andiamo giù o a sud. Tutto è rimasto in mano solo ai coloni, non ci sono posti in cui le greggi possano pascolare,” afferma.

Nel villaggio di Maghayyir A-Dir un gregge di pecore vaga e mangia erba secca sparsa sul terreno. “Le teniamo solo tra le case,” nota Malihat. “Qui ci sono delle telecamere,” aggiunge, indicando una zona presso il villaggio, “e se le pecore escono, i coloni le vedono e mandano uomini con il volto coperto. Ci dicono: ‘Noi siamo la polizia e l’esercito.’”

Il 7 ottobre, dall’inizio della guerra a Gaza, nell’area quattro comunità di pastori sono state cacciate dalle loro zone di residenza a causa di minacce e violenze dei coloni. Altre quattro comunità vicine erano state cacciate nei due anni precedenti, tra il villaggio di Duma e quello di Malihat. Anche un’altra comunità più a sud è stata espulsa. Ciò ha un effetto drammatico sia sulle vite delle comunità rimaste sul posto che su quelle che se ne sono andate. I loro abitanti descrivono un processo di impoverimento e una grande paura per il futuro.

Secondo le stime del ricercatore Dror Atkes dell’ong [israeliana] Kerem Navot che monitora le politiche di insediamento e di gestione del territorio israeliane in Cisgiordania, attualmente nella zona ci sono circa 125.000 dunam (12.500 ettari) in cui ai palestinesi è impedito l’ingresso per timore di violenze e a causa delle restrizioni imposte dai coloni e dall’esercito.

Le terre ad est della strada Allon (la 458), che corre tra Maghayyir A-Dir e Duma, sono state svuotate delle comunità che vi vivevano. Rimangono per lo più colonie e avamposti ebraici. “Qualche anno fa sono arrivati qui coloni della zona di Nablus e Duma, quelli con i riccioli lunghi,” dice Ibrahim, indicandone la lunghezza con le mani. “Gradualmente si sono spostati a sud finché sono arrivati qui. Nessuno del governo gli ha detto di fermarsi. Vai in ogni villaggio della zona e vedrai che là hanno distrutto tutto.”

Avvisi di evacuazione

Una delle maggiori comunità espulse nei mesi dall’inizio della guerra è stata quella del villaggio di Wadi al-Siq, separato da Maghayyir A-Dir solo da un bellissimo “wadi” [torrenti secchi in buona parte dell’anno, ma le cui acque sotterranee consentono, a volte, la crescita della vegetazione, n.d.t.] verde. Nei pressi delle rovine del villaggio, che sono ancora visibili, oggi pascolano vacche del vicino avamposto fondato solo circa un anno fa. La strada che univa i villaggi ora è bloccata da pietre.

Secondo Ibrahim il giorno in cui gli abitanti di Wadi al-Siq sono stati espulsi un gruppo di coloni che conosce, e con cui in precedenza aveva avuto buoni rapporti, è entrato nel suo villaggio. Dice che hanno raccomandato che gli abitanti se ne andassero per 10 giorni perché i coloni erano “arrabbiati” in seguito al 7 ottobre.

Come altre comunità della zona la gente di Wadi al-Siq ha subito violenze e minacce anche prima dello scoppio della guerra, ma dopo sono notevolmente aumentate. I circa 180 abitanti di più o meno 20 famiglie che compongono la comunità sono fuggiti per salvarsi la vita dopo un attacco contro il villaggio il 12 ottobre e le minacce che lo hanno preceduto. Gli abitanti si sono divisi e oggi vivono in rifugi provvisori nei pressi di vari villaggi palestinesi, su terreni su cui non hanno diritti e che temono saranno obbligati ad abbandonare.

“L’11 ottobre abbiamo portato donne e bambini da parenti in un altro villaggio perché dormissero lì. Pensavamo che sarebbe stato per due o tre giorni e poi li avremmo riportati indietro,” racconta Abd el-Rahman Mustafa Ka’abneh dalla sua nuova residenza temporanea su terreni agricoli nei pressi del villaggio di Taybeh. Il giorno dopo, mentre alcuni abitanti del villaggio erano occupati a preparare le loro cose per andarsene, sono arrivati sul posto coloni e soldati e li hanno aggrediti. Vari abitanti e attivisti che erano arrivati per aiutarli sono stati arrestati e detenuti per ore all’interno del villaggio. Alcuni, come già riportato da Haaretz, sono stati picchiati e maltrattati, anche con gravi percosse, ustioni e tentativi di violenza sessuale.

“Ci hanno detto che avevamo mezz’ora per andarcene, la gente è scappata via,” ricorda Ka’abneh. Ingobbito, sembra avvilito mentre descrive quello che è successo: “Non sapevamo dove andare. All’inizio ce ne siamo andati a piedi. C’erano bambini piccoli portati dai genitori e giovani che si sono nascosti nel wadi. Quando è venuto buio la gente dei villaggi di Ramun e Taybeh ci ha dato delle tende.” La polizia ha detto ad Haaretz che sono in corso indagini sull’attacco contro Wadi al-Siq, mentre l’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] ha dato la stessa risposta riguardo a un’inchiesta da parte del reparto investigativo penale dell’esercito sulla condotta dei soldati. Haaretz è venuto a sapere che come parte dell’indagine alcuni soldati e un civile sono stati interrogati e ammoniti. A ottobre l’IDF ha congedato il comandante della forza militare dell’unità della Frontiera del Deserto coinvolta nell’incidente.

Gli abitanti non osano tornare alle proprie case dato che l’esercito non è in grado di assicurare che non verranno aggrediti. Da quando sono scappati le uniche volte che, in coordinamento con l’Amministrazione Civile [l’ente militare che gestisce le questioni civili nei territori palestinesi occupati, ndt.] e scortati da attivisti, sono tornati al villaggio per prendere le cose che avevano lasciato lì hanno scoperto che la maggior parte dei loro beni era sparita.

“Hanno rubato tutto quello che c’era in casa mia. Hanno distrutto e preso tutto: la stufa, gli utensili da cucina, gli armadi,” dice Ka’abneh. “Non abbiamo trovato praticamente niente.” Stima che il valore delle proprietà rubate dalla casa sia di circa 200.000 shekel (circa 50.000 euro).

Nel tentativo di recuperare quello che avevano perso membri della comunità hanno contratto prestiti, venduto parte del loro gregge e ricevuto donazioni da alcune associazioni. “Avevo 100 pecore e ne ho vendute 40 per niente, perché c’era un conflitto e siamo scappati,” dice Suleiman

Lui e la sua famiglia ora vivono nei dintorni del villaggio di Ramun, vicino ad altri abitanti. “Personalmente ho un debito di 40.000 shekel (circa 10.000 euro)” aggiunge. La perdita di pascoli ha colpito gravemente i mezzi di sussistenza degli abitanti, in parte a causa del fatto che ora sono obbligati a cercare foraggio per le greggi a un prezzo significativamente più alto di prima.

Alla fine di marzo gli abitanti, insieme all’organizzazione per i diritti umani Torat Tzedek, hanno presentato una petizione in cui chiedono che lo Stato smantelli gli avamposti costruiti nei pressi del loro villaggio in modo che possano tornare alle proprie case. Nel ricorso, presentato dall’avvocato Tamir Blank, si sostiene che, dato che l’avamposto è fonte di violenza ed è coinvolto in scorrerie sui terreni, lo Stato deve dare la priorità e accelerare la sua evacuazione.

Finché la questione non verrà risolta gli abitanti devono affrontare un futuro incerto. Per esempio Abd el-Rahman Mustafa Ka’abneh e la sua famiglia vivono su un terreno privato di proprietà di un abitante di Taybeh. È temporaneo. Qui non siamo in affitto e l’accordo è che ce ne andremo dopo la guerra. Non pensavamo che la guerra durerasse così tanto,” dice.

La provvisorietà è evidente persino nei minimi dettagli, come il fatto che l’attuale abitazione non ha il bagno. “Non c’è futuro, questa è la fine,” dice Suleiman Ka’abneh. “Questa è la terra di qualcun altro. Ci lasceranno stare qui per quattro mesi, sei mesi, un anno, ma alla fine è la loro terra e non ci vogliono qui.”

Vigilanza costante

Dall’inizio della guerra l’organizzazione per i diritti umani B’Tselem ha documentato l’espulsione dalle proprie case di 18 comunità di pastori in Cisgiordania. Secondo Etkes, riguardo a quanto avvenuto nella zona della strada Allon, bisogna tener conto di un’area più grande di 126.000 dunam [12.6000 ettari] tra Duma e Maghayyir A-Dir. Spiega che, dati gli espropri di terre da parte dello Stato e l’espulsione di altre comunità nella zona tra [la colonia di] Ma’aleh Adumim e le colonie della Valle del Giordano, in effetti ora ci sono circa 160.000 dunam [16.000 ettari] in cui i palestinesi non possono più pascolare [le greggi].

Oltre a quest’area, dall’inizio della guerra altre cinque comunità di pastori nelle colline a sud di Hebron sono state espulse o spostate e due comunità sono state mandate via anche prima della guerra.

A Khirbet Zanuta, la più grande delle comunità espulse dal 7 ottobre nella zona delle colline meridionali di Hebron, la locale scuola è stata danneggiata molto gravemente in quello che sembra essere stato un atto di vandalismo. Durante una visita sul posto circa sei mesi dopo l’espulsione degli abitanti i libri di testo erano sparsi sul terreno tra le macerie e un poster scolastico in inglese pendeva ancora su uno dei muri. Fuori una scritta in arabo adornava quello che rimaneva dell’edificio: “Abbiamo il diritto di studiare,” affermava.

L’espulsione delle comunità è inestricabilmente legata agli avamposti vicini alle terre palestinesi. Gli avamposti sono notevolmente aumentati negli ultimi anni ed è chiaro che gli Stati Uniti e altri Paesi che hanno iniziato a imporre sanzioni contro i coloni lo riconoscono.

Per esempio la comunità di Khirbet Zanuta viveva nei pressi della fattoria Meitarim di Yinon Levy, un avamposto illegale che era sottoposto a sanzioni USA sulla base del fatto che è stato coinvolto in aggressioni e minacce contro i palestinesi. Nel caso di Wadi al-Siq il vicino avamposto che è stato creato all’inizio del 2023 si chiama Havat Machoch e il suo leader è Neria Ben-Pazi, un colono pastore ben noto che nelle scorse settimane è stato anche lui sottoposto a sanzioni USA.

Per qualche mese è stato persino escluso dalla Cisgiordania su ordine del comandante del Comando centrale israeliano. In seguito a questo ordine parecchi rabbini sionisti religiosi, tra cui Dov Lior e Shmuel Eliyahu [noti per le loro posizioni estremiste, ndt.], sono andati a visitare l’avamposto di Ben-Pazi come atto di solidarietà. Le sanzioni contro i coloni sono state accolte con dure proteste da ministri estremisti come Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.

Prima della guerra Mohammed Suleiman Malihat, abitante della comunità di pastori chiamata Maraja’at, attraversava con il suo gregge la strada nei pressi del suo villaggio. Dall’altra parte della strada negli scorsi anni è stato costruito l’avamposto chiamato Fattoria di Zohar: a un certo punto, dopo essere stati ripetutamente cacciati da coloni della zona circostante, tutti i pastori rimasti hanno rinunciato ad attraversarla.

“Dal momento in cui è iniziata la guerra, se i coloni mi vedevano entrare anche solo due metri nella zona arrivavano immediatamente. Mi sono reso conto che per la mia sicurezza non potevo più farlo,” dice Malihat. Ha anche venduto una parte del suo gregge a causa della riduzione della sua terra da pascolo. Dice che da quando anche un’altra zona di pascolo che porta alla colonia di Mevo’ot Yericho è diventata inaccessibile per gli abitanti della comunità, egli pascola solo su terreni vicini al villaggio.

Pochi giorni prima che Haaretz visitasse Maraja’at, nelle vicinanze di Ras al-Uja, un altro dei villaggi della zona, due strutture di proprietà di famiglie fuggite sono state incendiate. Sul posto sono stati ripresi dei coloni e una fonte militare ha confermato ad Haaretz che, secondo quanto a conoscenza dell’IDF, sono stati i coloni a incendiare l’edificio. Il messaggio ha avuto una forte ripercussione tra gli abitanti di Maraja’at. La famiglia di Malihat dice anche che in piena notte a volte i coloni armati si piazzano all’ingresso della loro casa senza dire una parola.

