L’espansione degli insediamenti costringe le famiglie palestinesi di Hebron a vivere in grotte

Taghreed Albb

31 luglio 2020 Al Monitor

HEBRON, Cisgiordania – Ai piedi delle montagne rocciose di Hebron, Munther Abu Aram, 48 anni, vive una vita primitiva in una grotta naturale con sua moglie e quattro figli. Quando le autorità israeliane hanno demolito la casa di Abu Aram, non hanno avuto altra scelta che vivere in una grotta senza infrastrutture, elettricità, acqua o servizi igienici.

La piccola grotta di circa 150 metri quadrati (500 piedi quadrati) si trova a Khirbet Janba nella Cisgiordania occupata. “La vita all’interno della grotta è molto difficile, ma ci siamo abituati dopo che i bulldozer dell’occupazione israeliana hanno demolito la mia casa nel 2018, costruita con mattoni e cemento , perché costruita senza licenza. È stato ricostruita  e demolita  di nuovo nel 2019 ”, 

Secondo un rapporto dell’agenzia turca Anadolu dal dicembre 2019, circa 19 famiglie palestinesi , in totale 100 persone , vivono nelle grotte del sud di Hebron , senza accesso all’elettricità o all’acqua, alle scuole o alle strade.

Israele proibisce ai palestinesi di costruire nell’area C e demolisce le case che costruiscono. Secondo un rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ,pubblicato il 6 febbraio 2019, le forze israeliane hanno demolito 1.401 case palestinesi nell’area C, provocando lo sfollamento di 6.207 palestinesi, tra questi 3.134 bambini di età inferiore ai 16 anni, tra il 2006 e 2018.

Il 15 gennaio 1997, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e Israele hanno firmato l’ accordo di Hebron , noto anche come protocollo di Hebron, che prevede la divisione della città in due settori: H1 : l’80% dell’area della città è soggetta all’amministrazione palestinese. H2 il restante 20% della città,  costituito principalmente dal centro storico, è sotto il controllo di sicurezza israeliano. La sua popolazione è stimata in 40.000 persone.Abu Aram ha dichiarato: “L’occupazione israeliana vuole allontanarci da Khirbet Janba, confiscare la terra e trasformarla in aree militari chiuse . ampliare l’insediamento di Kiryat Arba e gli avamposti che la circondano”. Ha aggiunto che le autorità israeliane si rifiutano di fornire elettricità e acqua a Khirbet Janba e hanno rimosso e distrutto più volte i pali della rete elettrica e delle reti idriche.

Abu Aram e la sua famiglia coltivano e allevano  bestiame. Usa  un carro per asini per recarsi nelle città vicine e comprare acqua potabile e altre provviste, nonché per portare  i suoi figli nelle scuole del  villaggio più vicino , distante decine di chilometri .

Usa le lanterne a combustibile per illuminare la grotta e sua moglie prepara il cibo sul fuoco. Durante l’estate, la famiglia dorme fuori per paura dei serpenti e degli scorpioni che spesso fanno delle caverne le loro case.

Khalil Jabreen, 41 anni, vive con la sua famiglia in una grotta di 250 metri quadrati (820 piedi quadrati) vicino al sito della sua casa demolita a Khirbet al-Fakhit, distrutta dalle autorità israeliane nel 2000 e altre due volte nel 2015 e 2018.

 L’esercito israeliano ha dichiarato  che ogni volta che avesse ricostruito la sua casa,  l’avrebbe demolita .

“Le forze israeliane ci sfrattano costantemente dalla zona, ma rifiutiamo tutti i tentativi di sfollamento e vogliamo evitare che la nostra terra venga rubata da  loro per costruire nuovi avamposti”.

Ha spiegato che i coloni attaccano costantemente lui e i suoi figli, mentre le forze israeliane continuano a erigere checkpoint militari agli ingressi di Khirbet al-Fakhit per impedire loro di portare cibo, acqua e altro.

Jabreen ha aggiunto: “Nell’area  dove  viviamo mancano le scuole, i centri sanitari e le cliniche e ogni volta che si verifica un’emergenza, siamo  costretti  a fare un lungo e pericoloso viaggio ,su una carretta trainata da asini, per arrivare in ospedale o permettere ai  bambini di poter  frequentare la scuola.”

Abdel Hadi Hantash, membro del Comitato generale per la difesa della terra palestinese in Cisgiordania, ha dichiarato ad Al-Monitor: “Il governatorato di Hebron, nella Cisgiordania meridionale, comprende 27 insediamenti israeliani e 32 avamposti”. Ha osservato che Israele mira a giudaizzare Hebron e ad  annettere la Città Vecchia all’insediamento di Kiryat Arba, al quale il governo israeliano ha concesso lo status municipale.

Ha continuato, “Gli israeliani considerano Hebron una città religiosa”, sottolineando che i coloni in questa zona sono particolarmente caratterizzati dal fanatismo religioso e dall’estremismo politico.

Hantash ha osservato: “Esistono due tipi di insediamenti a Hebron. Il primo è certificato dal governo israeliano e dal consiglio degli insediamenti in Cisgiordania, che presenta i suoi piani attraverso canali politici, in modo da poter essere legittimati . Tuttavia  vi è  un’espansione non ufficiale degli insediamenti, effettuata attraverso organizzazioni sioniste e persone influenti nel governo israeliano .Le autorità israeliane hanno emesso oltre 16 ordini di demolizione nella zona di Masafer Yatta a Hebron, hanno confiscato 250.000 dunum e li hanno dichiarati aree militari chiuse. Ai palestinesi non è permesso vivere o costruire e  e le [forze israeliane] cercano costantemente di costringerli a lasciare le loro terre ”.

Hantash ha invitato le autorità ufficiali palestinesi a costruire infrastrutture nelle aree minacciate di confisca e sequestro. Dovrebbero fare appello alla Corte penale internazionale (ICC), che l’occupazione teme ,poiché può emettere mandati di arresto per i leader che commettono crimini di guerra e confiscano  terre.Dovrebbe  costringere la CPI a emettere decreti che rendano giustizia ai palestinesi e diano forza alla  loro resistenza. “

da Frammenti Vocali in Medio Oriente




‘Un regime illegittimo’: un’importante organizzazione per i diritti umani svela i miti israeliani e riconosce l’esistenza dell’apartheid

Amjad Iraqi

9 luglio 2020 – +972 Magazine

Nel corso di un’intervista approfondita, Michael Sfard, avvocato per i diritti umani, spiega cosa abbia portato Yesh Din ad accusare Israele del crimine di apartheid in Cisgiordania

Vent’anni fa, quando Michael Sfard era un promettente avvocato per i diritti umani, si era energicamente opposto alla parola “apartheid” per descrivere il dominio militare di Israele su Cisgiordania e Striscia di Gaza. Sebbene fosse un critico feroce dell’occupazione che ha dedicato la carriera a difendere i diritti dei palestinesi, aveva detto a se stesso che “le parole contano,” e che l’occupazione, seppure profondamente ingiusta, era una struttura solo temporanea che poteva essere ribaltata con il contributo del diritto

Anni dopo, Sfard — ora un famoso avvocato — ha radicalmente cambiato opinione.

In quello che potrebbe passare alla storia come un momento significativo del dibattito pubblico israeliano, giovedì Yesh Din [“C’è la legge”, associazione israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.], un’ONG per i diritti umani,   ha diffuso un dettagliato parere legale, stilato principalmente da Sfard, consulente legale dell’organizzazione, che afferma che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele, che dura da 53 anni, costituisce un “regime di apartheid.”

Esaminandone lo sviluppo, dal dominio della minoranza bianca in Sudafrica alla sua definizione contenuta nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, si asserisce che Israele sta commettendo il crimine internazionale di apartheid tramite “oppressione e dominazione sistematiche” di un gruppo su un altro nel territorio “con l’intenzione di mantenere quel regime.”

Yesh Din avrebbe detto fino ad ora che alcune politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma adesso stiamo dicendo che il regime è illegittimo,” ha detto Sfard in un’intervista esclusiva a +972. Egli sostiene che lo scopo del parere giuridico “è di cambiare il dibattito interno in Israele e di non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma come di un crimine illegale.”

Anche se l’analisi si concentra principalmente sulla Cisgiordania, Yesh Din sottolinea che con ciò non esclude affatto la tesi secondo cui “il crimine di apartheid sia commesso solo in Cisgiordania. Che il regime israeliano nel suo complesso sia un regime di apartheid. Che Israele sia uno Stato in cui vige l’apartheid.”

Questo cambiamento radicale è rappresentativo di un’opinione che sta crescendo fra gli ebrei-israeliani critici di quello che i palestinesi hanno da tempo diagnosticato a proposito della loro oppressione. Sebbene la recente spinta del governo israeliano verso un’annessione formale abbia consolidato la discussione internazionale circa l’apartheid israeliano, Sfard dice che il parere legale fa parte di un processo più lungo per riconoscere che “la bestia che stiamo affrontando deve essere descritta per quello che è,” a prescindere dall’annessione.

L’intervista è stata modificata e abbreviata per renderla più chiara.

Cominciamo con delle domande ovvie: Perché adesso? Qual è stato il processo mentale che ha portato al parere giuridico?

Le mie riflessioni personali sull’argomento sono cominciate alcuni anni fa quando sono andato a New York per scrivere il mio libro [The Wall and the Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights,  Metropolitan Books, 2018, ndtr.]. Una delle cose con cui mi trovavo alle prese era la sensazione che il paradigma di “occupazione” non potesse sostenere tutto il peso della realtà sul terreno. Anche se ovviamente esiste un’occupazione, e il concetto legale di occupazione belligerante spiega alcune delle cose che vediamo, c’è molto di più che non spiega.

Yesh Din opera in Cisgiordania da 15 anni e ha imparato a conoscere molto profondamente le caratteristiche del governo in quella zona in tutte le sue sfaccettature — il quadro giuridico, le politiche, le pratiche, le cose fatte ma non dette.

La nostra sensazione era che ci fosse bisogno di dare un nome alla ‘bestia’ che ci troviamo di fronte, che deve essere descritta per quello che è. L’apartheid come concetto giuridico è, per ragioni ovvie, la prima scelta, sebbene ci sia voluto un po’ prima che avessimo tempo e risorse per condurre l’analisi. Questa è una discussione che noi non abbiamo né iniziato né finito, ma è una voce in più che si spera dica cose che arricchiranno la discussione.

Personalmente, io ho sentito per la prima volta il concetto di “apartheid” in riferimento alla presenza israeliana in Cisgiordania, e al conflitto in generale, nei primi anni del 2000 durante la Seconda Intifada e la costruzione del muro di separazione. Devo dire che la mia reazione iniziale è stata di totale opposizione all’uso della parola — non ogni omicidio è un genocidio e non ogni discriminazione istituzionale è apartheid.

