Lo Stato di Israele, ora etnocratico (eufemismo di razzista) anche per legge.

Ugo Giannangeli

Riceviamo e volentieri pubblichiamo sul sito un interessante contributo di Ugo Giannangeli, giurista e militante della causa palestinese, sugli aspetti politici e giuridici della legge costituzionale sullo Stato-Nazione da poco approvata dal parlamento israeliano e su cui abbiamo già proposto una serie di articoli tradotti ed inseriti nel sito.

Ebbene sì, alla fine ce l’hanno fatta! La Knesset, nella notte tra il 18 e il 19 luglio ha votato la legge fondamentale (Basic law, la 14ª dello Stato) per cui Israele è Stato ebraico, per gli ebrei, degli ebrei, solo per gli ebrei e degli ebrei di tutto il mondo. Era nell’aria da tempo, da anni. Si attendeva solo il momento propizio. Ora è arrivato. Come dargli torto?

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu nel dicembre 2016 condanna la politica di colonizzazione e ne ordina la cessazione, richiamando tutte le precedenti risoluzioni disattese, ma la colonizzazione prosegue senza un attimo di interruzione; anzi, con legge retroattiva si regolarizzano anche gli avamposti illegali secondo la stessa legge israeliana.

Il 14 maggio 2018 Trump festeggia il 70° anniversario della Nakba spostando l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, come preannunciato mesi prima e nonostante il voto della Assemblea generale dell’ONU del dicembre 2017 contrario al riconoscimento di fatto di Gerusalemme capitale di Israele, in ennesimo spregio del diritto internazionale, nella fattispecie della risoluzione che vuole la città sottoposta a speciale regime (status internazionale).

Il Giro d’Italia 2018 parte da Israele dove si corrono le prime tre tappe; si mobilita il movimento di solidarietà internazionale con la causa palestinese, si smaschera l’operazione “Bartali salvatore di ebrei e giusto tra le nazioni” ma le tappe si svolgono regolarmente senza altre significative reazioni.

Infine il test decisivo per saggiare il livello di impunità raggiungibile: dal 30 marzo 2018 in poi i cecchini dell’esercito israeliano, contrabbandato come il più etico del mondo, sparano sulla popolazione di Gaza ammassata vicino al confine per rivendicare il diritto al ritorno già riconosciuto sin dal 1948 con la risoluzione Onu numero 194; uccidono 140 persone e ne feriscono oltre 15.000; sparano su donne, bambini, giornalisti, medici, infermieri. La comunità internazionale reagisce con blande parole di biasimo per l’uso eccessivo della forza.

Dopo questi crimini e queste provocazioni impunite come dare torto ad Israele se pensa che sia giunto il momento per sancire con legge quella che è sempre stata la realtà sul campo?

L’Alta corte di giustizia da anni aveva preparato il terreno. Due sentenze del 2013 sono particolarmente significative a conclusione di un lunghissimo iter giudiziario: una causa è stata promossa dalla associazione Ani Israeli (Io sono israeliano) rappresentata da 21 membri tra cui il presidente Uzzi Ornan, professore emerito di lingua ebraica ; l’altra dal professor Uzzi Ornan personalmente. I ricorrenti chiedevano di essere registrati come cittadini israeliani in base alla residenza e non come ebrei in virtù del diritto di ritorno ai sensi dell’articolo 2 della legge sulla cittadinanza del 1952. La corte ha dato loro torto. Si legge in sentenza: “Il concetto che l’ebraismo non è solo religioso ma anche una appartenenza nazionale è elemento fondamentale del sionismo”. In un altro caso, quello dei beduini del Negev, la corte giunge a parlare esplicitamente di razza: gli insediamenti beduini devono essere sradicati per fare posto a “insediamenti di coloni ebrei etnicamente puri” ( ethnically pure Jewish settlers ).

Vediamola, allora, questa legge.

Israele è definito Stato nazione del popolo ebraico e, all’articolo 1, la legge stabilisce che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è esclusivamente per il popolo ebraico”.

L’articolo 3 sancisce che Gerusalemme, integra e unita, è la capitale di Israele.

L’articolo 4 declassa la lingua araba da lingua ufficiale a lingua a statuto speciale.

L’articolo 5 afferma che lo Stato è aperto alla immigrazione ebraica e al ritorno degli esuli.

L’articolo 6 sancisce lo speciale rapporto tra lo Stato e gli ebrei nel mondo di cui Israele si proclama difensore e garante.

L’articolo 7 afferma che lo sviluppo di insediamenti ebraici è un valore nazionale e Israele lo incoraggia e promuove.

Il contrasto totale con il diritto internazionale è messo nero su bianco; si sancisce la legittimità della conquista territoriale con la forza; si proclama e, di fatto, si rivendica la extra-legalità dello Stato ebraico.

Gli ebrei sono non solo un popolo (con buona pace di Shlomo Sand e il suo “L’invenzione del popolo ebraico”) ma anche una Nazione senza limiti territoriali. A proposito: non un cenno nella legge ai confini dello Stato; non un cenno alla Costituzione in attesa di promulgazione dal 1948. Del resto, tante volte notabili israeliani hanno affermato che la Costituzione non serve quando ci sono già Talmud e Torah, testi di cui però Israel Shahak offre una lettura preoccupante, si vedano i passi sulla superiorità dell’ebreo rispetto al gentile in “Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni”.

La Repubblica islamica dell’Iran, l’acerrimo nemico, ha una Costituzione ispirata sì all’Islam ma che sancisce il rispetto dei diritti dei non musulmani (art.14), conferisce libertà religiosa alle minoranze riconosciute: ebrei, cristiani e zoroastriani (art.13) e, all’art.3 punto 5, rigetta il colonialismo.

La diversa religione dei cristiani e dei musulmani con cittadinanza israeliana (il 20% degli israeliani) li priva della autodeterminazione riservata, ex articolo 1, ai soli ebrei. Il discrimine non è la cittadinanza ma la religione professata o, meglio ancora, l’essere ebreo e il non esserlo!