In seguito a ciò la comunità vive in costante allerta. Durante la nostra visita sul posto gli abitanti hanno notato un gregge di proprietà dei coloni che pascolava sopra la collina e la figlia di Malihat, Aaliya, è corsa là a filmarlo mentre altri abitanti chiamavano la polizia. Secondo loro la sensazione di minaccia è peggiorata negli ultimi mesi, soprattutto dopo che la comunità vicina se n’è andata a causa delle vessazioni. “I coloni sono riusciti a cacciarli e ciò ha stimolato la loro ingordigia [di terra],” riflette Malihat. “Da allora hanno iniziato a venire più spesso da noi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




In Cisgiordania i coloni mirano a una seconda Nakba

Tamara Nassar

31 ottobre 2023 – The Electronic Intifada

Hai voluto la guerra quindi aspettati una Grande Nakba.”

Questo è ciò che recitano i volantini diffusi la settimana scorsa da coloni ebrei in un villaggio occupato nel nord della Cisgiordania.

I coloni israeliani stanno mantenendo la promessa di unaltra Nakba o catastrofe, come nel 1948 quando 800.000 palestinesi furono espulsi dalle milizie sioniste o fuggirono dalle loro città e villaggi a causa di una massiccia campagna di pulizia etnica per far posto al nascente Stato di Israele.

Dal 7 ottobre, quando Hamas ha colpito a sangue lestablishment militare e strategico di Israele inducendolo a dare il via ad una campagna di eccidi di massa a Gaza, i coloni israeliani continuano a organizzare attacchi contro le comunità di pastori palestinesi per scacciarli dalle loro terre.

Secondo l’organizzazione di monitoraggio delle Nazioni Unite OCHA dal 7 ottobre i coloni israeliani e le restrizioni allaccesso imposte dalle forze militari di occupazione israeliane hanno cacciato quasi 800 palestinesi dalle loro case e comunità.

Si tratta di quasi 100 famiglie in 15 diverse comunità di pastori e beduini.

I coloni israeliani minacciano i palestinesi con armi, distruggono le loro proprietà, ostacolano il loro accesso allacqua, abbattono i loro alberi, danneggiano i loro veicoli, rubano i loro averi, li intimidiscono e li attaccano fisicamente.

I coloni hanno persino appeso bambole chiazzate di un rosso che sembra sangue vicino a una scuola per bambini palestinesi a ovest di Gerico nella Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata, per intimidirli e minacciarli.

Ciò costringe le comunità palestinesi, composte in gran parte da famiglie e bambini, a lasciare i loro luoghi per paura di attacchi mortali.

In assenza di interventi immediati molti altri rischiano nei prossimi giorni di essere costretti alla fuga” hanno affermato domenica delle organizzazioni israeliane per i diritti umani, in una dichiarazione firmata da più di 30 associazioni.

Hanno lanciato lallarme su quella che hanno descritto come unondata di violenza da parte dei coloni col sostegno dello Stato che ha portato, e sta portando, al trasferimento forzato delle comunità palestinesi in Cisgiordania”.

Le organizzazioni per i diritti umani affermano che il governo israeliano sostiene attivamente gli attacchi dei coloni contro i palestinesi e non fa nulla per fermarli.

Aggiungono che i ministri del governo e altri funzionari sostengono la violenza e in molti casi i militari sono presenti o addirittura partecipano alle azioni violente, di cui alcune caratterizzate dall’assassinio di palestinesi da parte di coloni”.

Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha distribuito armi ai civili israeliani, compresi quelli che vivono negli insediamenti coloniali per soli ebrei nella Cisgiordania occupata.

Secondo lOCHA dal 7 ottobre i coloni hanno effettuato quasi 170 attacchi contro i palestinesi. Queste cifre includono lesioni inferte ai palestinesi e danni alla proprietà.

Più di un terzo degli attacchi è caratterizzato da minacce con armi da fuoco da parte dei coloni contro i palestinesi, afferma lOCHA.

Nella metà dei casi le forze di occupazione israeliane hanno scortato i coloni o hanno partecipato attivamente agli attacchi.

Questo è il modo in cui lo Stato sfrutta i combattimenti a Gaza per promuovere trasferimenti forzati in Cisgiordania, ha detto BTselem a proposito di uno degli incidenti.

Almeno sette palestinesi sono stati uccisi dai coloni, incaricati dalla massima leadership israeliana di portare avanti i pogrom.

Le colline a sud di Hebron

Uno degli obiettivi principali degli sfollamenti forzati sono state le comunità di pastori nelle colline a sud di Hebron.

Quasi 4.000 palestinesi vivono all’interno di comunità di agricoltori e pastori nelle colline a sud di Hebron, che si trovano nella cosiddetta Area C, il 60% della Cisgiordania che rimane sotto il pieno controllo militare di Israele e comprende i più estesi insediamenti coloniali israeliani.

Nell’area C Israele impone ai palestinesi un divieto quasi totale di costruire e li costringe a farlo senza permessi e a vivere nella costante paura che le loro case vengano demolite dai bulldozer israeliani.

Inoltre in tale area lesercito israeliano applica quella che appare come una politica di disimpegnonei confronti della violenza dei coloni. In base alla legge israeliana i coloni israeliani sono trattati come civili mentre i palestinesi sono sottoposti ad una giurisdizione militare oppressiva.

Per giunta i coloni attaccano le comunità palestinesi nella quasi totale impunità e spesso con laiuto e la scorta delle forze di occupazione.

Ciò fa parte dellinstancabile sforzo di Israele di cambiare la situazione demografica nellarea per garantire una maggioranza ebraica. Israele, lavorando fianco a fianco con i suoi coloni, spinge i palestinesi fuori dalle loro terre per stabilire sul campo presupposti concreti per poi annettere quelle aree.

Sotto la minaccia delle armi”

Sabato sera i coloni hanno minacciato delle famiglie palestinesi della comunità di Khirbet Tuba, che si trova a circa due chilometri dal villaggio di al-Tuwani a Masafer Yatta, sulle colline a sud di Hebron.

I coloni hanno fatto irruzione nella casa di una famiglia palestinese, hanno distrutto i loro averi e gli hanno ordinato di andarsene. I coloni hanno minacciato con un fucile un ragazzo di 15 anni che cercava di filmare l’attacco.

Sono poi tornati allalba mascherati, hanno rubato il telefono del ragazzo e le pecore della famiglia e hanno danneggiato una tubatura dellacqua di loro proprietà.

Nel fine settimana più di 250 palestinesi che vivono a Khirbet Zanuta, una località a sud di Hebron nella Cisgiordania meridionale occupata, dopo ripetuti attacchi, molestie e minacce da parte dei coloni israeliani sarebbero stati sfollati con la forza.

Il 21 ottobre un attacco da parte di coloni armati ha costretto una famiglia di 16 persone a lasciare un’altra comunità nelle colline meridionali di Hebron. A Khirbet al-Ratheem i coloni hanno danneggiato una struttura residenziale, un ricovero per animali e un pannello solare di proprietà della famiglia.

Dopo aver distrutto le nostre proprietà ci hanno minacciato con le armi, ha detto allOCHA Abu Safi, un membro della famiglia di 76 anni.

Andar via è stata lunica scelta possibile per proteggere la mia famiglia”.

In un caso i coloni indossavano gli abiti dei riservisti dellesercito israeliano e hanno sparato proiettili veri contro i palestinesi:

Le organizzazioni israeliane per i diritti umani hanno affermato che si sono verificati numerosi incidenti in cui i coloni hanno attaccato le comunità palestinesi con addosso uniformi militari e usando armi fornite dal governo”.

L’OCHA riferisce che il 9 ottobre i coloni israeliani hanno minacciato di morte i palestinesi della comunità di al-Ganoub, nel sud di Hebron, se non se ne fossero andati via entro unora”.

I coloni israeliani hanno appiccato il fuoco a due edifici residenziali con all’interno tutti gli averi delle famiglie e hanno rubato il loro bestiame. Cinque famiglie, composte da 40 palestinesi, sono state costrette a lasciare le proprie case.

Quello che mi tratteneva qui erano la mia tenda e le mie capre, ha detto allOCHA Abu Jamal, 75 anni, facente parte della comunità.

Nel momento in cui i coloni hanno incendiato la nostra tenda e rubato le mie capre hanno distrutto tutto ciò che mi tratteneva qui”.

Il 12 ottobre a Nablus dei coloni armati hanno minacciato con le armi una comunità di pastori sfollando con la forza più di 50 persone.

I coloni hanno minacciato la comunità che le loro tende sarebbero state incendiate e che sarebbero stati uccisi. Abu Ismail, 52 anni, ha detto allOCHA: non avevo altra scelta che abbandonare tutto per proteggere i miei figli”.

Dei coloni armati hanno attaccato, minacciato e intimidito i residenti palestinesi di Wadi al-Siq, una comunità beduina nella Cisgiordania occupata, finché non se ne sono andati. Dopo aver espulso la comunità, i coloni hanno preso d’assalto la scuola locale e saccheggiato ciò che era rimasto.

Sempre nella Cisgiordania occupata più di 120 palestinesi sono stati sfollati con la forza dopo che le forze israeliane hanno demolito le loro case con il pretesto della mancanza di un permesso di costruzione o a fini punitivi.

Con la politica delle demolizioni punitive Israele distrugge le case dei familiari dei palestinesi accusati di aver compiuto attacchi contro gli israeliani. Intere famiglie sono spesso lasciate senza riparo a causa di questa politica, facendone una forma di punizione collettiva.

Laumento della violenza dei coloni avviene mentre il fuoco israeliano ha causato dal 7 ottobre la morte di almeno 115 palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Secondo la documentazione raccolta da DCIP [Defence for Children International Palestine, sezione palestinese di una ONG internazionale per la difesa dei diritti dei minori, ndt.], durante tale periodo nella Cisgiordania occupata sono stati uccisi trentasei bambini palestinesi.

La raccolta delle olive

Con la raccolta annuale delle olive che inizia a ottobre i coloni hanno rubato olive e danneggiato alberi in tutta la Cisgiordania occupata.

I coloni hanno anche attaccato gli agricoltori palestinesi che cercavano di raccogliere le loro olive.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani citate “gli agricoltori palestinesi sono particolarmente vulnerabili in questo momento, durante la stagione annuale della raccolta delle olive, perché se non possono raccogliere le olive perderanno il reddito di un anno”.

Gli attacchi dei coloni sono diventati una componente consueta della stagione della raccolta delle olive e una seria minaccia per la vita e i mezzi di sussistenza dei palestinesi.

Sabato dei coloni ebrei hanno ucciso a colpi di arma da fuoco un contadino palestinese mentre stava raccogliendo le olive nella sua terra nella città di al-Sawiya, nella Cisgiordania settentrionale occupata, a sud di Nablus.

(Traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




I coloni approfittano della guerra di Gaza per lanciare pogrom in Cisgiordania

Yuval Abraham

13 ottobre 2023 – +972 Magazine

Coloni e soldati israeliani hanno ucciso 51 palestinesi [questo numero è in costante aumento, ndt.] in Cisgiordania la scorsa settimana, con due villaggi completamente spopolati dopo gli attacchi

Questo articolo è stato prodotto in collaborazione con Local Call e The Intercept.

Mentre il mondo si concentra sul massacro di Hamas nel sud di Israele e sul massiccio bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, i coloni nella Cisgiordania occupata stanno approfittando del caos per attaccare ed espellere i palestinesi da una serie di piccoli villaggi.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese a Ramallah da sabato soldati e coloni israeliani hanno ucciso 51 palestinesi in Cisgiordania. Almeno due villaggi, Al-Qanub e Wadi Al-Sik, sono stati completamente spopolati a causa delle violenze dei coloni israeliani.

Un palestinese di At-Tuwani, villaggio nella regione di Masafer Yatta sulle colline a sud di Hebron, è in condizioni critiche dopo che un colono, accompagnato da un soldato israeliano, ha invaso la comunità venerdì e gli ha sparato a bruciapelo. L’attacco è stato documentato dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

I soldati israeliani stanno istituendo nuovi posti di blocco per bloccare i movimenti degli abitanti dei villaggi palestinesi. Giovedì sera, vicino a Yabrud, a nord-est di Ramallah i soldati hanno sparato contro un veicolo che trasportava una famiglia palestinese, secondo i membri della famiglia. Randa Abdullah Abdul Aziz Ajaj, 37 anni, è stata uccisa e suo figlio, Ismail Ajaj, è stato colpito a un piede e a una spalla. A bordo del veicolo c’erano anche il marito e un altro bambino, ma non sono rimasti feriti. Un portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che i soldati hanno aperto il fuoco perché l’auto “guidava all’impazzata” e i soldati si sentivano minacciati.

