Un palestinese ucciso durante un’escursione è l’ultima vittima di un’ondata di violenza dei coloni

Yumna Patel

15 febbraio 2021 – Mondoweiss

Bilal Bawatneh, Azzam Amer e Khaled Nofal sono le ultime vittime palestinesi di un’ondata di violenza dei coloni che nelle ultime settimane ha sconvolto la Cisgiordania occupata

Venerdì un palestinese è stato investito ed ucciso durante un attacco con un’auto mentre stava facendo un’escursione con alcuni amici nel nord della Valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.

Venerdì mattina il cinquantaduenne Bilal Bawatneh, insieme a un gruppo di palestinesi di varie parti della Cisgiordania, stava camminando lungo un sentiero tra i villaggi di Ein al-Beida e Bardala, nel nord della Valle del Giordano, a est della città di Tubas.

Nota per le sue vaste montagne, che in inverno fioriscono, durante questo periodo dell’anno la Valle del Giordano attira molti escursionisti e visitatori da tutta la Palestina.

Negli ultimi decenni la natura rurale della Valle del Giordano ha attirato anche migliaia di coloni israeliani che vivono in insediamenti e avamposti illegali.

L’agenzia di notizie ufficiale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Wafa ha citato gli escursionisti, che hanno affermato di “essere rimasti scioccati” nel vedere il veicolo deviare dal proprio percorso e lanciarsi a tutta velocità contro il gruppo. L’auto ha colpito gli escursionisti, ferendo Bawatneh e altri due.

Bawatneh, abitante della città di al-Bireh, nella zona di Ramallah, è stato portato via da medici della Mezzaluna Rossa Palestinese, che in un comunicato ha affermato che è morto poco dopo in seguito alle ferite riportate.

Medici israeliani avrebbero portato gli altri due palestinesi feriti in un ospedale nella città di Afula. Non si sa in che condizioni si trovino.

Venerdì delle foto di Bawatneh, che sarebbero state scattate durante la camminata poco prima che venisse ucciso, hanno inondato le reti sociali, mentre i palestinesi hanno pianto la sua morte come ultima vittima dell’occupazione israeliana.

Riguardo alla morte di Bawatneh, la dottoressa Hanan Ashrawi, membro del Comitato Esecutivo dell’OLP, ha twittato che “tragicamente, in Cisgiordania l’omicidio stradale è una forma fin troppo nota di aggressione non sanzionata da parte di coloni israeliani contro palestinesi vulnerabili.”

L’uccisione di Bawatneh ha suscitato una scarsa attenzione da parte dei media israeliani, nonostante nell’ultima settimana sia il terzo assassinio di palestinesi in Cisgiordania ad opera di coloni.

Mercoledì Azzam Amer, un palestinese del villaggio di Kafr Qalil, nella zona di Nablus, è stato ucciso dopo che sarebbe stato investito da un colono israeliano che stava guidando nei pressi dell’incrocio di Kifl Hares, nel nord della Cisgiordania occupata.

I media palestinesi hanno descritto Amer come marito e padre. Pare fosse anche un lavoratore a giornata e stava tornando a casa dal lavoro quando è stato ucciso. Il Centro Internazionale dei media del Medio Oriente (IMEMC) ha informato che la polizia israeliana ha affermato di aver aperto un’inchiesta “per stabilire se l’episodio sia un incidente stradale o un attacco deliberato.”

Nei casi di israeliani uccisi o feriti da conducenti palestinesi, le autorità israeliane spesso si affrettano a definire questi incidenti come attacchi deliberati, o come “attacchi terroristici”, e in genere danno poco spazio quando si tratta di determinare se si sia trattato eventualmente solo di un incidente stradale. In questi casi i conducenti palestinesi sono uccisi sul posto e i loro corpi trattenuti (come ad esempio nel caso di Ahmed Erekat), oppure arrestati e imprigionati con l’accusa di terrorismo.

Il 5 febbraio il trentaquattrenne Khaled Nofal, un ragioniere palestinese padre di un bambino di 5 anni, è stato colpito e ucciso da un colono israeliano nei pressi del villaggio di Ras Karkar, a nordovest dalla città di Ramallah.

Il caso di Nofal è stato ampiamente trattato dai media israeliani, evidentemente in quanto Nofal è stato definito dal colono responsabile della sua morte e dall’esercito israeliano un “terrorista” che avrebbe cercato di “infiltrarsi” in un avamposto di coloni nei pressi del suo villaggio e commesso un’aggressione, benché nessuno, salvo Nofal, sia rimasto ferito nell’incidente.

Il Times of Israel [giornale israeliano in lingua inglese, ndtr.] e Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.] hanno evidenziato che sul corpo di Nofal o sul posto non sono state trovate armi, facendo sorgere dubbi su ciò che Nofal stesse effettivamente facendo lì in quel momento e su come intendesse perpetrare un attacco senza alcuna arma.

Mentre la famiglia di Nofal ha detto ad Haaretz di non essere sicura di quello che egli stesse facendo così vicino all’avamposto in piena notte, il sindaco di Ras Karkar ha detto a Times of Israel che la famiglia di Nofal è proprietaria di terreni nei pressi della zona, una possibile ragione del perché sia andato là.

Tuttavia, a causa del fatto che l’incidente è stato classificato come un “tentativo di attentato terroristico”, secondo il Times of Israel da parte dell’esercito israeliano non è stata avviata nessuna indagine penale nei confronti del colono.

Come informano i media israeliani, Eitan Ze’ev, il colono che ha sparato a Nofal uccidendolo, ha dei precedenti riguardo a spari contro palestinesi disarmati e attualmente è sotto processo per violenza aggravata dopo che ha sparato a due palestinesi durante un diverbio l’estate scorsa nelle vicinanze di Biddya, un villaggio a ovest di Salfit, nel nord della Cisgiordania.

L’arma di Ze’ev sarebbe stata sequestrata dopo che ha sparato a due palestinesi in luglio – anche se alcuni poliziotti hanno affermato che gli dovrebbe essere restituita – provocando ulteriori congetture sul fatto che Ze’ev potesse essere armato prima di uccidere Nofal.

Dopo aver sparato a luglio, Ze’ev ha ricevuto un “attestato di merito” da parte di Yossi Dagan, capo del Consiglio Regionale della Samaria, che all’epoca ha affermato: “Ringraziamo le care persone che hanno protetto le vite di altri e di se stesse contro ribelli barbari e assassini che cercano di linciare ebrei in Samaria.”

Mentre Nofal è stato definito un “terrorista” e un “infiltrato” dai militari israeliani, che hanno preso in considerazione solo la testimonianza dei coloni che hanno sparato a Nofal come prova contro di lui, ufficiali dell’esercito hanno definito Ze’ev “un uomo tranquillo, etico e morale.”

Un’impennata della violenza

Bilal Bawatneh, Azzam Amer e Khaled Nofal sono gli ultimi palestinesi vittime di un’ondata di violenza dei coloni che nelle ultime settimane ha sconvolto la Cisgiordania occupata, con nuove notizie quasi quotidiane di attacchi di coloni contro civili palestinesi sui media palestinesi e israeliani.

Benché la violenza dei coloni contro i palestinesi sia una realtà quotidiana nella vita della Cisgiordania, le associazioni per i diritti umani hanno notato un significativo incremento della violenza dall’inizio dell’anno, che secondo loro va fatta risalire alla morte del colono sedicenne Ahuvia Sandak che è morto il 21 dicembre 2020  durante un inseguimento della polizia israeliana.

Da allora i coloni della Cisgiordania hanno promosso Sandak a martire della loro causa, inscenando proteste contro la polizia israeliana, seminando il caos nelle comunità palestinesi in tutta la Cisgiordania e provocando seri danni fisici e materiali ai palestinesi e alle loro proprietà.

L’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha documentato 49 incidenti riguardanti la violenza dei coloni in Cisgiordania nelle cinque settimane tra il 21 dicembre e il 24 gennaio rispetto a un totale di 108 incidenti di violenza dei coloni contro i palestinesi negli ultimi sei mesi del 2020.

L’associazione ha documentato 28 casi di aggressioni fisiche, 19 casi di lancio di pietre contro veicoli palestinesi, tre sparatorie e sei atti di vandalismo contro proprietà di palestinesi, coltivazioni danneggiate e attacchi contro abitazioni.

Dei 49 casi registrati da B’Tselem, secondo l’associazione 15 palestinesi, tra cui 4 minorenni con meno di 15 anni uno dei quali di 5 anni, sono stati colpiti da pietre.

B’Tselem nota che in almeno 26 tra i casi documentati dalla morte di Sandak le forze di sicurezza israeliane erano presenti quando i coloni hanno condotto gli attacchi contro i palestinesi.  

Invece di arrestare gli aggressori, in cinque casi hanno attaccato i palestinesi, sparando proiettili ricoperti di gomma o lacrimogeni contro di loro e ne hanno feriti due. Negli altri 21 casi le forze non hanno fatto abbastanza per impedire gli attacchi,” afferma l’associazione.

Nelle settimane successive al 24 gennaio, data limite del rapporto di B’Tselem, sono state riportate decine di nuovi casi di violenza dei coloni in Cisgiordania, con almeno 18 attacchi di coloni contro i palestinesi, le loro proprietà e animali d’allevamento riferiti dall’agenzia di notizie Wafa tra il 25 gennaio e il 15 febbraio, esclusi gli assassinii di Batawneh, Amer e Nofal. 

La natura degli attacchi ha incluso tra le altre cose, aggressioni fisiche contro uomini e donne palestinesi, lo sradicamento di decine di ulivi, il danneggiamento di una chiesa, il lancio di pietre contro autobus e automobili private palestinesi.

Effetti “devastanti” a lungo termine

Mentre dalla morte di Ahuvia Sandak c’è stato un chiaro incremento della violenza, B’Tselem ha detto che attribuire alla morte dell’adolescente “la causa della rabbia dei coloni è fuori dalla realtà.”

Invece la violenza dei coloni è di routine, afferma l’associazione, aggiungendo che “per anni i coloni hanno commesso azioni violente contro i palestinesi con il totale sostegno dello Stato, che non fa nulla per impedire il ripetersi di questi attacchi.”

Questo è un regime suprematista ebraico,” ha sostenuto l’associazione.

L’organizzazione israeliana per i diritti umani Yesh Din afferma che le autorità israeliane omettono di indagare i crimini d’odio e gli attacchi dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania, e raramente portano di fronte alla giustizia i responsabili di questi delitti.

Secondo l’associazione, l’82% delle inchieste aperte per “crimini ideologici” contro palestinesi viene chiuso per l’inerzia della polizia e solo l’8% delle indagini su tali delitti porta effettivamente a un’incriminazione.

Inoltre, se imputati, i coloni israeliani che commettono reati contro i palestinesi e le loro proprietà sono giudicati nei tribunali civili israeliani. Nel contempo i palestinesi (compresi i minorenni) che sono accusati di commettere reati contro coloni israeliani e personale della sicurezza sono giudicati da tribunali militari israeliani, che vantano una percentuale di condanne contro i palestinesi superiore al 99%.

Hani Nassar, ricercatore sul campo di Defense for Children International – Palestine [Difesa Internazionale dei Minori – Palestina] (DCIP), che documenta gli attacchi dei coloni che prendono di mira minori palestinesi, dice a Mondoweiss che tali sistemi sono “prove del sistema di apartheid in Cisgiordania” e dell’appoggio del governo israeliano e della sua complicità con il “terrorismo dei coloni”.