Potrebbe prestarsi a dubbi interpretativi (ma solo per gli ingenui) il testo sul ritorno degli esuli di cui non è precisata la religione: “Lo Stato è aperto alla immigrazione ebraica e al ritorno degli esuli”. Un giurista pignolo potrebbe validamente sostenere che se per esuli il legislatore avesse voluto riferirsi ai soli ebrei, si tratterebbe di una inutile ripetizione a fronte della già citata immigrazione ebraica. L’apertura al ritorno degli esuli potrebbe allora riguardare i palestinesi della diaspora, cacciati nel 1948 e nel 1967. Perché un ebreo di Manhattan mai stato in Israele è esule più di un palestinese di Jenin cacciato dalla casa ove la sua famiglia è vissuta per secoli? Il giurista pignolo dimostrerebbe con questa interpretazione una sottile capacità ermeneutica ma anche una grande ingenuità: gli esuli sono sempre e solo gli ebrei.

La legge in esame si pone in contrasto non solo con il diritto internazionale ma anche con la Dichiarazione di fondazione dello Stato di Israele e con alcune affermazioni di illustri statisti israeliani tra cui uno dei padri fondatori della patria, Ben Gurion. La Dichiarazione di fondazione dello Stato di Israele del 14 maggio 1948 recita: “ lo Stato d’Israele sarà aperto per l’immigrazione ebraica e per la riunione degli esuli, incrementerà lo sviluppo del Paese per il bene di tutti i suoi abitanti, sarà fondato sulla libertà, sulla giustizia, sulla pace come predetto dai profeti d’Israele, assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso, garantirà la libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite”.

Sul diritto all’autodeterminazione Ben Gurion è stato esplicito: “Il diritto all’autodeterminazione è un principio universale. Siamo stati, sempre e dovunque, tra i più ferventi sostenitori di questo principio. Siamo radicalmente per il diritto all’autodeterminazione di ogni popolo, di ogni individuo, di ogni gruppo umano e va da sé che il popolo arabo di Palestina ha il diritto di autodeterminarsi. Questo diritto non è limitato e non potrà essere condizionato dai nostri interessi… È possibile che la realizzazione delle aspirazioni dei palestinesi ci crei gran difficoltà ma questa non è una ragione per negare i loro diritti “. (Cristina Tani, I palestinesi e l’occupazione israeliana, p.260)

È il caso di segnalare che un tentativo del partito arabo Balad ed altri di far definire Israele come lo Stato di tutti i suoi cittadini è caduto nel vuoto perché in contrasto con la decisione di renderlo Stato solo del popolo ebraico. Qualche ottimista ha messo in evidenza che la legge è passata ma molti sono stati i voti contrari ( 55 contro 62 favorevoli). Prima di valutare positivamente questo dato penso che si dovrebbero conoscere le motivazioni dei voti contrari che potrebbero riguardare non il merito ma aspetti secondari del testo oppure la scelta dei tempi oppure l’opportunità politica ( in tal senso il presidente Rivlin e il Procuratore generale, come riferito da Gideon Levy su Internazionale del 19 luglio 2018).

In conclusione si può esclamare: il re è nudo!

Già Gideon Levy ha messo in evidenza come la legge non faccia altro che codificare la realtà; e questo è scioccante, dice Levy, per i progressisti che non vedevano l’apartheid solo perché non codificato come in Sudafrica; che ritenevano Israele democratico perché gli arabi israeliani avevano diritto di voto (anche se mai un arabo è andato e mai potrà andare al governo, ndr) ; che non vedevano la contraddizione nella definizione di Israele Stato ebraico e democratico.

Quali conseguenze ora? La legge potrebbe aprire scenari interessanti. L’articolo che promuove la colonizzazione mette la parola fine alla soluzione “due popoli due Stati”. La legge nel suo complesso mette la parola fine allo “Stato unico bi-nazionale laico e democratico”. Tertium non datur. La storia e la resistenza palestinese diranno.

Qualcosa però si potrebbe fare nel frattempo: espellere Israele dall’Onu. Ora la violazione del diritto internazionale non è solo nei fatti e sul campo ma è scritta, sancita e rivendicata: sulla base di questi principi ora codificati coerentemente Israele ha disatteso tutte le risoluzioni dell’ONU. Coerentemente Lapid ed altri hanno definito il Consiglio dei diritti umani covo di terroristi antisemiti.

Ma se questo è il rapporto tra Israele e l’ONU di cui Israele fa parte come la mettiamo con la risoluzione n.273 dell’11 maggio 1949? Con questa risoluzione l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ammette lo Stato d’Israele (definito “peace-loving State”, uno Stato che ama la pace!!) a far parte delle Nazioni Unite a condizione che Israele metta in opera le risoluzioni Onu sul Piano di partizione della Palestina (risoluzione 181 del 29 novembre 1947) e sul diritto al ritorno dei profughi (risoluzione 194 dell’11 dicembre 1948). Si legge nella risoluzione n. 273 a pagina 62 “Prendendo atto, inoltre, della dichiarazione con la quale lo Stato di Israele accetta senza riserva alcuna gli obblighi che derivano dalla Carta delle Nazioni Unite e si impegna a osservarli dal giorno in cui esso diventerà membro delle Nazioni Unite. Richiamando le sue risoluzioni del 29 novembre 1947 e spiegazioni fornite davanti alla commissione politica speciale dai rappresentanti del governo di Israele per quanto concerne la messa in opera delle suddette risoluzioni dell’Assemblea Generale… Decide di ammettere Israele all’organizzazione delle Nazioni Unite.”