In tutta la Cisgiordania gli abitanti palestinesi stanno assistendo a una crescente presenza di coloni armati intorno ai loro villaggi, a più blocchi stradali militari e a restrizioni di movimento più severe. Un residente del villaggio di Qaryut ha riferito: “In questo momento viviamo effettivamente sotto assedio. La maggior parte dei villaggi in Cisgiordania sono chiusi da cumuli di terra ed è impossibile uscirne”. “Ci sono coloni ovunque. Ogni volta che ci avviciniamo alle case vicine a un insediamento ci sparano. Stanno approfittando della situazione della sicurezza a Gaza per vendicarsi sulla Cisgiordania. Perché nessuno ora fa attenzione alla Cisgiordania”.

Mercoledì, nel villaggio di Qusra vicino a Nablus, tre palestinesi – Moa’th Odeh, Musab Abu Rida e Obida Abu Sarur – sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco, mentre una bambina di 6 anni è stata ferita alla parte superiore del corpo. Non è chiaro chi abbia aperto il fuoco su di loro. Secondo tre testimoni oculari e il personale medico che ha curato i feriti sul posto l’attacco è iniziato con coloni mascherati che sparavano contro le case del villaggio. Le riprese video mostrano sei uomini mascherati, armati di pistole e fucili M-16, che aprono il fuoco all’interno del villaggio. Più tardi quello stesso giorno, secondo testimoni oculari, anche un altro abitante, Hassan Abu Sarur, 13 anni, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco quando i soldati sono entrati dopo che i coloni si erano ritirati dal villaggio.

I media palestinesi hanno riferito giovedì che i coloni hanno attaccato i funerali dei quattro residenti di Qusra che erano stati uccisi il giorno prima. Secondo il Ministero della Sanità palestinese i coloni hanno ucciso a colpi di arma da fuoco padre e figlio, Ibrahim e Ahmed Wadi.

Nei due giorni precedenti i coloni di Esh Kodesh e dell’area circostante avevano inviato messaggi di avvertimento agli abitanti di Qusra in cui minacciavano di vendicarsi in risposta all’assalto di Hamas nel sud di Israele. In una foto, inviata agli abitanti pochi giorni fa, si vede un gruppo di uomini mascherati con in mano serbatoi di carburante, una sega elettrica e asce, con una didascalia in ebraico e arabo: “A tutti i topi di fogna del villaggio Qusra, vi stiamo aspettando e non ci dispiacerà per voi. Il giorno della vendetta sta arrivando”.

Secondo un abitante di Qusra, che ha chiesto di essere identificato solo con il suo nome, Abed, “Tutto è iniziato a mezzogiorno, quando 20 uomini mascherati hanno invaso il villaggio e hanno preso a sassate le case delle famiglie che vivevano ai margini del villaggio. Provenivano dall’avamposto di Esh Kodesh. Siamo corsi lì per far uscire le famiglie dalle loro case, perché i coloni hanno cercato di dare fuoco a una delle case. Dentro c’erano una madre, un padre e una ragazza. Mentre cercavamo di far uscire di casa la bambina, hanno iniziato a spararci addosso colpendo la bambina. Hanno ucciso tre persone”.

Secondo testimoni oculari, almeno 15 palestinesi sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco. Il personale medico che ha curato i feriti ha affermato che le condizioni di alcuni di loro erano critiche.

Bashar al-Kariyuti, un autista di ambulanza palestinese arrivato sul posto durante l’attacco ha riferito: “Ho evacuato una ragazza a cui hanno sparato; è rimasta ferita all’interno della sua casa e stava sanguinando, anche il padre della ragazza è stato colpito in faccia. Era impossibile riconoscerlo”.

Ahmed, un terzo testimone oculare dell’incidente che ha chiesto che il suo cognome fosse omesso per motivi di sicurezza, ha raccontato che i militari sono rimasti all’interno del loro posto di osservazione mentre i coloni aprivano il fuoco contro i residenti di Qusra. Ha affermato: “Mio cugino è stato colpito alla testa, mio fratello è stato colpito proprio all’ingresso di casa sua, poi i soldati hanno preso il [videoregistratore digitale] che registrava tutto; un’ora dopo l’evento sono entrati e hanno confiscato le telecamere. Sono sicuro che lo hanno fatto per cancellare le prove”.

Gli abitanti di Qusra hanno riferito che un piccolo numero di soldati ha accompagnato i coloni durante l’attacco. Secondo loro quando gli abitanti del villaggio hanno lanciato pietre contro i coloni per respingerli i soldati hanno sostenuto i coloni con le armi da fuoco.

Commentando l’attacco un portavoce militare israeliano ha detto: “Una forza dell’esercito che operava alla periferia di Qusra ha riferito di aver sentito degli spari. Si sta indagando sulla denuncia secondo cui i palestinesi sarebbero stati colpiti da colpi di arma da fuoco”.

Secondo Yesh Din, un gruppo israeliano per i diritti umani, oltre a Qusra dall’assalto di Hamas di sabato i coloni hanno attaccato almeno 18 villaggi palestinesi in tutta la Cisgiordania. L’esercito ha annunciato che, a causa della situazione di sicurezza, la polizia distribuirà fucili M-16 ai coloni in Cisgiordania. Le organizzazioni mediatiche affiliate ai gruppi di coloni estremisti della zona hanno invitato i coloni a prepararsi a “conquistare i villaggi vicino a voi” e a “distruggere chiunque si unisca al nemico”.

Lunedì la violenza dei coloni ha portato all’espulsione di tutti gli abitanti di Al-Qanub: un piccolo villaggio a nord di Hebron che comprende otto famiglie e che si trova vicino agli insediamenti di Ma’ale Amos e Asfar. Gli abitanti del villaggio hanno detto che i coloni hanno bruciato tre case – fatte di tondini di ferro ricoperti di panno spesso – con tutti i loro averi all’interno.

“[I coloni] sono venuti da noi, mi hanno afferrato e hanno detto che avevamo un’ora per lasciare il villaggio”, ha detto Abu Jamal, un abitante di Al-Qanub. “Poi sono arrivati circa 10 coloni, hanno versato benzina e hanno dato fuoco alla mia casa. Là vivevano sette persone. Gli armadi, il cibo, tutto ha preso fuoco. Hanno anche bruciato la casa di mio figlio e hanno rubato tutte le mie pecore e i miei mezzi di sostentamento. Non torneremo lì. Ho 67 anni e i miei figli sono psicologicamente traumatizzati”.

Wa’ed, un’abitante del villaggio, ha preso i suoi figli e si è nascosta in una valle vicina. Ha riferito: “Ho dei figli, un bambino di 6 mesi, uno di 2 anni e uno di 5 anni, sono corsa a nascondermi con loro nella valle quando sono entrati i coloni. Ho sentito il rumore delle esplosioni e ho pensato che avessero ucciso mio marito. Quando se ne sono andati ho visto che avevano bruciato tutte le nostre cose”.

Le famiglie che vivono alla periferia di Turmus Ayya, vicino all’insediamento di Shiloh, hanno affermato che otto coloni armati e parzialmente vestiti con uniformi militari hanno ordinato loro di lasciare le loro case; hanno anche istituito una sorta di checkpoint che presidiano da quel momento. Abdullah, un abitante del posto, ha detto: “Il primo giorno di guerra un gruppo di coloni ha costruito una postazione a pochi metri dalle nostre case, ha chiuso la strada di accesso alle case e da allora è sempre stato lì. Siamo 25 persone, molti bambini e donne, che non possono uscire né entrare nel villaggio. Raggiungiamo le nostre case attraverso gli uliveti. Chiunque esce di casa, comprese le donne, viene fermato e perquisito”.

Martedì in una zona montuosa nel sud di Hebron i coloni hanno attaccato violentemente i residenti di due minuscoli villaggi e i coloni hanno demolito due case nel villaggio di Simri precedentemente abbandonato dai suoi abitanti a causa della violenza dei coloni.

Tre coloni sono venuti per i miei figli. Uno con un’arma dell’esercito, il secondo con una pistola, il terzo con un coltello”, ha detto un anziano residente ricoverato in ospedale con ferite alla schiena e alle gambe, che ha chiesto di rimanere anonimo per paura che i coloni si vendicassero di lui. “Mi hanno detto di stare zitto e hanno iniziato a picchiarmi con il calcio di un fucile. Mi hanno buttato a terra, hanno chiuso la porta di casa ai bambini e hanno picchiato anche mia moglie al petto. Hanno detto che ormai è una guerra e che se dico qualcosa ai media torneranno di notte e bruceranno la mia famiglia. Ho gridato loro che sono un pastore e che non sono collegato alla guerra di Gaza”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Attivisti di sinistra e palestinesi arrestati dopo lo scontro con coloni della Cisgiordania

Hagar Shezaf

26 settembre 2023 – Haaretz

Secondo la polizia lo scontro è iniziato quando gli attivisti sono arrivati nel villaggio palestinese di Khirbet Karameh, che si trova vicino a una colonia. L’incidente segue un periodo di rapida escalation di violenza sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza.

Sei palestinesi e tre attivisti israeliani di sinistra sono stati arrestati martedì dopo essersi scontrati con i coloni nell’insediamento di Otniel, in Cisgiordania, sulle colline a sud di Hebron.

Secondo una dichiarazione rilasciata dalla polizia lo scontro è iniziato quando gli attivisti israeliani e palestinesi sono arrivati al villaggio palestinese di Khirbet Karameh che si trova in prossimità della colonia.

Le forze di polizia arrivate sul posto hanno arrestato tre attivisti israeliani di sinistra per interrogarli con l’accusa di aggressione e danneggiamento. Sono stati rilasciati nonostante la polizia avesse chiesto di prolungare la loro detenzione.

La polizia ha anche arrestato sei palestinesi sospettati di aggressione, danneggiamento e violazione di domicilio. Nella tarda giornata di martedì è fissata l’udienza davanti ad un tribunale per discutere la proroga della loro detenzione.

Lo scontro a Otniel segue un periodo di rapida escalation di violenza sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Sabato un attacco di droni dell’esercito israeliano ha colpito una posizione di Hamas nel nord della Striscia di Gaza.

L’esercito israeliano ha affermato che l’attacco è stato condotto in risposta al fuoco di un militante che aveva sparato contro le truppe israeliane nella zona durante una manifestazione. Secondo l’esercito un miliziano di Hamas è stato colpito dal fuoco israeliano.

Domenica le organizzazioni palestinesi Hamas, Jihad islamica e il Fronte popolare per la Liberazione della Palestina hanno annunciato di aver concordato di continuare ad aumentare la tensione sulla sicurezza e le azioni violente contro Israele.

In una dichiarazione congiunta le fazioni hanno affermato di aver concordato di aumentare il coordinamento tra loro per “affrontare l’aggressione di Israele”. La decisione è stata presa nel corso di un incontro a Beirut a cui hanno partecipato alti funzionari dei gruppi militanti.

La settimana scorsa attivisti dell’organizzazione israeliana di estrema destra Im Tirtzu hanno importunato una delegazione di diplomatici stranieri in visita alle comunità palestinesi vicino a Ramallah in Cisgiordania guidata dal gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem.

Gli attivisti di estrema destra hanno molestato i diplomatici e hanno seguito il gruppo nella sua visita in un villaggio palestinese nell’’area B della Cisgiordania – un territorio sotto il controllo civile palestinese ma sotto controllo di sicurezza congiunto con Israele. Gli attivisti sono stati successivamente arrestati dalle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese e trasferiti in Israele.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I pogrom funzionano: gli sfollamenti sono già in atto

B’Tselem

21 Settembre 2023 – B’Tselem Publications

Da decenni Israele mette in pratica una serie di misure programmate per rendere invivibile la vita all’interno di decine di comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania. Ciò fa parte di un tentativo di costringere gli abitanti di queste comunità ad andarsene via, apparentemente di propria iniziativa. Una volta raggiunto questo scopo lo Stato potrà realizzare il suo obiettivo di impossessarsi del territorio. Per raggiungere questo obiettivo Israele vieta ai componenti di queste comunità di costruire case, strutture agricole o edifici pubblici. Non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o di costruire strade e quando, non avendo altra scelta, lo fanno Israele minaccia la demolizione, passando spesso alle vie di fatto.

La violenza dei coloni è un altro strumento utilizzato da Israele per creare ulteriori tormenti ai palestinesi che vivono in queste comunità.

