Sotto copertura in pieno giorno: raid militari israeliani nelle città della Cisgiordania

Ola Marshoud, Nablus, Palestina occupata

16 aprile 2023Middle East Eye

Soldati israeliani travestiti da palestinesi si infiltrano nei quartieri quando sono più affollati e li trasformano in campi di battaglia

Un tranquillo mercoledì mattina Allam Abdulhaq stava pulendo il suo piccolo negozio in Mreij Street a Nablus nella Cisgiordania occupata quando si è trovato nel mezzo di un violento raid israeliano clandestino.

Gli sono bastati pochi secondi perché si rendesse conto che un gruppo di addetti alle telecomunicazioni giunto nel suo quartiere pochi istanti prima era in realtà un’unità delle forze israeliane che si preparava ad arrestare il combattente palestinese Mohammed Hamdan.

Il raid del 22 marzo è avvenuto come parte di una serie di analoghe incursioni militari israeliane in varie città e quartieri della Cisgiordania con l’obiettivo di arrestare o assassinare dei ricercati combattenti della resistenza palestinese.

Molti di questi raid hanno provocato l’uccisione di diversi palestinesi in quella che dei funzionari palestinesi hanno descritto come una serie di “massacri”.

Con voce tremante Abdulhaq ha ricordato gli eventi di quella mattina.

“Ho visto due giovani vestiti come operai delle telecomunicazioni o dell’azienda elettrica. Portavano attrezzature e i loro indumenti erano impolverati e sporchi”, dice con voce tremante il cinquantacinquenne proprietario del negozio nel ricordare gli eventi di quella mattina.

“Uno di loro ha parlato con il suo collega in arabo e poi ha comprato una bottiglia d’acqua. Pochi istanti dopo è arrivata un’auto con una scala fissata sul tettuccio e ne sono scesi quattro uomini. Hanno chiesto ai due giovani: ‘Pronti?’. Hanno risposto: “Sì, pronti”.

“I quattro si sono poi diretti all’agenzia di consegne di fronte e gli altri due sono rimasti vicino al mio negozio”.

“Sono passati alcuni minuti prima che Hamdan uscisse di corsa dall’agenzia, inseguito dai quattro uomini che gli hanno puntato contro le pistole e gli hanno sparato iniziando poi a urlare e insultarlo con parole volgari“.

Mentre Abdulhaq osservava lo svolgersi dei fatti i due giovani gli hanno puntato le pistole alla tempia, costringendolo a voltare le spalle alla scena.

Tuttavia ha cercato di dare un’occhiata per vedere se Hamdan, che era stato colpito alla coscia, fosse ancora vivo.

“Pensavo che fosse un problema familiare o una sorta di litigio, fino a quando sono arrivati dei rinforzi militari su un autobus che trasportava agenti sotto copertura e soldati. Solo allora ho capito che quello che stava succedendo era un raid militare per arrestare un palestinese ricercato”, riferisce Abdulhaq a Middle East Eye.

Tre settimane dopo il raid Abdulhaq sembra trovarsi ancora sotto shock.

“Ero terrorizzato. Ho il diabete ed ero in pessime condizioni, quindi mio fratello, che è medico, ha chiamato un’ambulanza”, ricorda.

“Non posso dimenticare la voce di Mohammed Hamdan che gridava mentre veniva arrestato: ‘Salutate le mie figlie’. Non riesco a togliermelo dalla mente”.

Travestiti per assassinare

Dal 2021 l’esercito israeliano ha intensificato i suoi raid nelle città della Cisgiordania, dove le operazioni di arresti e assassinii sono solitamente condotte da forze speciali sotto copertura.

Dei soldati israeliani compaiono in un quartiere palestinese vestiti come gente del posto – anche travestiti da religiosi musulmani, operai, giornalisti o medici – per condurre operazioni militari altamente riservate.