Il terrorismo dei coloni non riguarda solo l’aggressione nei confronti delle nostre terre, case e dei nostri alberi, ma esso prende deliberatamente di mira anche le persone e i loro figli,” afferma Nassar, aggiungendo che, mentre gli effetti a breve termine degli attacchi dei coloni possono essere devastanti sia dal punto di vista economico che fisico, gli effetti a lungo termine possono essere ancora più brutali.

Ho visto e documentato gli effetti a lungo termine di questi attacchi sulle famiglie palestinesi, soprattutto sui minorenni,” afferma Nassar, aggiungendo che molti minori e i loro genitori “lottano per affrontare il trauma.”

Per esempio, secondo Nassar, quando ragazzini vengono aggrediti in macchina, spesso mostrano sintomi da stress post traumatico e non vogliono viaggiare in auto, soprattutto di notte (quando avviene la maggior parte degli attacchi). Nei casi di bambini aggrediti in casa, molti mostrano disturbi del sonno, bagnano il letto, hanno incubi, ecc.

La comunità internazionale può leggere le notizie, vedere questi attacchi e dire ‘oh, è triste’, ma vorrei dire a questa gente: venite qui, fate visita alle famiglie che sono state aggredite e vedete quello che i coloni e l’occupazione hanno fatto loro,” dice Nassar. “Forse poi le persone vorranno cambiare le cose.”

La situazione nella vita reale è molto più pericolosa di quanto si possa immaginare quando si leggono le notizie,” afferma. “Abbiamo bisogno che ogni governo, compreso quello palestinese, si attivi e faccia il possibile per difendere queste famiglie. Assumetevi le vostre responsabilità, andate alla Corte Internazionale e accusate i dirigenti israeliani che sponsorizzano questo terrorismo contro di noi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’esercito israeliano giustifica l’uccisione del ragazzo palestinese. I testimoni respingono la sua versione

Oren Ziv

14 dicembre 2020 – +972 magazine

L’esercito israeliano ha giustificato l’uccisione Ali Abu Aliya, 15 anni, sostenendo che la dimostrazione costituisse un pericolo per gli automobilisti nella zona. Ma i testimoni dicono che, quando è stato colpito, il ragazzo si trovava molto lontano dalla strada in questione.

Venerdì 4 dicembre i soldati israeliani hanno sparato e ucciso il 15enne Ali Abu Aliya nel villaggio di al-Mughayyer, vicino a Ramallah, in Cisgiordania. Abu Aliya, che avrebbe dovuto festeggiare il suo compleanno quella sera, è stato colpito da un proiettile vero mentre osservava una manifestazione in corso nel villaggio.

Dopo l’omicidio il portavoce dell’unità delle IDF [l’esercito israeliano, ndtr.] ha sottolineato che i palestinesi “hanno cercato di lanciare grosse pietre e bruciare pneumatici … mettendo a rischio l’incolumità delle auto in transito sulla strada di Allon (la vicina strada principale che attraversa la Cisgiordania da nord a sud)”. Comunque i militari hanno anche affermato di aver aperto un’indagine sull’omicidio.

Tuttavia tre giovani palestinesi che venerdì si trovavano vicino ad Abu Aliya e hanno fatto delle dichiarazioni a +972 testimoniano che Abu Aliya, quando i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro di lui, non si trovava nei pressi della strada di Allon. Inoltre dal punto in cui è stato colpito Abu Aliya sarebbe stato impossibile lanciare pietre verso la strada di Allon o mettere in pericolo in qualunque altro modo chi la percorreva.

Due video pubblicati sui media palestinesi e israeliani in seguito all’incidente mostrano i palestinesi che lanciano grosse pietre, come dichiarato dall’esercito. Ma l’esercito non ha potuto confermare a +972 dove sia stato esattamente filmato il video pubblicato dalla Israeli Public Broadcasting Corporation [l’emittente radiofonica e televisiva pubblica dello Stato di Israele, ndtr.] e secondo l’organizzazione contraria all’occupazione B’Tselem, che ha condotto un’indagine indipendente non ancora pubblicata sulla sparatoria, il video dei palestinesi che lanciano i sassi non sarebbe stato affatto filmato ad al-Mughayyer. I manifestanti che hanno esaminato le riprese hanno dichiarato che sarebbe stato girato a Malik. La distanza tra il villaggio di Malik e al-Mughayyer, dove Abu Aliya è stato ucciso, è di oltre cinque chilometri.

Un mese di proteste

Nel corso dell’ultimo mese, manifestanti palestinesi e israeliani hanno protestato a Samiya, tra Malik e al-Mughayyer, contro un avamposto coloniale non autorizzato insediatosi a est della strada di Allon.

Il 20 novembre, durante una manifestazione, l’esercito israeliano ha bloccato l’uscita da Malik in direzione della strada di Allon, al fine di impedire ai manifestanti di avvicinarsi lungo la strada all’avamposto, distante circa 4 km dalla manifestazione in corso. A causa della decisione dell’esercito di bloccare l’uscita la manifestazione si è trasferita nell’area di una stazione di pompaggio nel villaggio di Ein Samia, a circa 100 metri dalla strada.

Nel frattempo l’esercito ha anche bloccato le vie di accesso tra al-Mughayyer e la strada di Allon per impedire agli abitanti del villaggio di unirsi alla protesta e ai manifestanti di altri villaggi di raggiungere l’avamposto.

Secondo le testimonianze di tre adolescenti che venerdì scorso hanno assistito agli eventi, intorno alle 9 del mattino un contingente militare è entrato a piedi ad al-Mughayyer  mentre i soldati bloccavano l’uscita dal villaggio. Gli scontri sono iniziati su due colline alla periferia del villaggio in seguito all’arrivo dell’esercito. I soldati hanno lanciato granate assordanti e hanno sparato lacrimogeni e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro decine di ragazzi che lanciavano pietre.

“Otto soldati si trovavano sulla collina, poi si sono uniti a loro altri tre o quattro e sono avanzati verso il villaggio”, ha riferito Bassem, il fratello di Abu Aliya, una settimana dopo la morte di Ali. “Non erano agenti della polizia di frontiera. Anche la polizia di frontiera era stata inviata alla manifestazione, e tre di loro avevano fucili da cecchino” (molto probabilmente fucili che sparano proiettili calibro 22, lo stesso che ha ucciso Abu Aliya).

Più tardi quella mattina, tra le 10 e le 11, i soldati hanno raggiunto un sentiero sterrato che porta ad un quartiere della periferia del villaggio, a circa 200 metri di distanza. Dal sentiero non si vede la strada di Allon, e da quel punto non è certo possibile lanciare sassi sulla strada. “Un soldato era appostato a terra con il fucile da cecchino”, continua Bassem, “e in piedi accanto a lui c’era un ufficiale che gli dava istruzioni su dove sparare”.

Bassem e altri due testimoni presenti sulla scena raccontano che i soldati si sono radunati sul sentiero, mentre un piccolo gruppo di ragazzi era nascosto su entrambi i lati del sentiero dietro gli ulivi e un cumulo di terra. “Alcuni di loro scattavano foto e avevano un drone che scattava delle foto dall’alto”, ha detto Ahmad, 17 anni, un amico di Abu Aliya. Secondo le loro testimonianze, alcuni soldati hanno sparato dei lacrimogeni, mentre altri si sono nascosti nella speranza di fermare i lanciatori di pietre.

‘Era il suo compleanno’

Ci sono ancora bossoli sul terreno da dove il cecchino israeliano ha sparato ad Abu Aliya. Sulla base delle misurazioni effettuate dagli abitanti, circa 150 metri dividevano la postazione del cecchino e il luogo in cui Abu Aliya è stato colpito. Anche secondo B’Tselem la distanza tra il soldato e Abu Aliya era di circa 150 metri.

“Ali era in piedi accanto a me, molto lontano dai soldati, e improvvisamente ci siamo accorti che era ferito”, ricorda Ahmad. “Si teneva lo stomaco. Non stava sanguinando, quindi abbiamo pensato che fosse un proiettile di gomma o una ferita leggera. Abbiamo fermato un’auto che lo ha trasportato alla clinica di Turmusayya “.

Parlava ancora”, ha riferito suo fratello Bassem sui momenti successivi alla sparatoria. “Dopo di che ha perso conoscenza.”

Secondo Bassem i soldati hanno continuato a sparare lacrimogeni per un’altra mezz’ora prima di andarsene. Riferisce che molti dei ragazzi sono rimasti nascosti per un po’ di tempo dopo la sparatoria, per paura di essere feriti.

Othman, 17 anni, anche lui sulla scena dell’omicidio, ha detto che i ragazzi avevano sentito gli spari ma non avevano capito cosa fosse successo. “I ragazzi erano vicini ai soldati, ma si sono nascosti ai lati del sentiero perché hanno visto un cecchino. Hanno sbirciato, lanciato pietre e sono tornati indietro “.

Othman non esclude la possibilità che il cecchino abbia cercato di colpire un altro giovane che era più vicino ai soldati rispetto a Abu Aliya e i suoi amici, ma questi all’ultimo momento si sarebbe mosso. Gli altri due testimoni affermano che nessuno si sarebbe trovato tra loro e il cecchino. “Avendo visto che c’era un cecchino i ragazzi che erano vicini ai soldati avevano paura di stare sul sentiero”, ha detto Ahmad. Tutti e tre sottolineano che Abu Aliya non ha partecipato affatto agli scontri.

“Era il suo compleanno”, ha aggiunto Ahmed mentre si trovava dove il suo amico è stato colpito. “Non voleva stare lì a lungo, ha detto che voleva tornare dalla sua famiglia”. Ali è il secondo dei figli che la famiglia ha perso: Wissam, il fratello di Ali e Bassem, è morto di cancro 10 anni fa all’età di nove anni, anche lui il giorno del suo compleanno.

“Sparano per colpire qualcuno e per creare nei giovani la paura di uscire per manifestare”, ha concluso Bassem. “Ma non funziona.”

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [collettivo di fotografi che usano le immagini fotografiche come strumento di lotta per i diritti sociali e contro tutte le forme di oppressione, ndtr.] e cronista di Local Call [organo di informazione online in lingua ebraica in co-edizione con Just Vision e +972 Magazine, ndtr.]. Dal 2003, ha documentato una serie di tematiche sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di attivisti e le loro lotte. Il suo lavoro di reporter si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, a favore degli alloggi a prezzi accessibili e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulla battaglia per la libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Palestinese detenuto da Israele interrompe lo sciopero della fame dopo 103 giorni

6 novembre 2020 – Al Jazeera

Maher ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione di quattro mesi, che termina il 26 novembre ma potrebbe essere prolungata.

Un palestinese incarcerato a luglio da Israele perché presunto membro di un gruppo armato ha interrotto lo sciopero della fame dopo 103 giorni, ha affermato la moglie.

Maher al-Akhras, 49 anni, è stato arrestato nei pressi della città di Nablus, nella Cisgiordania occupata, e posto in detenzione amministrativa, una politica che Israele utilizza per incarcerare sospetti senza accuse.

Venerdì [6 novembre] sua moglie Taghrid ha detto all’agenzia di notizie AFP che Maher “dopo 103 giorni ha interrotto lo sciopero della fame.”