Sotto lattuale governo tali aggressioni sono notevolmente peggiorate trasformando la vita in alcuni luoghi in un incubo senza fine e negando agli abitanti qualsiasi possibilità di vivere con un minimo di dignità. La violenza ha privato gli abitanti palestinesi della loro capacità di continuare a guadagnarsi da vivere. Li ha terrorizzati al punto da temere per le loro vite e ha inculcato in loro la consapevolezza che non c’è nessuno che li protegga.

Questa realtà non ha lasciato a queste comunità altra scelta e molte di loro si sono sradicate, abbandonando le proprie abitazioni per luoghi più sicuri. Vivono in simili condizioni decine di comunità sparse in tutta la Cisgiordania. Se Israele continuasse questa politica tutti gli abitanti potrebbero essere sfollati, permettendo a Israele di raggiungere il suo obiettivo e di impossessarsi della loro terra.

Lo sfondo

Decine di comunità di pastori palestinesi sono sparse in tutta la Cisgiordania. Poiché Israele classifica queste comunità come non riconosciute, non consente loro di collegarsi alle reti idriche ed elettriche o al sistema stradale. Israele considera inoltre illegalitutti gli edifici costruiti in queste comunità (case, edifici pubblici e strutture agricole) ed emette ordini di demolizione nei loro confronti, che in alcuni casi esegue. Alcuni edifici sono stati demoliti e ricostruiti più volte.

Negli ultimi anni i coloni hanno costruito con laiuto dello Stato decine di avamposti e piccole fattorie vicino a queste comunità e da allora la violenza contro i palestinesi che vivono nellarea è aumentata, con un’impennata particolare sotto lattuale governo. Durante questi attacchi violenti, diventati una terrificante routine quotidiana, i coloni mandano via i pastori e gli agricoltori palestinesi dai loro pascoli e campi, aggrediscono fisicamente gli abitanti delle comunità, entrano nelle loro case nel cuore della notte, danno fuoco a proprietà palestinesi, spaventano il bestiame, distruggono i raccolti, compiono dei furti e bloccano le strade. Gli abitanti palestinesi hanno anche riferito che i coloni hanno aperto le valvole dei serbatoi dell’acqua e hanno condotto le loro greggi a bere nei bacini idrici palestinesi.

In tali circostanze gli abitanti di queste comunità non hanno più potuto continuare a recarsi nei loro pascoli e campi agricoli. In alcuni luoghi, in assenza dei palestinesi, i coloni hanno iniziato a coltivare i loro campi sotto la protezione dei soldati. In altri luoghi i coloni hanno iniziato a far pascolare le greggi di loro proprietà in pascoli che fino a poco tempo fa erano stati utilizzati dai pastori palestinesi. Senza accesso ai pascoli, i palestinesi sono stati costretti ad acquistare a costi elevati foraggio e acqua per le loro greggi, il che ha causato perdite finanziarie significative, distruggendo di fatto i loro mezzi di sussistenza.

Lattuale governo gioca un ruolo significativo in questo stato di cose. Sebbene non abbia introdotto restrizioni riguardo alla costruzione e demolizione di case palestinesi e alluso della violenza da parte dei coloni per prendere il controllo della terra palestinese, conferisce piena legittimità alla violenza dei coloni contro i palestinesi incoraggiando e sostenendo pubblicamente i responsabili. Membri di questo governo sono stati in passato artefici di tali violenze. Ora sono loro le persone incaricate di programmare la politica. Stanziano i fondi che finanziano la violenza e sono responsabili dellapplicazione della legge sui coloni che attaccano i palestinesi.

Questo governo non si preoccupa nemmeno di esprimere quelle vuote condanne che un tempo si udivano dopo questi atti di violenza, elogiando al contrario i coloni violenti. Laddove i governi precedenti insistevano nel mantenere in piedi la farsa di un sistema giudiziario efficiente nell’indagare e perseguire gli israeliani che provocassero dei danni ai palestinesi, i membri di questo governo sono impegnati a cancellarne ogni traccia, con un ministro che chiede di cancellare Huwarah” [il ministro delle finanze Bezalel Smotrich a proposito del pogrom nella città palestinese nella Cisgiordania settentrionale, ndt.], membri dei partiti della coalizione che visitano in ospedale un israeliano sospettato di aver ucciso un palestinese e ministri che si rifiutano di condannare la violenza, il tutto tollerando e giustificando un pogrom dopo l’altro nelle comunità palestinesi.

Le prime a subire le conseguenze di questo cambiamento sono le comunità palestinesi più isolate e vulnerabili. Queste comunità vivono nelle condizioni più elementari, circondate da avamposti di insediamento coloniale i cui abitanti hanno carta bianca per far loro del male impunemente. Se i palestinesi di comunità più consolidate come Turmusaya e Um Safa non hanno ricevuto alcuna protezione mentre i soldati e gli agenti di polizia spalleggiavano i responsabili dei pogrom, che speranza hanno gli abitanti di sperdute comunità di pastori? Il timore per la loro stessa sopravvivenza, la consapevolezza che insieme ai propri figli essi siano stati abbandonati al loro destino, il tutto perdendo le fonti di reddito, li ha, comprensibilmente, privati della possibilità di continuare a vivere nelle loro comunità e li ha costretti ad andarsene.

Le comunità sfollate

Negli ultimi due anni almeno sei comunità della Cisgiordania sono state costrette a sfollare.

Quattro delle comunità vivevano a nord e nord-est di Ramallah. Alcuni dei loro componenti abitavano su terreni di proprietà di altri palestinesi che avevano accettato di lasciarli vivere lì dopo la loro cacciata da altri luoghi in Israele e in Cisgiordania. Negli ultimi anni, con laiuto dello Stato, attorno a queste comunità sono stati creati diversi avamposti coloniali residenziali e agricoli israeliani, il primo dei quali, Michas Farm, è stato fondato nel 2018. Come altrove in Cisgiordania, questi avamposti coloniali sono stati quasi immediatamente collegati alle reti idriche ed elettriche, nonché alla rete stradale. Hanno goduto dellimmunità dalle demolizioni e i loro abitanti lavorano in pieno concerto con i militari, che forniscono loro protezione. Alcuni di questi avamposti sono stati realizzati in aree dove, ufficialmente, non può essere costruita alcuna comunità, poiché Israele le ha dichiarate zone di tiro, ma hanno comunque ricevuto il sostegno dello Stato.

Le quattro comunità sfollate in quest’area sono:

  • Ras a-Tin: Il 7 luglio 2022, i circa 120 componenti di questa comunità, circa la metà dei quali minorenni, se ne sono andati via. La comunità venne fondata alla fine degli anni ’60 da palestinesi che Israele aveva sfollato dalle colline a sud di Hebron su terreni palestinesi di proprietà privata e registrati appartenenti ai residenti di Kafr Malik e al-Mughayir. Nel corso degli anni, lamministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele aveva demolito tre edifici non residenziali della comunità. L’Amministrazione Civile aveva emesso un ordine di demolizione anche per la scuola costruita dagli abitanti della comunità. Nel 2018 vicino alla comunità è stata costruita Michas Farm, un avamposto di insediamento coloniale, e in seguito alla sua fondazione gli abitanti della comunità hanno segnalato un aumento significativo di episodi di violenza, tra cui molestie, furti, atti di vandalismo e violenze verbali, che sono diventati una routine quotidiana.

  • Ein Samia: il 22 maggio 2023 gli ultimi abitanti rimasti della comunità di Ein Samia costituita da 28 famiglie per un totale di circa 200 componenti, hanno abbandonato le loro case. La comunità si stabilì in quel sito su terreni dati in affitto dagli abitanti della vicina Kafr Malik nel 1980, dopo essere stata costretta dagli israeliani a sfollare più volte da altre località. Nel corso degli anni l’amministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito 21 case della comunità, che ospitavano 83 persone, tra cui 52 minori, oltre ad altri 28 edifici non residenziali. LAmministrazione Civile ha inoltre emesso un ordine di demolizione per la scuola della comunità, utilizzata da circa 40 bambini. Nell’ottobre 2022 il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto una petizione presentata dagli abitanti del luogo perché ne venisse sospesa la demolizione. Gli abitanti se ne sono andati prima che l’ordine di demolizione fosse eseguito. Anche gli abitanti di Ein Samia hanno segnalato un aumento significativo della violenza dei coloni a partire dal 2018. Una settimana prima che la comunità se ne andasse, la polizia ha confiscato agli abitanti decine di pecore e capre con la falsa accusa che fossero state rubate ai coloni. Durante la notte i coloni sono entrati nella comunità, hanno attaccato gli abitanti e la scuola, hanno fatto volare un drone sopra di loro e hanno dato fuoco ai pascoli. Inoltre hanno lasciato libero il loro gregge nei campi agricoli della comunità e gli animali hanno consumato lintero raccolto.

  • al-Baqah: Il 10 luglio 2023 33 persone, tra cui 21 minori, sono state costrette a sfollare. Il 1 settembre 2023 è stata allontanata anche lultima famiglia rimasta, composta da 5 persone di cui un minore. La loro partenza è stata preceduta da attacchi quotidiani da parte di coloni che avevano costruito una fattoria a circa 50 metri dalle case della comunità, avevano installato pannelli solari, si erano collegati alle infrastrutture idriche che servono il vicino avamposto di Neve Erez e avevano preso il controllo della via di accesso della comunità alla strada principale. I coloni facevano anche pascolare il loro gregge, che contava tra 60 e 70 capi di pecore, nei pascoli della comunità e molestavano i pastori del luogo che portavano al pascolo le proprie greggi. Il 7 luglio 2023, intorno alle 6,30, una tenda della comunità, più isolata rispetto alle altre, è stata incendiata. La famiglia in quel momento era fuori, poiché sin dalla fondazione dell’avamposto trascorreva le notti altrove per paura di attacchi da parte dei coloni. La famiglia ha visto l’incendio da lontano e ha chiamato la polizia, ma non è intervenuto nessuno.

  • al-Qabun: La comunità, che ospitava 12 famiglie per un totale di 86 residenti, tra cui 26 minori, è stata costretta a sfollare all’inizio dell’agosto del 2023. La comunità viveva in quel luogo dal 1996, dopo che Israele, nei primi anni ’50, aveva costretto i suoi componenti a lasciare il deserto del Negev. Nel corso degli anni lamministrazione civile ha emesso ordini di demolizione contro alcuni edifici degli abitanti e fino ad oggi Israele ha demolito sei case che ospitavano 41 persone, tra cui 18 minori, e 12 edifici non residenziali. Nel febbraio di questanno i coloni hanno realizzato un avamposto vicino alla comunità, allinterno di unarea che Israele aveva dichiarato zona di tiro. Gli abitanti hanno riferito di essere stati perseguitati dai coloni, che giravano intorno alle loro case fino ad entrarvi, arrivavano a tarda notte a cavallo e in fuoristrada, li intimidivano, si impossessavano dei loro campi coltivati e gli impedivano di portare al pascolo il loro gregge.

Nelle colline a sud di Hebron almeno altre due comunità sono state costrette a sfollare con la forza. La prima era Khirbet Simri, una frazione di due famiglie appartenenti a due fratelli con un totale di 20 componenti, di cui otto minorenni. Nel 1998 in cima alla collina dove viveva la comunità venne fondato l’avamposto coloniale di Mitzpe Yaire e ne seguì un aumento delle violenze. I coloni importunavano i membri della comunità, li minacciavano, entravano nelle loro case e impedivano loro di far pascolare le greggi. Nel 2020 i coloni hanno portato una mandria di bovini, che hanno pascolato su un terreno utilizzato dagli abitanti della comunità. Nel luglio 2022 questi hanno deciso di andarsene.

La seconda comunità ad andare via è stata Widady a-Tahta, anch’essa composta da 20 abitanti, tra cui 12 minori. La comunità viveva nel sito da circa 50 anni. Circa due anni fa i coloni hanno realizzato un avamposto a circa 500 metri dalle case della comunità. Da allora, i coloni hanno ripetutamente bloccato laccesso dei componenti della comunità ai pascoli attorno alle loro case, anche utilizzando un drone per spaventare e disperdere il gregge. Inoltre coloni armati penetravano ripetutamente a tutte le ore nelle case degli abitanti, in alcuni casi con un cane, aggredendo i componenti della comunità, picchiandoli e minacciandoli con le armi. Inoltre, circa un anno fa l’Amministrazione Civile ha emesso ordini di demolizione di tutti gli edifici del piccolo borgo: tre strutture residenziali e un recinto per il bestiame. Il 27 giugno 2023 due coloni armati sono entrati nella comunità e hanno minacciato uno degli abitanti che stava portando al pascolo le sue pecore vicino a casa. È fuggito per chiedere aiuto ai familiari e i coloni hanno cercato di rubare le pecore, ma quando hanno visto gli abitanti avvicinarsi le hanno abbandonate e sono tornati all’avamposto. La famiglia ha contattato la polizia, ma questa si è rifiutata di aiutarli. Dopo questo incidente la famiglia è giunta alla decisione che il pericolo era troppo grande e hanno dovuto andarsene.