Da allora le forze sotto copertura riescono ad entrare nelle città palestinesi utilizzando camion e veicoli che portano nomi di aziende e industrie alimentari palestinesi, o auto con targa palestinese.

Sorprendentemente la maggior parte delle incursioni sono condotte nelle ore di punta in mercati e quartieri sovraffollati, trasformandoli in campi di battaglia.

Un mese prima del raid sotto copertura a Nablus, il 22 febbraio le forze israeliane hanno preso d’assalto la città e ucciso 11 palestinesi.

Secondo i resoconti dei testimoni oculari i soldati israeliani sotto copertura sono entrati in un mercato affollato travestiti da rappresentanti del clero, portando tappetini da preghiera in cui tenevano nascoste le armi e si sono diretti alla Moschea Grand Salahi.

Le forze speciali hanno quindi lasciato la moschea e si sono spostate verso un edificio vicino dove si vociferava si trovassero dei combattenti palestinesi, prima di essere raggiunti da ingenti rinforzi militari.

La casa è stata posta sotto assedio e sono stati lanciati dei razzi contro l’edificio, mentre nelle vicinanze venivano avvistati dei cecchini israeliani.

Si è anche visto un elicottero militare israeliano sorvolare la città.

Sotto copertura in pieno giorno

Tre settimane dopo, il 16 marzo, è stato condotto un raid simile nella città di Jenin in Cisgiordania, anche se con alcune varianti.

In un affollato giovedì pomeriggio in via Abu Baker, dove il mercato centrale di Jenin è solitamente gremito di gente in vista del fine settimana, quattro uomini armati sono scesi da un veicolo e hanno aperto il fuoco contro la folla di acquirenti e pedoni, prendendo di mira due combattenti della resistenza palestinese.

I due uomini, identificati come Nidal Khazem, 28 anni, e Youssef Shreim, 29, avevano lasciato quel giorno il campo profughi di Jenin dove erano nascosti per recarsi da un barbiere e presso un negozio di dolciumi in città.

Si trovavano su una moto quando sono stati uccisi insieme ad altri due, di cui un ragazzo di 16 anni. Secondo il Ministero della Salute palestinese nel raid sono rimaste ferite anche altre ventitré persone.

“Tutti urlavano, piangevano e correvano ovunque. Donne e bambini erano terrorizzati, mentre gli uomini cercavano di proteggerci e di farci entrare nei negozi per evitare di essere colpite“, ha detto Sora Abu al-Rob, che quando si è verificato l’incidente stava uscendo da una clinica odontoiatrica.

“Ho deciso di rientrare nella clinica. Ho pensato che forse sarebbe stato più sicuro della strada. Ma la finestra della clinica si affacciava direttamente sul tetto dell’edificio di fronte, dove i combattenti della resistenza si nascondevano dietro i serbatoi d’acqua e si scontravano con le forze speciali.”

Abu al-Rob e altri pazienti della clinica si sono riparati dalla sparatoria in uno dei corridoi.

Prima della visita Abu al-Rob aveva incontrato degli amici che non vedeva da sette mesi.

“Abbiamo camminato per i quartieri della città e abbiamo parlato di quanto la amiamo e del senso di familiarità che proviamo nel viverci. Ma questa familiarità è svanita in un batter d’occhio e si è trasformata in paura e orrore”, ricorda.

“[Quando è iniziata la sparatoria] ho provato a contattare i miei amici per assicurarmi che stessero bene, ma non ci sono riuscita”, dice.

“I raid [militari] non sono una novità per il popolo palestinese, ma di solito sono condotti alla periferia delle città e dei quartieri.

“Ciò che ha reso orribile quella circostanza è il fatto che sia successo all’interno di un mercato sovraffollato”.

In seguito all’incidente Abu al-Rob ha dichiarato in un post su Facebook: “Questa è una scena a cui non ci possiamo abituare, non importa quante volte si verifichi. Queste voci di dolore non scompaiono con il tempo. Questo enorme senso di perdita non svanisce con il tempo. Piuttosto genera paura, odio, sete di vendetta, e forse… un po’ di speranza.”