In una telefonata dall’ospedale di Rehovot, una città israeliana a sud di Tel Aviv in cui suo marito è in cura, ha detto di essere “contenta” per la decisione, ma ancora “preoccupata” date le sue gravissime condizioni di salute.

Non ci sono stati commenti immediati da parte delle autorità israeliane in merito a se hanno offerto qualche garanzia particolare a Maher, ricoverato in un ospedale israeliano per problemi di cuore e convulsioni, secondo sua moglie.

In precedenza, sempre venerdì, Taghrid ha detto che Maher stava per morire, con gravi spasmi ed emicrania.

L’agenzia israeliana per la sicurezza interna Shin Bet afferma che Maher è stato arrestato in seguito a informazioni secondo cui egli sarebbe un militante dell’organizzazione armata Jihad Islamica, un’accusa che la moglie smentisce.

Padre di sei figli, ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro il suo ordine di detenzione di quattro mesi, che finisce il 26 novembre, ma potrebbe essere prolungato.

Maher aveva giurato che avrebbe continuato a rifiutare cibo solido nonostante la decisione della Corte Suprema israeliana ad ottobre di non prolungare la sua detenzione oltre quella data.Ma, dopo aver ricevuto quella che essa ha definito “un forte impegno (da parte di Israele) di non rinnovare la sua detenzione amministrativa… Maher Al-Akhras ha deciso di porre fine allo sciopero della fame,” ha detto venerdì in un comunicato il Palestinian Prisoners Club [associazione indipendente di ex-detenuti palestinesi, ndtr.], che opera a favore dei prigionieri.

Passerà in cura nell’ospedale il periodo [di detenzione] fino al suo rilascio,” aggiunge il comunicato.

Cinque membri della Lista Araba Unita [coalizione di partiti arabo-israeliani, ndtr.] nel parlamento israeliano, che hanno visitato Maher in ospedale, hanno diffuso su Facebook l’annuncio della fine dello sciopero della fame.

Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha chiesto il suo immediato rilascio, mentre palestinesi e cittadini palestinesi di Israele hanno manifestato in suo favore.

Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, nell’agosto di quest’anno erano circa 355 i palestinesi, compresi due minorenni, detenuti per ordini di detenzione amministrativa.

Molti prigionieri palestinesi affermano di essere stati sottoposti a torture e violenze mentre erano in prigione. Negli ultimi anni ci sono state molte proteste, tra cui parecchi scioperi della fame, contro le pessime condizioni carcerarie.

Molti detenuti soffrono anche per la scarsa assistenza sanitaria nelle prigioni. I carcerati devono pagare per l’assistenza medica e non gli vengono fornite cure adeguate.

Al Jazeera ha in precedenza informato che molti hanno ricevuto antidolorifici come cure e come trattamento per malattie croniche.

Secondo Addameer, organizzazione che aiuta i prigionieri, da settembre 4.400 prigionieri politici palestinesi, tra cui 39 donne e 155 minorenni, sono stati incarcerati nelle prigioni israeliane.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Secondo l’ONU le forze israeliane lasciano senza casa 41 minorenni dopo aver raso al suolo un villaggio palestinese

Oliver Holmes da Gerusalemme

5 novembre 2020 – The Guardian

Le demolizioni utilizzate come “mezzo fondamentale” per “obbligare i palestinesi a lasciare le proprie case”

Secondo le Nazioni Unite, con il più vasto episodio di espulsione forzata da anni, le forze israeliane hanno raso al suolo un villaggio palestinese della Cisgiordania occupata, lasciando senza casa 73 persone, tra cui 41 minori.

Macchine movimento terra, scortate da veicoli militari, sono state filmate mentre si avvicinavano a Khirbet Humsa e procedevano a spianare o distruggere tende, baracche, stalle, gabinetti e pannelli solari.

Sono alcune delle comunità più vulnerabili della Cisgiordania,” ha affermato Yvonne Helle, coordinatrice umanitaria dell’ONU per i territori palestinesi occupati.

Durante l’operazione di martedì i tre quarti della comunità hanno perso dove ripararsi, ha detto, facendone il più ampio episodio di espulsione forzata in più di quattro anni. In ogni caso, per il numero di strutture distrutte, 76, l’incursione è stata l’operazione di demolizione più vasta dell’ultimo decennio, ha aggiunto.

Mercoledì alcune famiglie del villaggio sono state viste rovistare nel vento tra i propri beni distrutti, mentre lo stesso giorno sono iniziate le prime piogge dell’anno. L’ONU ha pubblicato una foto di un letto e di un lettino in pieno deserto.

Il villaggio è una delle numerose comunità di beduini e pastori nella zona della Valle del Giordano che si trova all’interno di un’“area di tiro” per l’addestramento dell’esercito decretata da Israele e, nonostante sia all’interno dei territori palestinesi, lì la gente spesso deve affrontare demolizioni di edifici costruiti senza il permesso israeliano.

I palestinesi non riescono mai a ottenere tali permessi,” ha affermato Helle. “Le demolizioni sono un mezzo fondamentale per creare un contesto destinato ad obbligare i palestinesi a lasciare le proprie case,” ha detto, accusando Israele di “gravi violazioni” delle leggi internazionali.

Ha affermato che finora nel 2020 in Cisgiordania e Gerusalemme est sono state demolite circa 700 strutture, più di ogni altro anno dal 2016, lasciando senza casa 869 palestinesi.

L’Amministrazione Civile israeliana, l’ente incaricato di gestire l’occupazione, ha detto di aver messo in atto un “provvedimento giudiziario… contro sette tende e otto recinti costruiti illegalmente in un campo da tiro nella Valle del Giordano.”

Questi dati contraddicono il comunicato dell’ONU e un resoconto stilato sul posto dall’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, secondo cui le forze militari hanno distrutto 18 tende e baracche che ospitavano 11 famiglie, 29 tende e baracche usate come stalle per gli animali, tre baracche adibite a magazzini, nove tende utilizzate come cucine, 10 gabinetti mobili, 10 recinti per il bestiame, 23 cisterne per l’acqua, due pannelli solari e mangiatoie e abbeveratoi per il bestiame.

Le forze israeliane hanno distrutto anche più di 30 tonnellate di cibo per animali e confiscato un veicolo e due trattori di proprietà di tre abitanti, ha aggiunto l’associazione.

Come parte dei suoi tentativi di impossessarsi di sempre più terra palestinese, Israele demolisce regolarmente case e proprietà palestinesi,” ha affermato il portavoce di B’Tselem, Amit Gilutz.

Ma spazzare via un’intera comunità in un colpo solo è molto raro, e sembra che Israele stia approfittando del fatto che l’attenzione di tutti sia attualmente altrove per procedere con questa azione inumana,” ha detto, riferendosi alle elezioni USA.

Israele ha strappato la Cisgiordania alle forze giordane nel 1967 e continua a controllare e occupare la zona, anche se i palestinesi hanno un ridotto autogoverno su piccole enclave.

Il primo ministro del Paese e sostenitore della linea dura, Benjamin Netanyahu, ha affermato di aver intenzione di annettere grandi aree dei territori occupati, compresa la Valle del Giordano, benché il progetto sia stato temporaneamente “sospeso” come parte di un accordo con gli Emirati Arabi Uniti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele e il “trasferimento silenzioso” dei palestinesi fuori dalla Palestina

Ibrahim Husseini

27 settembre 2020 – Al Jazeera

Conferendo un precario status di residenza a Gerusalemme Est, Israele è riuscito a revocare e successivamente sradicare più di 14.200 palestinesi.

Gerusalemme Est occupata – Mentre un numero sempre maggiore di Paesi arabi normalizza le relazioni con Israele, si procede con una politica di “trasferimento silenzioso” – un intricato sistema che prende di mira i palestinesi nella Gerusalemme est occupata con revoca della residenza, espulsione attraverso la demolizione di case, ostacoli per ottenere licenze edilizie e tasse elevate.

Il ricercatore palestinese Manosur Manasra segnala che Israele ha iniziato questa politica ostile di trasferimento dei palestinesi da Gerusalemme est quasi immediatamente dopo la guerra del 1967 e la successiva occupazione della parte orientale della città.

Questa politica continua ancora oggi, con l’obiettivo di prendere il controllo di Gerusalemme Est.

L’espropriazione di terra per permettere l’insediamento di ebrei è avvenuta sin dal 1968 intorno a Gerusalemme est e nel cuore dei quartieri palestinesi quali i quartieri musulmani e cristiani della città vecchia e oltre, a Sheikh Jarrah, Silwan, Ras al-Amoud e Abu Tur.

Dopo la guerra del giugno 1967, Israele ha applicato la legge israeliana a Gerusalemme Est e ha concesso ai palestinesi uno status di “residente permanente”, che però è in realtà precario. B’tselem, il centro israeliano di informazione sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, descrive questo status come “accordato a cittadini stranieri che desiderano risiedere in Israele” – senonché i palestinesi sono nativi del territorio.

I palestinesi di Gerusalemme est non hanno automaticamente diritto alla cittadinanza israeliana né l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) rilascia passaporti palestinesi. Di solito possono ottenere documenti di viaggio temporanei giordani e israeliani.

Assegnando ai palestinesi di Gerusalemme est un precario status di residenza, Israele è riuscito dal 1967 a revocare e successivamente sradicare da Gerusalemme est più di 14.200 palestinesi.

Queste misure sono unite ad una aggressiva pratica di demolizione di case. Le demolizioni di case in Cisgiordania non si sono fermate nonostante la pandemia di coronavirus.

Secondo le Nazioni Unite, il numero degli sfrattati è quasi quadruplicato da gennaio ad agosto 2020 e c’è stato un aumento del 55% delle strutture oggetto di demolizione o confisca rispetto all’anno precedente.

Il mese scorso a Gerusalemme Est sono stati demoliti 24 edifici, metà dei quali dagli stessi proprietari a seguito dell’emissione di un ordine di demolizione da parte del comune di Gerusalemme.

Lo status di “residenza permanente” si mantiene fino a che i palestinesi rimangono fisicamente in città. Tuttavia, in alcuni casi, le autorità israeliane decidono di ritirare lo status di residenza ai palestinesi di Gerusalemme est come provvedimento punitivo perché sono dissidenti politici. La persecuzione da parte di Israele degli attivisti palestinesi è tentacolare e non esclude alcuna fazione.

Il caso più recente è quello del 35enne Salah Hammouri, avvocato e attivista. Arye Deri, ministro degli Interni israeliano, afferma che Salah è membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP). Israele ha messo fuori legge il gruppo e vuole cacciarlo dal Paese.

In alcuni casi, le autorità israeliane annullano per rappresaglia i permessi di soggiorno dei coniugi di attivisti politici. Shadi Mtoor, un membro di Fatah a Gerusalemme Est, sta attualmente combattendo una causa nei tribunali israeliani per mantenere a Gerusalemme Est la residenza di sua moglie, originaria della Cisgiordania.

Nel 2010, Israele ha revocato la residenza a Gerusalemme di quattro alti membri di Hamas – tre dei quali sono stati eletti al parlamento palestinese nel 2006 e uno è stato ministro di gabinetto – perché rappresentano un pericolo per lo Stato. Tre ora vivono a Ramallah e uno è in detenzione amministrativa [cioè senza imputazione, ndtr.]. Il 26 ottobre è prevista un’udienza presso l’Alta Corte israeliana.

In alcuni casi, Israele non rilascia il documento di residenza a bambini il cui padre sia di Gerusalemme e la madre cisgiordana.