Parte di una politica di lunga data

Queste comunità non hanno preso la decisione di lasciare tutto senza un motivo. È il risultato diretto della politica di Israele, progettata per raggiungere questo esatto risultato: costringere i palestinesi a sfollare e ridurre il loro spazio vitale per trasferire la loro terra in mani ebraiche. La politica si basa su una serie di restrizioni, misure e pratiche abusive da parte dello Stato e dei suoi rappresentanti, con vari livelli di durezza e perseguite sia ufficialmente che ufficiosamente.

Il percorso ufficiale: restrizioni estreme ad edilizia e ampliamento

Israele di fatto vieta ai palestinesi edilizia e ampliamento nellArea C [sotto controllo civile e di sicurezza israeliano, ndt.], che comprende il 60% della Cisgiordania. Larea ospita 200.000-300.000 palestinesi, migliaia dei quali vivono in decine di comunità di pastori e agricoltori. Sebbene la maggior parte degli abitanti palestinesi della Cisgiordania viva nelle aree definite A e B dagli Accordi di Oslo, firmati circa 30 anni fa sotto forma di intesa ad interim quinquennale, tutti i palestinesi sono colpiti dal divieto di costruire. Il motivo è che quando furono firmati gli Accordi di Oslo le Aree B[sotto controllo civile palestinese e di sicurezza israeliano, ndt.] e A [sotto totale controllo palestinese, ndt.] erano già in gran parte popolate, mentre le aree con un potenziale di sviluppo urbano, agricolo ed economico rimanevano per lo più nellArea C, e da allora la popolazione palestinese è quasi raddoppiata.

Per impedire l’edilizia palestinese nellArea C Israele ne ha stabilito il divieto per circa il 60%, assegnando diverse definizioni legali ad aree vaste (e talvolta sovrapposte): il terreno statalecomprende circa il 35% dellArea C, i campi di addestramento militare (zone di tiro) comprendono circa il 30%, le riserve naturali e i parchi nazionali coprono un altro 14% e le giurisdizioni degli insediamenti coloniali comprendono un altro 16% della stessa area. Israele sta conducendo una guerra incessante contro i palestinesi che vivono in queste aree, allontanandoli ripetutamente dalla loro terra con falsi pretesti, come l’addestramento militare, demolendo le loro case e confiscando le loro proprietà.

Nel restante 40% dellArea C Israele, che ha il controllo pieno ed esclusivo sull’edificazione e pianificazione in Cisgiordania, impone restrizioni estreme a edificazioni e ampliamenti. LAmministrazione Civile si rifiuta di preparare piani regolatori per la stragrande maggioranza delle comunità palestinesi in questarea. I pochi piani regolatori approvati dall’Amministrazione Civile, che rappresentano meno dell’1% dell’Area C e in aree in gran parte già edificate, non soddisfano i criteri di pianificazione accettati oggi nel mondo.

Le probabilità che un palestinese riceva un permesso di costruzione, anche su un terreno di proprietà privata, sono minime. Secondo i dati forniti dallAmministrazione Civile a da Peace Now [movimento progressista pacifista non-governativo israeliano, ndt.] nel decennio tra il 2009 e il 2018 sono stati approvati solo 98 permessi per costruzioni residenziali, industriali, agricole e infrastrutturali su 4.422 domande di autorizzazione presentate (2%). Secondo i dati forniti alla ONG israeliana Bimkom, su 2.550 domande presentate tra il 2016 e il 2020 ne sono state approvate 24 (meno dell1%). Il numero di domande di permesso presentate non riflette necessariamente le esigenze edilizie dei palestinesi, dal momento che la maggior parte dei palestinesi non si prende più la briga di presentare domande di permesso di costruzione, sapendo che verranno comunque respinte.

La mancanza di piani regolatori impedisce non solo ledilizia residenziale ma anche la costruzione per scopi pubblici, come scuole e strutture mediche, nonché le infrastrutture, compresi i collegamenti alla rete stradale e alle reti idriche ed elettriche. A causa del cambiamento climatico le restrizioni sulle infrastrutture rendono di anno in anno la vita più difficile per gli abitanti palestinesi. Non solo Israele nega agli abitanti il collegamento alle infrastrutture ma impedisce loro anche di prendersi cura dei propri bisogni in modo indipendente, vietando lo scavo di cisterne per lacqua e linstallazione di impianti solari e confiscando regolarmente i serbatoi dellacqua. Senza collegamenti allacqua corrente il consumo di acqua in queste comunità è di 26 litri al giorno per persona, equivalente al consumo di acqua nelle zone disastrate e circa un quarto dei 100 litri al giorno per persona raccomandati dallOrganizzazione Mondiale della Sanità.

Date queste condizioni i palestinesi sono costretti a promuovere l’ampliamento delle loro comunità e a costruire le loro case senza permessi. Lo fanno non perché siano criminali ma perché non hanno la possibilità di costruire legalmente. L’Amministrazione Civile emette ordini di demolizione contro questi edifici, talvolta con successiva messa in atto. Secondo i dati di BTselem, tra il 2006 e il 31 luglio 2023 Israele ha demolito in Cisgiordania 2.123 case. A causa di queste demolizioni 8.580 persone, tra cui 4.324 minori, hanno perso la casa. Durante questo periodo Israele ha demolito anche 3.387 edifici non residenziali.

Pertanto, utilizzando uno sterile vocabolario giuridico e di pianificazione urbana e agganciandosi a ordini militari e leggi sulla pianificazione e sull’edilizia, Israele riesce a cacciare i palestinesi dalle vaste aree che sono oggetto delle sue mire e a confinarli in aree più piccole dove tiene in sospeso le loro vite e applica politiche volte a negare loro qualsiasi sviluppo. I palestinesi sono costretti a vivere in una costante incertezza riguardo al loro futuro e nella paura senza fine che si presenti il personale dellamministrazione civile per consegnare ordini di demolizione o per demolire ciò che hanno già costruito. Vivono in uno stato di costante deprivazione, in condizioni che non possono essere paragonate a quelle degli insediamenti coloniali costruiti vicino alle loro comunità e spesso sulle loro terre.

Il percorso non ufficiale: la violenza dei coloni

Laccaparramento di terre da parte di Israele viene perseguito anche attraverso atti quotidiani di violenza compiuti da bande di coloni che operano senza timore di conseguenze, armate, sostenute, incoraggiate e finanziate dallo Stato, direttamente o indirettamente. Questi atti di violenza fanno parte di unampia strategia progettata per costringere i palestinesi dallArea C a sfollare.

Negli ultimi anni sono state create in tutta la Cisgiordania circa 70 fattorie agricole. Avviare unazienda agricola richiede molte meno risorse rispetto alla costruzione di un insediamento coloniale e attraverso il pascolo di pecore e bovini queste aziende agricole consentono una facile acquisizione di vaste aree che si estendono su migliaia di dunam, che di solito contengono pascoli, risorse idriche e terre coltivate dai palestinesi. I coloni che vivono in queste fattorie terrorizzano i palestinesi che abitano vicino a loro.

Le tattiche principali utilizzate dai coloni comprendono l’occupazione dei pascoli facendovi pascolare pecore e bovini, la corsa di quad contro greggi palestinesi e il sorvolo di droni per spaventare e disperdere gli animali, l’uso della violenza fisica contro gli abitanti palestinesi delle comunità, nei pascoli, nei campi coltivati e allinterno delle loro case, e il danneggiamento delle fonti dacqua.

Usando queste tattiche i coloni sono riusciti ad allontanare pastori e agricoltori palestinesi dai campi, dai pascoli e dalle fonti dacqua su cui hanno fatto affidamento per generazioni e a prenderne il controllo. Una ricerca condotta da B’Tselem circa due anni fa ha rilevato che cinque piccole fattorie di coloni, con solo poche decine di abitanti, di solito una famiglia o due e alcuni giovani, hanno preso il controllo di un’area che si estende per un totale di oltre 28.000 dunam (1 dunam = 1.000 metri quadrati) di terreni agricoli e pascoli utilizzati dalle comunità palestinesi per generazioni.

I militari, che sono ben consapevoli di queste azioni, evitano di affrontare i coloni violenti per una questione politica mentre invece a volte partecipano essi stessi a questi atti o proteggono i coloni a distanza. Linerzia di Israele continua dopo che si sono verificati gli attacchi dei coloni contro i palestinesi, dato che le autorità preposte allapplicazione della legge fanno tutto il possibile per evitare che qualcuno risponda a questi incidenti. Le denunce sono difficili da presentare e nei pochissimi casi in cui vengono effettivamente aperte le indagini il sistema le insabbia rapidamente. Non vengono quasi mai presentate accuse contro i coloni che danneggiano i palestinesi, e quelle che vengono stilate di solito citano reati minori, con sanzioni simboliche comminate nel raro caso di una condanna.

Non è una novità. La violenza commessa dai coloni contro i palestinesi è stata registrata fin dai primi giorni delloccupazione in innumerevoli documenti e dossier governativi; migliaia di testimonianze di palestinesi e soldati; libri; rapporti di organizzazioni palestinesi, israeliane e internazionali per i diritti umani e migliaia di storie dei media. Questa documentazione ampia e coerente non ha avuto praticamente alcun effetto sulla violenza dei coloni contro i palestinesi, che da tempo è diventata parte integrante della vita sotto loccupazione in Cisgiordania.

Questa politica ha lasciato i palestinesi senza alcuna protezione, negando loro persino il diritto di difendersi dalle persone che invadono le loro case. Quando i palestinesi cercano di respingere lattacco dei coloni, anche lanciando pietre, i soldati che fino a quel momento erano rimasti a guardare o avevano partecipato allattacco sparano contro di loro lacrimogeni, granate stordenti, proiettili di metallo rivestiti di gomma e persino proiettili veri. In alcuni casi i palestinesi vengono anche arrestati e alcuni vengono incriminati.

Lo Stato legittima non solo la violenza contro i palestinesi ma anche le conseguenze di questi atti, consentendo ai coloni di rimanere sulla terra che hanno sottratto con la forza ai palestinesi. Lesercito proibisce ai palestinesi di entrare in quelle aree e lo Stato sostiene pienamente gli insediamenti coloniali realizzati su di esse. Decine di avamposti, anche agricoli, costruiti senza permesso ufficiale vengono lasciati in piedi, mentre Israele fornisce sostegno attraverso i ministeri, la Divisione per gli Insediamenti dellOrganizzazione Sionista Mondiale e i consigli regionali in Cisgiordania. Inoltre lo Stato sovvenziona gli sforzi finanziari negli avamposti coloniali, comprese le strutture agricole, fornisce sostegno ai nuovi agricoltori e alla pastorizia, assegna lacqua e difende sul piano giuridico gli avamposti coloniali nel caso di petizioni a favore della loro rimozione.

Così è iniziato il trasferimento forzato, ed è così che Israele continua ad impegnarsi per rendere miserabile la vita di chi abita nelle comunità situate nelle aree ambite, fino al punto che non possono più restarvi e le abbandonano, lasciando le loro case e la loro terra allo Stato. Questa politica viene attuata utilizzando due binari paralleli. Da un lato, sotto l’egida delle ordinanze militari, dei consulenti legali e della Corte Suprema lo Stato sfratta i palestinesi dalle loro terre. Sull’altro binario i coloni usano la violenza contro i palestinesi, aiutati e incoraggiati e talvolta con la collaborazione delle forze statali. Questa politica ha portato al trasferimento forzato di almeno sei comunità, ma molte altre in tutta la Cisgiordania sperimentano la stessa brutalità e sono sotto minaccia immediata di espulsione.

Questa è una politica illegale che implica per Israele il crimine di guerra del trasferimento forzato. Il diritto internazionale, che Israele è obbligato e si è impegnato a rispettare, vieta il trasferimento forzato degli abitanti di un territorio occupato, indipendentemente dalle circostanze. Il fatto che questo caso particolare non comporti che i soldati arrivino nelle case degli abitanti e li costringano fisicamente ad andarsene è irrilevante. Creare un ambiente coercitivo che non lasci agli abitanti altra scelta è sufficiente per ritenere Israele responsabile di questo crimine.