Sei un palestinese: sei un bersaglio

Non appena inizia un raid Mohammed Ordonia, allenatore di calcio e fotografo, indossa la sua divisa da paramedico e si precipita nel campo per curare i feriti.

Ordonia afferma che in tali occasioni lui e i suoi colleghi paramedici “dimenticano la paura” poiché la loro prima preoccupazione e priorità diventa “salvare vite”.

Il paramedico di 28 anni e molti suoi colleghi, che fanno parte di una squadra di soccorso medico di 25 persone, erano presenti nell’area di Bab al-Saha a Nablus il giorno del raid del 22 febbraio.

“Ci siamo distribuiti in più aree per assicurarci di poter intervenire in caso di ferimenti nelle aree degli scontri”, riferisce Ordonia a MEE.

“Abbiamo curato un gran numero di ferite causate da proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni”.

Ordonia afferma che durante i raid militari le forze israeliane non fanno differenza tra paramedici, civili e combattenti della resistenza.

“Sei un palestinese: sei un bersaglio. I paramedici si trovano sempre nell’elenco degli obiettivi dell’occupazione”, aggiunge.

A dicembre il suo collega paramedico Hamza Abu Hajar è stato gravemente ferito al fegato e alla milza mentre cercava di curare un palestinese ferito.

“Non smetto di pensare cosa succederebbe se un giorno fossi al suo posto”, dice Ordonia. “Ma una volta che riceviamo la chiamata a salvare i feriti e nel momento in cui indosso la divisa da paramedico faccio le abluzioni e prego, quindi mi precipito sul campo. In quel momento, questi pensieri cessano e mi dimentico della morte.”

In molti casi, le ambulanze sono prese di mira dai colpi di arma da fuoco israeliani o viene loro impedito di evacuare i feriti e raggiungere gli ospedali.

“Molti dei feriti arrivano in auto private piuttosto che in ambulanze. In tal caso i giovani del Campo, che resistono anchessi all’occupazione, lavorano come paramedici”, ha detto Nawal Anboussi, addetta alle pubbliche relazioni presso l’Ibn Sina Hospital, adiacente al Campo Profughi di Jenin.

Le conseguenze del lutto

Durante i raid, lontano dagli scontri per le strade, negli ospedali si svolge un altro tipo di combattimento.

“Non appena inizia il raid l’ospedale vicino al luogo dell’incidente si prepara a ricevere i feriti. I medici di tutti i reparti sono chiamati ad assicurarsi di essere completamente attrezzati per ricevere e curare tutte le ferite, lavorando instancabilmente per salvare vite umane”. afferma Anboussi.

I pronto soccorso si affollano di vittime e famigliari che si precipitano negli ospedali per vedere se tra le vittime figurano i loro figli e se sono vivi.

I feriti arrivano uno dopo l’altro, lasciando i medici esausti nel tentativo di salvare i feriti gravi. Le loro voci si sentono echeggiare in tutto l’ospedale, mentre invocano donazioni di sangue o chiedono agli infermieri di trasferire i feriti nelle sale operatorie o nelle unità di terapia intensiva.

“I parenti dei feriti aspettano al pronto soccorso senza sapere se i loro padri, fratelli o figli sopravviveranno. Ma la scena più dura che ho vissuto è stata quando ho confortato la madre di un giovane gravemente ferito, dicendole che sarebbe sopravvissuto, per poi apprendere, dieci minuti più tardi, che era morto”, ricorda Anboussi.

Sono solo pochi attimi tra la speranza di sopravvivere e la paura della perdita.”

L’anno scorso Anboussi ha preso parte alla cerimonia funebre della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh dopo il suo assassinio da parte delle forze israeliane, un’esperienza che ancora non riesce a credere di aver vissuto.