Il diritto internazionale condanna esplicitamente il trasferimento forzato di civili.

“In definitiva, la nostra decisione è di rimanere in questa città”, dice Hammouri.

All’inizio di settembre è stato convocato dalla polizia israeliana e informato dell’intenzione del Ministero degli Interni israeliano di revocare la sua residenza a Gerusalemme.

“Mi è stato detto che costituisco un pericolo per lo Stato e che appartengo al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, ha detto Hammouri.

Cittadino francese, Hammouri è nato a Gerusalemme da padre palestinese e madre francese. Nel 2017, la famiglia si è divisa quando Israele ha vietato a sua moglie, Elsa, anche lei di nazionalità francese e all’epoca incinta, di entrare nel Paese. Si disse che fosse a causa di un file segreto in possesso di Israele.

Hammouri si aspetta che, dopo la revoca formale della sua residenza, Israele lo espellerà verso la Francia. Il governo francese, in risposta, ha rilasciato una dichiarazione chiedendo a Israele di consentire ad Hammouri di continuare a risiedere a Gerusalemme.

E afferma: “Il signor Salah Hammouri deve poter condurre una vita normale a Gerusalemme, dove è nato e dove risiede”.

Il Ministero degli Esteri israeliano sostiene che Hammouri è “un agente operativo di alto livello” di un’organizzazione terroristica e continua a impegnarsi in “attività ostili” contro lo Stato di Israele.

È ora in corso in Francia una campagna di solidarietà che invoca il diritto di Hammouri di mantenere la sua residenza a Gerusalemme, e i diplomatici francesi a Gerusalemme stanno attualmente negoziando con i funzionari israeliani per convincerli a revocare la decisione. Hammouri intende ricorrere in tribunale contro la revoca della sua residenza.

Hammouri ha trascorso in tempi diversi più di otto anni nelle carceri israeliane. Nel 2011, dopo una condanna a sette anni di reclusione, è stato liberato grazie ad un accordo per lo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele (noto come accordo Shalit [dal nome di un soldato israeliano rimasto per 5 anni prigioniero a Gaza e scambiato con più di 1.000 detenuti palestinesi, ndtr.]).

Sahar Francis, direttore della Prisoner Support and Human Rights Association [Associazione per il Sostegno e i Diritti Umani dei Prigionieri, ndtr.] nota come Addameer, ha detto ad Al Jazeera: “Secondo il diritto internazionale la revoca della residenza è illegale “.

Lo Stato di occupazione non ha il diritto di togliere la residenza alle persone, protette ai sensi della Quarta Convenzione di Ginevra. Si chiama trasferimento forzato, e il trasferimento forzato è proibito”, ha detto Francis.

Il FPLP si è inizialmente opposto agli accordi di Oslo del 1993, ma poi è arrivato ad accettare la soluzione dei due Stati. Tuttavia nel 2010 ha invitato l’OLP a porre fine ai negoziati con Israele e ha affermato che è possibile solo la soluzione di uno Stato unico per palestinesi ed ebrei.

“Vedo un orizzonte molto buio”, dice Khaled Abu Arafeh, 59 anni, ex Ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese.

“Israele farà fruttare i recenti sviluppi locali e regionali della normalizzazione e il risultato sarà l’espulsione degli abitanti della Cisgiordania e la riformulazione dello status dei palestinesi del 1948”, aggiunge.

Abu Arafeh è stato Ministro per le Questioni di Gerusalemme tra marzo 2006 e marzo 2007 nel governo di Ismail Haniyeh, formato dopo che Hamas ha ottenuto la maggioranza dei seggi alle elezioni parlamentari del 2006.

Due mesi dopo la formazione del governo palestinese, la polizia israeliana ha notificato a tre membri del Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) e al ministro del governo Abu Arafeh, tutti di Gerusalemme, che avevano 30 giorni per lasciare il loro incarico o il loro status di residenti sarebbe stato revocato.

La minaccia della polizia israeliana è stata respinta e i quattro sono ricorsi in tribunale per contestare l’ultimatum del ministero dell’Interno.

Il 29 giugno 2006, la polizia israeliana ha condotto un’ampia campagna di arresti che ha preso di mira 45 membri neoeletti del PLC e 10 ministri del governo. I membri del PLC di Gerusalemme Muhammad Abu Teir, Muhammad Totah, Ahmad Atoun e Abu Arafeh erano tra gli arrestati. Israele li ha accusati di appartenere alla lista “Riforma e Cambiamento”, affiliata al movimento islamico Hamas.

Abu Arafeh è stato condannato a 27 mesi di prigione ed è stato rilasciato nel settembre 2008. Abu Teir e Totah sono stati condannati a pene più lunghe e sono stati rilasciati solo a maggio 2010.

Il 1 giugno 2010, la polizia israeliana ha di nuovo convocato i quattro. Questa volta è stato ordinato loro di consegnare i loro documenti di identità di Gerusalemme e gli è stato concesso un mese per lasciare Israele.

Proprio quando il termine stava per scadere, la polizia israeliana ha arrestato Abu Teir.

Abu Arafeh, Atoun e Totah, presentendo un imminente arresto, si sono rifugiati nell’edificio del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) a Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. La loro permanenza è durata 19 mesi, e vivevano in una tenda all’interno dei locali. La polizia israeliana ha infine preso d’assalto l’edificio e arrestato i tre uomini.

Sono stati accusati di appartenere a un “gruppo terroristico” e di ricoprire ruoli importanti nel movimento di Hamas, nonché di istigazione contro lo Stato di Israele. Sono stati condannati a due anni di carcere. Dopo il loro rilascio, si sono stabiliti a Ramallah.

“Lontano da al-Quds [Gerusalemme per i musulmani, ndtr.], mi sento tagliato fuori, assolutamente un estraneo”, ha lamentato Abu Arafeh.

La famiglia di Abu Arafeh continua a risiedere a Gerusalemme est. “Vivo a Ramallah e loro vivono ad al-Quds”, ha detto Abu Arafeh ad Al Jazeera. “Mi vengono a trovare ogni fine settimana e poi tornano a casa.”

Atoun è attualmente in detenzione amministrativa, la sua quarta dal 2014.

Nel 2018, l’Alta Corte israeliana ha stabilito che la decisione del Ministero degli Interni di revocare lo status di residente era illegale in quanto non c’erano leggi a sostegno. Tuttavia, ha dato al ministro degli Interni sei mesi per presentare una legge alla Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.]. La Knesset ha approvato una legge che consente la revoca della residenza a individui ritenuti non fedeli allo Stato di Israele.

Fino ad oggi i quattro palestinesi non hanno documenti d’identità che permettano loro di attraversare i posti di blocco israeliani all’interno della Cisgiordania. L’unico documento che hanno potuto ottenere è stata la patente di guida dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma solo dopo l’approvazione da parte dell’esercito israeliano.

Poiché non hanno documenti d’identità, raramente si avventurano fuori Ramallah per paura di essere fermati e arrestati a un posto di blocco israeliano.

I quattro si sono appellati alle leggi dell’Alta Corte e hanno chiesto a Israele di fornire loro una residenza alternativa che consenta loro di vivere legalmente in Cisgiordania. Per il 26 ottobre è prevista un’udienza in tribunale, ma Abu Arafeh non si aspetta una sentenza.

Non ci aspettiamo una decisione; l’autorità di occupazione sta usando il tempo contro di noi”, ha detto.

Una donna palestinese ventiquattrenne, che ha chiesto di essere identificata come JA, è nata nella città di Betlemme in Cisgiordania. Suo padre è di Gerusalemme Est e possiede un documento di identità di Gerusalemme. Ma sua madre è di Betlemme e possiede una carta d’identità rilasciata dall’Autorità Nazionale Palestinese.

Il Ministero degli Interni israeliano ha respinto tutte le domande di rilascio di una carta d’identità a JA perché è nata in Cisgiordania. Peraltro, l’ANP non le ha rilasciato una carta d’identità perché suo padre ha un documento d’identità di Gerusalemme.

Quindi attualmente JA non ha alcun documento. Questa situazione le ha causato infiniti problemi nell’iscrizione a scuola, nella ricerca di un impiego, nell’apertura di un conto in banca e in altre necessità ordinarie. Non ha mai viaggiato.

JA sta ora intentando una causa contro il Ministero degli Interni israeliano nel tentativo di ottenere una residenza legale.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Due palestinesi feriti dai soldati israeliani durante un attacco dei coloni ebrei

Redazione, WAFA e Social Media

26 settembre 2020 – Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa palestinese WAFA, oggi (26 settembre) due palestinesi sono stati feriti dalle forze di occupazione israeliane durante gli scontri scoppiati nel villaggio di Qusra, vicino a Nablus in Cisgiordania, in seguito a un attacco di coloni ebrei contro due allevamenti di pollame di proprietà palestinese.

Ghassan Daghlas, che monitora le attività delle colonie ebree nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito a WAFA che un gruppo di coloni ha attaccato le aziende situate alla periferia di Qusra, saccheggiandole e distruggendone il contenuto.

I coloni hanno anche incendiato un trattore parcheggiato in una delle fattorie e danneggiato dei serbatoi dell’acqua.

Daghlas ha detto che, mentre gli abitanti correvano per proteggere le loro proprietà, dei soldati israeliani che erano in zona sono intervenuti, ma solo per proteggere i coloni, attaccando i palestinesi.

Nel corso degli scontri i militari israeliani hanno sparato proiettili di gomma verso gli abitanti del villaggio, ferendone due.

La violenza dei coloni contro i palestinesi e le loro proprietà in Cisgiordania è di routine e raramente viene perseguita dalle autorità israeliane.

La violenza dei coloni non dovrebbe essere vista separatamente da quella inflitta dall’esercito israeliano, ma inquadrata nel più ampio contesto della violenta ideologia sionista che domina tutta la società israeliana,” scrive il palestinese Ramzy Baroud, scrittore e direttore di The Palestine Chronicle.”

Secondo B’tselem, gruppo [israeliano] per i diritti umani, “la violenza dei coloni ormai da lungo tempo fa parte della vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione. Le forze di sicurezza israeliane permettono queste azioni, in alcuni casi fanno persino da scorta armata o partecipano agli attacchi che finiscono con il ferimento o la morte di palestinesi, oltre a danni a terreni e proprietà.

Tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania occupata vivono tra i 500.000 e i 600.000 israeliani in colonie per soli ebrei in violazione delle leggi internazionali.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Sprofondate nella disperazione: le politiche di Israele colpiscono le famiglie di Gaza che vivono di pesca

9 settembre 2020 – B’Tselem

Il 12 agosto 2020 Israele ha ridotto da 15 a 8 miglia nautiche [da 27 a 15 km, ndtr.] la zona di pesca nelle acque di Gaza, ufficialmente a causa dei palloni esplosivi lanciati verso Israele. Il 16 agosto 2020 ha poi interdetto totalmente l’accesso al mare di Gaza, ma il 2 settembre 2020 l’ha riaperto entro le 15 miglia. Questa restrizione va ad aggiungersi a varie altre forme di pene collettive inflitte ai pescatori palestinesi dall’inizio del blocco imposto da Israele sulla Striscia nel 2007. Israele ha arrestato pescatori e ne ha confiscato le imbarcazioni, proibito l’importazione di materie prime usate per le riparazioni e sparato ai pescherecci accusati di oltrepassare i limiti permessi. A oggi il fuoco israeliano ha ucciso sette pescatori, ferendone centinaia. Le restrizioni hanno quasi portato al crollo dell’industria ittica: al momento ci sono meno di 4.000 pescatori invece dei circa 10.000 di vent’anni fa. Chi è rimasto soffre per le pericolose condizioni di lavoro imposte da Israele e vive con la propria famiglia in povertà estrema.