Ma nel mio intimo non ero così sicuro di me: l’attrazione verso l’uso del concetto mi tormentava. Così ho iniziato a studiare l’apartheid nei suoi diversi aspetti, incluso quello legale, e a visitare il Sudafrica. 

Yesh Din sembra avere un approccio diverso da quello dell’ONG B’Tselem: nel 2016, B’Tselem ha dichiarato che avrebbe smesso di sporgere denunce alle autorità militari israeliane perché facesse delle indagini, il che sembra dare loro una parziale maggiore libertà nell’essere più espliciti circa la natura dell’occupazione.

Anche se Yesh Din accetta molte delle critiche di B’Tselem, voi avete ancora dei procedimenti pendenti in tribunali israeliani e non interromperete le vostre azioni legali. Che influsso ha la posizione di Yesh Din riguardo all’apartheid sul vostro lavoro legale? Vi aspettate delle conseguenze da parte delle autorità, inclusi i tribunali?

Le autorità israeliane non hanno bisogno che noi diciamo cose radicali per dare il via a delle ritorsioni contro di noi — è qualcosa che viene fatto anche quando noi abbassiamo i toni. Anzi io ho la sensazione che sia vero il contrario: noi stiamo dicendo quella che pensiamo sia la verità in modo ragionato con una relazione esauriente. Si può essere d’accordo o no, ma presenta le argomentazioni e costruisce il caso basandosi sui dati, i precedenti e l’analisi giuridica.

Se alcune parti del sistema giudiziario si offenderanno ci sarà almeno un po’ di rispetto per il modo professionale in cui conduciamo la nostra lotta. Io non penso che un singolo caso legale (presentato da Yesh Din) sarà danneggiato dal fatto che noi stiamo dicendo cose che sono sgradevoli da sentire. Se ci sono funzionari e giudici le cui decisioni ne saranno influenzate, si tratterà di critiche secondarie. Quindi ciò non ci preoccupa affatto.

Non dimentichiamo che questo non è un rapporto sulla magistratura o sui giudici, ma sul sistema che si è creato durante gli anni. La “musica” del rapporto è che noi [israeliani] siamo tutti responsabili dell’apartheid, che io sono responsabile. Questa è una sfumatura importante. Non lo sto guardando dal di fuori, e tutte le mie controparti nell’ufficio del Procuratore Generale, nel Ministero della Giustizia o fra i giudici sanno che questa è la mia identità e coloro che sono onesti la rispetteranno.

Detto ciò, stiamo discutendo di qualcosa che ha enormi implicazioni. Fino ad ora, Yesh Din ha detto che politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma ora noi parliamo di un regime che è illegittimo.

E così la domanda che ci si ritorce contro è questa: cosa fare se è un regime di apartheid? Continuare a stare all’“opposizione” — qualcuno che si oppone alle politiche del regime — o diventare “dissidenti” — qualcuno che si oppone al regime stesso? E seguire il cammino della “giustizia” che il regime illegittimo ci offre?

Per rispondere devo ricorrere ai miei “antenati” in Sudafrica. Gli avvocati nel regime di apartheid in Sudafrica non smisero mai di andare in tribunale perché i neri chiedevano loro di andarci. La decisione di andare in tribunale o di boicottarlo non sta a me, ma ai palestinesi. Fino a quando i palestinesi vogliono che noi li rappresentiamo, noi non abbiamo il diritto di rifiutare basandoci sull’affermazione che “noi ne sappiamo di più.”

Va certamente bene ammettere che gli avvocati e le ONG non possono guidare la lotta. Detto ciò, c’è ancora un dilemma davanti a cui si trovano persino le organizzazioni palestinesi, cioè che talvolta possono sentirsi colpevoli per aver detto ai clienti palestinesi che hanno una possibilità, seppure piccola, di vincere.

Come trova il confine fra l’identificare l’occupazione come un regime di apartheid, e perciò senza aspettarsi di ottenere nulla di quello che spera, e tuttavia andare avanti?

Niente ha cambiato le prospettive di vittoria o successo (che sono due cose diverse) da quando ho scritto la relazione. Era lo stesso regime anche prima. Nei miei rapporti con i clienti, io cerco di essere chiaro suIla montagna che stiamo scalando e quello che ci si può, o non può, aspettare.

Allo stesso tempo, si deve riconoscere il fatto che i palestinesi non vanno via dal tribunale completamente a mani vuote. I tribunali sono un’istituzione in cui i palestinesi talvolta ottengono risarcimenti — di solito non con decisioni favolose, ma piuttosto nel processo che li trasforma da individui completamente trasparenti e senza importanza in soggetti di un contenzioso. Solo quando “si rivolgono a un avvocato” e vanno in tribunale diventano “qualcuno” (agli occhi delle autorità).

Ci sono anche delle vittorie, come nel recente caso sollevato a proposito della Legge per la Regolarizzazione (che cerca di legalizzare tantissimi insediamenti israeliani e “avamposti” e annullata lo scorso mese dalla Corte Suprema).

Avevamo un grosso dilemma quando alcuni anni fa abbiamo presentato la denuncia. C’erano delle persone che ci hanno detto: “Non presentate alcuna petizione… lasciate che il governo ne paghi le conseguenze.” Ma secondo me c’erano decine di migliaia di persone che stavano per perdere le loro terre e volevano che noi li rappresentassimo. Così, avendo una possibilità di vincere per loro, non ho detto di no per ottenere un vantaggio ipotetico. E per come va il mondo oggi, mi chiedo quale contromossa avrebbe tirato fuori il governo per mettere in pratica la Legge per la Regolarizzazione.

Dopo la nostra conclusione che questo è un regime di apartheid non sarà più “tutto come prima”. L’analisi sull’apartheid finirà nelle nostre memorie giudiziarie e cause. È nostra intenzione cambiare il dibattito interno israeliano e non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma piuttosto di un crimine di illegittimità.

Questo rispecchia il dibattito sull’uso della “legge dell’oppressore,” un dibattito che anche i sudafricani hanno avuto. Quali altre lezioni ha ricavato dagli avvocati sudafricani su come sfidare l’apartheid?

Noi (in Israele-Palestina) siamo in una posizione peggiore rispetto al movimento anti-apartheid in Sudafrica.

Primo, noi qui abbiamo due movimenti separati per porre fine all’apartheid in Israele: uno israeliano, l’altro palestinese. In Sudafrica c’era un movimento ed era guidato dagli oppressi. Questo è un grosso problema, perché gli israeliani hanno più potere, più privilegi, più diritti e sono molto meno vulnerabili rispetto ai palestinesi.

Secondo, c’è la posizione internazionale israeliana rispetto a quella del Sudafrica. Ma negli ultimi dieci anni abbiamo visto quasi una rivoluzione nella società civile internazionale a proposito del conflitto. Persino negli Stati Uniti, persino nella comunità ebraica americana si può vedere questo cambiamento. La nostra relazione e la nostra campagna di sensibilizzazione mirano ad accelerare questo cambiamento, per contribuire a far capire alla comunità internazionale che deve far pressione su Israele per fermare l’apartheid.

Per anni molti avvocati, ONG e attivisti palestinesi hanno offerto un’ampia analisi, professionale e legale, accusando Israele del crimine di apartheid, inclusa la recente denuncia alla Corte Penale Internazionale.

Tuttavia è probabile che l’opinione di Yesh Din riceverà molta più attenzione perché questa è un’organizzazione israeliana e forse verrà presa più seriamente nei circoli che contano all’estero. Ai palestinesi potrebbe sembrare provocatorio perché, anche se noi siamo spesso felici che escano tali rapporti, c’è anche una strana sensazione quando si vede che il nostro lavoro è valutato in modo così diverso.

Lei prima ha parlato di un suo rifiuto iniziale per il termine apartheid: pensa che sia lo stesso per altri avvocati e organizzazioni ebraico-israeliane? Perché pensa che ci sia voluto così tanto ad essere d’accordo con quello che molti palestinesi hanno detto?

Si tratta di negazionismo. Ma è anche importante notare che noi israeliani viviamo in condizioni di totale lavaggio del cervello a causa del dibattito, dei leader e dei media. E mentre noi (israeliani di sinistra) mettiamo in discussione molte cose e abbiamo una nostra identità in quanto critici, siamo pur sempre nati in questo contesto.

Io stesso sono nato a Gerusalemme Ovest nel 1972 e l’ebraico è la mia lingua madre. Sono cresciuto con il sistema scolastico israeliano e sono andato sotto le armi fino a quando non sono diventato un refusenik [chi rifiuta di prestare servizio nei territori occupati, ndtr.]. Ho assorbito il punto di vista israeliano per tutta la mia vita e cosi hanno fatto i miei amici e colleghi.

Noi siamo stati accecati dalla narrazione israeliana e c’è voluto del tempo per renderci conto che gli argomenti che ogni israeliano ripete — come “noi non vogliamo controllare i palestinesi,” o “noi vogliamo che siano padroni del proprio destino,” o “noi faremo un accordo quando avremo una controparte nei negoziati” — sono tutte menzogne. Il mito particolarmente potente durante gli anni di Oslo era che gli israeliani volevano porre fine al “dominio non voluto” sui palestinesi. Ci vuole del tempo per rendersi conto che non è vero — che questo fa tutto parte di un’impresa di dominazione, e per interiorizzare la nostra supremazia.

Anche la sinistra israeliana, per quanto piccola, è cambiata, in parte perché oggi include molti palestinesi. Alle superiori io ero un attivista di sinistra, ma non ho mai lavorato al fianco dei palestinesi, neppure con i palestinesi (cittadini) israeliani.

Oggi non è possibile lavorare su questo tema senza i palestinesi. La loro comprensione del conflitto ha arricchito noi attivisti ebrei, inclusi quelli di gruppi come Yesh Din e B’Tselem. Io non vedrò mai la realtà come la vedete voi, posso solo cercare di capire meglio cosa vedete voi, e viceversa.

La relazione non esclude la possibilità di identificare l’apartheid in altre parti della realtà dello Stato di Israele. Eppure, ciò afferma che i regimi in Cisgiordania e dentro Israele possono ancora essere visti come distinti, e forse in un “processo di unificazione.”

Comunque, le basi dell’occupazione non derivano solo dalle leggi principali di Israele, ma erano state presenti fin dall’inizio dentro lo Stato in quanto governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966. Quindi il regime del ’67 può essere considerato separato da quello del ’48 o ne è piuttosto un’estensione o una continuazione?

Quando ho cominciato a studiare il crimine di apartheid a livello internazionale, mi ha immediatamente colpito che sia un crimine di regime. Ma il diritto internazionale non definisce cosa sia un regime, per cui ci si deve rivolgere ad altre discipline per scoprirlo.