Ero rimasta scioccata da quello che è successo, e mentre la stavo avvolgendo con il sudario, non riuscivo ancora a crederci. Tutti quelli che mi hanno visto quel giorno mi hanno detto che sembrava che fossi malata.”

Dopo ogni raid militare e il ritiro delle forze speciali i medici continuano a fare del loro meglio per salvare i feriti, mentre i morti vengono pianti e seppelliti.

L’intera città di solito cade in uno stato di profondo dolore e i negozi chiudono mentre la maggior parte delle città della Cisgiordania rispetta uno sciopero generale.

Per i combattenti della resistenza uccisi durante gli scontri con le forze israeliane si tengono funerali militari per onorare la loro lotta contro l’occupazione, e decine di residenti scendono in piazza per partecipare ai funerali, cantando per la Palestina e le vittime e minacciando ritorsioni contro l’occupazione israeliana.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Riluttante e incapace: Israele insabbia le indagini sulle proteste della Grande Marcia del Ritorno

Sintesi del rapporto congiunto con il PCHR

dicembre 2021 B’Tselem

Sintesi del rapporto congiunto con il PCHR

Il 30 marzo 2018, Giornata della Terra, i palestinesi della Striscia di Gaza iniziarono a organizzare regolari proteste lungo la barriera perimetrale, chiedendo la fine del blocco che Israele impone sulla Striscia dal 2007 e il rispetto del diritto al ritorno. Le proteste, che si svolgevano principalmente il venerdì con decine di migliaia di partecipanti, tra cui bambini, donne e anziani, proseguirono fino alla fine del 2019.

Israele si affrettò a definire le proteste illegittime ancor prima che iniziassero. Fece vari tentativi per impedire le manifestazioni e dichiarò in anticipo che avrebbe disperso i manifestanti con la violenza. I militari schierarono lungo la barriera decine di cecchini e vari ufficiali chiarirono che le regole di combattimento avrebbero consentito di far fuoco contro chiunque tentasse di avvicinarsi alla barriera o di danneggiarla. Quando gli abitanti di Gaza proseguirono comunque le manifestazioni, Israele tenne fede alle sue minacce e adottò regole di combattimento che consentivano l’uso di armi da fuoco contro i manifestanti disarmati. Di conseguenza 223 palestinesi, 46 dei quali di età inferiore ai 18 anni, vennero uccisi e circa 8.000 feriti. La stragrande maggioranza delle persone uccise o ferite era disarmata e non rappresentava alcuna minaccia per i soldati ben armati che si trovavano dall’altra parte della barriera.

Israele rispose alle critiche internazionali sul bilancio delle vittime dicendo che avrebbe indagato sugli incidenti. Eppure oggi, a più di quaranta mesi dalla prima manifestazione, è chiaro che le indagini dei militari relative alle proteste di Gaza non hanno mai avuto lo scopo di assicurare giustizia alle vittime o di dissuadere le truppe da azioni simili. Queste indagini, proprio come le indagini condotte dal sistema giudiziario dell’esercito in altri casi in cui i soldati hanno recato danno a palestinesi, fanno parte del meccanismo di copertura da parte di Israele e il loro scopo principale rimane quello di mettere a tacere le critiche esterne, in modo da poter continuare ad attuare in maniera immutata la propria politica.

La principale lacuna: la mancanza di indagini sulle politiche riguardanti l’uso delle armi da fuoco

La responsabilità di aver adottato la politica delluso delle armi da fuoco, di avere impartito ordini illegali ai soldati, con gli esiti letali che ne derivano, ricade sui politici. Tuttavia, le persone principalmente responsabili delle conseguenze e della definizione di tali politiche i funzionari di livello governativo che le hanno modellate, sostenute e incoraggiate, e il procuratore generale che ne ha confermato la legalità – non sono mai state indagate. Le indagini non hanno preso in esame i regolamenti e le politiche adottate durante le proteste, ma si sono concentrate interamente su casi isolati considerati “eccezionali”.