Le seguenti testimonianze sono state raccolte sul campo per noi da Olfat al-Kurd fra mogli e madri di pescatori e pescivendoli a Gaza. Descrivendo la loro dolorosa realtà e il loro futuro incerto, le donne hanno parlato della costante paura per i loro cari e dei gravi problemi economici creati dalle restrizioni israeliane al loro sostentamento e destinate a peggiorare a causa della pandemia.

Nella sua testimonianza del 5 agosto 2020, Intesar a-Sa’idi (52 anni), mamma con sei figli che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, descrive le difficoltà economiche e la tragedia personale che affliggono la sua famiglia:

Quando Muamen va a lavorare sono preoccupata perché penso che non ritornerà, mi tranquillizzo solo quando è di nuovo a casa.

Agli inizi del 2018, Muamen era andato a pesca e non era tornato per molto tempo. Ho avuto paura per la sua vita quando ho saputo da altri pescatori della nostra famiglia che i soldati l’avevano arrestato. Ero terrorizzata e in lacrime. All’epoca i soldati avevano in custodia anche suo fratello. Avevo paura che non sarebbe tornato a casa. Nostro figlio Muhammad aveva solo sette mesi.

Per tre settimane non abbiamo saputo dove lo tenessero e non ho quasi dormito o mangiato. Finalmente l’hanno liberato. Quando è entrato in casa, quasi non credevo ai miei occhi, piangevo e ridevo, l’ho abbracciato, ero così felice.

Dopo l’arresto, nonostante i rischi, è tornato a pescare, è l’unico lavoro che sa fare. Fra il 2013 e il 2017 i soldati hanno confiscato tre dei pescherecci della famiglia e finora ne hanno restituito solo uno. L’anno scorso i fratelli di Muamen hanno comprato una barca e lui ha ricominciato a lavorare con loro, 5 fratelli in una barca. Ogni fine-settimana riceve 150 shekel (circa 40 euro), ma non è abbastanza per noi quattro, specialmente perché i bambini sono piccoli e hanno bisogno di pannolini e latte ogni giorno. La mia vita gira intorno a prestiti e debiti con famigliari e amici. Mia suocera ogni tre o quattro mesi prende 750 shekel (185 euro) dal Ministero del Welfare e li divide fra i figli. Mio marito li usa tutti per saldare i nostri debiti. Qualche volta fa dei prestiti per comprare reti e remi e quando vende il pesce usa tutti i soldi per ripagare i debiti.

Quando sento che i soldati hanno aperto il fuoco contro i pescatori chiamo immediatamente i miei cognati per sapere di Muamen e non sono tranquilla finché non è a casa. Anche lui ha paura di essere arrestato o ucciso, questo mi rende ancora più agitata. Gli chiedo di non dire cose così e di tornare sano e salvo, se dio vuole.

Qualche volta dico a Muamen che spero cambi lavoro per i pericoli che vengono dal mare e dall’esercito israeliano. Gli chiedo di cercarsene un altro e di smettere con la pesca, ma lui dice che la situazione a Gaza è difficile e non c’è nient’altro. Mi chiede di essere paziente e sperare in tempi migliori.

Prego dio che tenga I’esercito israeliano lontano da mio marito e dagli altri pescatori. Prego che la nostra situazione economica migliori, per un futuro sicuro per i nostri figli e perché mio marito rimanga sano e salvo e che non venga ferito.

Anche ‘Ula a-Sa’idi (36), mamma di nove bambini che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, parla delle difficoltà di dipendere dalla pesca:

Mio marito (42 anni) ha fatto il pescatore fin da quando ci siamo sposati 18 anni fa. È un lavoro impegnativo e non mi piace perché è molto pericoloso, anche se tutti i miei parenti sono pescatori. Ma è la nostra sola fonte di reddito, così dobbiamo vivere con questo rischio.  Abbiamo dei problemi economici. Dall’inizio del blocco, il guadagno di mio marito è crollato a 700 shekel (~170 euro) al mese. Adesso, anche se lavora duro, guadagniamo al massimo 500 shekel (~120 euro). È piuttosto poco e non basta per le nostre necessità. Prendevo un sussidio di 1.800 shekel (~445 euro) dal Ministero dei servizi sociali ogni tre o quattro mesi. Dopo quattro anni è sceso a 700 shekel che non bastano per vivere e qualche volta neppure per i bisogni giornalieri o per comprare dei vestiti nuovi ai bambini per le vacanze.

Dallo scoppio del coronavirus, le cose sono persino peggiorate perché la situazione economica a Gaza è pessima e la gente compra meno pesce, ci sono meno stranieri, meno grandi eventi e ordinazioni.  

Mio marito lavora con il fratello sulla sua barca. Va in mare alle tre del mattino e torna dopo le tre del pomeriggio. Quando va a pesca, prego dio che lo tenga lontano dai soldati e dai loro proiettili. Non sono tranquilla fino a quando non torna a casa o mi chiama. Quando è fuori, sono molto in ansia, specialmente quando sento che sparano ai pescatori. Divento nervosa e lo chiamo immediatamente per controllare che stia bene. Anche i miei bambini stanno in ansia quando sentono degli spari e si chiedono quale dei pescatori è stato arrestato e sperano non sia papà. Io cerco di calmarli, dico di essere pazienti, che papà tornerà a casa. Quando mio marito è in ritardo, nostro figlio Anas di 9 anni è così preoccupato che va al porto ad aspettarlo.

Per una moglie avere un marito pescatore è la cosa peggiore. D’inverno mio marito soffre per il gran freddo e così mi preoccupo anche di quello, oltre ai pericoli del mare e più di tutto delle sparatorie contro i pescatori. Ogni volta che qualcuno mi dice che i soldati hanno sparato contro i pescatori, sento che sto per perdere mio marito. Prego dio che ce lo riporti sano e salvo.

I soldati hanno arrestato mio marito varie volte, l’ultima nel 2018. Nel 2007 è stato in prigione per sei mesi. Avevano anche confiscato due delle nostre barche e quattro motori e li hanno bloccati nel porto di Ashdod. Di solito l’esercito non li restituisce dopo la confisca.

Spero che un giorno la nostra situazione migliori. Vorrei che ci restituissero i nostri pescherecci, così mio marito avrebbe la sua barca, e che allarghino la zona di pesca. Voglio vivere dignitosamente, sicura per il futuro dei bambini e in grado di soddisfare i loro bisogni e desideri. Spero che non diventeranno pescatori, è un lavoro duro e pericoloso.

A.M. (49 anni), sposata e con nove figli, vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, il cui marito è un commerciante di pesce, in una testimonianza rilasciata il 9 agosto 2020 dice:

Mi sono sposata nel 1989. Mio marito ha lavorato nel settore del pesce da quando aveva 12 anni. Lavorava con il padre pescivendolo e con altri parenti. Ho nove figli dai sei ai 29 anni. Viviamo vicino alla costa e molti dei nostri parenti sono in questo settore.

Nei primi anni di matrimonio c’era un sacco di pesce e poca concorrenza. Mio marito andava al mercato alle 3 del mattino e portava a casa grandi quantità di pesce, lo puliva e lo portava al mercato. Di solito lo vendeva tutto nel giro di due ore e tornava a casa. Avevamo un buon reddito di circa 3.000-4.000 shekel mensili (~ 740-990 euro).

È andata avanti così per anni e avevamo un alto livello di vita, ci siamo comprati la casa e avevamo tutto quello che ci serviva, mi ero persino comprata dei gioielli d’oro. Abbiamo allevato i nostri figli in un momento in cui le nostre finanze erano ottime, non gli è mancato niente, vivevamo felici e tranquilli.

Circa 13 anni fa, quando Israele ha cominciato il blocco su Gaza, le cose sono cambiate. Gli affari ne hanno sofferto, la zona di pesca è stata limitata e talvolta la pesca è stata completamente vietata. Il pesce era scarso e caro per i commercianti e i consumatori. D’estate quando ce n’era tanto, la gente ne comprava 4/5 chili, adesso uno o due.

Qualche volta mio marito deve portarsi a casa un po’ o quasi tutto il pesce. Sta al mercato tutto il pomeriggio e la sera cercando invano di venderlo. È impossibile tenere al fresco il pesce per la scarsità di energia elettrica e qualche volta va a male.    

Dall’inizio del blocco le nostre finanze sono peggiorate. Mio marito non possiede una bancarella al mercato e così affitta uno spazio largo un metro o due a circa 10 shekel (~2,50 euro) al giorno. I bambini lavorano con lui, ma in totale non guadagniamo più di 1,500 shekel (~ 370 euro) al mese e siamo in 14 in famiglia. Due figli sono sposati e uno ha dei bambini, ma viviamo tutti nella stessa casa. Anche se siamo una famiglia numerosa, non prendiamo sussidi perché mio marito lavora in proprio. Per saldare i debiti e pagare per i matrimoni dei nostri figli ho venduto tutto il mio oro e 250 mq di terra che avevo comprato. Uno dei nostri figli ha abbandonato l’università perché non potevamo continuare a pagare le rette. Dall’inizio della crisi da coronavirus la situazione è peggiorata: ristoranti e hotel non comprano quasi più pesce perché restano chiusi per lunghi periodi e a Gaza non ci sono visitatori perché i confini sono chiusi. La crisi ha veramente danneggiato il lavoro di mio marito al mercato.  

È molto dura non essere in grado di soddisfare le necessità dei miei figli. Non ho potuto comprare i vestiti per le vacanze da festa e per l’inizio dell’anno scolastico. Devono usare vestiti, zainetti e persino scarpe dell’anno scorso. Mi fa male al cuore perché avrei veramente voluto dar loro delle cose nuove! Ma non possiamo permettercelo e quando chiedono qualcosa, come andare in gita, ogni volta devo rimandare. Mi fa male perché mi piacerebbe vedere i loro occhi riempirsi di gioia.

La situazione è deprimente e opprimente, ma so che non c’è un altro lavoro per mio marito o per i nostri figli. Spero che la nostra situazione migliori.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“Morire per pescare”: come la pirateria israeliana ha distrutto la prospera industria ittica di Gaza

Ramzy Baroud

28 agosto 2020 – Middle East Monitor

Il 16 agosto la marina israeliana ha dichiarato zona militare chiusa il mare di Gaza. Il giorno dopo un gruppo di pescatori di Gaza ha deciso di cercare di pescare a meno di due o tre miglia nautiche dalla costa di Gaza. Appena gettate le reti attorno a loro hanno iniziato a fischiare le pallottole della marina israeliana.

Poco dopo lincidente ho parlato con uno dei pescatori. Il suo nome è Fathi.

Mia moglie, i miei otto figli ed io, tutti viviamo della pesca. La marina israeliana oggi ci ha sparato e ci ha chiesto di lasciare il mare. Ho dovuto tornare dalla mia famiglia a mani vuote, senza pesce da vendere e senza niente da dare ai miei figli, dice Fathi.

La storia di questo pescatore è tipica. Secondo lassociazione israeliana per i diritti umani BTselem circa il 95% dei pescatori di Gaza vive al di sotto del livello di povertà.