L’ammissione di Israele nel consesso Onu è quindi sottoposta a condizione e Israele ha accettato la condizione “senza riserva”; la condizione non è mai stata rispettata. Israele non ha titolo per sedere all’Onu e non lo ha mai avuto, ora più che mai essendo legge fondamentale dello Stato la volontà di non adempiere agli obblighi assunti. Ricorrono i presupposti di cui all’art.6 dello Statuto ONU per la “persistente violazione dei principi” della Carta. La decisione spetta alla Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza, lo stesso di cui è stata ignorata la risoluzione n.2334 del dicembre 2016.

Come sempre, ovviamente, il problema non è giuridico ma politico; sul piano politico, però, sembrano più che mai mature le condizioni per una azione di contrasto di Israele analoga a quella esercitata a suo tempo contro il Sudafrica.

Salvo voler discriminare i palestinesi anche rispetto ai neri.

Ugo Giannangeli, luglio 2018




L’ANP, la CPI e Israele

Richard Silverstein

Lunedì 23 luglio 2018 Middle East Eye

La Corte Penale Internazionale sta finalmente avviando le procedure preliminari nella causa dei crimini di guerra israeliani.

La settimana scorsa la Corte Penale Internazionale (CPI) ha comunicato che avrebbe avviato la fase preliminare di una causa per crimini di guerra presentata dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) contro Israele.

Un rapporto informativo israeliano ha definito l’iniziativa “quasi senza precedenti”. E’ stata nominata una giuria di tre giudici per l’istruzione della causa: Peter Kovacs (presidente), Marc Perrin de Brichambaut e Reine Adelaide Sophie Alapini-Gansou.

La causa ne richiama alla memoria un’altra: nell’originaria sentenza della CPI che ha ordinato alla procuratrice capo Fatou Bensouda di riaprire il caso della nave Mavi Marmara, Kovacs è stato l’unico giudice a votare contro la riapertura. La procuratrice ha archiviato il caso definitivamente, reputando che la gravità dell’incidente non fosse sufficiente per portarlo di fronte alla corte.

Il 31 maggio 2010 dieci attivisti turchi a bordo della Mavi Marmara, una nave componente di una flottiglia che cercava di rompere l’assedio di Gaza, sono stati uccisi da commandos della marina israeliana. Questo numero non è stato ritenuto sufficientemente alto per una corte che si occupa di “uccisioni di massa.”

Già respinta?

La sensazione è che per quest’ultima causa, la soluzione ci sia già. Con la nomina di Kovacs, un giudice che ha già stabilito che l’uccisione di 10 cittadini turchi da parte delle forze armate israeliane non debba essere indagata, la corte potrebbe aver già rigettato la causa dell’ANP.

Benché l’attuale causa sia stata presentata inizialmente nel 2015, molti osservatori ritengono che il massacro degli ultimi due mesi da parte delle forze israeliane a Gaza abbia spinto la CPI verso un atteggiamento più attivo. La tempistica della CPI nell’annunciare il processo preliminare rivela che l’ANP ha depositato una denuncia alla fine di maggio, chiedendo alla Corte di esaminare le attuali violazioni israeliane del diritto internazionale.

Sembra evidente che la ‘Grande Marcia del Ritorno’ e la risposta vendicativa di Israele – con l’uccisione di 130 palestinesi a Gaza, quasi tutti civili disarmati – sia ciò che ha spinto la Corte Internazionale ad agire.

Nei giorni scorsi i cecchini israeliani hanno ucciso un ragazzino che cercava di scavalcare la barriera installata da Israele. Israele sostiene di dover difendere la sua sovranità territoriale, ma non è chiaro come un ragazzino disarmato metta qualcuno in pericolo, tanto meno la sovranità israeliana. Non riconosce Hamas ed ha rifiutato di definire il proprio confine con la Palestina, inclusa Gaza.

Perché venga riconosciuta e rispettata la sovranità di una Nazione, essa deve negoziare i confini con i suoi vicini. Israele ha ripetutamente rifiutato di farlo, non solo con la Palestina, ma anche con il Libano e la Siria. Nessuno Stato riconosce l’occupazione di Israele della Cisgiordania, di Gaza o delle Alture del Golan. Quindi, non può essere negoziato nessun confine internazionale e la sovranità di Israele non può essere garantita.

Attacco brutale

Dopo la morte del ragazzino Hamas ha lanciato decine di razzi su Israele, ferendo parecchi israeliani, e Israele ha inviato gli F16 di costruzione americana a bombardare Gaza. Israele lo ha descritto come il più brutale attacco sull’enclave dall’ultima vasta invasione, nel 2014.

Due ragazzi che giocavano in un parco pubblico sono stati uccisi dopo che un aereo da guerra ha sganciato una bomba su un vicino grattacielo. L’esercito israeliano ha sostenuto di avere avvertito i civili dell’attacco, come per assolversi da ogni responsabilità, ma non ha fornito prove di questo, anche dopo una richiesta in merito.

E’ strano che pochi mezzi di informazione – come questo israeliano – abbiano riferito dell’importante sviluppo legale che coinvolge la CPI. Il rapporto israeliano ha affermato che se venisse aperta un’inchiesta formale, si tratterebbe di “un passo drammatico che avrebbe conseguenze sullo status di Israele nella comunità internazionale.”

Il comunicato della Corte, di 11 pagine, invita ad informare la popolazione palestinese circa la CPI ed il ruolo che è destinata a giocare nel giudicare il caso, indirizzando il proprio staff a impostare “un sistema di informazione pubblica e attività di sensibilizzazione a beneficio delle vittime e delle comunità palestinesi colpite nella situazione della Palestina e riferire all’Aula, conformemente ai principi stabiliti nella presente decisione.”

Secondo il rapporto informativo israeliano, esso inoltre invita le vittime palestinesi a presentarsi e fornire testimonianza sulle loro sofferenze.

Ostacolo iniziale

Questo è un giorno che Israele ha paventato per anni. Questo è un giorno che ha cercato di evitare come la peste. Ha fatto di tutto per cooptare la CPI.