Queste comunità non vengono costrette a sfollare a causa di disastri naturali o altre circostanze inevitabili. È una scelta che il regime dell’apartheid sta facendo per realizzare il suo obiettivo di Cin tutta l’area compresa tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Questo regime considera la terra come una risorsa destinata esclusivamente al popolo ebraico, e quindi la terra viene utilizzata quasi esclusivamente per lo sviluppo e l’espansione delle colonie ebraiche esistenti e per la creazione di nuove.

Pertanto opporsi ai trasferimenti in corso è un dovere e, ovviamente, non vi è alcun obbligo di continuare a collaborare all’attuazione delle politiche che li guidano. Segmenti crescenti dellopinione pubblica israeliana hanno recentemente dichiarato il loro rifiuto di prestare servizio nellesercito in un Paese non democratico. Non c’è niente di più degno del rifiuto ad essere partecipi nell’esecuzione di un crimine di guerra e nellattuazione di una politica di trasferimenti.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Soldatesse israeliane costringono delle donne palestinesi a spogliarsi utilizzando un cane da combattimento

Amira Hass

5 settembre 2023 – Haaretz

Durante un raid a Hebron cinque donne della stessa famiglia sono state costrette a spogliarsi sotto la minaccia di un cane dell’unità cinofila e dei fucili dei soldati

A luglio nella città di Hebron in Cisgiordania due soldatesse israeliane mascherate, armate di fucili e con un cane da attacco, hanno costretto cinque donne facenti parte di una famiglia palestinese a spogliarsi, ognuna separatamente. Le soldatesse hanno minacciato di liberare il cane se le donne non avessero obbedito, dichiara la famiglia.

Durante lirruzione nella casa i soldati hanno perquisito i maschi della famiglia ma non hanno chiesto loro di togliersi i vestiti.

I militari erano in possesso di informazioni secondo cui in quella casa sarebbero state presenti delle armi e il portavoce dellunità delle forze di difesa israeliane ha detto ad Haaretz che sono stati trovati un fucile M16 e munizioni, il che ha richiesto una ulteriore perquisizione degli occupanti.

Un totale di 26 persone, tra cui 15 minori dai 4 mesi ai 17 anni, vivono in tre appartamenti adiacenti nella casa della famiglia Ajluni, nella zona sud di Hebron. La famiglia dice che il 10 luglio all’1:30 di notte circa 50 soldati con almeno due cani hanno circondato la casa.

Secondo la famiglia circa 25 – 30 soldati hanno preso posizione all’interno degli appartamenti passando da una stanza all’altra dopo aver svegliato gli occupanti con torce elettriche, forti colpi alle porte e minacce di sfondarle.

La maggior parte dei soldati erano mascherati e si vedevano solo gli occhi. Uno, che sembrava essere l’ufficiale in comando ed era senza maschera, indossava pantaloni militari ma una normale camicia a maniche corte. Le donne non sapevano chi fosse.

Alle 5:30 del mattino, i soldati hanno lasciato la casa, portando con sé il primogenito della famiglia, Harbi, che hanno arrestato. La famiglia ha subito scoperto che i gioielli d’oro che il fratello più giovane, Mohammed, aveva acquistato in vista del suo matrimonio, erano scomparsi. Valevano 40.000 shekel [9.800 euro, ndt.]. Gli uomini si sono precipitati alla stazione di polizia israeliana nel vicino insediamento di Kiryat Arba per sporgere denuncia.

La polizia ha detto che non era stato rubato nulla, ma il giorno successivo un agente ha telefonato a Mohammed e gli ha detto di venire a ritirare il suo oro. Gli è stato detto che i soldati avevano pensato che si trattasse di proiettili. Lunità del portavoce delle IDF [esercito israeliano, ndt.] afferma che i gioielli si trovavano in una borsa nera chiusa con del nastro adesivo, aperta successivamente in una stanza investigativa.

La moglie di Harbi, Diala, ha scoperto che mancavano anche 2.000 shekel che si trovavano in un cassetto, ma il denaro non è stato restituito. I portavoce dell’esercito affermano di non essere a conoscenza di tale accusa.

Costretta a spogliarsi davanti ai suoi figli

Le donne costrette a denudarsi sono Ifaf, 53 anni, sua figlia Zeinab, 17 anni, e le tre nuore di Ifaf: Amal, Diala e Rawan, che hanno circa 20 anni. Una dopo laltra sono state portati nella cameretta rosa e viola dei figli di Amal; ,un orsacchiotto rosa faceva la guardia.

La prima a essere chiamata nella stanza è stata Amal, 25 anni, costretta a spogliarsi in presenza di tre dei suoi quattro figli, che si erano appena svegliati. Piangendo, urlando e terrorizzati dal cane e dai fucili, hanno visto delle soldatesse mascherate ordinare a gesti e in un arabo stentato ad Amal di togliersi l’abito da preghiera.

Amal se lo è sfilato. Quindi le è stato chiesto di togliersi il resto dei vestiti. Lei ha protestato, facendo presente che non poteva avere nulla nascosto sotto i pantaloncini e la canottiera. Racconta che allora hanno liberato il grosso cane, che le si è avvicinato ma senza toccarla.

I bambini atterriti urlavano per tutto il tempo. Amal ha detto alle soldatesse di tirare indietro il cane perché i bambini ne avevano paura; poi si è tolta il resto dei vestiti. I bambini hanno anche dovuto assistere all’ordine dato alla madre, una volta denudata, di voltarsi, mentre singhiozzava per l’umiliazione. Circa 10 minuti dopo lei e i bambini sono stati portati fuori dalla stanza pallidi e tremanti.

La seconda ad essere chiamata è stata Ifaf, la più anziana della famiglia. Non ha voluto parlare molto del suo calvario, anche se ha raccontato che le soldatesse le hanno ordinato con gesti e in un arabo stentato di togliersi i vestiti. Basta, voltati, rivestiti.

Nel frattempo gli altri membri della famiglia venivano trattenuti in altre due stanze dello stesso appartamento. Le donne e i bambini erano in una stanza e gli uomini nell’altra. Due o tre soldati armati erano appostati davanti alla porta di ogni stanza e ordinavano agli Ajluni di non parlare.

Di tanto in tanto compariva un altro soldato e riferiva qualcosa ai colleghi. Mentre erano tenuti prigionieri nelle stanze i membri della famiglia hanno sentito le urla di Amal e dei figli, seguite da quelle delle altre donne.

Sentivano anche i soldati frugare negli appartamenti adiacenti, dare colpi, aprire i cassetti e lasciarli cadere sul pavimento, oltre alle loro risate.

Silenzio sul trauma

Non sono molte le segnalazioni riguardanti donne palestinesi costrette a denudarsi durante un raid dellesercito nella loro casa. Manal al-Jabari nei suoi 15 anni nel ruolo di ricercatrice sul campo a Hebron per l’organizzazione israeliana per i diritti BTselem ha registrato circa 20 casi simili. Ma ritiene che tali episodi svoltisi sotto la minaccia del fucile siano aumentati negli ultimi mesi. La maggior parte delle donne rifiuta di essere intervistata dai giornalisti sul trauma subito, dice Jabari.

Ma le donne della famiglia Ajluni hanno accettato di essere identificate per nome a patto di non essere fotografate. Alla stessa Jabari è stato intimato di togliersi tutti i vestiti durante una massiccia perquisizione notturna delle case a Hebron dopo l’uccisione il 21 agosto di una donna nel vicino insediamento coloniale di Beit Hagai. Jabari ha notato una telecamera sulla fronte di una soldatessa e si è rifiutata di spogliarsi.

In seguito alle mie insistenze la soldatessa ha rimosso la telecamera. Comunque mi sono rifiutata di spogliarmi. Hanno ceduto, forse perché faccio parte di BTselem”, afferma. Ma i soldati hanno saccheggiato la sua casa, rotto diversi oggetti e lasciato un tale disordine che Jabari non sapeva da dove cominciare a rimettere tutto a posto. Questo è quello che fanno spesso i soldati ed è quello che hanno fatto a casa degli Ajluni.

Parlando ad Haaretz il 27 agosto, le donne della famiglia Ajluni hanno sentito da Jabari, anche lei presente, il racconto della sua personale disavventura. A quel punto hanno ricordato di aver visto anche loro qualcosa sulla fronte delle soldatesse, ma di non sapere cosa fosse. Ora, oltre al trauma della perquisizione, erano tormentate dal dubbio che le soldatesse le avessero filmate mentre erano nude.

L’esercito ha sostenuto con una dichiarazione che le soldatesse non indossavano telecamere, al contrario del cane, ma [hanno aggiunto che] quella era spenta.

In un primo momento le donne hanno detto di non essere sicure se le soldatesse fossero mascherate, ma poi hanno concluso che dovevano esserlo. “Quando ciascuna di noi entrava nella stanza, le soldatesse spostavano un po’ i loro berretti… così abbiamo potuto notare che avevano i capelli lunghi, il che significava che erano donne”, ricordano Diala e Zeinab, completando a vicenda il racconto.

Delle cinque donne costrette a spogliarsi solo Amal non era a casa quando le altre hanno parlato con Haaretz. Era andata a comprare degli oggetti per il matrimonio. La vita riprendeva, l’anno scolastico era iniziato e poco a poco il sorriso tornava sui volti delle donne e dei loro bambini.

Jabari, la ricercatrice sul campo di BTselem, ha registrato i resoconti delle donne un giorno dopo il raid, descrivendo il terrore e lo shock che le Ajluni avrebbero ancora provato settimane dopo. Per circa quattro settimane i bambini si svegliavano spaventati nel cuore della notte e bagnavano il letto. Spesso le donne avevano la sensazione che i soldati fossero ancora in casa e sussultavano ogni volta che sentivano un rumore provenire da fuori.

Soldati davanti alla casa

La notte del raid Diala, 24 anni, si è svegliata sentendo suo marito, Harbi, litigare con qualcuno e chiedere che non entrassero in camera da letto perché lì c’era sua moglie. “Mi sono resa conto che erano soldati e mi sono alzata velocemente per coprirmi e mi sono vestita in fretta con un abito da preghiera”, ha detto.

Continua dicendo che in quel momento hanno fatto irruzione nella stanza i soldati e due grossi cani con la museruola. Le tre ragazze che dormivano nella camera dei genitori si sono svegliate e hanno visto i fucili, i cani e gli occhi che scrutavano da sopra le maschere.

Mio marito ha urlato ai soldati, in ebraico e arabo, di allontanarsi e di portare via i cani. Le mie figlie strillavano, piangevano e tremavano di paura. Lujin, che ha 4 anni, se l’è fatta addosso. I soldati hanno ordinato a mio marito di non parlare con me, gli hanno puntato i fucili alla testa e lo hanno trascinato in cucina”, racconta Diala.

Lo avrebbe rivisto solo diversi giorni dopo, al tribunale militare di Ofer, dove la sua detenzione è stata prolungata più volte. È sospettato di possedere un’arma, dice.

La notte del raid lei e le figlie sono state lasciate in camera da letto per 10 – 15 minuti; poi i soldati le hanno ordinato di attraversare il cortile per recarsi dove era stata obbligata a raccogliersi tutta la famiglia. Era l’appartamento di suo cognato Abdullah e di sua moglie Amal. Diala ha chiesto di poter prendere i soldi dal cassetto, ma lufficiale in maniche corte non lo ha permesso, dice.

Il cortile è solo parzialmente asfaltato ed è pieno di sassi, spine e pezzi di vetro. Lufficiale non le ha permesso di mettere le scarpe alle figlie e ha fatto segno che dovevo portarle in braccio”, dice Diala. Ma lei ha preso in braccio solo Ayla, di 17 mesi e mentre uscivano Lujin e Lida, che ha 5 anni, rimanevano aggrappate alla loro mamma.

“Stavo morendo di paura quando sono passata accanto al cane”, ha detto. Le sue figlie le saltellavano accanto, scalze e piangenti. Ha pensato che nel cortile ci fossero anche altri cani.

A quel punto Abdullah ha chiesto il permesso di recarsi nell’appartamento in cui suo fratello Mohammed si sarebbe trasferito dopo il matrimonio. Abdullah voleva prendere i gioielli d’oro, ma i soldati hanno rifiutato. Lui si è ribellato, quindi lo hanno ammanettato da dietro, bendato e portato nella cucina di Diala e Harbi.