I pescatori di Gaza sono dei veri eroi. Contro ogni previsione, per assicurare la sopravvivenza delle loro famiglie ogni giorno affrontano il mare.

In questo contesto la marina israeliana equivale agli odierni pirati, apre il fuoco contro questi uomini – e in qualche caso donne – palestinesi, a volte affondando le barche e riportandole sulla costa. A Gaza da quasi 13 anni questa è stata la routine.

Appena Israele ha dichiarato la chiusura completa della zona di pesca di Gaza, ha impedito a migliaia di pescatori di poter mantenere le loro famiglie, distruggendo così un ulteriore settore della falcidiata economia di Gaza.

Lesercito israeliano ha giustificato la sua azione come una rappresaglia contro i manifestanti palestinesi che, a quanto è stato affermato, negli ultimi giorni hanno lanciato palloni incendiari contro Israele. Quindi, in base alle carenti regole dei principali giornali, la decisione israeliana può sembrare razionale. Tuttavia una semplice verifica sullargomento rivela tuttaltra storia.

Di fatto i manifestanti palestinesi hanno lanciato contro Israele palloni incendiari che, a quanto si dice, provocano incendi in alcune zone agricole nei pressi di Gaza occupata. Tuttavia lazione in sé è stata una disperata richiesta di attenzione.

Gaza è quasi priva di carburante. Lunico generatore di energia della Striscia è stato spento ufficialmente il 18 agosto. Anche il valico di Karem Abu Salem, che consente che approvvigionamenti appena sufficienti arrivino a Gaza attraverso Israele, è stato chiuso per un ordine militare israeliano. Il mare, lultima risorsa di Gaza, è diventato di recente una guerra unilaterale tra la marina israeliana e la sempre più ridotta popolazione di pescatori di Gaza. Tutto ciò ha inflitto gravi danni a una zona che ha già dovuto patire terribili sofferenze.

Una volta florido, il settore della pesca a Gaza è stato quasi distrutto in seguito all’assedio israeliano. Nel 2000, per esempio, l’industria ittica di Gaza contava più di 10.000 pescatori. Gradualmente il loro numero si è ridotto a 3.700, benché molti di essi siano pescatori solo di nome, dato che non possono più uscire in mare, riparare le proprie imbarcazioni danneggiate o permettersene di nuove.

Quelli che continuano a praticare la professione lo fanno perché è, letteralmente, il loro ultimo mezzo di sopravvivenza: se non pescano, le loro famiglie non mangiano. La storia dei pescatori gazawi è anche la storia dellassedio di Gaza. Nessunaltra professione è stata così direttamente legata ai mali di Gaza quanto la pesca.

Quando nel 1993 vennero firmati gli accordi di Oslo tra il governo israeliano e lOrganizzazione per la Liberazione della Palestina, si disse ai palestinesi che uno dei molti frutti della pace sarebbe stato lallargamento della zona peschiera di Gaza, esattamente fino a 20 miglia nautiche (circa 37 km).

Come il resto delle promesse non rispettate di Oslo, neppure laccordo sulla pesca venne mantenuto. Invece fino al 2006 lesercito israeliano consentì agli abitanti di Gaza di pescare allinterno di una zona che non ha mai superato le 12 miglia nautiche. Nel 2007, quando Israele impose lattuale assedio contro Gaza, la zona di pesca venne ulteriormente ridotta, prima a sei miglia nautiche e, infine, a tre.

Dopo ogni guerra israeliana o scontro violento a Gaza la zona di pesca viene completamente chiusa. Viene riaperta dopo ogni tregua, insieme ad altre vuote promesse che la zona di pesca verrà estesa a varie miglia nautiche per migliorare i mezzi di sussistenza dei pescatori.

Dopo la tregua negoziata dallEgitto, che ha fatto seguito a una breve ma letale campagna israeliana nel novembre 2019, la zona di pesca è stata di nuovo estesa fino ad arrivare a 15 miglia nautiche, la maggior estensione da molti anni.

Tuttavia questa tregua è stata di breve durata. Poco tempo dopo la marina israeliana si è messa ad affondare barche, sparando ai pescatori e respingendoli indietro nei ridotti spazi originari nei quali operavano.

Benché nel 2005 Israele abbia ritirato le proprie forze fuori da Gaza, in base al diritto internazionale continua ad essere considerato una potenza occupante, obbligata a garantire il benessere e i diritti dei palestinesi occupati che vi abitano. Ovviamente Israele non ha mai rispettato il diritto internazionale, né a Gaza né in nessun altro luogo della Palestina occupata.

Nel febbraio 2018 Isma’il Abu Ryalah è stato assassinato dalla marina israeliana mentre pescava con la sua piccola imbarcazione a cinque miglia nautiche dalla costa di Gaza. Come era immaginabile, nessun israeliano è stato considerato responsabile per lassassinio di Abu Ryalah. Poco dopo lincidente, la disperazione, ma anche il coraggio, hanno fatto sì che migliaia di pescatori di Gaza ritornassero in mare, nonostante il pericolo immediato che rappresentavano i pirati di oggi che si fanno passare per un esercito.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dellautore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




L’espansione degli insediamenti costringe le famiglie palestinesi di Hebron a vivere in grotte

Taghreed Albb

31 luglio 2020 Al Monitor

HEBRON, Cisgiordania – Ai piedi delle montagne rocciose di Hebron, Munther Abu Aram, 48 anni, vive una vita primitiva in una grotta naturale con sua moglie e quattro figli. Quando le autorità israeliane hanno demolito la casa di Abu Aram, non hanno avuto altra scelta che vivere in una grotta senza infrastrutture, elettricità, acqua o servizi igienici.

La piccola grotta di circa 150 metri quadrati (500 piedi quadrati) si trova a Khirbet Janba nella Cisgiordania occupata. “La vita all’interno della grotta è molto difficile, ma ci siamo abituati dopo che i bulldozer dell’occupazione israeliana hanno demolito la mia casa nel 2018, costruita con mattoni e cemento , perché costruita senza licenza. È stato ricostruita  e demolita  di nuovo nel 2019 ”, 

Secondo un rapporto dell’agenzia turca Anadolu dal dicembre 2019, circa 19 famiglie palestinesi , in totale 100 persone , vivono nelle grotte del sud di Hebron , senza accesso all’elettricità o all’acqua, alle scuole o alle strade.

Israele proibisce ai palestinesi di costruire nell’area C e demolisce le case che costruiscono. Secondo un rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ,pubblicato il 6 febbraio 2019, le forze israeliane hanno demolito 1.401 case palestinesi nell’area C, provocando lo sfollamento di 6.207 palestinesi, tra questi 3.134 bambini di età inferiore ai 16 anni, tra il 2006 e 2018.

Il 15 gennaio 1997, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e Israele hanno firmato l’ accordo di Hebron , noto anche come protocollo di Hebron, che prevede la divisione della città in due settori: H1 : l’80% dell’area della città è soggetta all’amministrazione palestinese. H2 il restante 20% della città,  costituito principalmente dal centro storico, è sotto il controllo di sicurezza israeliano. La sua popolazione è stimata in 40.000 persone.Abu Aram ha dichiarato: “L’occupazione israeliana vuole allontanarci da Khirbet Janba, confiscare la terra e trasformarla in aree militari chiuse . ampliare l’insediamento di Kiryat Arba e gli avamposti che la circondano”. Ha aggiunto che le autorità israeliane si rifiutano di fornire elettricità e acqua a Khirbet Janba e hanno rimosso e distrutto più volte i pali della rete elettrica e delle reti idriche.

Abu Aram e la sua famiglia coltivano e allevano  bestiame. Usa  un carro per asini per recarsi nelle città vicine e comprare acqua potabile e altre provviste, nonché per portare  i suoi figli nelle scuole del  villaggio più vicino , distante decine di chilometri .

Usa le lanterne a combustibile per illuminare la grotta e sua moglie prepara il cibo sul fuoco. Durante l’estate, la famiglia dorme fuori per paura dei serpenti e degli scorpioni che spesso fanno delle caverne le loro case.

Khalil Jabreen, 41 anni, vive con la sua famiglia in una grotta di 250 metri quadrati (820 piedi quadrati) vicino al sito della sua casa demolita a Khirbet al-Fakhit, distrutta dalle autorità israeliane nel 2000 e altre due volte nel 2015 e 2018.

 L’esercito israeliano ha dichiarato  che ogni volta che avesse ricostruito la sua casa,  l’avrebbe demolita .

“Le forze israeliane ci sfrattano costantemente dalla zona, ma rifiutiamo tutti i tentativi di sfollamento e vogliamo evitare che la nostra terra venga rubata da  loro per costruire nuovi avamposti”.

Ha spiegato che i coloni attaccano costantemente lui e i suoi figli, mentre le forze israeliane continuano a erigere checkpoint militari agli ingressi di Khirbet al-Fakhit per impedire loro di portare cibo, acqua e altro.

Jabreen ha aggiunto: “Nell’area  dove  viviamo mancano le scuole, i centri sanitari e le cliniche e ogni volta che si verifica un’emergenza, siamo  costretti  a fare un lungo e pericoloso viaggio ,su una carretta trainata da asini, per arrivare in ospedale o permettere ai  bambini di poter  frequentare la scuola.”

Abdel Hadi Hantash, membro del Comitato generale per la difesa della terra palestinese in Cisgiordania, ha dichiarato ad Al-Monitor: “Il governatorato di Hebron, nella Cisgiordania meridionale, comprende 27 insediamenti israeliani e 32 avamposti”. Ha osservato che Israele mira a giudaizzare Hebron e ad  annettere la Città Vecchia all’insediamento di Kiryat Arba, al quale il governo israeliano ha concesso lo status municipale.

Ha continuato, “Gli israeliani considerano Hebron una città religiosa”, sottolineando che i coloni in questa zona sono particolarmente caratterizzati dal fanatismo religioso e dall’estremismo politico.

Hantash ha osservato: “Esistono due tipi di insediamenti a Hebron. Il primo è certificato dal governo israeliano e dal consiglio degli insediamenti in Cisgiordania, che presenta i suoi piani attraverso canali politici, in modo da poter essere legittimati . Tuttavia  vi è  un’espansione non ufficiale degli insediamenti, effettuata attraverso organizzazioni sioniste e persone influenti nel governo israeliano .Le autorità israeliane hanno emesso oltre 16 ordini di demolizione nella zona di Masafer Yatta a Hebron, hanno confiscato 250.000 dunum e li hanno dichiarati aree militari chiuse. Ai palestinesi non è permesso vivere o costruire e  e le [forze israeliane] cercano costantemente di costringerli a lasciare le loro terre ”.