Con mio grande stupore, “regime” è una nozione dotata di flessibilità. È la totalità delle autorità pubbliche che hanno poteri, leggi e regolamenti normativi, politiche, prassi, e così via. Guardando ad una certa area geografica con lenti diverse e usando decisioni diverse, si possono trovare regimi diversi.

Per esempio, possiamo guardare a tutta la zona fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo con una bassa risoluzione e vedere che c’è un potere politico che crea e porta avanti le proprie decisioni. Ma si può anche guardarlo con un’alta risoluzione, e scoprire che, all’interno di quel territorio, ci sono nuclei distinti di autorità, politiche e pratiche pubbliche nelle diverse zone.

Quando si guarda con una lente di ingrandimento l’occupazione militare in Cisgiordania è un regime distinto. Non esclude un’analisi diversa da un punto di osservazione posto più in alto, ma ci sono complessità (dentro Israele) che non si trovano in Cisgiordania.

Per esempio, il regime può essere classificato come di apartheid quando il gruppo inferiore ha il diritto politico di votare e di candidarsi al governo (come i cittadini palestinesi in Israele)? Io penso che si possa se quei diritti sono completamente diluiti e resi privi di significato. Non so se in Israele sono tali, ma in merito ci sono molte opinioni legittime.

Noi di Yesh Din abbiamo fatto la scelta di concentrarci sulla Cisgiordania come nostra area di competenza e di cui ci occupiamo. Ma per noi è importante dire che ciò non esclude altre analisi che possono essere condotte in parallelo. Noi ci rendiamo conto che c’è un costo o rischio guardando solo a un segmento della politica israeliana, quindi il nostro modo di affrontare quel rischio è di riconoscerlo e dirlo con chiarezza.

C’è una sezione del documento che dice: “sebbene l’origine [dell’apartheid] sia storicamente connessa al regime razzista in Sudafrica, ora è un concetto legale indipendente con una sua propria vita che può esistere senza essere basato su un’ideologia razzista.”

Devo confessare che, leggendolo, il mio primo pensiero è stato che, almeno non intenzionalmente, si dissociasse l’obiettivo politico della supremazia ebraica — o per essere franchi, del sionismo — dalle strutture istituzionali israeliane. Può chiarire la riflessione che sta dietro quella affermazione?

Uno dei problemi che ho incontrato quando ho sottoposto le mie idee a degli israeliani è che l’apartheid, per quelli che sanno cos’è, è visto come parte di un’ideologia razzista come quella dei nazisti: che alcuni hanno tratti biologici o genetici che scientificamente li rendono inferiori agli altri.

Dato che la Convenzione contro l‘apartheid e lo Statuto di Roma definiscono l’apartheid usando le parole “gruppi razziali,” l’interpretazione è controintuitiva. Non si tratta dell’assunzione biologica di razza, ma piutttosto di gruppi sociali e politici in cui membri di una certa Nazione hanno privilegi come gruppo.

Non stavo cercando di dire che non c’è un’ideologia di supremazia che mette il principio di preferenza ebraica al di sopra di quello dei palestinesi; naturalmente c’è una cosa simile (e il rapporto lo menziona ). Quello che volevo dire era che non si tratta della stessa argomentazione scientifica che una razza è migliore di un’altra.

In conclusione, si può commettere il crimine di apartheid indipendentemente da quale sia la motivazione. L’apartheid, per esempio, potrebbe essere economico — l’intero progetto potrebbe riguardare il profitto e continuerebbe ad essere apartheid. Nel nostro caso, noi abbiamo un conflitto nazionale. In altri posti potrebbe trattarsi di etnia, casta o altro; non deve essere per forza basato su un’ideologia razzista.

Sembra che lei stia cercando di universalizzare ulteriormente il quadro dell’apartheid.

Certamente. Ai sensi del diritto internazionale il divieto di apartheid costituisce il valore fondamentale che il mondo ha adottato dopo la seconda guerra mondiale: noi condividiamo un’umanità e un regime che viola in maniera diretta e sistematica quel principio affermando che ci sono alcuni che hanno più diritti di altri — questa è la cosa che si sta cercando prevenire.

Il diritto e le convenzioni internazionali che identificano il crimine di apartheid e le sue caratteristiche in Israele-Palestina esistono da decenni. Ma a differenza del Sudafrica, il mondo sembra fare un’eccezione con Israele sull’apartheid. Perché dovrebbe fare eccezione e dove pensate che il dibattito debba andare per porvi fine?

Primo, sono passati solo 70 anni dal più grande crimine mai commesso contro l’umanità. Io sono il nipote di sopravvissuti all’Olocausto. C’è una riluttanza, comprensibile, ma inaccettabile, a confrontarsi con questo crimine da parte delle “vittime per eccellenza.” 

Si può vedere come le potenze europee camminino sulle uova quando si tratta di Israele, e Israele è riuscito a mobilitare nel mondo occidentale questo senso di colpa collettivo e giustificato a proprio favore. Se c’è una lezione da imparare dalla storia del genocidio e dell’antisemitismo, è che non si dovrebbe restare in silenzio davanti al male e alla persecuzione di comunità.

Secondo, Israele è visto, tavolta correttamente, in pericolo esistenziale dato che i suoi vicini cercano di distruggerlo. Anche se queste dichiarazioni hanno pochissimo significato o sono solo propaganda, e anche se Israele è la maggiore potenza in Medio Oriente alleata con una superpotenza, queste affermazioni danno a Israele molto spazio di manovra. C’è anche la questione della posizione di Israele quale avamposto dell’America in Medio Oriente. Ma penso che tutto ciò stia cambiando.

Per il dopo, come ho già detto, io ci vado molto attento con le parole. “Apartheid” è una parola che ha molto peso e non la userei con leggerezza. Se questa accusa sarà qualcosa da discutere più seriamente — non come una parolaccia ma come qualcosa di valido — nel caso in cui ci si confronti con un regime di apartheid, l’obbligo in ogni Paese è di porvi fine.

Ciò è molto diverso dall’occupazione. Per esempio, l’Europa ha raggiunto la conclusione che si deve attenere a una politica di differenziazione per garantire che non un centesimo dei suoi soldi vada alle colonie. Se si arriva alla conclusione che Israele è un regime di apartheid, ciò avrà un enorme impatto su quello che è obbligata a fare per legge, non solo rifiutando di assistere quel regime, ma di fare pressioni affinché esso finisca.

In conclusione la gente dovrebbe chiedersi qual è lo scopo finale delle politiche di Israele. Vent’anni fa la maggior parte della gente avrebbe detto che era di avere due Stati — ma oggi non sono sicuro della loro risposta. E se neanche uno Stato democratico binationale è la risposta, allora non c’è via alternativa all’apartheid.

In pratica affermando che non ci sia una soluzione si accetta automaticamente l’apartheid.

Giusto. Quando ho cominciato a scrivere il documento, a prova delle sue intentioni di perpetuare la dominazione avevo solo le azioni di Israele sul terreno. Per 50 anni il governo di Israele ha detto la “cosa giusta” — che l’occupazione è temporanea fino a che gli accordi di pace non sostituiranno gli accordi di cessate il fuoco.

Ma poi il divario fra le dichiarazioni di Israele e le sue azioni è scomparso. Con le loro stesse parole i governanti israeliani hanno distrutto il proprio alibi — un pessimo alibi che comunque non riusciva a nascondere le loro azioni. Oggi il mio lavoro è molto più facile.

Amjad Iraqi è redattore e autore di +972 magazine. È anche analista politico di Al-Shabaka e in precedenza è stato un coordinatore della difesa di “Adalah” [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.]. È un cittadino palestinese di Israele, attualmente residente ad Haifa.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Annettere gli acquiferi: Israele e la crisi idrica nella Palestina occupata

Fareed Taamallah

28 maggio 2020 – Palestine Chronicle

La scorsa settimana la Palestinian Water Authority [Autorità Palestinese per l’Acqua] ha duramente criticato Israele per aver ridotto in modo significativo la quantità di acqua destinata alla Cisgiordania. “Stiamo affrontando questa crisi mentre sta cominciando l’estate, un periodo dell’anno in cui la gente in genere ha bisogno di più acqua, non di meno,” secondo una citazione di quanto ha detto il capo della PWA Mazen Ghneim.

Nel mio quartiere a Ramallah ogni anno durante i mesi estivi non abbiamo quasi mai acqua nelle tubature. L’acqua scorre solo un giorno alla settimana. Quindi tutte le famiglie devono fare attenzione all’orario di distribuzione dell’acqua per pianificare le attività domestiche come fare il bucato e pulire la casa. Alcune comunità palestinesi in Cisgiordania sono collegale a reti idriche “allacciate” che riforniscono gli illegali coloni israeliani. Durante i mesi secchi estivi le valvole dell’acqua che portano alle vicine comunità palestinesi vengono normalmente chiuse dalle autorità israeliane in modo che i coloni non soffrano per la mancanza di acqua.

Nei territori palestinesi la carenza di acqua non è una crisi di carattere naturale, ma piuttosto il risultato dell’occupazione israeliana che sfrutta oltre l’85% delle risorse idriche.

Fatti e dati

Israele controlla i tre principali acquiferi transfrontalieri nei territori palestinesi occupati. Il primo e più grande è l’acquifero (montano) della Cisgiordania, che è alimentato dalle piogge e genera 679 milioni di m3 di acqua all’anno. Il secondo è il fiume Giordano, che fornisce a Israele circa 450 milioni di m3 all’anno. Ai palestinesi viene negato l’accesso e la fornitura delle loro acque. Il terzo è l’acquifero costiero, che produce 450 milioni di m3 d’acqua a Israele e 55 milioni di m3 a Gaza.

La Palestina ha un buon livello di precipitazioni. Ramallah, per esempio, ha un livello medio di piogge annuali di 615 millimetri, che è quasi tanto quanto i 620 mm di Londra.

Secondo il rapporto della Palestinian Water Authority del 2012, si stima che circa 784 milioni di m3 di piogge abbiano ricaricato le falde freatiche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Tuttavia ai palestinesi vengono destinati solo 375 milioni di m3 di queste acque sotterranee, mentre Israele ne consuma annualmente 2.346 milioni di m3.

Gli accordi di Oslo

Il problema idrico è cominciato fin dall’inizio dell’occupazione israeliana della Palestina, ma è stato esacerbato nel 1995 dall’accordo provvisorio Oslo II tra l’OLP e il governo israeliano. Gli accordi di Oslo prevedevano “l’uso equo delle risorse idriche comuni da mettere in pratica durante e dopo il periodo transitorio.” Ma in realtà ciò non è mai avvenuto.