Dei funzionari statali hanno ammesso che una delle ragioni del frettoloso annuncio di Israele che sarebbero state condotte indagini è dovuta al fatto che la Corte Penale Internazionale dell’Aia stava e sta tuttora conducendo procedimenti contro Israele. Uno dei principi guida per il lavoro della CPI è la complementarità, il che significa che la CPI afferma la [propria] giurisdizione solo quando lo Stato in questione è “riluttante o incapace” di svolgere le proprie indagini. Una volta che uno Stato intraprende delle indagini sugli incidenti, la CPI non interviene.

Tuttavia dichiarare che un’indagine è in corso non è sufficiente per evitare l’intervento della Corte Penale Internazionale. L’indagine deve essere efficace e deve esaminare la responsabilità dei funzionari di grado più elevato che hanno concepito le politiche e, se necessario, condurre a delle azioni contro di loro. Le indagini di Israele in relazione alle proteste di Gaza non soddisfano questi requisiti: consistono interamente in indagini militari sulla propria condotta. Si concentrano esclusivamente su soldati di rango inferiore e agli investigatori viene assegnato un mandato ristretto, che si limita a chiarire se i regolamenti sono stati violati, ignorando completamente la questione della loro liceità e della stessa regolamentazione sull’uso delle armi da fuoco.

Non si può neppure sostenere come hanno fatto i funzionari israeliani che la politica del fuoco aperto sia stata sostenuta dalla Corte Suprema israeliana, che ha esaminato petizioni presentate contro di loro. I giudici possono anche aver respinto le petizioni, permettendo ai militari di continuare con quella politica, ma la corte non ha difeso i regolamenti attuati sul campo, poiché questi non sono mai stati presentati ai giudici. La corte ha sì approvato i regolamenti che secondo lo Stato stavano seguendo i militari, ma lo ha fatto ignorando l’evidente discrepanza tra le informazioni presentate ai giudici e la realtà sul campo – divario evidente in tempo reale, mentre la corte esaminava la petizione.

Qual’è loggetto delle indagini secondo Israele?

Le indagini sono state affidate al Military Advocate Generals Corps (il MAG Corps) [l’Avvocatura Generale Militare è l’organo responsabile dell’attuazione dello stato di diritto all’interno dell’esercito israeliano, ndtr.] con l’assistenza di uno speciale organismo dello Stato Maggiore introdotto dopo l’operazione Protective Edge [nome in codice della campagna militare iniziata l’8 luglio 2014 dall’esercito israeliano contro i palestinesi di Hamas e altri gruppi nella Striscia di Gaza, ndtr.] (l’organismo FFA). Questo apparato è stato incaricato di una missione limitata: indagare su incidenti isolati in cui i soldati fossero sospettati di aver violato gli ordini loro impartiti. Le indagini si sono concentrate su soldati di basso rango sul terreno. In queste circostanze, anche se l’organismo avesse eccelso nel suo lavoro investigativo e avesse svolto con successo la sua missione, il contributo all’applicazione del diritto sarebbe stato limitato. Tuttavia un esame delle operazioni di tale organismo rivela che esso non si è sforzato di raggiungere neanche questo obiettivo limitato.

L’esercito ha indagato solo sui casi in cui i palestinesi sono rimasti uccisi dalle forze di sicurezza, nonostante il gran numero di persone ferite, compresi i casi in cui le vittime sono rimaste paralizzate o costrette ad amputazioni. Nel corso delle proteste sono stati feriti in totale più di 13.000 palestinesi: circa 8.000 da proiettili veri, circa 2.400 da proiettili di metallo ricoperti di gomma e quasi 3.000 da candelotti lacrimogeni che li hanno colpiti direttamente. Dei feriti, 156 hanno perso gli arti. Nessuno di questi casi è stato indagato.