Hantash ha invitato le autorità ufficiali palestinesi a costruire infrastrutture nelle aree minacciate di confisca e sequestro. Dovrebbero fare appello alla Corte penale internazionale (ICC), che l’occupazione teme ,poiché può emettere mandati di arresto per i leader che commettono crimini di guerra e confiscano  terre.Dovrebbe  costringere la CPI a emettere decreti che rendano giustizia ai palestinesi e diano forza alla  loro resistenza. “

da Frammenti Vocali in Medio Oriente




‘Un regime illegittimo’: un’importante organizzazione per i diritti umani svela i miti israeliani e riconosce l’esistenza dell’apartheid

Amjad Iraqi

9 luglio 2020 – +972 Magazine

Nel corso di un’intervista approfondita, Michael Sfard, avvocato per i diritti umani, spiega cosa abbia portato Yesh Din ad accusare Israele del crimine di apartheid in Cisgiordania

Vent’anni fa, quando Michael Sfard era un promettente avvocato per i diritti umani, si era energicamente opposto alla parola “apartheid” per descrivere il dominio militare di Israele su Cisgiordania e Striscia di Gaza. Sebbene fosse un critico feroce dell’occupazione che ha dedicato la carriera a difendere i diritti dei palestinesi, aveva detto a se stesso che “le parole contano,” e che l’occupazione, seppure profondamente ingiusta, era una struttura solo temporanea che poteva essere ribaltata con il contributo del diritto

Anni dopo, Sfard — ora un famoso avvocato — ha radicalmente cambiato opinione.

In quello che potrebbe passare alla storia come un momento significativo del dibattito pubblico israeliano, giovedì Yesh Din [“C’è la legge”, associazione israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.], un’ONG per i diritti umani,   ha diffuso un dettagliato parere legale, stilato principalmente da Sfard, consulente legale dell’organizzazione, che afferma che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele, che dura da 53 anni, costituisce un “regime di apartheid.”

Esaminandone lo sviluppo, dal dominio della minoranza bianca in Sudafrica alla sua definizione contenuta nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, si asserisce che Israele sta commettendo il crimine internazionale di apartheid tramite “oppressione e dominazione sistematiche” di un gruppo su un altro nel territorio “con l’intenzione di mantenere quel regime.”

Yesh Din avrebbe detto fino ad ora che alcune politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma adesso stiamo dicendo che il regime è illegittimo,” ha detto Sfard in un’intervista esclusiva a +972. Egli sostiene che lo scopo del parere giuridico “è di cambiare il dibattito interno in Israele e di non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma come di un crimine illegale.”

Anche se l’analisi si concentra principalmente sulla Cisgiordania, Yesh Din sottolinea che con ciò non esclude affatto la tesi secondo cui “il crimine di apartheid sia commesso solo in Cisgiordania. Che il regime israeliano nel suo complesso sia un regime di apartheid. Che Israele sia uno Stato in cui vige l’apartheid.”

Questo cambiamento radicale è rappresentativo di un’opinione che sta crescendo fra gli ebrei-israeliani critici di quello che i palestinesi hanno da tempo diagnosticato a proposito della loro oppressione. Sebbene la recente spinta del governo israeliano verso un’annessione formale abbia consolidato la discussione internazionale circa l’apartheid israeliano, Sfard dice che il parere legale fa parte di un processo più lungo per riconoscere che “la bestia che stiamo affrontando deve essere descritta per quello che è,” a prescindere dall’annessione.

L’intervista è stata modificata e abbreviata per renderla più chiara.

Cominciamo con delle domande ovvie: Perché adesso? Qual è stato il processo mentale che ha portato al parere giuridico?

Le mie riflessioni personali sull’argomento sono cominciate alcuni anni fa quando sono andato a New York per scrivere il mio libro [The Wall and the Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights,  Metropolitan Books, 2018, ndtr.]. Una delle cose con cui mi trovavo alle prese era la sensazione che il paradigma di “occupazione” non potesse sostenere tutto il peso della realtà sul terreno. Anche se ovviamente esiste un’occupazione, e il concetto legale di occupazione belligerante spiega alcune delle cose che vediamo, c’è molto di più che non spiega.

Yesh Din opera in Cisgiordania da 15 anni e ha imparato a conoscere molto profondamente le caratteristiche del governo in quella zona in tutte le sue sfaccettature — il quadro giuridico, le politiche, le pratiche, le cose fatte ma non dette.

La nostra sensazione era che ci fosse bisogno di dare un nome alla ‘bestia’ che ci troviamo di fronte, che deve essere descritta per quello che è. L’apartheid come concetto giuridico è, per ragioni ovvie, la prima scelta, sebbene ci sia voluto un po’ prima che avessimo tempo e risorse per condurre l’analisi. Questa è una discussione che noi non abbiamo né iniziato né finito, ma è una voce in più che si spera dica cose che arricchiranno la discussione.

Personalmente, io ho sentito per la prima volta il concetto di “apartheid” in riferimento alla presenza israeliana in Cisgiordania, e al conflitto in generale, nei primi anni del 2000 durante la Seconda Intifada e la costruzione del muro di separazione. Devo dire che la mia reazione iniziale è stata di totale opposizione all’uso della parola — non ogni omicidio è un genocidio e non ogni discriminazione istituzionale è apartheid.

Ma nel mio intimo non ero così sicuro di me: l’attrazione verso l’uso del concetto mi tormentava. Così ho iniziato a studiare l’apartheid nei suoi diversi aspetti, incluso quello legale, e a visitare il Sudafrica. 

Yesh Din sembra avere un approccio diverso da quello dell’ONG B’Tselem: nel 2016, B’Tselem ha dichiarato che avrebbe smesso di sporgere denunce alle autorità militari israeliane perché facesse delle indagini, il che sembra dare loro una parziale maggiore libertà nell’essere più espliciti circa la natura dell’occupazione.

Anche se Yesh Din accetta molte delle critiche di B’Tselem, voi avete ancora dei procedimenti pendenti in tribunali israeliani e non interromperete le vostre azioni legali. Che influsso ha la posizione di Yesh Din riguardo all’apartheid sul vostro lavoro legale? Vi aspettate delle conseguenze da parte delle autorità, inclusi i tribunali?

Le autorità israeliane non hanno bisogno che noi diciamo cose radicali per dare il via a delle ritorsioni contro di noi — è qualcosa che viene fatto anche quando noi abbassiamo i toni. Anzi io ho la sensazione che sia vero il contrario: noi stiamo dicendo quella che pensiamo sia la verità in modo ragionato con una relazione esauriente. Si può essere d’accordo o no, ma presenta le argomentazioni e costruisce il caso basandosi sui dati, i precedenti e l’analisi giuridica.

Se alcune parti del sistema giudiziario si offenderanno ci sarà almeno un po’ di rispetto per il modo professionale in cui conduciamo la nostra lotta. Io non penso che un singolo caso legale (presentato da Yesh Din) sarà danneggiato dal fatto che noi stiamo dicendo cose che sono sgradevoli da sentire. Se ci sono funzionari e giudici le cui decisioni ne saranno influenzate, si tratterà di critiche secondarie. Quindi ciò non ci preoccupa affatto.

Non dimentichiamo che questo non è un rapporto sulla magistratura o sui giudici, ma sul sistema che si è creato durante gli anni. La “musica” del rapporto è che noi [israeliani] siamo tutti responsabili dell’apartheid, che io sono responsabile. Questa è una sfumatura importante. Non lo sto guardando dal di fuori, e tutte le mie controparti nell’ufficio del Procuratore Generale, nel Ministero della Giustizia o fra i giudici sanno che questa è la mia identità e coloro che sono onesti la rispetteranno.

Detto ciò, stiamo discutendo di qualcosa che ha enormi implicazioni. Fino ad ora, Yesh Din ha detto che politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma ora noi parliamo di un regime che è illegittimo.

E così la domanda che ci si ritorce contro è questa: cosa fare se è un regime di apartheid? Continuare a stare all’“opposizione” — qualcuno che si oppone alle politiche del regime — o diventare “dissidenti” — qualcuno che si oppone al regime stesso? E seguire il cammino della “giustizia” che il regime illegittimo ci offre?

Per rispondere devo ricorrere ai miei “antenati” in Sudafrica. Gli avvocati nel regime di apartheid in Sudafrica non smisero mai di andare in tribunale perché i neri chiedevano loro di andarci. La decisione di andare in tribunale o di boicottarlo non sta a me, ma ai palestinesi. Fino a quando i palestinesi vogliono che noi li rappresentiamo, noi non abbiamo il diritto di rifiutare basandoci sull’affermazione che “noi ne sappiamo di più.”

Va certamente bene ammettere che gli avvocati e le ONG non possono guidare la lotta. Detto ciò, c’è ancora un dilemma davanti a cui si trovano persino le organizzazioni palestinesi, cioè che talvolta possono sentirsi colpevoli per aver detto ai clienti palestinesi che hanno una possibilità, seppure piccola, di vincere.

Come trova il confine fra l’identificare l’occupazione come un regime di apartheid, e perciò senza aspettarsi di ottenere nulla di quello che spera, e tuttavia andare avanti?

Niente ha cambiato le prospettive di vittoria o successo (che sono due cose diverse) da quando ho scritto la relazione. Era lo stesso regime anche prima. Nei miei rapporti con i clienti, io cerco di essere chiaro suIla montagna che stiamo scalando e quello che ci si può, o non può, aspettare.

Allo stesso tempo, si deve riconoscere il fatto che i palestinesi non vanno via dal tribunale completamente a mani vuote. I tribunali sono un’istituzione in cui i palestinesi talvolta ottengono risarcimenti — di solito non con decisioni favolose, ma piuttosto nel processo che li trasforma da individui completamente trasparenti e senza importanza in soggetti di un contenzioso. Solo quando “si rivolgono a un avvocato” e vanno in tribunale diventano “qualcuno” (agli occhi delle autorità).

Ci sono anche delle vittorie, come nel recente caso sollevato a proposito della Legge per la Regolarizzazione (che cerca di legalizzare tantissimi insediamenti israeliani e “avamposti” e annullata lo scorso mese dalla Corte Suprema).

Avevamo un grosso dilemma quando alcuni anni fa abbiamo presentato la denuncia. C’erano delle persone che ci hanno detto: “Non presentate alcuna petizione… lasciate che il governo ne paghi le conseguenze.” Ma secondo me c’erano decine di migliaia di persone che stavano per perdere le loro terre e volevano che noi li rappresentassimo. Così, avendo una possibilità di vincere per loro, non ho detto di no per ottenere un vantaggio ipotetico. E per come va il mondo oggi, mi chiedo quale contromossa avrebbe tirato fuori il governo per mettere in pratica la Legge per la Regolarizzazione.

Dopo la nostra conclusione che questo è un regime di apartheid non sarà più “tutto come prima”. L’analisi sull’apartheid finirà nelle nostre memorie giudiziarie e cause. È nostra intenzione cambiare il dibattito interno israeliano e non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma piuttosto di un crimine di illegittimità.

Questo rispecchia il dibattito sull’uso della “legge dell’oppressore,” un dibattito che anche i sudafricani hanno avuto. Quali altre lezioni ha ricavato dagli avvocati sudafricani su come sfidare l’apartheid?

Noi (in Israele-Palestina) siamo in una posizione peggiore rispetto al movimento anti-apartheid in Sudafrica.

Primo, noi qui abbiamo due movimenti separati per porre fine all’apartheid in Israele: uno israeliano, l’altro palestinese. In Sudafrica c’era un movimento ed era guidato dagli oppressi. Questo è un grosso problema, perché gli israeliani hanno più potere, più privilegi, più diritti e sono molto meno vulnerabili rispetto ai palestinesi.

Secondo, c’è la posizione internazionale israeliana rispetto a quella del Sudafrica. Ma negli ultimi dieci anni abbiamo visto quasi una rivoluzione nella società civile internazionale a proposito del conflitto. Persino negli Stati Uniti, persino nella comunità ebraica americana si può vedere questo cambiamento. La nostra relazione e la nostra campagna di sensibilizzazione mirano ad accelerare questo cambiamento, per contribuire a far capire alla comunità internazionale che deve far pressione su Israele per fermare l’apartheid.