L’accordo che avrebbe dovuto essere di un periodo temporaneo di cinque anni limitò lo sviluppo delle risorse idriche palestinesi, e venne inquadrato nell’assunto che le necessità idriche palestinesi fossero di 70-80 milioni di m3 all’anno e che lo sviluppo provvisorio delle risorse idriche dovesse essere gestito da un meccanismo palestinese-israeliano. Gli argomenti riguardo agli “interessi comuni” (uno dei quali era l’acqua) sarebbero stati ulteriormente definiti in base ai negoziati per lo status permanente.

Il fallimento nel raggiungere un accordo definitivo ha significato l’iniqua distribuzione degli acquiferi della Cisgiordania, con il 15% destinato ai palestinesi e l’85% a Israele.

Come specificato negli accordi di Oslo, venne creata un Joint Water Committee [Comitato Congiunto per l’Acqua] (JWC) per sovrintendere a tutti i progetti relativi all’acqua e alle acque reflue in Cisgiordania. Il JWC è composto da un pari numero di rappresentanti rispettivamente di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese, e le decisioni vengono prese di comune accordo. Ciò ha concesso ad Israele il potere di veto su tutti i progetti riguardanti le risorse idriche palestinesi e bloccato ogni richiesta dei palestinesi di scavare nuovi pozzi.

Pozzi costruiti o risistemati senza permessi rilasciati da Israele sono sistematicamente distrutti dalle forze di occupazione israeliane.

Apartheid idrico

Mentre le comunità palestinesi stanno affrontando la siccità e la carenza di acqua, le colonie israeliane – situate nella stessa area geografica – godono di abbondanti forniture idriche, consentendo ai coloni di riempire le loro piscine e di irrigare i loro prati e giardini. Il mancato accesso ad adeguate quantità d’acqua necessarie per l’allevamento di bestiame e per la produzione di alimenti rende beduini, allevatori e contadini particolarmente vulnerabili.

Le colonie agricole israeliane in Cisgiordania, soprattutto quelle della valle del Giordano, godono di una quantità di acqua fino a 6 volte superiore rispetto alle comunità palestinesi vicine. Nella città palestinese di Tubas il consumo quotidiano di acqua è di 30 litri a persona. Tuttavia secondo B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] gli abitanti della vicina colonia illegale israeliana di Beda’ot consumano circa 401 litri al giorno.

Mentre la popolazione palestinese è raddoppiata, la disponibilità di acqua è diminuita. Secondo il rapporto 2018 della Banca Mondiale, “con una popolazione della Cisgiordania e di Gaza di circa 4,8 milioni, che aumenta a un tasso medio annuale del 2,8%, si prevede che la differenza di forniture per uso domestico sia rispettivamente circa di 152 e di 135 milioni di m3.”

L’egemonia idrica israeliana ha lasciato i palestinesi con un disavanzo nell’allocazione idrica. Per compensare questo deficit sono stati obbligati a procurarsi da Israele circa un quarto delle forniture di acqua per uso domestico.

Secondo l’Ufficio palestinese di statistica il consumo quotidiano di acqua pro capite è attorno agli 88 litri. In confronto il consumo quotidiano di acqua pro capite in Israele è di 257 litri. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda almeno 100 litri di acqua a persona al giorno. Il consumo palestinese è inferiore al minimo.

Nella Striscia di Gaza la situazione idrica è persino peggiore. La gravissima carenza di acqua provocata dal 2007 dal brutale blocco israeliano ha portato a un pesante ricorso alla parte dell’acquifero costiero sottostante come unica fonte di rifornimento idrico di Gaza.

I due milioni di abitanti hanno estratto circa 180 milioni di m3 nel 2017, ma questa quantità è ottenuta con il pompaggio non sicuro che danneggia l’eco-sostenibilità della falda acquifera, mentre il ricarico totale è solo di un terzo di quanto viene estratto. Le conseguenze dirette dell’eccessivo pompaggio sono l’infiltrazione di acqua di mare e l’affioramento dell’acqua salmastra profonda. Di conseguenza il 97% dell’acqua non è potabile e non risponde agli standard di qualità delle linee guida riconosciute dell’OMS per le sorgenti di acqua potabile.

Piano di annessione

Israele controlla le due principali fonti idriche palestinesi in Cisgiordania (il bacino del fiume Giordano a est e l’acquifero montano occidentale) che forniscono annualmente a Israele circa 900 milioni di m3 di acqua.

Attraverso l’annessione delle zone della Cisgiordania prevista quest’anno, Israele intende impossessarsi degli acquiferi della Cisgiordania al di là dei nuovi confini israeliani conservando il controllo dei blocchi di colonie adiacenti ai bacini, in particolare la valle del Giordano e l’area di Salfit, dove si trova la mia città di origine, Qira.

Questa annessione perpetuerà gli alti livelli di consumo dell’acqua da parte di Israele negando le necessità fondamentali dei palestinesi e obbligandoli a dipendere da Israele per l’acqua, preservando così lo status quo di una drammaticamente ingiusta divisione delle risorse idriche, spegnendo ogni speranza di uno Stato palestinese e di una pace sostenibili nella regione.

Fareed Taamallah è un giornalista, agricoltore e attivista politico palestinese che vive a Ramallah. Ha fornito questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo Stato d’Israele contro gli ebrei

Cypel S., L’État d’Israël contre les juifs, La Découverte, Paris, 2020.

Recensione di Amedeo Rossi

16 aprile 2020

Sylvain Cypel è un giornalista ed intellettuale francese, a lungo inviato di Le Monde negli USA ed autore nel 2006 di un altro importante libro sul conflitto israelo-palestinese: “Les emmurés : la société israélienne dans l’impasse” [I murati vivi: la società israeliana nel vicolo cieco], non tradotto in italiano. Attualmente collabora con il sito Orient XXI di Alain Gresh.

Avendo vissuto a lungo durante la giovinezza in Israele e con un padre sionista, l’autore conosce bene la società e la politica di quel Paese. Non a caso il libro inizia con un ricordo familiare: nel 1990 l’ottantenne genitore gli disse: “Vedi, alla fine abbiamo vinto”, riferendosi al sionismo. “Mi ricordo”, scrive Cypel, “di essere rimasto zitto. E di aver tristemente pensato che quella storia non era finita e che dentro di lui mio padre lo sapesse.”

È proprio di questa riflessione iniziale che parla il libro. Chi segue assiduamente le vicende israelo-palestinesi vi troverà spesso cose già note. Molti degli articoli citati si trovano sul sito di Zeitun. Tuttavia, sia per la qualità letteraria che per la profondità di analisi il lettore non rimane deluso. Ogni capitolo è introdotto da un titolo ricavato da una citazione significativa da articoli o interviste che ne sintetizza molto efficacemente il contenuto: dal molto esplicito “Orinare nella piscina dall’alto del trampolino”, per evocare la sfacciataggine di Israele nel violare leggi e regole internazionali, a “Non capiscono che questo Paese appartiene all’uomo bianco”, riguardo al razzismo che domina la politica e l’opinione pubblica israeliane, fino a “Sono stremato da Israele, questo Paese lontano ed estraneo”, in cui l’autore descrive il sentimento di molti ebrei della diaspora nei confronti dello “Stato ebraico”.

Da questi esempi si intuisce che gli argomenti toccati nelle 323 pagine del libro sono molto vari e concorrono ad una descrizione desolante della situazione, sia in Israele che all’estero, ma con qualche spiraglio di speranza.

Cypel denuncia l’incapacità dell’opinione pubblica e ancor più della politica israeliane di invertire la deriva nazionalista e etnocratica del Paese. Ne fanno le spese non solo i palestinesi e gli immigrati africani, stigmatizzati da ministri e politici di ogni colore con epiteti che farebbero impallidire Salvini, ma anche gli stessi ebrei israeliani. Non a caso uno dei capitoli si intitola “Siamo allo Stato dello Shin Bet”, il servizio di intelligence interno. Sono colpiti i dissidenti israeliani, come Ong e giornalisti, le voci che si oppongono alle politiche nei confronti dei palestinesi e delle minoranze in generale, e quelli all’estero, come i sostenitori a vario titolo del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele). Quest’ultimo viene indicato nel libro come una reale ed efficace minaccia allo strapotere internazionale della Destra, termine che include quasi tutto il quadro politico israeliano. Varie leggi proibiscono l’ingresso e cercano di impedire il finanziamento di queste voci dissidenti, mentre Israele promuove anche i gruppi più esplicitamente violenti e razzisti, tanto che Cypel parla di un “Ku Klux Klan” ebraico. A proposito di un episodio di censura a danno di B’Tselem da parte della ministra della Cultura Miri Regev, l’autore cita la presa di posizione critica persino dell’ex-capo dello Shin Bet Ami Ayalon: “La tirannia progressiva è un processo nel quale uno vive in democrazia e, un giorno, constata che non è più una democrazia.”

Ciò non intacca minimamente l’incondizionato sostegno degli USA di Trump come quello, anche se meno esplicito, dell’UE. Questa corsa verso l’estrema destra è dimostrata anche dagli ottimi rapporti tra il governo israeliano e gli esponenti più in vista del cosiddetto “sovranismo”: oltre a Trump, il libro cita altri presidenti delle ormai molte “democrazie autoritarie” in tutto il mondo. Ancora peggio avviene in Europa, dove i migliori amici di Netanyahu sono anche esplicitamente antisemiti: Orban in Ungheria e il governo polacco, persino Alternative für Deutchland, partito tedesco con tendenze esplicitamente nazistoidi, oltre a Salvini e all’estrema destra francese, hanno ottimi rapporti con i governanti israeliani. Questi personaggi sono stati accolti al Museo dell’Olocausto per mondarsi dall’accusa di antisemitismo e poter continuare a sostenere posizioni xenofobe e razziste. Non è solo l’islamofobia a cementare questa alleanza. È il comune richiamo al suprematismo etnico-religioso che fa di Israele un modello per questi movimenti di estrema destra, ed al contempo lo “Stato ebraico” ne rappresenta la legittimazione: se può disumanizzare palestinesi e immigrati e può opprimerli impunemente, violando le norme internazionali che dovrebbero impedirlo, perché non potremmo fare altrettanto in Europa e altrove contro immigrati, musulmani, nativi? Riguardo alle giustificazioni di questa imbarazzante alleanza, Cypel cita quanto affermato da una deputata del Likud: “Forse sono antisemiti, ma stanno dalla nostra parte.” “Ovviamente”, aggiunge l’autore, costei è “una militante attiva della campagna per rendere reato l’antisionismo come la forma contemporanea dell’antisemitismo.”