Hanno fatto lo stesso con suo cugino di 17 anni, Yamen. Le donne li hanno trovati in cucina dopo che i soldati sono andati via con Harbi. Hanno tagliato le manette di plastica con un coltello.

Dopo la perquisizione intima di Ifaf, è stata la volta di Diala. Un soldato è entrato nel soggiorno e le ha detto di andare con lui. “Sono entrata in una stanza e, avendo tanta paura del grosso cane, sono rimasta vicino alla porta e ho cercato di uscire”, racconta. Le soldatesse mi hanno urlato contro e mi hanno ordinato di restare nella stanza”.

Quando si è rifiutata di togliersi gli indumenti sotto l’abito da preghiera la soldatessa con il cane ha minacciato di liberare l’animale. Anche Diala una volta nuda ha dovuto girare intorno a se stessa in presenza delle soldatesse, e anche lei ha pianto.

La diciassettenne Zeinab si è ribellata. Quando i soldati hanno chiesto a tutti di consegnare i propri telefoni lei è riuscita a nascondere il suo sotto un cuscino. Ha raccontato che, mentre i membri della famiglia erano ancora seduti in soggiorno con i bambini, un soldato mi ha indicato e mi ha detto [in arabo] Tu, vieni e mi ha condotto nella stanza dei bambini.

Le soldatesse mi hanno mostrato i capelli per farmi capire che erano donne e mi hanno ordinato di mettermi in un angolo della stanza. Poi il soldato ha aperto con rabbia la porta, ha sbirciato dentro, ha agitato il mio telefono, ha sollevato il fucile e lo ha puntato contro di me. Era arrabbiato perché non lo avevo consegnato quando me lo ha detto. Ho urlato. Per fortuna non mi ero ancora tolto lhijab”.

(A quel punto Diala interviene dicendo che le altre donne l’hanno sentita urlare e non sapendo cosa stesse succedendo erano molto preoccupate.)

“Pensavo che ci avrebbero esaminato con apparecchiature elettromagnetiche”, dice Zeinab. Quando la soldatessa mi ha ordinato in un arabo stentato di spogliarmi sono rimasta sorpresa. Ho detto: “Cosa?”. Lei ha risposto: “I vestiti”. Ho detto: “Non voglio”. E lei mi ha intimato: “Togliti tutto”.

Ho deciso di urlare mostrando che non avevo niente addosso e lei ha insistito perché mi togliessi tutto. Quando mi sono opposta si sono avvicinate a me in modo minaccioso con il cane. Ho sentito Diala urlarmi dall’esterno della stanza di fare quello che diceva la soldatessa.

Dopodiché mi sono spogliata. La soldatessa mi ha detto di voltarmi. Mi sono voltata solo a metà e allora lei ha avvicinato di nuovo il cane. Tremavo e piangevo”.

Ad un certo punto i bambini sono stati lasciati soli in soggiorno, senza le loro madri e in presenza dei soldati armati. Dopo essere state perquisite, le madri sono state condotte in un corridoio adiacente. I bambini erano spaventati e piangevano.

I soldati hanno in parte accolto le richieste delle madri e hanno permesso loro di prendere i due bambini più piccoli. Ifaf e uno dei suoi nipoti raccontano che i soldati hanno cercato di calmare i bambini rimasti soli in soggiorno. Hanno fatto il batti pugno con i pugnetti di alcuni di loro.

Il portavoce dell’unità delle IDF ha dichiarato: Secondo lintelligence è stato trovato un lungo M16, oltre a munizioni e un caricatore. Dopo il ritrovamento dell’arma è stato necessario controllare le altre persone presenti nell’abitazione per escludere la possibilità di trovare altre armi. Secondo le istruzioni degli investigatori della polizia di Hebron le soldatesse [dell’unità cinofila] hanno perquisito le donne presenti nella casa in una stanza chiusa, ognuna individualmente. Le soldatesse non indossavano telecamere.

Il cane, che non era presente nella stanza durante l’ispezione, aveva una telecamera montata sulla schiena per scopi operativi e in quel momento non era accesa. Nel corso delle perquisizioni è stata rinvenuta e portata via insieme all’arma una borsa nera nascosta, chiusa con del nastro adesivo. La borsa è stata aperta nella stanza delle indagini e si è capito che si trattava di gioielleria.

Il giorno dopo la perquisizione è venuto il fratello dellarrestato, ha firmato [una dichiarazione secondo cui] si trattava di gioielli di famiglia e se li è ripresi. Non siamo a conoscenza dell’affermazione relativa ai 2.000 shekel. Non ci risulta alcuna lamentela riguardo al caso. Qualora pervenga verrà presa, come di consueto, in considerazione”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’assassinio di un giovane palestinese da parte di coloni israeliani è il più recente tentativo di escalation

Amira Hass

6 agosto 2023 – Haaretz

I coloni israeliani assassini saranno probabilmente liberati o dichiarati innocenti per legittima difesa, i palestinesi attaccati saranno processati per tentato omicidio. Ma la violenza organizzata ha un altro obiettivo.

Ci sono vari possibili scenari in seguito all’assassinio del giovane palestinese Qosai Mi’tan nel suo villaggio di Burqa, a est di Ramallah: la polizia lascerà libero di tornare a casa sua l’ebreo incarcerato in seguito alle affermazioni del suo avvocato che ha agito per legittima difesa dopo che il suo amico era stato ferito. In seguito a proteste crescenti da parte dei parlamentari del (partito) Sionista Religioso che l’esercito sta abbandonando i coloni, l’esercito e lo Shin Bet arresteranno in quel villaggio i palestinesi indiziati per aver attaccato con armi il sospettato (ferito e portato in ospedale), e anche i suoi amici.

Il pubblico ministero chiuderà la pratica contro i due sospettati dato che sarà convinto che si stavano difendendo o potrebbe cambiare l’accusa con una per uso improprio di armi. I giudici a Gerusalemme saranno indulgenti e condanneranno entrambi ai servizi sociali, come lavorare in un asilo nell’avamposto di Pnei Kedem autorizzato di recente.

I palestinesi devono rispondere davanti al tribunale militare di Ofer dell’accusa di aver attaccato pastori ebrei la vigilia dello Shabbat. La loro detenzione sarà estesa fino alla fine di tutti i procedimenti legali. Saranno accusati di tentato omicidio e condannati a vari anni di carcere. “Una disputa sui pascoli non dovrebbe finire in un attacco contro pastori innocenti che volevano solo che le loro pecore e capre brucassero l’erba che cresce su questa terra fertile,” dirà poeticamente il giudice, un tenente colonnello.

Delirante? Non in Israele, come provano i commenti domenica mattina di Itamar Ben-Gvir [ministro di ultradestra per la sicurezza nazionale, ndt.] in cui afferma che ai due sospettati si dovrebbe dare un’onorificenza. Nel giugno 2022 (durante il governo Bennett-Lapid-Gantz), un colono dell’avamposto autorizzato di Nofei Nehemia ha ucciso il ventisettenne Ali Harb del villaggio di Iskaka, a sud di Nablus. Il colono stava partecipando a un’invasione organizzata delle terre del villaggio con lo specifico intento di fondarci un nuovo avamposto. Quando gli abitanti di Iskaka hanno tentato di fermare gli invasori uno di loro ha tirato fuori un coltello con cui ha ucciso Harb. Il pubblico ministero ha archiviato il caso certo che il colono avesse agito per difendersi.

L’invasione dei campi di Burqa da parte di un gruppo di coloni e delle loro greggi è stata prontamente definita dai media come un “conflitto sui pascoli”. Questa formula ingannevole ignora il modello fisso di una crescente violenza dei coloni contro i palestinesi attuata principalmente da “pastori ebrei” ben armati. Dall’inizio dell’anno al 24 luglio ci sono stati 581 attacchi, senza contare assalti e intimidazioni che non sono finiti con danni a proprietà o persone.

Noi non lavoriamo nel vuoto normativo,” ha detto giovedì scorso il giudice Uzi Fogelman, valutando i ricorsi contro la legge che impedisce che Netanyahu venga dichiarato inabilitato a governare. Egli stava difendendo l’autorità della corte a rivedere persino le leggi fondamentali [Basic Laws]. Il giorno prima, lui e i suoi colleghi Esther Hayut e Yael Willner hanno davvero lavorato nel vuoto normativo com’è loro inviolabile abitudine quando si tratta delle colonie in Cisgiordania. Hanno respinto un ricorso presentato dagli abitanti di un altro villaggio chiamato Burqa (questo è vicino a Nablus), che chiedevano fosse loro permesso di lavorare la propria terra senza gli attacchi di coloni e divieti ai propri spostamenti imposti dall’esercito.

La petizione è stata respinta poiché la scuola ebraica, la yeshiva illegale in quella località, era stata spostata in una piccolissima enclave designata come “terra demaniale,” nel bel mezzo di terreni privati palestinesi. Il fatto che i coloni si spostino in questa terra privata e che questa sia la ricetta infallibile per continue molestie e attacchi contro palestinesi non è stata presa in considerazione dai giudici. Proprio come il pubblico ministero che ha liberato l’accoltellatore di Nofei Nehemia ha ignorato l’intenzione illegale a priori di costruire un avamposto invasivo su terreni palestinesi (pubblici o privati fa lo stesso agli occhi del diritto internazionale). Entrambe le decisioni incoraggiano i pogromisti ebrei.

L’assassinio di Mi’tan non è avvenuto in un vuoto. I dettagli precisi saranno chiariti grazie a indagini indipendenti nei prossimi giorni. Ma noi possiamo già riconoscere alcuni degli schemi che saranno seguiti:

1. Collaborazione tra coloni e istituzioni statali. L’avamposto di Migron, a sud di Burqa, fu costruito nel 1999 sui terreni di Burqa. Dopo una battaglia legale intrapresa dagli abitanti del villaggio insieme all’organizzazione Peace Now [Ong progressista pacifista israeliana, ndt.] i coloni furono estromessi dall’avamposto nel 2012, ma l’esercito proibì ai palestinesi, proprietari legali, di ritornare ai propri appezzamenti, coltivarli e svilupparli secondo le proprie necessità. Questo divieto è stato un invito a quelli che 3 anni fa hanno iniziato un allevamento di pecore detto Ramat Migron sulla stessa collina. I contadini e pastori palestinesi della zona spesso denunciano violenti attacchi da questo avamposto. Le autorità hanno trasferito parecchie volte i coloni che, per nulla scoraggiati, ci ritornano continuamente.

2. Anche isolare il villaggio dal circondario, al punto da soffocarlo economicamente e sociale sembra essere sistematico. Burqa giace a meno di 10 chilometri a est di Ramallah. All’inizio degli anni ’80 una strada diretta alla città fu bloccata a vantaggio della colonia di Psagot. Una seconda strada fu bloccata agli inizi del 2000, quando l’avamposto di Giv’at Assaf fu costruito sui terreni del villaggio di Beitin, di fronte all’uscita nord da Burqa. Questa uscita è ancora bloccata.

Invece di meno di 10 minuti per raggiungere Ramallah gli abitanti di Burqa devono fare una lunga deviazione attraverso villaggi adiacenti che richiede dai 30 ai 45 minuti. I costi connessi e la perdita di tempo hanno un impatto diretto sulla difficile situazione economica del villaggio. Anche se nel 2014 l’esercito ha detto al gruppo per i diritti umani B’Tselem che per quanto lo concerne l’uscita non era bloccata, blocchi di cemento e sassi sono piazzati là e non permettono il passaggio delle auto. I pedoni non si azzardano ad andarci. L’avamposto di Oz Zion, ripetutamente demolito e ricostruito, si trova nelle vicinanze della strada bloccata. 

Anche questo è un metodo usato dai coloni: bloccare strade e sentieri usati dagli abitanti dei villaggi palestinesi. L’esercito sta a guardare. Perciò i coloni hanno bloccato l’uscita diretta da Qaryut alla superstrada 60 o la strada dal villaggio di Sinjil ai propri terreni.

3. L’obiettivo comune condiviso dallo Stato e dai coloni assalitori resta quello di occupare i terreni dei palestinesi. Circa 1.000 dunam (100 ettari) di terreni di Burqa, in maggioranza agricoli, sono intrappolati dentro colonie che si sono iniziate a costruire nella zona negli anni ’80, o vicino a strade che portano a quelle colonie. Gli abitanti non hanno accesso alle proprie terre. La maggior parte delle terre rimanenti è nell’Area C (sotto completa autorità israeliana), una definizione degli accordi di Oslo che avrebbe dovuto essere temporanea, ma è diventata permanente. Israele impedisce al villaggio di costruire sulle proprie terre e di svilupparle come sembra opportuno.