Il predecessore di Bensouda nel ruolo di procuratore capo, Luis Ocampo, si è venduto al miglior offerente. Ha anche detto che la Corte Suprema israeliana potrebbe legalizzare le colonie ed ha pubblicamente respinto la causa palestinese. La stessa Bensouda ha rifiutato di portare avanti questa causa, ma è stata costretta a farlo dalla giuria sopra menzionata.

Questa notizia non significa che la CPI stia realmente avviando una causa formale contro Israele. Si tratta di una fase processuale preliminare; il caso ha incontrato un iniziale ostacolo sulla strada dell’azione penale formale.

Ma se Israele continua a perseguire i propri interessi con metodi di massacro di massa, come ha fatto per anni, allora il caso potrà superare con successo ogni ostacolo che si troverà di fronte.

Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, che si occupa di rivelare gli eccessi dello stato di sicurezza nazionale israeliano. I suoi lavori sono stati pubblicati su Haaretz, the Forward, the Seattle Times e the Los Angeles Times. Ha contribuito alla raccolta di saggi dedicata alla guerra del Libano del 2006, ‘E’ tempo di parlare’ (Verso), e ha scritto un altro saggio nella raccolta ‘Israele e Palestina: prospettive alternative sullo Stato’ (Rowman &Littlefield).

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non rispecchiano necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Tre storie incontrate per caso. Interviste da Gaza a tre feriti della Great Return March

Patrizia Cecconi

20 luglio 2018, Articolo 21

Tre piccole storie, piccole in quanto brevi da raccontare, ma lunghe tutte e tre oltre settant’anni. Più lunghe dell’età dei tre protagonisti. Il più giovane, Basel Ayoub, ne ha 18 e al momento è sulla sedia a rotelle. Il più vecchio, Mohammed E., non raggiunge i 60 e cammina sorretto da due stampelle. Come Khaled Bashir, che potrebbe essere il figlio di Mohammed e il padre di Basel e che, come loro, è stato ferito dagli snipers israeliani nel concentramento di Abu Safia, al nord della Striscia, durante i venerdì della Grande Marcia del Ritorno.

Incontrati per caso nell’ospedale Al Awda, a Jabalia, dove eravamo andati per fare il punto della situazione in attesa della marcia di domani con la quale i palestinesi riproporranno le loro richieste di rispetto delle Risoluzioni Onu e dove gli israeliani riproporranno la loro risposta negativa attraverso lacrimogeni e pallottole. Lo sanno bene tutti, eppure non si demorde. Il numero dei manifestanti si è ridotto rispetto ai primi venerdì, ma c’è uno “zoccolo duro” di notevole tenacia che ha deciso di non cedere finché i palestinesi non avranno raggiunto il loro obiettivo, peraltro legale. Questo ci dice il giovane Basel, ferito ben tre volte ma regolarmente tornato al border. Questo ci conferma il contadino Mohammed, padre di dieci figli tra a 12 e i 30 anni, i cui più grandi, ci dice con orgoglio, sono tutti laureati, uno in ingegneria, una in lingue, una in scienze mediatiche e così via.

Mohammed lo incontriamo sulla porta dell’ascensore e, nonostante si appoggi alle stampelle, ci lascia il passo invitandoci ad entrare prima di lui. E’ così che cominciamo a parlare e ci racconta la sua storia. Era il 14 maggio, il giorno della Nakba, quello in cui Trump, alleato numero uno di Israele, concretizzava il furto di Gerusalemme, e tutta la Palestina insorgeva. Lui era andato al border di Abu Safia a gridare il suo sdegno come decine di migliaia di palestinesi in altri punti del border. Quel giorno fu una vera mattanza, Israele dovrebbe portarne a lungo la vergogna, ma ancora è presto, ancora seguita a ferire e uccidere impunemente perché è comunque sostenuto da importanti alleati ai quali la sua funzione è utile.

Quel giorno Mohammed fu colpito a entrambe le gambe. Gli chiediamo se per caso si trovasse sotto la rete e la sua risposta decisa è “No, là mi avrebbero ammazzato. Ero nella zona delle tende ma i colpi arrivavano anche lì”. Lui è un rifugiato, nato nel campo profughi di Jabalia dove i genitori, cacciati dal loro villaggio, avevano avuto la tenda dell’URWA circa 70 anni fa. Nonostante la condizione difficile, anche Mohammed, come la maggior parte dei gazawi, è riuscito a far studiare i suoi figli pur essendo un semplice allevatore di polli. Ha lo sguardo vivo e il sorriso sempre accennato che fa supporre si tratti di una persona che sa bene quel che vuole. Ora vuole che l’assedio finisca, vuole libertà e lavoro adeguato per i suoi figli e per i ragazzi come loro, ma non tornerà al border i prossimi venerdì, perché non riesce a camminare e se un cecchino volesse ucciderlo sarebbe facile preda e lascerebbe la sua famiglia senza sostegno. Quindi per un po’ sarà fermo e sosterrà la Great march solo a distanza. Ci mostra il segno della prima ferita ormai cicatrizzata, mentre la seconda dovrà essere sottoposta ad altra operazione ed è qui per questo motivo. L’ospedale Al Awda, a parte la professionalità indiscussa di medici e infermieri, ha un suo statuto improntato a un’ideologia di carattere socialista (in senso proprio) e quindi medici e infermieri si pongono volontariamente a servizio dei pazienti considerando questo un dovere morale che si aggiunge a quello derivante dal giuramento di Ippocrate.