Per anni molti avvocati, ONG e attivisti palestinesi hanno offerto un’ampia analisi, professionale e legale, accusando Israele del crimine di apartheid, inclusa la recente denuncia alla Corte Penale Internazionale.

Tuttavia è probabile che l’opinione di Yesh Din riceverà molta più attenzione perché questa è un’organizzazione israeliana e forse verrà presa più seriamente nei circoli che contano all’estero. Ai palestinesi potrebbe sembrare provocatorio perché, anche se noi siamo spesso felici che escano tali rapporti, c’è anche una strana sensazione quando si vede che il nostro lavoro è valutato in modo così diverso.

Lei prima ha parlato di un suo rifiuto iniziale per il termine apartheid: pensa che sia lo stesso per altri avvocati e organizzazioni ebraico-israeliane? Perché pensa che ci sia voluto così tanto ad essere d’accordo con quello che molti palestinesi hanno detto?

Si tratta di negazionismo. Ma è anche importante notare che noi israeliani viviamo in condizioni di totale lavaggio del cervello a causa del dibattito, dei leader e dei media. E mentre noi (israeliani di sinistra) mettiamo in discussione molte cose e abbiamo una nostra identità in quanto critici, siamo pur sempre nati in questo contesto.

Io stesso sono nato a Gerusalemme Ovest nel 1972 e l’ebraico è la mia lingua madre. Sono cresciuto con il sistema scolastico israeliano e sono andato sotto le armi fino a quando non sono diventato un refusenik [chi rifiuta di prestare servizio nei territori occupati, ndtr.]. Ho assorbito il punto di vista israeliano per tutta la mia vita e cosi hanno fatto i miei amici e colleghi.

Noi siamo stati accecati dalla narrazione israeliana e c’è voluto del tempo per renderci conto che gli argomenti che ogni israeliano ripete — come “noi non vogliamo controllare i palestinesi,” o “noi vogliamo che siano padroni del proprio destino,” o “noi faremo un accordo quando avremo una controparte nei negoziati” — sono tutte menzogne. Il mito particolarmente potente durante gli anni di Oslo era che gli israeliani volevano porre fine al “dominio non voluto” sui palestinesi. Ci vuole del tempo per rendersi conto che non è vero — che questo fa tutto parte di un’impresa di dominazione, e per interiorizzare la nostra supremazia.

Anche la sinistra israeliana, per quanto piccola, è cambiata, in parte perché oggi include molti palestinesi. Alle superiori io ero un attivista di sinistra, ma non ho mai lavorato al fianco dei palestinesi, neppure con i palestinesi (cittadini) israeliani.

Oggi non è possibile lavorare su questo tema senza i palestinesi. La loro comprensione del conflitto ha arricchito noi attivisti ebrei, inclusi quelli di gruppi come Yesh Din e B’Tselem. Io non vedrò mai la realtà come la vedete voi, posso solo cercare di capire meglio cosa vedete voi, e viceversa.

La relazione non esclude la possibilità di identificare l’apartheid in altre parti della realtà dello Stato di Israele. Eppure, ciò afferma che i regimi in Cisgiordania e dentro Israele possono ancora essere visti come distinti, e forse in un “processo di unificazione.”

Comunque, le basi dell’occupazione non derivano solo dalle leggi principali di Israele, ma erano state presenti fin dall’inizio dentro lo Stato in quanto governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966. Quindi il regime del ’67 può essere considerato separato da quello del ’48 o ne è piuttosto un’estensione o una continuazione?

Quando ho cominciato a studiare il crimine di apartheid a livello internazionale, mi ha immediatamente colpito che sia un crimine di regime. Ma il diritto internazionale non definisce cosa sia un regime, per cui ci si deve rivolgere ad altre discipline per scoprirlo.

Con mio grande stupore, “regime” è una nozione dotata di flessibilità. È la totalità delle autorità pubbliche che hanno poteri, leggi e regolamenti normativi, politiche, prassi, e così via. Guardando ad una certa area geografica con lenti diverse e usando decisioni diverse, si possono trovare regimi diversi.

Per esempio, possiamo guardare a tutta la zona fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo con una bassa risoluzione e vedere che c’è un potere politico che crea e porta avanti le proprie decisioni. Ma si può anche guardarlo con un’alta risoluzione, e scoprire che, all’interno di quel territorio, ci sono nuclei distinti di autorità, politiche e pratiche pubbliche nelle diverse zone.

Quando si guarda con una lente di ingrandimento l’occupazione militare in Cisgiordania è un regime distinto. Non esclude un’analisi diversa da un punto di osservazione posto più in alto, ma ci sono complessità (dentro Israele) che non si trovano in Cisgiordania.

Per esempio, il regime può essere classificato come di apartheid quando il gruppo inferiore ha il diritto politico di votare e di candidarsi al governo (come i cittadini palestinesi in Israele)? Io penso che si possa se quei diritti sono completamente diluiti e resi privi di significato. Non so se in Israele sono tali, ma in merito ci sono molte opinioni legittime.

Noi di Yesh Din abbiamo fatto la scelta di concentrarci sulla Cisgiordania come nostra area di competenza e di cui ci occupiamo. Ma per noi è importante dire che ciò non esclude altre analisi che possono essere condotte in parallelo. Noi ci rendiamo conto che c’è un costo o rischio guardando solo a un segmento della politica israeliana, quindi il nostro modo di affrontare quel rischio è di riconoscerlo e dirlo con chiarezza.

C’è una sezione del documento che dice: “sebbene l’origine [dell’apartheid] sia storicamente connessa al regime razzista in Sudafrica, ora è un concetto legale indipendente con una sua propria vita che può esistere senza essere basato su un’ideologia razzista.”

Devo confessare che, leggendolo, il mio primo pensiero è stato che, almeno non intenzionalmente, si dissociasse l’obiettivo politico della supremazia ebraica — o per essere franchi, del sionismo — dalle strutture istituzionali israeliane. Può chiarire la riflessione che sta dietro quella affermazione?

Uno dei problemi che ho incontrato quando ho sottoposto le mie idee a degli israeliani è che l’apartheid, per quelli che sanno cos’è, è visto come parte di un’ideologia razzista come quella dei nazisti: che alcuni hanno tratti biologici o genetici che scientificamente li rendono inferiori agli altri.

Dato che la Convenzione contro l‘apartheid e lo Statuto di Roma definiscono l’apartheid usando le parole “gruppi razziali,” l’interpretazione è controintuitiva. Non si tratta dell’assunzione biologica di razza, ma piutttosto di gruppi sociali e politici in cui membri di una certa Nazione hanno privilegi come gruppo.

Non stavo cercando di dire che non c’è un’ideologia di supremazia che mette il principio di preferenza ebraica al di sopra di quello dei palestinesi; naturalmente c’è una cosa simile (e il rapporto lo menziona ). Quello che volevo dire era che non si tratta della stessa argomentazione scientifica che una razza è migliore di un’altra.

In conclusione, si può commettere il crimine di apartheid indipendentemente da quale sia la motivazione. L’apartheid, per esempio, potrebbe essere economico — l’intero progetto potrebbe riguardare il profitto e continuerebbe ad essere apartheid. Nel nostro caso, noi abbiamo un conflitto nazionale. In altri posti potrebbe trattarsi di etnia, casta o altro; non deve essere per forza basato su un’ideologia razzista.

Sembra che lei stia cercando di universalizzare ulteriormente il quadro dell’apartheid.

Certamente. Ai sensi del diritto internazionale il divieto di apartheid costituisce il valore fondamentale che il mondo ha adottato dopo la seconda guerra mondiale: noi condividiamo un’umanità e un regime che viola in maniera diretta e sistematica quel principio affermando che ci sono alcuni che hanno più diritti di altri — questa è la cosa che si sta cercando prevenire.

Il diritto e le convenzioni internazionali che identificano il crimine di apartheid e le sue caratteristiche in Israele-Palestina esistono da decenni. Ma a differenza del Sudafrica, il mondo sembra fare un’eccezione con Israele sull’apartheid. Perché dovrebbe fare eccezione e dove pensate che il dibattito debba andare per porvi fine?

Primo, sono passati solo 70 anni dal più grande crimine mai commesso contro l’umanità. Io sono il nipote di sopravvissuti all’Olocausto. C’è una riluttanza, comprensibile, ma inaccettabile, a confrontarsi con questo crimine da parte delle “vittime per eccellenza.” 

Si può vedere come le potenze europee camminino sulle uova quando si tratta di Israele, e Israele è riuscito a mobilitare nel mondo occidentale questo senso di colpa collettivo e giustificato a proprio favore. Se c’è una lezione da imparare dalla storia del genocidio e dell’antisemitismo, è che non si dovrebbe restare in silenzio davanti al male e alla persecuzione di comunità.

Secondo, Israele è visto, tavolta correttamente, in pericolo esistenziale dato che i suoi vicini cercano di distruggerlo. Anche se queste dichiarazioni hanno pochissimo significato o sono solo propaganda, e anche se Israele è la maggiore potenza in Medio Oriente alleata con una superpotenza, queste affermazioni danno a Israele molto spazio di manovra. C’è anche la questione della posizione di Israele quale avamposto dell’America in Medio Oriente. Ma penso che tutto ciò stia cambiando.

Per il dopo, come ho già detto, io ci vado molto attento con le parole. “Apartheid” è una parola che ha molto peso e non la userei con leggerezza. Se questa accusa sarà qualcosa da discutere più seriamente — non come una parolaccia ma come qualcosa di valido — nel caso in cui ci si confronti con un regime di apartheid, l’obbligo in ogni Paese è di porvi fine.

Ciò è molto diverso dall’occupazione. Per esempio, l’Europa ha raggiunto la conclusione che si deve attenere a una politica di differenziazione per garantire che non un centesimo dei suoi soldi vada alle colonie. Se si arriva alla conclusione che Israele è un regime di apartheid, ciò avrà un enorme impatto su quello che è obbligata a fare per legge, non solo rifiutando di assistere quel regime, ma di fare pressioni affinché esso finisca.

In conclusione la gente dovrebbe chiedersi qual è lo scopo finale delle politiche di Israele. Vent’anni fa la maggior parte della gente avrebbe detto che era di avere due Stati — ma oggi non sono sicuro della loro risposta. E se neanche uno Stato democratico binationale è la risposta, allora non c’è via alternativa all’apartheid.

In pratica affermando che non ci sia una soluzione si accetta automaticamente l’apartheid.

Giusto. Quando ho cominciato a scrivere il documento, a prova delle sue intentioni di perpetuare la dominazione avevo solo le azioni di Israele sul terreno. Per 50 anni il governo di Israele ha detto la “cosa giusta” — che l’occupazione è temporanea fino a che gli accordi di pace non sostituiranno gli accordi di cessate il fuoco.

Ma poi il divario fra le dichiarazioni di Israele e le sue azioni è scomparso. Con le loro stesse parole i governanti israeliani hanno distrutto il proprio alibi — un pessimo alibi che comunque non riusciva a nascondere le loro azioni. Oggi il mio lavoro è molto più facile.

Amjad Iraqi è redattore e autore di +972 magazine. È anche analista politico di Al-Shabaka e in precedenza è stato un coordinatore della difesa di “Adalah” [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.]. È un cittadino palestinese di Israele, attualmente residente ad Haifa.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)