Secondo una relazione del 2014 di Iyad Haddad, un ricercatore sul campo di B’Tselem [principale ong israeliana per i diritti umani, ndt.], sugli altri terreni la sistematica violenza da parte dei cittadini israeliani dal 2000 e la conseguente paura impediva agli abitanti di accedere a ulteriori 1.200 dunam. La stessa relazione fece notare che un quarto degli abitanti del villaggio aveva subito attacchi dai coloni. I più noti sono incendiare la moschea e prendere a pietrate i pastori e i raccoglitori di olive.

4. Persino le greggi di capre e le mandrie di bovini servono come arma contro i palestinesi. In tutta la Cisgiordania decine di avamposti di pastori mandano le loro greggi affamate nei villaggi, negli accampamenti di tende, nei campi e frutteti palestinesi per sabotarne i raccolti e impedire agli abitanti di coltivare le proprie terre. Oltretutto questa è una tattica usata per permettere a coloni israeliani armati, spesso scortati dall’esercito, di invadere comunità palestinesi e sconvolgere le loro vite.

Questa violenza organizzata e ben finanziata ha un altro obiettivo: creare provocazioni che portino a un’escalation militare. Dopo tutto i palestinesi non potranno contenere tanto a lungo gli attacchi crescenti contro di loro, commessi con il favore di polizia, esercito e pubblico ministero. Se i palestinesi cercano di difendersi o reagire, esercito e Shin Bet intraprendono delle azioni contro di loro.

Questo obiettivo è stato espresso da Elisha Yered, uno dei due sospetti dell’omicidio di Mi’tan. Yered, un abitante dell’avamposto di Ramat Migron, ha scritto un testo pubblicato il 5 luglio dal Jewish Voice: “Come cittadini cosa ci resta da fare? Non possiamo ridurre neppure per un momento le nostre richieste per una vasta e profonda operazione militare… in tutti i villaggi di Giudea e Samaria. L’obiettivo di tale operazione deve esse la vittoria riconosciuta dal nemico e non una serie di conflitti sanguinosi ogni due o tre mesi …

La recente mini operazione (a Jenin) è stata il risultato di proteste diffuse da parte degli abitanti di Giudea e Samaria [la Cisgiordania, ndt.], a cui più tardi si sono uniti parlamentari e figure pubbliche … noi scenderemo in piazza e protesteremo persino per eventi ‘minori’ come il lancio di pietre e gli attacchi con bombe incendiari e chiariremo agli apparati di sicurezza che non resteremo in silenzio se continua questa politica di contenimento.”

Tutti i rami del movimento dei coloni sono coordinati. Non sorprende quindi che al momento il capo del Comando Centrale, Yehuda Fuchs, sia nel mirino dei rappresentanti dei coloni nella Knesset, che lo accusano di essere debole e di permettere libertà di movimento ai palestinesi. L’opposto del “contenimento” è la guerra. A favore della guerra sono i sostenitori dell’espansionismo e delle annessioni, perché in guerra è più facile commettere crimini irreversibili su larga scala.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




La visita di Herzog negli Stati Uniti nasconde i crimini israeliani, ma emergono motivi di speranza.

Majdi Khaldi

29 luglio 2023 – Middle East Eye

Il discorso del presidente israeliano al Congresso è stato un mero esercizio di pubbliche relazioni mentre l’appoggio statunitense ai diritti dei palestinesi sembrerebbe il più alto da sempre.

Proprio mentre il governo israeliano promuove un numero senza precedenti di unità abitative nelle colonie e adotta decine di leggi discriminatorie, i politici occidentali continuano a lodare i valori “democratici” e “liberali” di Israele.

È come se si affannassero a trovare ogni scusa per proteggere Israele qualunque cosa faccia.

Questo atteggiamento è stato il presupposto del recente discorso del presidente israeliano Isaac Herzog al Congresso USA, in cui ancora una volta il messaggio di impunità per le violazioni e i crimini israeliani è stato sostenuto oltre ogni considerazione per le leggi internazionali, i diritti umani o persino gli stessi principi del Processo di Pace per il Medio Oriente sponsorizzato a suo tempo dagli USA.

Il discorso di Herzog ha difeso adeguatamente gli interessi del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ha glorificato un Israele mitico come faro di democrazia e uguaglianza, come se decine di leggi israeliane che negano ai palestinesi i loro diritti non esistessero, mentre gli ebrei israeliani godono dei pieni diritti dello Stato. Sono in vigore più di 70 leggi discriminatorie contro i palestinesi che secondo diverse organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International, Human Rights Watch e persino l’israeliana B’Tselem configurano il crimine di apartheid.

Tra gli esempi ci sono la legge dello Stato-Nazione del popolo ebraico, secondo cui l’autodeterminazione è riservata solo agli ebrei la legge del Ritorno, che consente solo agli ebrei di entrare e ottenere la cittadinanza dello Stato; la legge sulla Proprietà degli Assenti, che codifica il furto di proprietà dei rifugiati palestinesi da parte dello Stato; infine il divieto di riunificazione delle famiglie palestinesi, che nega alle famiglie palestinesi cristiane e musulmane di Gerusalemme o di Israele il diritto di vivere insieme se un coniuge ha la carta d’identità palestinese.

Nessun interesse per la pace

Herzog non ha parlato della soluzione a due Stati, ma dei “vicini palestinesi” di Israele come se non fossero sottoposti all’occupazione israeliana, giocando il classico gioco di incolpare gli altri. Ciò che Herzog ha anche dimenticato di citare è che i “vicini” includono più del 50% della popolazione dei territori controllati da Israele, che consegna alla sua minoranza demografica pieni diritti negando nel contempo i diritti civili e umani al popolo palestinese.

Inoltre non ha menzionato il fatto che il territorio occupato nel 1967, compresa Gerusalemme est, in base al diritto internazionale è della Palestina. È semplicemente vergognoso, anche per centinaia di migliaia di cittadini palestinesi-americani, che i politici statunitensi abbiano ospitato al Congresso la negazione della Nakba e l’occultamento dell’occupazione da parte di Herzog.
Si è trattato di un puro esercizio di pubbliche relazioni piuttosto che di un tentativo di fare la pace. Al massimo è stato un tentativo personale da parte del presidente israeliano di presentare le sue credenziali a Washington in un momento in cui i rapporti tra l’amministrazione Biden e Netanyahu sembrano essere tesi.

Tuttavia i loro problemi non riguardano il popolo palestinese, la cui negazione dei diritti a Washington sembra essere stata normalizzata, ma piuttosto le dispute interne a Israele riguardo alle riforme giudiziarie di Netanyahu.

In effetti lo stesso Congresso USA che sostiene le politiche israeliane contro il popolo palestinese non molto tempo fa appoggiava l’apartheid in Sud Africa. La vasta maggioranza delle iniziative prese dall’amministrazione Trump a sostegno all’annessione israeliana e alla negazione dei diritti dei palestinesi non è stata revocata dall’attuale governo, mentre il Congresso considera ancora l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina un gruppo terroristico proprio come fece con l’African National Congress [il partito di Mandela, ndt.]. Herzog rappresenta la tradizionale diplomazia israeliana che nasconde crimini di guerra con un sorriso e una stretta di mano. La sua descrizione del governo israeliano è stata raffinata e fatta su misura per un pubblico di persone già desiderose di concedergli il podio. Ovviamente non ha citato i sionisti religiosi radicali del suo governo perché sono una pubblicità negativa. Nel contempo sono stati attuati sul terreno i disastrosi progetti del colono di estrema destra e ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che chiaramente invocano una seconda Nakba [la pulizia etnica di cui furono vittime i palestinesi nel 1947-49, ndt.] senza uno Stato palestinese, con l’espulsione forzata e l’apartheid.

Ragioni di Speranza

Ma ci sono ancora ragioni di ottimismo. Il boicottaggio che alcuni membri del Congresso hanno messo in atto contro il discorso del presidente israeliano è più significativo di quanto alcuni credono, in quanto rappresenta la crescente percentuale di americani che appoggiano i diritti dei palestinesi.

Nella comunità statunitense per i diritti umani c’è un crescente riconoscimento dell’apartheid israeliana e più comunità religiose ed altre organizzazioni della società civile stanno chiedendo di prendere misure concrete contro l’occupazione israeliana, anche attraverso il boicottaggio e il disinvestimento.

Quanti sostengono l’impunità di Israele sembrano essere sovrarappresentati rispetto all’opinione pubblica USA. Questi segnali potrebbero essere un punto di svolta nella lotta per la libertà, la giustizia, l’uguaglianza e la pace. Il popolo palestinese e i suoi alleati continueranno la lotta, ovunque siano, per la libertà e rinnovano appelli agli USA e ai Paesi europei perché prendano misure di responsabilizzazione per mettere in pratica, con molto ritardo, i diritti inalienabili del popolo palestinese. Ciò dovrebbe includere azioni contro il terrorismo dei coloni. Inoltre è adesso chiaro che il riconoscimento dello Stato di Palestina è un passo urgente che gli USA e l’UE dovrebbero prendere per confermare il loro sostegno a una soluzione politica piuttosto che rimanere in silenzio riguardo alle azioni di un governo di coloni e altri estremisti che dettano i termini dell’impegno.

I tentativi di sdoganare le politiche israeliane non faranno sparire il popolo palestinese. Nel momento in cui il governo israeliano sta mettendo in atto iniziative intese a consolidare l’annessione di tutta la Palestina storica, la risposta di quanti hanno a cuore la pace fondata su un ordine mondiale basato sulle leggi dovrebbe essere di prendere iniziative per la libertà dei palestinesi piuttosto che rafforzare l’occupazione israeliana.

Il discorso di Herzog al Congresso rappresenta la perpetuazione dello status quo, in cui i diritti dei palestinesi sono negati. Ma lo spostamento dell’opinione pubblica statunitense a favore dei palestinesi e i parlamentari che hanno boicottato la sessione con il presidente [israeliano] sono una fonte di speranza lungo il cammino per raggiungere la libertà e l’indipendenza dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

L’ambasciatore Majdi Khaldi è membro del Consiglio Nazionale Palestinese e consigliere diplomatico esperto del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Mekorot, l’impresa idrica nazionale di Israele, riduce la fornitura d’acqua a Betlemme e Hebron in Cisgiordania

Redazione The New Arab

16 luglio 2023The New Arab

L’Autorità idrica palestinese ha descritto come ‘razzista’ e ‘discriminatoria’ la decisione di ridurre la fornitura d’acqua a Betlemme e Hebron.

Sabato l’Autorità idrica palestinese (PWA) ha riferito che Mekorot, l’impresa idrica nazionale di Israele, ha ridotto la quantità giornaliera che fornisce a Betlemme e Hebron, nella Cisgiordania occupata.

La PWA ha detto che Mekorot ha ridotto la fornitura di circa 1.419 litri e sta privando i palestinesi dell’accesso all’acqua sufficiente, specialmente durante l’estate con le attuali alte temperature in Cisgiordania.

L’Autorità idrica ha continuato definendo “razzista” la decisione e precisando che “non ci sono motivi tecnici”.

“Non sono stati rilevati guasti alla sorgente, si tratta piuttosto di una misura discriminatoria che va ad aggiungersi alle politiche razziste messe in atto dalle autorità di occupazione,” continua l’Autorità citata da WAFA, l’agenzia di notizie ufficiale palestinese.

I palestinesi in Cisgiordania e nell’assediata Striscia di Gaza soffrono da tempo per le forniture idriche insufficienti e a causa della siccità, poiché Israele controlla l’80 % delle riserve d’acqua del territorio occupato.

A causa delle restrizioni soprattutto i contadini incontrano moltissime difficoltà a coltivare le proprie terre in Cisgiordania mentre i coloni illegali israeliani non devono affrontare gli stessi ostacoli.

Secondo la ONG israeliana B’tselem gli israeliani, inclusi i coloni illegali in Cisgiordania, consumano una media di 247 litri per persona al giorno, tre volte tanto i palestinesi che consumano una media di 82,4 litri al giorno.

A maggio di quest’anno l’ONG ha riferito che solo il 36% dei palestinesi in Cisgiordania ha l’acqua corrente ogni giorno.

In media il consumo d’acqua per palestinese è inferiore alla quantità raccomandata a livello internazionale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che prevede 100 litri. al giorno.

La differenza nelle forniture idriche fra palestinesi e israeliani è solo una delle discriminazioni che i palestinesi subiscono per mano degli israeliani, che occupano Cisgiordania e Gerusalemme Est dal 1967.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)