A queste posizioni si adeguano le comunità ebraiche europee, in particolare in Francia, Paese in cui risiede la comunità della diaspora ebraica più numerosa dopo quella statunitense. Il Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche di Francia (CRIF) “formalmente rappresenta l’ebraismo francese; de facto, è in primo luogo il gruppo lobbysta di uno Stato estero e si vive come tale,” afferma il libro. Cypel attribuisce questo fenomeno alla mediocrità della vita culturale ebraica in Francia ed alla tendenza a rinchiudersi in quartieri ghetto, sfuggendo alla convivenza con le altre componenti della popolazione. Inoltre la tendenza al conformismo deriva anche dalla paura di venire isolati dal resto della comunità: “Le persone preferiscono non esprimere il proprio disaccordo, per timore di essere accusate di tradimento.” L’autore cita vari episodi di censura, persino il tentativo fallito da parte dell’ambasciata israeliana a Parigi e del CRIF di impedire la messa in onda su una rete nazionale di un documentario (peraltro senza neppure averlo visto) sui giovani gazawi mutilati dai cecchini israeliani. La motivazione? “Avrebbe potuto alimentare l’antisemitismo,” ha sostenuto l’ambasciata. Purtroppo lo stesso atteggiamento caratterizza le istituzioni della comunità ebraica italiana, o di quella britannica, come dimostrato dalla campagna di diffamazione contro Corbyn. Quindi sembra trattarsi di una posizione che riguarda buona parte dell’ebraismo europeo.

L’unico spiraglio di speranza all’interno del mondo ebraico viene invece dagli USA. Non solo, sostiene Cypel, non vi si è perso il tradizionale progressismo moderato, ma anzi l’occupazione e gli stretti legami tra Trump (legato a suprematisti, razzisti e fanatici religiosi) e Netanyahu hanno allontanato molti ebrei, soprattutto tra i giovani, dal sostegno incondizionato a Israele. Nei campus, afferma l’autore, circa metà dei militanti del BDS sono ebrei. Molti intellettuali ebrei si sono dichiarati contrari alla legge sullo “Stato-Nazione”, e, dopo l’approvazione di una norma che vieta l’ingresso in Israele ai sostenitori del BDS, più di 100 personalità importanti, tra cui alcuni esplicitamente filosionisti, hanno firmato una petizione di denuncia. Questo allontanamento si manifesta anche in un sostanziale disinteresse nei confronti dello “Stato ebraico”, oppure nella dissidenza religiosa da parte degli ebrei riformati, in maggioranza negli USA, secondo i quali il ruolo del popolo ebraico è quello di migliorare il mondo e l’umanità. Un obiettivo ben lontano da quello della supremazia etnico-religiosa rivendicata da ortodossi ed ultraortodossi in Israele.

Nonostante la sua superiorità incontrastata, secondo Cypel la società israeliana è in preda all’inquietudine e al pessimismo rispetto al futuro, all’“impotenza della potenza”. L’ha espressa chiaramente lo storico Benny Morris sostenendo una tesi apparentemente paradossale: “Tra trenta o cinquant’anni [i palestinesi] ci avranno sconfitti.” È la vaga percezione di vivere una situazione segnata dalla mistificazione, che fa provare a molti israeliani un senso di precarietà e di timore per il futuro, che però al momento gioca a favore di una destra sempre più estrema.

Il libro si chiude con un omaggio a Tony Judt, il primo importante intellettuale ebreo americano a sostenere l’opzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi. Nell’ottobre 2003 definì Israele uno Stato anacronistico, nel suo nazionalismo etnico religioso ottocentesco, di fronte alla sfida della mondializzazione.

Cypel conclude con un auspicio che non si può che condividere: “Quello che si può augurare agli ebrei, che siano o meno israeliani, è che prendano coscienza di questa realtà e ne traggano le conseguenze, invece di continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.” Questo libro contribuisce a questo svelamento, e c’è da augurarsi che venga pubblicato anche in Italia.

(Le citazioni tratte dal libro sono state tradotte in italiano dal recensore)




In mezzo alla pandemia aumentano del 78% le aggressioni dei coloni

Tamara Nassar

11 aprile 2020 electronicintifada

In piena pandemia di COVID-19 nella Cisgiordania occupata si registra un forte aumento della violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi.

Anche dopo che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha chiesto un cessate il fuoco globale per ostacolare la diffusione della pandemia, Israele ha ucciso due palestinesi, incluso un bambino, e incrementato gli attacchi.

Israele ha continuato i suoi “raid militari in Cisgiordania, condotto arresti diffusi e detenzioni amministrative, ha permesso gravi accessi di violenza da parte dei coloni e ha continuato la sua draconiana chiusura della Striscia di Gaza”, ha affermato l’organizzazione per i diritti palestinesi Al Haq.

Nelle ultime due settimane di marzo, il numero di aggressioni dei coloni contro i palestinesi è stato del 78% superiore al solito, secondo il gruppo di monitoraggio dell’ONU OCHA.

Durante questo periodo, “almeno 16 assalti di coloni israeliani hanno ferito cinque palestinesi e causato gravi danni materiali”, ha riferito l’OCHA.

Anche se Mohammad Shtayyeh, primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha ordinato un isolamento di due settimane a tutti i residenti palestinesi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, la sua decisione non ha avuto alcun impatto sui circa 800.000 israeliani che vivono negli insediamenti illegali.

Quei coloni condividono strade, negozi di alimentari e distributori di benzina con i palestinesi, sottoponendoli spesso a molestie verbali, aggressioni fisiche e danni materiali.

Le forze israeliane “non sono intervenute per prevenire i comportamenti illeciti, fornendo invece sostegno e protezione ai coloni, garantendo che tali individui non venissero chiamati a rispondere dei loro atti e consolidando l’attuale regime di impunità”, ha affermato Al Haq.

I coloni godono di un’impunità pressoché totale per le violenze che commettono contro i palestinesi, il che li incoraggia ad aumentare le aggressioni.

Oggetto di continui assalti, i palestinesi si stanno sforzando di prendere tutte le precauzioni sanitarie contro la pandemia di coronavirus. In effetti, i coloni stanno sfruttando l’isolamento per aumentare le loro violenze con poche resistenze da parte dei residenti palestinesi.

Assalto a un cimitero

Giovedì i coloni israeliani hanno vandalizzato le lapidi del cimitero palestinese nel villaggio di Burqa in Cisgiordania.

Ghassan Daghlas, che controlla le attività dei coloni nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito all’agenzia di stampa palestinese WAFA che i coloni sono entrati nel villaggio attraverso l’adiacente e già evacuato insediamento israeliano di Homesh.

Homesh è stata liberata dai suoi residenti israeliani nel 2005 come parte del presunto “disimpegno” israeliano a Gaza e in diversi villaggi della Cisgiordania. La terra, che apparteneva al villaggio di Burqa, fu dichiarata zona militare e chiusa negli anni ’70.

Il mese scorso i coloni hanno picchiato e lanciato pietre contro un contadino che lavorava la propria terra nella zona di Homesh.

“Uno di loro aveva in mano una pistola”, ha detto ad Al Haq Ali Mustafa Mohammad Zubi, 55 anni.

“Ogni volta che provavo ad alzarmi e correre via mi buttavano a terra, mi picchiavano e mi aggredivano verbalmente.”

Colpito con un’ascia

Inoltre, un palestinese è stato ricoverato in ospedale dopo che i coloni israeliani lo hanno assalito con un’ascia il 24 marzo nel villaggio cisgiordano di Umm Safa, a ovest di Ramallah.

Un colono stava entrando con una mandria di 50 mucche in un uliveto a ovest del villaggio.

Otto residenti del villaggio, accompagnati dal vice capo del consiglio locale, Naji Tanatrah, sono andati a chiedergli di lasciare il villaggio. Mentre stava per ritirarsi, cinque coloni armati sono arrivati su due veicoli con asce e almeno un fucile e hanno preso ad aggredire Tanatrah, riferisce B’Tselem.

Un colono ha colpito Tanatrah alla testa con l’ascia, facendolo cadere a terra sanguinante. I coloni hanno continuato a picchiare il 45enne che giaceva sanguinante a terra.

Alcuni abitanti sono riusciti a recuperare Tanatrah e spostarlo in un ospedale di Ramallah, dove è stato operato e gli è stata diagnosticata una frattura al cranio.

“Ho trascorso cinque giorni in ospedale e me ne sono andato appena ho potuto, temendo di contrarre il coronavirus” avrebbe detto Tanatrah, come riferisce il quotidiano israeliano Haaretz.

Il giorno successivo, decine di coloni hanno tentato di entrare nel villaggio di Einabus, sempre nella zona di Nablus.

Contemporaneamente i coloni attaccavano un pastore nel villaggio di al-Tuwani, nelle colline a sud di Hebron. Il 27 marzo sei coloni, alcuni armati, hanno attaccato il pastore mentre stava pascolando il suo gregge, riferisce B’Tselem. Uno dei cani dei coloni lo ha morso al braccio e all’addome; è stato portato in una clinica medica dove l’hanno vaccinato contro la rabbia.

Il giorno seguente i coloni hanno lanciato pietre contro tre abitanti che tornavano ad al-Tuwani.

Altri abitanti del villaggio sono arrivati per aiutarli finché sono giunti i militari israeliani e hanno lanciato candelotti di gas lacrimogeno contro gli abitanti del villaggio.

Le forze israeliane hanno arrestato tre abitanti del villaggio, rilasciandone due su cauzione.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La battaglia dell’acqua in Palestina (I parte)

Francesca Merz

24 marzo 2020 Nena News

Da sempre un punto centrale del conflitto arabo-israeliano, l’approvvigionamento idrico è una delle principali sfide che le autorità palestinesi in Cisgiordania e a Gaza devono affrontare. Una questione complessa dato che l’85% delle acque palestinesi è sotto il controllo israeliano

Il 22 marzo è stata la giornata dell’acqua, il 23 la Giornata mondiale del clima, l’intima connessione che lega il primo elemento con ciò che accadrà al nostro pianeta in futuro, è oramai nota, tanto che anche le Nazioni Unite si sono poste l’obiettivo di unificare il dibattito, esaltando l’interdipendenza tra questi due temi.

L’ufficio centrale palestinese di statistica, l’Autorità palestinese per l’acqua e l’Amministrazione generale sul clima palestinesi hanno rilasciato una dichiarazione stampa congiunta, venerdì, proprio in tal senso, con un messaggio univoco che mettesse in luce la correlazione tra queste due giornate “Acqua e cambiamenti climatici” appunto. 
L’obiettivo di unificare lo slogan per questi due giorni globali è arrivato, secondo la dichiarazione, proprio per sancire e sottolineare la grande interdipendenza tra acqua e clima, e con la volontà di coordinare gli sforzi di gestione dei due settori, per garantire la sostenibilità idrica e contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, soprattutto perché entrambi sono essenziali per raggiungere obiettivi di sviluppo sostenibile e per ridurre disastri naturali in modo proattivo.