Le indagini che hanno avuto luogo non sono state indipendenti, in quanto condotte interamente dai militari, senza il coinvolgimento di civili. Inoltre, sia il Mag che l’FFA funzionano molto a rilento. Secondo i dati forniti dal portavoce dell’esercito a B’Tselem, al 25 aprile 2021 l’FFA aveva ricevuto 234 pratiche riguardanti l’uccisione di palestinesi. Questa cifra comprende anche palestinesi rimasti uccisi durante il periodo in cui si sono svolte le proteste, ma senza alcun collegamento con esse. L’organismo ha completato la sua revisione in 143 di questi casi e li ha trasferiti al MAG. Il MAG ha ordinato all’Unità investigativa della polizia militare (MPIU) di indagare su 33 casi, nonché su altri tre casi non di competenza dell’ apparato FFA. In quattro casi l’inchiesta è stata chiusa senza che fossero presi provvedimenti. Per un’altra indagine del MPIU, sull’uccisione del quattordicenne ‘Othman Hiles, che è stata completata, un soldato è stato accusato di abuso di autorità al punto di mettere in pericolo la vita o l’incolumità e condannato a un mese di servizio militare comunitario. Il MAG ha deciso di non indagare penalmente su 95 casi in cui il FFA aveva completato la sua revisione e ha archiviato i casi senza ulteriori provvedimenti. Tutti gli altri casi trasferiti al MAG sono in corso di esame.

* * *

La condotta di Israele riguardo alle indagini sulle proteste a Gaza non è né nuova né sorprendente. È radicata nel sistema israeliano di applicazione della legge, come si è visto ad esempio dopo i combattimenti nel corso dell’Operazione Piombo Fuso del gennaio 2009 e nell’Operazione Margine di Protezione dell’agosto 2014. Anche allora Israele ha violato il diritto internazionale, ha rifiutato di riformare la sua politica nonostante le conseguenze letali e deviato le critiche promettendo di indagare sulla propria condotta. Ma anche allora tale promessa non ha condotto a nulla. Salvo una manciata di casi non rappresentativi nessuno è stato ritenuto responsabile per gli orribili risultati di politiche sull’uso delle armi da fuoco illegali e immorali.

Un reale cambiamento di politica avverrà solo quando Israele sarà costretto a pagare un prezzo per la propria condotta, azioni e politiche. Quando la cortina fumogena delle indagini interne sarà rimossa e sarà costretto a fare i conti con le sue violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali, Israele dovrà decidere: ammettere apertamente di non riconoscere che i palestinesi abbiano diritti politici e meritino di essere tutelati, e di non avere quindi nessuna intenzione di assumersi la responsabilità di aver violato i diritti umani dei palestinesi, oppure cambiare la propria politica.

(traduzione dallinglese di Aldo Lotta)




Dopo che i cecchini israeliani hanno ucciso 40 palestinesi in 3 mesi, il capo dell’esercito ha detto: ‘così non va, rilassatevi’

Dopo che i cecchini israeliani hanno ucciso 40 palestinesi in 3 mesi, il capo dell’esercito ha detto: ‘così non va, rilassatevi’

Dopo che i soldati israeliani hanno ucciso “come se nulla fosse” più di 40 palestinesi in 2 mesi, il capo di stato maggiore dell’esercito ha detto: “Così non va bene” ed ha ordinato ai cecchini di “rilassarsi”. Ma quando il giornalista Ohad Hemo ha riportato l’accaduto al Forum della Politica Israeliana, la presidentessa Susie Gelman ha subito espresso le sue preoccupazioni riguardo all’evasione dei prigionieri palestinesi da un carcere israeliano.

 Philip Weiss

17 settembre 2021 – Mondoweiss

 

Tre giorni fa un’associazione filoisraeliana ha tenuto un dibattito che ha rivelato la sua totale indifferenza nei confronti delle vite dei palestinesi. Il giornalista israeliano Ohad Hemo ha detto al Forum della Politica Israeliana, un’organizzazione lobbistica israelo-americana, che, dopo che i soldati israeliani hanno ucciso “come se nulla fosse” più di 40 palestinesi in Cisgiordania in due mesi, il capo dell’esercito ha detto: “Questo non va bene” ed ha ordinato ai cecchini di “rilassarsi”.