Lasciato Mohammed alle cure mediche con tanti auguri di buona fortuna, incrociamo un uomo giovane, magrissimo e con l’aria molto severa. Anche lui ha una stampella per aiutarsi a camminare. Mentre è in attesa del medico gli facciamo qualche domanda. E’ anche lui un ferito della Great March. Si trovava vicino all’ambulanza, insieme al gruppo dei paramedici che si occupavano dei soccorsi quando gli hanno sparato. Lui non è un paramedico era soltanto vicino ed offriva il suo aiuto, come fanno in tanti in un clima di grande solidarietà cui abbiamo assistito personalmente in più occasioni. L’ambulanza dovrebbe essere anche il luogo più sicuro, questo ovviamente se si rispettano le norme del diritto internazionale, e invece gli snipers israeliani hanno sparato proprio contro il personale e i veicoli di soccorso. Era il 6 giugno quando l’hanno colpito. Khaled ci tiene a specificare che per lui era una marcia veramente pacifica, che è davvero la fine dell’assedio e una vita di pace quello per cui lui era lì a dimostrare. Ci dice che si trovava abbastanza vicino alla rete di separazione, ma non tanto da rappresentare un pericolo, che poi, essendo disarmato, non avrebbe comunque potuto esserlo. Lui era vicino all’ambulanza e voleva aiutare a soccorrere i ragazzi che erano stati feriti, ma i cecchini, ci ripete, hanno sparato contro i soccorritori.

Parlando della sua vita privata, Khaled ci dice che ha due bambini e che vorrebbe vederli crescere fuori da questa galera. Loro sono nati sotto assedio e la libertà la sognano per averne sentito parlare. A Khaled l’assedio ha interrotto anche il suo sogno di diventare ingegnere perché la mancanza di denaro dovuta alla situazione lo ha costretto ad abbandonare gli studi. Frequentava l’Al Azhar University fino a dieci anni fa ma non aveva i mezzi per vivere e così ha lasciato gli studi per trovare qualche lavoro di sostentamento. Ha fatto il muratore, il bracciante, ha fatto tutti i lavori che gli capitavano e ora fa il contadino. In questo modo riesce a sbarcare il lunario con la sua famiglia. E i suoi sogni si trasferiscono sui suoi figli.

Non è pentito di essere andato al border, ci ripete che c’è andato in pace ed ora ha una doppia ferita: quella alla gamba, che sembra non voler guarire e quella nell’animo perché lui voleva per davvero andare in pace e lo hanno colpito gratuitamente sparando contro l’ambulanza, sparando nel mucchio dei soccorritori con tanto di simbolo ben evidente della Mezzaluna Rossa (la Croce Rossa locale). Questo, ce lo ripete più volte, perché riapre vecchie ferite ed è la “prova che Israele non vuole la pace, non vuole riconoscere i nostri diritti e ci spara addosso piuttosto che riconoscerli.” Khaled non potrà riprendere a studiare, ma non abbandona il sogno di vedere la Striscia di Gaza libera dall’assedio e di veder riconosciuto il diritto affermato nella Risoluzione Onu 194. Lo lasciamo appena arriva il medico che lo ha in cura e non facciamo cinque passi per raggiungere l’ufficio che ci incrociamo con un giovane su una sedia a rotelle spinta da un uomo con accanto un bambino. Si tratta Basel Ayoub, 18 anni.

Basel è stato ferito ad Abu Safia, anche lui come Mohammad e Khaled, è per questo che sono tutti nell’ospedale Al Awda, perché i feriti vengono portati negli ospedali più vicini al campo in cui si trovavano a manifestare. Infatti qui all’Al Awda hospital, come negli altri ospedali della Striscia, stanno già organizzandosi per l’emergenza perché sanno che domani ci sarà una nuova mattanza e dovranno essere pronti. Salvare una vita o salvare una gamba è questione a volte di momenti, oltre che di strumenti e medicinali che scarseggiano sempre più. Così ci ha detto Rami, il capo infermiere del settore emergenza che siamo andati a salutare prima di entrare nell’altro settore dell’ospedale.

Tornando a Basel la sua storia ha dell’incredibile. All’inizio non ha voglia di parlare ed è un po’ scostante. Rispetto la sua ritrosia, lo saluto e gli faccio i miei auguri, chiedo a suo padre da dove vengono e mi dice da Brer. Ma Brer non c’è più. Brer era un villaggio vicino all’attuale Ashkelon, quindi capisco che sono rifugiati. Infatti la domanda giusta da fare a un palestinese per sapere dove vive non è “di dove sei?” ma “dove abiti”, perché “di dove sei” è in fondo tutto compreso nelle ragioni della Grande Marcia del Ritorno. La risposta che si ha in questi casi sembra dire “sono del villaggio o della città da cui hanno cacciato la mia famiglia e in cui ho il diritto di tornare come stabilisce l’Onu nella Risoluzione 194” cioè la risposta è in uno dei due motivi per cui i palestinesi al border rischiano la vita. L’altro motivo è la fine dell’assedio.

Vive a Beitlaya, Basel, ma è di Brer, così risponde suo padre e a questo punto Basel inizia a parlare. La sua storia ha veramente dell’incredibile e forse chi legge non ci crederà. I medici confermano che è vero. Praticamente l’ultima pallottola che ha colpito questo ragazzo alla coscia aveva una potenza d’attrito tale che è uscita dalla sua gamba ed ha ferito altri tre ragazzi entrando ed uscendo dall’uno all’altro fino a fermarsi nel quarto. Gli esperti di balistica potranno fare le loro ipotesi, noi ci limitiamo a parlare con Basel visto che ora è disposto a raccontarci qualcosa di sé. Ha finito la scuola superiore ma non sa se andrà all’università, ha tanti fratelli e tutti vanno al border a prescindere dall’età, perché tutti sono… di Brer!

Ma la storia di Basel è una sorta di allegoria della storia di questo popolo. L’ultima ferita, quella per cui è sulla sedia a rotelle e ha subito e dovrà ancora subire altre operazioni chirurgiche, è un “regalo” del 16 luglio. Lui era uno dei ragazzi che rischiano la vita per proteggere se stessi e gli altri col fumo nero dei “caucciù”, come chiamano i vecchi copertoni bruciati. Ma i caucciù sono efficaci come cortina protettiva solo se il fumo è vicino ai cecchini, altrimenti non serve. Perciò qualcuno deve rischiare e Basel è uno dei tantissimi ragazzi (e anche qualche ragazza) che rischiano correndo a portare il loro pezzetto di difesa dai micidiali proiettili dei killers appostati oltre la rete.