Secondo gli ultimi dati, il consumo medio pro capite di acqua per la popolazione ha raggiunto 87,3 litri al giorno di acqua in Palestina. Questo tasso ha raggiunto i 90,5 litri al giorno in Cisgiordania e un miglioramento rispetto agli anni precedenti grazie ai progetti idrici completati, che sono stati in grado di sviluppare le risorse disponibili e ridurre gli sprechi.
La quota pro capite a Gaza oggi ha raggiunto 83,1 litricon il rilevamento di una diminuzione di 5,2 litri rispetto allo scorso anno, a causa dell’aumento della popolazione. Con un ulteriore calcolo però a causa dell’ elevato tasso di inquinamento dell’acqua a Gaza, se si considerano solo le quantità di acqua idonee all’uso per gli esseri umani, la quota pro capite di acqua dolce raggiunge solo i 22,4 litri al giorno. Partendo proprio dalla differenza tra le singole quote tra i governatorati, ottenere un equilibrio nella distribuzione tra i centri abitati è una delle principali sfide che l’Autorità Palestinese deve affrontareVale la pena notare che il consumo medio di acqua palestinese per persona è ancora inferiore al minimo raccomandato a livello globale, il che non può non farci pensare al controllo israeliano di oltre l’85% delle risorse idriche palestinesi.

A Gaza, vedremo dopo il perchè, oltre il 97% della qualità dell’acqua pompata dal bacino costiero non soddisfa gli standard dell’OMS. 
In linea generale, secondo gli ultimi dati, il 77% dell’acqua disponibile proviene da acque sotterranee, ancora una volta il motivo principale dell’uso limitato delle acque superficiali è il controllo dell’occupazione israeliana sulle acque del fiume Giordano che impedisce anche ai palestinesi di usare l’acqua delle valli.
Secondo i dati del 2018, la Palestina ha iniziato a produrre quantità di acqua desalinizzata, che dovrebbe aumentare la percentuale di risorsa disponibile nei prossimi anni, con l’avvio di impianti di desalinizzazione specie a Gaza. Ad oggi, secondo quel principio di colonizzazione e dipendenza solidamente costruito dall’occupazione, il 22% dell’acqua disponibile in Palestina viene acquistata dalla compagnia idrica israeliana Mecorot, come sempre il controllo economico si cela sotto le sembianze di un libero mercato che toglie il diritto all’acqua e costringe un popolo a pagare per dei servizi dei quali non avrebbe bisogno se non fosse schiacciato da un colonialismo estremo, che vede proprio il controllo economico sulle risorse di base come sua prima arma.

Gli ultimi rapporti sui territori palestinesi, in relazione alla quantità di acqua piovana annuale e al potenziale aumento delle risorse idriche, ci dicono che, se da una parte piove di più, dall’altra lo fa in periodi dell’anno altamente circoscritti, con bombe d’acqua che non riescono ad aumentare le falde, e che, dall’altra, l’innalzamento della temperatura globale, porta ad una sempre più veloce evaporazione delle risorse, il cambiamento climatico è dunque un importante dato che andrà proprio ad intaccare in maniera forte le acque sotterranee e superficiali. Attualmente, l’Autorità per l’acqua e il Dipartimento sul clima, in collaborazione con un certo numero di autorità locali competenti, stanno implementando una serie di programmi volti a monitorare e valutare gli effetti dei cambiamenti climatici, pubblicando le relazioni necessarie a tale proposito, oltre a preparare i piani necessari per adattarsi agli effetti dei cambiamenti.

A Gaza, in particolare, la situazione è sempre più disastrosa, come certificato dalle stesse autorità israeliane. Il 3 giugno dello scorso anno ricercatori delle università israeliane di Tel Aviv e Ben Gurion hanno presentato un rapporto, commissionato dall’organizzazione ambientalista ‘EcoPeace Middle East’, in cui avvertono che “il deterioramento delle infrastrutture idriche, elettriche e fognarie nella Striscia di Gaza costituisce un sostanziale pericolo per le acque terrestri e marine, le spiagge e gli impianti di desalinizzazione di Israele”. Ma ciò che Israele ha identificato come un “problema di sicurezza nazionale” è in realtà un disastro causato da proprie responsabilità. Innumerevoli rapporti delle Nazioni Unite hanno infatti documentato dettagliatamente come e perché la principale causa del disastro sia l’occupazione israeliana. Il motivo per cui le acque reflue a Gaza vengono smaltite in questo modo definito dagli israeliani “irresponsabile” è che gli impianti per il trattamento delle acque non funzionano; sono stati colpiti nell’attacco israeliano alla Striscia del 2014 [operazione “Margine protettivo, ndtr.] e non sono mai stati ricostruiti perché l’assedio israeliano non consente di importare materiali da costruzione e pezzi di ricambio (vedi articolo sul Protocollo di Parigi).

Ma non solo a Gaza il tema dell’acqua è di profonda urgenza, anche in tutta la Cisgiordania, affollata da nuovi insediamenti israeliani, risulta chiarissima l’interconnessione tra la gestione dell’acqua da parte di Israele, e le innumerevoli questioni legate all’impatto ambientale che il colonialismo impone. Gli insediamenti israeliani incombono in numero sempre maggiore (dopo il piano Trump è stato dato il via libera alla costruzione di 122 nuovi insediamenti), producendo un flusso di liquami che scorre costantemente sotto di loro. Il terrificante impatto delle colonie sull’ambiente è visibile ovunque. Nelle valli Matwa e al-Atrash – situate nel distretto di Salfit della Cisgiordania occupata tra le città palestinesi di Ramallah e Nablus si raccolgono le acque reflue mal gestite da residenti palestinesi a Salfit e soprattutto da residenti israeliani nei vicini insediamenti illegali di Ariel e Barkan.

Secondo un rapporto del 2009 dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, i palestinesi che vivono in queste valli sono esposti a “acque reflue non trattate [che] contengono virus, batteri, parassiti e metalli pesanti e tossici [che] sono pericolosi per la salute umana e per gli animali”. Le acque reflue non trattate hanno un grave impatto sulla salute pubblica ma le sostanze chimiche riversate dalle fabbriche vicine rappresentano se possibile una minaccia ben peggiore. Secondo un report di B’Tselem del 2017, lo Stato di Israele stava sfruttando la terra palestinese per il trattamento di vari rifiuti creati non solo negli insediamenti illegali ma dall’interno della linea verde. Nel rapporto, si dice che le zone industriali dell’insediamento di Ariel e Barkan contengono due dei 14 impianti di trattamento dei rifiuti gestiti da Israele nella Cisgiordania occupata e nella Gerusalemme est.

Come si può immaginare, in un territorio composto da territori montuosi e aridi l’impatto di un’ agricoltura intensiva e aggressiva, e uno sviluppo industriale ai danni degli occupati, sono i fattori che fanno dell’acqua potabile, già di natura scarsa, una risorsa sempre più critica. Secondo l’Autorità Nazionale Palestinese, Israele possiede il controllo di quasi tutte le sorgenti e un terzo degli abitanti della West Bank riceve acqua a intermittenza. I dati sul consumo dell’acqua confermano ciò. Per i palestinesi, infatti, sono disponibili un quinto delle risorse idriche rispetto a quelle dei coloni. Entrambe le parti in causa attingono acqua dal bacino idrico delle montagne della West Bank.
Anche le altre due risorse della zona, il Mar di Galilea ed il bacino idrico costiero, sono condivise dalle due parti in causa che le sfruttano, vista l’aridità della zona, in maniera eccessiva. Tutti i bacini idrici si trovano dunque in territorio palestinese, e questo già ci dice molto di quanto “la guerra dell’acqua” sia risultata fondamentale sin dai tempi della nascita dello stato ebraico, come vedremo di seguito. Sempre B’Tselem, in un rapporto dichiara che oltre 215mila palestinesi in più di 150 villaggi non sono connessi alla rete idrica e che lo stato d’Israele alloca le risorse idriche in maniera discriminatoria.

L’esistenza di una doppia rete idrica nei territori occupati, una efficiente per gli insediamenti dei coloni e una priva della necessaria manutenzione da oltre 40 anni e con perdite di oltre l’11 per cento dell’acqua destinata ai palestinesi, sembra confermare l’ipotesi.

«Nei mesi estivi la Mekorot Israeli Water Company riduce i rifornimenti d’acqua alle aree palestinesi in maniera considerevole. – ha dichiarato al giornale israeliano Haaretz, Tashir Nasir Eldin, direttore generale dell’Autorità Palestinese per l’Acqua in Cisgiordania.

A Hebron, per esempio, i 300mila abitanti avrebbero bisogno di circa 25mila metri cubi d’acqua al giorno, ma dalla Mekorot ne arrivano solamente 5.500. Analogo discorso a Betlemme, dove i metri cubi necessari sarebbero 18mila, ma ne arrivano solamente 8mila.

Occorre a questo punto fare un passo indietro, per capire anche storicamente il grande valore che ha da sempre rivestito l’acqua all’interno di questi territori e del conflitto. Nel 1919, Chaim Weizman, alla testa dell’Organizzazione Sionista Mondiale, scrive al Primo Ministro inglese Lloyd George esprimendosi così « il futuro economico della Palestina, nel suo complesso, dipende dal suo approvvigionamento di acqua, per l’irrigazione e per la produzione di energia elettrica». Le frontiere che allora venivano richieste per la nascita dello Stato Ebraico, inglobavano, oltre alla Palestina, il Golan e i Monti Ermon in Siria, il sud del Libano e la riva est del Giordano, proprio per questo scopo. Nel 1941, David Ben Gurion dichiara «Noi dobbiamo ricordarci che, per pervenire al radicamento dello Stato ebraico, sarà necessario che le acque del Giordano e del Litani siano incluse all’interno delle nostre frontiere ». Inizia così una campagna massiccia tesa all’approvvigionamento di acque per il nuovo stato: già dal 1953, Israele comincia a deviare le acque del Lago di Tiberiade per irrigare il litorale e il Negev, portando alla attuale terrificante condizione del Lago, che descriverò a conclusione di questo articolo. Dal 1964 risulta attivo il National Water Carrier, (Trasporto dell’Acqua attraverso canalizzazioni), Siria e Giordania, preoccupate, intraprendono così la costruzione di dighe sullo Yarmouk e la deviazione del Baniyas, per riuscire a trattenere l’acqua a monte del Lago di Tiberiade e quindi impedire ad Israele di prelevare l’acqua dal Lago. Israele li accusa di essere aggressori e bombarda i lavori, fino allo scatenare la guerra dei Sei Giorni.