Susie Gelman, la presidentessa del Forum della Politica Israeliana, non ha risposto alla scioccante notizia, ma ha riportato la discussione sui suoi “motivi di preoccupazione” – l’evasione dei prigionieri palestinesi da un carcere israeliano.

Ecco la descrizione secondo Hemo di questa furia omicida:

Nelle ultime settimane è successo qualcosa in Cisgiordania. Posso dirvi che negli ultimi due mesi ci sono stati più di 40 palestinesi uccisi con armi da fuoco da Israele. E siamo arrivati al punto che il capo dell’esercito ha convocato tutti i comandanti impegnati in Cisgiordania e ha detto loro: ‘Aspettate un momento, così non va bene. Voglio dire che vengono uccise facilmente persone in incursioni, manifestazioni o altro. Perciò per favore parlate ai vostri cecchini. Parlate alla vostra gente nell’esercito. Solo questo, perché si rilassino’.

Hemo, il giornalista che si occupa della questione palestinese per il Canale 12 israeliano, ha preso spunto da un notiziario del 10 agosto. Dopo che i soldati israeliani avevano ucciso più di 40 palestinesi in tre mesi, compresi “civili…uccisi per errore”, Aviv Kochavi, capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, ha richiesto dei cambiamenti.

Il Forum della Politica Israeliana palesemente non si preoccupa di queste uccisioni. Si stava svolgendo una discussione sull’evasione del 6 settembre in cui sei palestinesi sono fuggiti attraverso un tunnel dal carcere di Gilboa, e Gelman, che stava intervistando Hemo, ha ripetutamente espresso preoccupazione riguardo alle “conseguenze” di questa grave violazione della sicurezza”.

“Parlaci di questi sei prigionieri”, ha detto Gelman. “Voglio dire, questo genere di cose non dovrebbero proprio accadere. Vi sono ovviamente moltissime domande e sicuramente ci sarà un’indagine su che cosa sia andato storto…Come è mai possibile? …. Probabilmente alcune persone a causa di questo fatto perderanno il lavoro.”

Hemo ha detto: “Quattro di loro sono condannati all’ergastolo per aver ucciso degli israeliani o aver preso parte ad attacchi terroristici …. Mahmoud al-Arda è un killer, credetemi, è un vero terrorista della Jihad islamica.”

Hemo ha ripetutamente definito i palestinesi dei terroristi. Nessuno dei 4.500 palestinesi prigionieri di Israele sono prigionieri politici, ha detto Hemo, sono tutti “terroristi.”

“Stiamo parlando di circa 4.500 prigionieri attualmente detenuti nelle carceri israeliane. Non parlo di prigionieri politici, parlo di terroristi.”

Gelman e Hemo non si sono mai posti l’ovvia domanda: ci sono state delle conseguenze per gli assassini israeliani degli oltre 40 palestinesi? La risposta è sicuramente ‘no’. L’associazione (israeliana) per i diritti umani B’Tselem ha documentato che solo “in casi molto rari” i soldati israeliani sono accusati di reato per aver ucciso o ferito dei palestinesi. E quando lo sono, raramente vengono condannati. Al contrario i palestinesi in Cisgiordania vengono condannati ad un tasso di quasi il 100% nei tribunali militari – che è uno dei motivi per cui Human Rights Watch lo scorso aprile ha affermato che Israele pratica l’apartheid.

Hemo si presenterà il mese prossimo ad un’altra associazione filoisraeliana.

Philip Weiss

Philip Weiss è caporedattore di Mondoweiss.net ed ha fondato il sito nel 2005-06.

 

      (Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)