Abbiamo detto che la storia di questo ragazzo è una sorta di allegoria di questo popolo, ma non lo è per questa ferita, ma perché questa è la terza ferita dal giorno in cui è stata lanciata la marcia. La prima, un proiettile al ginocchio destro, l’ha ricevuta il 30 marzo, ma la ferita non lo ha fermato e il 13 aprile si trovava di nuovo a manifestare quando un cecchino gli ha sparato alla spalla. Gli ha sparato alla spalla mentre correva per tornare verso il campo dopo aver lanciato il caucciù il cui fumo forse lo ha protetto. Infatti il cecchino che lo ha colpito – alle spalle è bene puntualizzare – probabilmente ha sbagliato la mira di qualche centimetro e Basel, ancora vivo e determinato, ha seguitato ad andare al border a fare quello che lui, e suo padre conferma, ritiene essere suo dovere. In questo senso la sua storia di ferite sembra un po’ il paradigma della storia della Palestina: non conta quante volte si cade, conta rialzarsi e resistere.

In ogni famiglia palestinese c’è almeno un martire, e quel che Israele non ha ancora capito – noi seguitiamo a ripeterlo sapendo che la nostra voce non è tanto forte da raggiungere Israele, ma seguitiamo a ripeterlo perché non si dimentichi – è il fatto che i martiri non nutrono la rassegnazione alla sconfitta, ma nutrono la determinazione alla resistenza e Basel ce lo dimostra dicendoci che Mohammed Ayoub, l’ultimo ragazzino di 13 o 14 anni che Israele ha ucciso alcuni giorni  fa, era suo cugino e che il dolore per la sua morte si è trasformato nella maggior convinzione che resistere sia un dovere.

Il padre di Basel accarezza il bambino che gli sta vicino e dice “anche lui viene alla marcia, tutti noi andiamo alla marcia, non abbiamo perso un solo venerdì. Noi non andiamo per farci uccidere ma per dire che vogliamo vivere e che abbiamo il diritto di vivere liberi”.

Facciamo tanti auguri a Basel e a suo padre ed io e Haneen Wishah, la bravissima coordinatrice dell’UHWC cui l’ospedale Al Awda è collegato e che mi ha fatto da guida e da interprete, riprendiamo i nostri diversi lavori.

Tutto questo succedeva ieri. Ora, dopo aver sbobinato le interviste ed aver finito di scrivere queste righe, sento il Muezzin che chiama alla preghiera. E’ la preghiera di mezzogiorno. Tra poco si comincerà ad andare al border.

Israele oggi ha minacciato ancor più violenza in risposta al lancio degli aquiloni con la codina in fiamme. Israele minacciava violenza, e rispettava la promessa, anche prima degli aquiloni. Israele pratica violenza e trova voci mediatiche pronte a giustificarla, qualunque sia la giustificazione. Sempre! I palestinesi lo sanno ma non hanno le voci sufficientemente alte per presentare al mondo la verità e, quindi, i loro diritti continuamente violati. Ma esattamente come Basel, vanno avanti convinti che prima o poi la giustizia gli aprirà le braccia.

Intanto tra poco si partirà per i vari punti del confine, laddove si va per affermare quel diritto alla libertà che Israele non riesce a conculcare neanche con i suoi aerei da guerra, gli stessi che usa contro gli uomini e contro gli aquiloni che però, ne siamo sicuri, anche oggi  seguiteranno a volare.




Israele uccide un ragazzino mentre Gaza segna 100 giorni di proteste

Ali Abunimah

13 luglio 2018, Electronic Intifada

Venerdì i cecchini israeliani hanno ucciso un ragazzino mentre i palestinesi hanno segnato più di 100 giorni delle proteste della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

Secondo il gruppo per i diritti umani Al Mezan, Uthman Rami Hillis, 14 anni, è stato ucciso da fuoco mortale.

Il gruppo ha affermato che Hillis, del quartiere di Shujaiya, è stato colpito alla schiena dalle forze israeliane schierate lungo il confine est della Striscia di Gaza.

Più di 100 persone a Gaza sono state ferite, 65 delle quali da proiettili veri.

In seguito alla notizia della sua morte, media palestinesi hanno diffuso una foto di Hillis.

Hanno anche diffuso immagini di Hillis portato via in barella dopo essere stato colpito.

Un video mostra anche scene strazianti di parenti che piangono sul corpo di Hillis nell’obitorio dell’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Venerdì, prima della morte di Hillis, l’OCHA, agenzia di monitoraggio umanitario dell’ONU, ha informato che sono stati 21 i minori tra i circa 150 palestinesi uccisi dalle forze israeliane a Gaza dal 30 marzo, la grande maggioranza dei quali durante le proteste. Più di 4.000 sono stati feriti da proiettili veri.

Nello stesso periodo sono stati feriti quattro israeliani.

In difesa di Khan al-Ahmar

Per il sedicesimo venerdì di seguito migliaia di palestinesi si sono diretti verso il confine orientale di Gaza.

Dal 30 marzo i palestinesi hanno organizzato proteste contro l’assedio israeliano di Gaza durato 11 anni e per chiedere il diritto dei rifugiati di tornare alle terre da cui sono stati espulsi e da cui sono esclusi da Israele perché non sono ebrei.

Israele ha risposto schierando cecchini con l’ordine di sparare contro civili disarmati, compresi minori – uccisioni e mutilazioni che la procura della Corte Penale Internazionale ha avvertito potrebbero portare i dirigenti israeliani ad essere processati per crimini di guerra.

Il tema della protesta di questo venerdì è stato la solidarietà con Khan al-Ahmar, un villaggio beduino nei pressi di Gerusalemme che deve affrontare un’imminente demolizione da parte di Israele – un crimine di guerra – per far posto a nuove colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata.