Con la guerra del 1967 Israele si accaparra anche parte delle risorse d’acqua di Gaza, della Cisgiordania e del Golan, sino ad arrivare al 1978, con l’invasione del Libano, dove si procede a deviare per pompaggio una parte del Litani, deviazione che rimane in atto fino al 2000, quando Hezbollah si è installata in questa regione. L’annessione del Golan, soprannominato il «castello dell’acqua », permette il controllo del bacino di alimentazione a monte del Giordano, e si traduce nell’espulsione della maggioranza della popolazione, circa 100.000 persone, cosa che, con un’unica mossa, permette ad Israele anche di recuperare l’acqua che non viene più consumata dai locali.




Il blocco di Israele contro il coronavirus intralcia il lavoro per i diritti umani, ma non i soprusi

Judith Sudilovsky

31 marzo 2020 – +972

Le associazioni per i diritti umani segnalano che le direttive per l’emergenza di Israele stanno rendendo più difficile monitorare e proteggere i diritti dei palestinesi durante la pandemia

Alcune associazioni per i diritti umani palestinesi ed israeliane affermano che le direttive d’emergenza emanate dalle autorità israeliane, che con la scusa del coronavirus vietano la libertà di movimento e altre attività, stanno rendendo più difficile monitorare, documentare violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e difendere da esse in vari aspetti della vita.

Stiamo ancora monitorando casi, ma le nostre ricerche non sono in grado di essere presenti e documentare nel suo complesso l’area,” dice Rania Muhareb, ricercatrice giuridica e responsabile della sensibilizzazione presso Al-Haq, un’organizzazione palestinese per i diritti umani con sede a Ramallah. “È molto difficile dire se ci sono più o meno incidenti, per la semplice ragione che in questa situazione è più complicato avere tutte le informazioni con la rapidità di sempre.”

Le violazioni, spiega Muhareb, includono la continua confisca di terre e i progetti di costruzione di colonie israeliane e della barriera di separazione nella Cisgiordania occupata; la violenza contro i contadini palestinesi; incursioni e arresti in città e villaggi palestinesi; demolizioni di case.

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Queste violazioni evidenziano un tentativo diffuso e sistematico di compromettere i diritti dei palestinesi durante un’emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale,” afferma. Nonostante la grave crisi, “Israele continua ad avere il tempo di portare avanti queste azioni illegali.”

Muhareb evidenzia un incidente del 19 marzo nel villaggio di Sawahra Al-Sharqiya, a Gerusalemme est, in cui i bulldozer israeliani hanno distrutto una serie di edifici, compreso un recinto per le pecore, ma che non si può documentare a causa del divieto di muoversi.

Aggiunge che nella zona attorno a Nablus è continuata anche la violenza dei coloni. Il 17 marzo un gruppo di coloni ha attaccato una casa palestinese nel villaggio di Burin; secondo le persone che hanno seguito l’incidente, invece di bloccare i coloni i soldati israeliani hanno sparato proiettili ricoperti di gomma, bombe assordanti e lacrimogeni contro i palestinesi. Tre giorni dopo, il 20 marzo, a sud di Jenin i coloni hanno gravemente ferito il contadino Ali Musafa Zouabi.

Allo stesso modo l’associazione israeliana per i diritti umani Yesh Din ha riferito di violenti attacchi dei coloni che la scorsa settimana hanno ferito gravemente contadini e pastori palestinesi. I coloni sono arrivati da Halamish, Homesh (una ex-colonia che è stata demolita, ma in cui gli israeliani sono rimasti illegalmente), e Kochav Ha Shahar. Nessuno dei coloni è stato arrestato.

Muhareb afferma che i soldati delle IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] non hanno l’autorità di arrestare i cittadini israeliani in Cisgiordania. Al contrario, la scorsa settimana l’esercito ha arrestato parecchi palestinesi nella città vecchia di Jenin, a Qalqiliya e nei pressi di Nablus.

In un comunicato l’ufficio del portavoce delle IDF ha detto che le IDF “continuano l ‘attività operativa, che include l’interruzione di sospette attività terroristiche in base alle necessità operative e alle valutazioni aggiornate della situazione. Durante gli arresti i militari, così come i detenuti, sono protetti secondo le necessità operative.”

Non si può passare sopra diritti fondamentali”

In base alle nuove regole riguardanti la pandemia entrate in vigore il 15 marzo, questi prigionieri devono essere tenuti in quarantena per 14 giorni prima di poter essere interrogati. Il ministero israeliano della Sicurezza Pubblica ora può vietare le visite dei familiari per arrestati e detenuti e limitare i colloqui dei prigionieri con un avvocato solo a conversazioni telefoniche, afferma Sahar Francis, direttrice dell’ONG palestinese Addameer – Associazione per l’Appoggio e i Diritti Umani dei Detenuti.

L’esercito israeliano sta ancora arrestando persone pur sapendo che non le può interrogare, per cui le mette in isolamento per 14 giorni. È una violazione dei diritti fondamentali dei detenuti,” afferma.

Da due settimane o più hanno completamente chiuso tutte le prigioni e le strutture per la detenzione. (I prigionieri) non hanno contatti con i loro familiari e gli avvocati possono parlare con loro solo quando è prevista un’udienza in tribunale sul loro caso. Ci sono 5.000 prigionieri totalmente isolati dal mondo esterno.”

La portavoce del servizio carcerario israeliano ha fatto notare che le nuove regole sono state applicate in tutte le prigioni israeliane, indipendentemente dalle ragioni per cui i prigionieri vi sono reclusi.

Mantenerli in salute, tenere lontano il coronavirus, ora questo è il nostro unico obiettivo,” afferma. “Si spera che in breve tempo, quando ciò sarà finito, le cose torneranno come prima. Mantenerli in salute è nel nostro interesse più di qualunque altra cosa.”

La portavoce sostiene che le prigioni hanno fornito informazioni a tutti i detenuti in varie lingue, compreso l’arabo, ed hanno disinfettato le loro strutture. Stanno anche seguendo le direttive del ministero della Sanità di incrementare i turni di lavoro del personale carcerario fino a 96 ore, in modo che possano ridurre gli spostamenti dentro e fuori le prigioni.

Finora non abbiamo alcun prigioniero con il coronavirus, e speriamo che così continui ad essere fino alla fine della crisi,” afferma. “Non sappiamo se sia possibile, ma stiamo facendo del nostro meglio.”

Eppure, dice Francis di Addameer, ci sono preoccupazioni per la salute dei prigionieri palestinesi a causa delle loro condizioni di sovraffollamento. I prigionieri hanno anche raccontato che non gli è stato fornito alcun materiale sanitario speciale e che non è stata presa nessun’altra precauzione da parte delle autorità carcerarie.

Il 26 marzo Addameer, insieme ad Adalah – il Centro Giuridico per i Diritti delle Minoranze in Israele – e l’avvocato Abeer Baker hanno chiesto a nome del detenuto Kafri Mansour alla Corte Suprema israeliana di annullare le direttive d’emergenza nelle prigioni.

Pur riconoscendo la necessità di proteggere la salute dei reclusi, il ricorso sostiene che il governo israeliano non ha l’autorità giuridica di imporre il divieto alle visite di avvocati e familiari, che “violano in modo pesante e sproporzionato i diritti dei prigionieri”, in particolare dei minorenni. I ricorrenti accusano anche il fatto che le restrizioni impediscono anche ai prigionieri di riferire di qualunque violazione dei diritti nella prigione.

Il ricorso descrive anche come una conversazione tra l’avvocato Abeer Baker e un prigioniero sia stata trasmessa da altoparlanti in presenza delle guardie della prigione e di altri detenuti, violando la riservatezza tra avvocato e cliente.

Le sfide che questo stato d’emergenza pone alle autorità israeliane non possono consentire loro di passare sopra fondamentali diritti umani,” afferma l’avvocato di Adalah Aiah Haj Odeh. “Le leggi internazionali impongono che Israele debba riconoscere il diritto dei prigionieri e dei detenuti alle visite con i familiari, a consultarsi con gli avvocati e a rivolgersi ai tribunali.”

Arrestano come al solito i minorenni, come se non ci fosse il virus”

Nel contempo nel villaggio di Issawiya, a Gerusalemme est, gli abitanti affermano di aver sperato che l’attenzione sulla pandemia riducesse le incursioni e i pattugliamenti della polizia israeliana messi in atto in modo aggressivo nei loro quartieri dalla scorsa estate.

Invece, sostengono, tali azioni sono continuate. Blocchi stradali della polizia stanno ancora provocando lunghi ingorghi del traffico; scontri con i giovani comportano l’uso di lacrimogeni, granate assordanti e proiettili ricoperti di gomma, e vengono effettuati arresti nella totale inosservanza delle norme del governo sul coronavirus, mettendo in pericolo gli abitanti palestinesi.

Pensavamo che il coronavirus avrebbe contribuito a fermare le cose, ma non è cambiato niente,” dice Muhammad Abu Hummus, un attivista politico di Issawiya. “Al solito, arrestano minorenni come se non ci fosse nessun virus. Ogni giorno (la polizia) va in giro senza mascherine e senza guanti. Altrove forse aiutano la gente, ma a Issawiya portano solo lacrimogeni e balagan (disordine o confusione).”

Il portavoce della polizia Micky Rosenfeld sostiene che la presenza della polizia nel villaggio fa parte del normale pattugliamento in tutti i quartieri di Gerusalemme intrapreso specificamente nel contesto dell’epidemia di coronavirus, inteso a garantire che gli abitanti rimangano in casa.

Non vengono effettuate incursioni, solo normali attività di polizia,” dice. “Se gli abitanti vogliono protestare e fare ritorsioni contro la polizia israeliana è un loro problema. La polizia sta pattugliando tutti i quartieri e mettendo in atto le nuove norme per tenere per quanto possibile le persone al sicuro in casa, per il loro stesso bene e la loro salute.”

Tuttavia in un rapporto del 19 marzo l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ha chiesto perché la polizia abbia scelto questo momento per incrementare quella che descrive come una punizione collettiva degli abitanti del villaggio, nonostante “una crisi senza precedenti che richiede…misure estreme di isolamento sociale.”

La presenza della polizia nel villaggio provoca scontri, dice B’Tselem, che sono già abbastanza problematici durante periodi normali, ma ancor più durante la pandemia, quando riunirsi in gruppo può diffondere il virus.

La violenza della polizia contro i palestinesi a (Issawiya), ormai una caratteristica nella vita del quartiere, è illegale e non può essere giustificata neppure come usuale routine dell’occupazione,” dice B’Tselem nel suo rapporto. “La condotta della polizia danneggia la sicurezza pubblica (compresa la salute dei poliziotti) e viola le linee guida sanitarie sull’isolamento sociale.”