A Gaza molti palestinesi hanno rivolto messaggi alla gente di Khan al-Ahmar attraverso i media locali.

Oggi siamo qui in solidarietà con i nostri fratelli e sorelle di Khan al-Ahmar,” ha detto un uomo. “Tutta Gaza è con voi.”

Un’immagine mostra un palestinese che sventola una bandiera irlandese in onore dell’ approvazione, all’inizio di questa settimana da parte del senato irlandese, di una legge che vieta l’importazione di prodotti dalle colonie israeliane.

Israele rafforza l’assedio

Mentre i palestinesi di Gaza continuano la loro rivolta contro l’assedio, nonostante il suo terribile costo, Israele risponde rafforzando ulteriormente il blocco.

Lunedì Israele ha annunciato la chiusura dell’unico valico commerciale di Gaza.

Israele ha anche ridotto da nove a sei miglia nautiche la distanza [dalla costa] entro la quale i pescatori di Gaza possono andare in mare.

Queste iniziative sono punizioni collettive contro i due milioni di persone di Gaza per gli aquiloni e i palloncini incendiari che i palestinesi hanno lanciato, provocando incendi nei prati sul lato israeliano del confine.

L’esercito tecnologicamente avanzato di Israele ha dimostrato di non essere in grado di combattere aquiloni e palloncini.

Perciò ancora una volta le autorità dell’occupazione stanno aggiungendo ulteriori sofferenze a quelle che hanno innescato la rivolta contro una situazione in cui la popolazione di Gaza- la metà della quale composta da minorenni – può solo scegliere tra morire a causa dei proiettili e delle bombe israeliani o essere ridotti in silenzio alla disperazione ed alla morte dall’assedio.

Israele afferma che consentirà l’ingresso di prodotti “umanitari” come cibo e medicine, ma funzionari dell’ONU stanno avvertendo che la chiusura del valico commerciale renderà la situazione di Gaza molto peggiore.

Ci si può attendere che la chiusura avrà conseguenze profonde e di vasta portata per i civili già disperati,” ha affermato giovedì Chris Gunness, portavoce dell’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Gunness ha evidenziato che tra i beni di importazione vietati da Israele ci sono materiali da costruzione per i progetti educativi, sanitari, idrici, fognari e per l’igiene dell’ONU.

I sistemi idrici e fognari di Gaza sono già vicini al collasso in seguito ad anni di blocco e attacchi militari di Israele.

Infliggere sofferenze

Gisha”, un gruppo israeliano per i diritti umani che monitora il blocco di Gaza, ha affermato che Israele sta vietando ogni materiale da costruzione, non solo quelli destinati ai progetti dell’ONU – cosa che porterà rapidamente all’interruzione di qualunque attività edilizia a Gaza.

Anche le attività economiche già in difficoltà soffriranno gravissime perdite.

Il contadino Suleiman Zurub stava aspettando di spedire 2.000 cassette di patate dolci fuori dal valico. Questo raccolto probabilmente ora andrà in rovina. “I contadini sono i più danneggiati da questa decisione,” dice Zurub, citato da Gisha.

Anche Hasan Shehadeh, proprietario di una fabbrica di vestiti, deve far fronte a gravi perdite in quanto non può spedire i prodotti ai consumatori in Israele, nella Cisgiordania occupata e in Cina.

Se le cose continuano così, subirò pesanti perdite finanziarie, perché nei miei contratti ho firmato l’impegno a pagare per ogni articolo che rimane nella mia fabbrica,” dice Shehadeh secondo Gisha.

Shehadeh è anche preoccupato per le 200 persone che impiega: “La decisione di Israele danneggerà anche loro, ovviamente,” afferma.

Allerta preventiva

Gunness, dell’UNRWA, ha previsto che l’ultima chiusura porterà a un incremento della domanda di servizi dell’agenzia.

Ciò avverrà in un periodo in cui essa, che fornisce razioni alimentari d’emergenza, servizi sanitari ed educativi a centinaia di migliaia di persone a Gaza, affronta una crisi finanziaria senza precedenti in seguito al congelamento dei contributi degli USA all’inizio di quest’anno.

Circa l’80% della popolazione di Gaza è già obbligata a contare sull’assistenza umanitaria e la percentuale di disoccupazione è vicina al 50%.

In giugno l’UNRWA ha avvertito che dovrà fare importanti tagli ai suoi già ridotti servizi.

Anche prima delle ultime restrizioni israeliane, i funzionari dell’ONU hanno evidenziato indicatori di una situazione che va deteriorandosi profondamente.

Secondo l’OCHA, dal gennaio 2017 al giugno di quest’anno la percentuale di medicine essenziali senza riserve nei magazzini a Gaza è aumentata gradualmente da un terzo al 50% – il che significa che c’è meno di un mese di rifornimento per queste medicine.

In giugno il numero medio di ore di elettricità al giorno è stato di 4,5 ore, vicino al livello minimo dal gennaio 2017.

Nel contempo, nel corso dell’ultimo anno, il numero di persone che hanno dovuto chiedere in prestito denaro o cibo a familiari o amici è salito da circa uno su tre a quasi uno su due.

Complicità internazionale

L’Unione Europea, che raramente critica Israele e non ha condannato i suoi massacri di civili a Gaza, ha affermato venerdì di “attendersi che Israele revochi” la decisione di chiudere il valico commerciale.

La dichiarazione di Bruxelles non fa riferimento agli obblighi di Israele, in quanto potenza occupante, di attenersi alle leggi internazionali, compreso il divieto di punizioni collettive.

L’Ue ha persino tacitamente giustificato le azioni di Israele includendo la richiesta che “Hamas e altri attori a Gaza cessino e rinuncino ad azioni violente e provocazioni contro Israele, compreso il lancio di aquiloni e palloncini incendiari.”

Al contrario Gisha ha definito “sia illegale che moralmente perverso” il ricorso di Israele a “punizioni collettive di circa due milioni di persone a Gaza” chiudendo il valico commerciale.