B’Tselem aggiunge: “Il fatto che le autorità israeliane siano indifferenti alla vita degli abitanti (di Issawiya), compresi bambini ed adolescenti, non è affatto una novità. Eppure continuare e persino accentuare simile comportamento durante una pandemia è una manifestazione particolarmente vergognosa di questa politica.”

Un altro attivista del villaggio, che ha chiesto di rimanere anonimo per la sua sicurezza personale, ha detto a +972 di aver dovuto portare urgentemente la scorsa settimana sua figlia di sette mesi all’ambulatorio medico del villaggio dopo che la polizia durante uno scontro con giovani palestinesi ha utilizzato lacrimogeni che sono penetrati in casa sua.

La situazione è terribile,” afferma. “Ovviamente ho paura. Perché mettermi in una situazione per cui devo portare mia figlia all’ambulatorio in tempi di coronavirus?”

Judith Sudilovsky è una giornalista indipendente che da 25 anni si occupa di Israele e dei Territori Palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




B’Tselem: “Durante la crisi del coronavirus Israele confisca tende destinate a una clinica nel nord della Cisigordania

27 marzo 2020 – International Middle East Media Center

Il Centro Israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei Territori Occupati (B’Tselem): Comunità che devono affrontare l’espulsione. Giovedì 26 marzo verso le 7,30 funzionari dell’Amministrazione Civile Israeliana in Cisgiordania sono arrivati con la scorta di una jeep militare, un bulldozer e due autocarri a pianale con gru nella comunità palestinese di Khirbet Ibziq, nel nord della Valle del Giordano.

Hanno confiscato pali e teli che destinati all’installazione di otto tende, due per un ospedale da campo, quattro per abitazioni d’emergenza per abitanti evacuati dalle loro case e due come moschee di fortuna.

La polizia ha anche confiscato una baracca di lamiera che si trovava sul posto da più di due anni, così come un generatore e sacchi di sabbia e di cemento. Sono stati portati via quattro bancali di mattoni di cemento per pavimentare le tende e altri quattro sono stati demoliti.

Mentre tutto il mondo lotta contro una crisi senza precedenti che paralizza il sistema sanitario, l’esercito israeliano dedica tempo e risorse ad angariare le comunità palestinesi più vulnerabili in Cisgiordania, che per decenni Israele ha cercato di cacciare dalla zona.

Impedire un’iniziativa comunitaria di primo soccorso durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei costanti soprusi inflitti a queste comunità, e va contro principi umani e umanitari basilari durante un’emergenza. A differenza delle politiche di Israele, questa pandemia non discrimina in base alla nazionalità, all’etnia o alla religione.

È giunto il momento che il governo e l’esercito riconoscano che ora più che mai Israele è responsabile della salute e del benessere dei cinque milioni di palestinesi che vivono sotto il suo controllo nei Territori Occupati.

Oltre alla sconvolgente distruzione dell’ospedale in costruzione, l’Amministrazione Civile sta continuando la sua solita opera di demolizione. Oggi nel villaggio di ‘Ein a-Duyuk a-Tahta, ad est di Gerico, ha distrutto tre case stagionali di contadini che risiedono a Gerusalemme.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I palestinesi di fronte a due nemici: l’occupazione e la pandemia

Tamara Nassar

26 marzo 2020 – Electronic Intifada

Nonostante la pandemia globale, nulla è cambiato riguardo all’occupazione militare israeliana in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

Il numero di casi confermati di COVID-19, la malattia respiratoria causata dal nuovo coronavirus, è salito a quasi 2.700 in Israele, a circa 80 nella Cisgiordania occupata e a nove nella Striscia di Gaza assediata.

Finora la malattia ha causato la morte di otto israeliani e di una donna palestinese nella Cisgiordania occupata.

Mentre il coronavirus infetta sempre più persone, i palestinesi affrontano contemporaneamente un nemico più vecchio: l’occupazione militare israeliana.

Gaza, sotto assedio e con un’alta densità di popolazione, è particolarmente esposta al rischio di una diffusa epidemia.

“Israele non potrà scaricare su qualcun altro le sue colpe se questo scenario da incubo dovesse divenire una situazione che ha determinato senza fare alcuno sforzo per evitarla”, ha ammonito questa settimana l’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem .

Distanziamento fisico, permanenza a casa e cura dell’igiene sono precauzioni che i palestinesi si sforzano di adottare mentre Israele continua a demolire strutture, a condurre raid notturni, ad arrestare arbitrariamente bambini e ad angariare regolarmente i civili.

Confiscate le strutture per un ospedale da campo

Giovedì mattina le forze israeliane hanno demolito e confiscato strutture destinate a un ospedale da campo e ad alloggi di emergenza a Ibziq, un villaggio nella valle del Giordano settentrionale nella Cisgiordania occupata.

Ciò è stato fatto con la supervisione dell’Amministrazione Civile, il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana.

Le forze israeliane hanno confiscato tende, un generatore e materiali da costruzione.

“Chiudere un’attività di primo soccorso per la comunità durante una crisi sanitaria è un esempio particolarmente crudele dei regolari abusi inflitti a queste comunità”, ha affermato questa settimana l’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem.

Secondo il capo del consiglio del villaggio Abdul Majid Khdeirat, ciò è stato fatto con il pretesto che la costruzione si trovava in una zona militare interdetta.

Israele dichiara abitualmente le terre della Cisgiordania aree di tiro o zone militari e successivamente confisca il territorio a favore delle colonie israeliane illegali.

Le forze israeliane hanno anche demolito le case di tre famiglie palestinesi nel villaggio di al-Duyuk, vicino a Gerico.

Un bulldozer militare israeliano ha distrutto le case di Muayad Abu Obaida, Thaer al-Sharif e Yasir Alayan, perché sarebbero state costruite senza [quei] permessi che Israele non concede quasi mai ai palestinesi. Ciò non lascia loro altra scelta che costruire le case senza il permesso dell’occupante.

Tutti e tre gli agricoltori risiedono a Gerusalemme.

Decine di migliaia in condizioni di isolamento

Nel frattempo Israele sta valutando di isolare diversi quartieri della Gerusalemme est occupata, tagliando fuori decine di migliaia di palestinesi dal resto della città.

Quasi il 70% delle 100.000 persone del campo profughi di Shuafat ha un documento di residenza israeliano che consente loro di entrare a Gerusalemme.

“In caso di blocco questi abitanti saranno completamente isolati rispetto alla loro città, a cui si rivolgono per tutti i servizi di base, e ciò probabilmente porterà panico e disordini diffusi”, avverte Ir Amim, un’organizzazione israeliana impegnata per l’uguaglianza a Gerusalemme.

“Tale misura sarebbe un ulteriore passo avanti nella realizzazione dei piani israeliani di lunga data volti a ridisegnare i confini municipali di Gerusalemme, per separare formalmente quei quartieri da Gerusalemme”.

Israele userebbe il coronavirus come pretesto per tagliar fuori quei quartieri dal resto di Gerusalemme, nonostante in quei quartieri il numero di casi confermati sia considerevolmente più basso rispetto a Israele.

La popolazione più vulnerabile al mondo”

Le organizzazioni per i diritti umani mettono in guardia a proposito di un incombente disastro nel caso di una diffusa epidemia di COVID-19 a Gaza. Spesso definita la più grande prigione a cielo aperto del mondo, l’enclave costiera è sotto assedio israeliano dal 2007. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo di Gaza e, insieme all’Egitto, i suoi confini terrestri.

Gaza è ancora sconvolta per le tre pesanti offensive militari israeliane [a partire] dal 2008.

Gli abitanti di Gaza [sono] tra le persone più vulnerabili del mondo alla pandemia globale di COVID-19”, ha dichiarato il gruppo palestinese per i diritti umani Al-Haq.

La crisi idrica e sanitaria causata dal prolungato blocco israeliano di Gaza mina “la capacità dei palestinesi di prevenire e mitigare adeguatamente gli effetti dell’epidemia di COVID-19”, ha aggiunto al-Haq.

Meno del 4% dell’acqua del territorio è adatto al consumo umano.

I moderni sistemi sanitari in Paesi come l’Italia e la Spagna stanno collassando sotto la pressione della pandemia.

Un’epidemia del nuovo coronavirus a Gaza, dove le infrastrutture sanitarie sono già sull’orlo del collasso, condurrebbe a “un disastro umanitario, interamente costruito da Israele”, ha affermato B’Tselem.

Israele abitualmente ritarda o nega a molti palestinesi i permessi per ricevere trattamenti sanitari fuori Gaza, concedendoli solo a una piccola parte delle persone che necessitano di cure mediche.”

“Ora non ci sarà più neanche questa minima possibilità”, ha detto B’Tselem.

La dott.ssa Mona El-Farra, responsabile sanitaria della Mezzaluna Rossa palestinese a Gaza, ha dichiarato a The Electronic Intifada che mancano letti, equipaggiamento protettivo e kit per i test.

“Non abbiamo abbastanza kit, finora abbiamo solo circa 200 kit per la diagnosi. Al momento abbiamo 2.500 persone in quarantena. Tutti hanno bisogno di essere testati.”

Il Qatar ha promesso 150 milioni di dollari [136 milioni di euro, ndtr.] nei prossimi sei mesi per aiutare gli sforzi delle Nazioni Unite contro il coronavirus a Gaza.

Sebbene questo possa aiutare a breve termine, solleva anche Israele dalle sue responsabilità di potenza occupante.

Nessun accesso ai servizi di emergenza

Adalah, un’organizzazione che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele, afferma che i beduini palestinesi della regione meridionale del Naqab non hanno accesso ai servizi medici di emergenza.

Il Ministero della Salute israeliano impedisce a coloro che soffrono di febbre e sintomi respiratori di lasciare la propria casa. Se la loro salute peggiora, l’MDA, il servizio di ambulanza [corrispettivo israeliano della Croce Rossa, ndtr.], può prescrivere una visita domiciliare o l’invio in ospedale.

Tuttavia quei villaggi non hanno accesso alla MDA.

Domenica l’associazione ha inviato una lettera alle autorità israeliane chiedendo di fornire quei servizi ai 70.000 cittadini palestinesi di Israele che vivono in villaggi non riconosciuti.

“Per anni Israele ha mantenuto una politica di abbandono e discriminazione quando si trattava di fornire i normali servizi sanitari, così come servizi medici di emergenza, ai beduini con cittadinanza israeliana,” ha detto Adalah.

“In presenza della crisi coronavirus questa politica statale comporta ora un pericolo immediato per gli abitanti del posto e per il pubblico in generale.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)