Il gruppo palestinese per i diritti umani Al Mezan ha deplorato “la continua tolleranza della comunità internazionale nei confronti delle punizioni collettive della popolazione di Gaza in violazione degli obblighi giuridici in base alle leggi umanitarie internazionali.”

Al Mezan ha avvertito che Gaza sta assistendo “a un collasso sociale ed economico” e sta andando verso “un’esplosione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le donne in prima linea rischiano la morte per i loro diritti

Isra Saleh el-Namey

9 giugno 2018, Electronic Intifada

Islam Khreis ha recentemente lanciato qualche pietra contro le truppe israeliane.

“Queste sono giornate storiche”, ha detto la ventottenne abitante di Gaza. “Stiamo dicendo al mondo intero che non abbiamo mai dimenticato il nostro legittimo diritto al ritorno nei nostri villeggi e città che ci hanno rubato.”

Lanciare pietre è un semplice atto di resistenza per i palestinesi. È un modo simbolico di affrontare uno dei Paesi più militarizzati del mondo.

È una tattica che è stata usata da alcuni partecipanti alle proteste della ‘Grande Marcia del Ritorno’, che chiedeva che i palestinesi potessero tornare ai villaggi e alle città da cui le forze sioniste li espulsero nel 1948.

Anche se le fotografie di palestinesi che lanciano pietre con le fionde in genere mostrano giovani uomini, Khreis era tra le molte donne che lo hanno fatto. In effetti ha svolto ogni tipo di attività. Ha aiutato a prestare i primi soccorsi ai manifestanti feriti dai cecchini israeliani e, come studentessa di giornalismo all’università Al-Aqsa di Gaza, ha fatto anche interviste ai manifestanti, benché, in quanto non accreditata, lo ha fatto senza avere la protezione derivante da scritte specifiche sui suoi indumenti.

Khreis prova un sentimento di solidarietà con le persone che si sono avventurate vicino alla barriera di separazione tra Gaza e l’attuale Israele. Più di 100 manifestanti disarmati sono stati uccisi da Israele da quando è iniziata la ‘Grande Marcia del Ritorno’ il 30 marzo.

“Il mio cuore si spezza quando vedo un giovane cadere a terra dopo essere stato colpito dai proiettili dei cecchini israeliani”, ha detto Khreis. “Questo è il risultato dell’ingiusto assedio imposto a Gaza. Se quei giovani avessero un lavoro decente, una buona educazione, servizi essenziali e libertà di movimento, non dovrebbero marciare verso la morte.”

Ovviamente anche molte donne e ragazze sono state ferite durante le proteste.

Una ragazzina, Wesal al-Sheikh Khalil, è stata uccisa mentre partecipava alla manifestazione il 14 maggio. E all’inizio di giugno l’infermiera ventunenne Razan al-Najjar è stata colpita a morte mentre aiutava a evacuare e curare i feriti.

“Un chiaro messaggio”

Mariam Mattar, di 16 anni, è stata colpita ad una gamba durante le recenti proteste. Stava sventolando una bandiera palestinese.

“Ho perso conoscenza”, ha raccontato a The Electronic Intifada. “Quando mi sono svegliata, ero in un letto d’ospedale.”

Nonostante la ferita, Mariam approva in pieno le proteste. “Vogliamo mandare un chiaro messaggio al mondo intero”, ha detto. “Il popolo palestinese sogna il giorno in cui potrà tornare alle proprie case. Speriamo che giunga presto.”

L’ampio uso dei gas lacrimogeni da parte di Israele – un’arma chimica che è stata lanciata sui manifestanti dai droni – ha colpito anche molte donne.

Amani Abu Jidian è andata alle recenti manifestazioni – che si tenevano normalmente di venerdì – con i suoi figli.

“I miei due figli hanno insistito per andare ogni venerdì”, ha detto. “So che è pericoloso, quindi per essere sicura che loro restassero al sicuro e non si avvicinassero troppo [alla barriera], li ho accompagnati mentre si avvicinavano al confine. Non ho smesso di sorvegliarli.”

L’11 maggio Abu Jidian era all’interno di una delle tende costruite a supporto delle proteste, quando l’hanno attaccata coi gas lacrimogeni.

“Mi sono sentita soffocare”, ha detto.

Insegnare le tradizioni

Anche se le tende non forniscono una reale protezione, si sono dimostrate importanti luoghi di aggregazione.

Maryam Abu Zubaida, di 63 anni, preparava i pasti per i manifestanti distribuiti nelle tende. Questi comprendevano piatti tradizionali come il maftoul – couscous palestinese – e la sumaghiya, uno stufato di carne di bue e ceci.

Quando si recava nelle tende, cantava canzoni nazionali e ricamava, per aiutare i manifestanti.

“È un bel modo per me di passare il tempo coi miei amici”, ha detto a ‘The Electronic Intifada’. “E nello stesso tempo facciamo un buon lavoro di insegnamento delle nostre tradizioni alle generazioni più giovani per conservarle nel futuro.”

Un giorno Maryam ha portato la sua nipotina Farah di 7 anni in una tenda. Recandosi là, Farah ha imparato canzoni come “Zareef al-Tool”, un lamento per le città e i villaggi che i palestinesi furono costretti a lasciare nel 1948.

“Mi piace quando finisco le lezioni e mia nonna accetta di portarmi con lei alla tenda”, ha detto Farah. “Là mi sono divertita molto.”

Quando Israele ha attaccato le manifestazioni, le donne hanno curato i feriti. Le uccisioni di Razan al-Najjar e, prima di lei, di Mousa Abu Hassanein, hanno messo in evidenza i rischi che corrono i medici.

Anwar Mohammed, un’infermiera di 26 anni, ha prestato i primi soccorsi ai manifestanti colpiti.

“Il nostro lavoro è stato molto impegnativo nelle scorse settimane”, ha detto. “Ci siamo occupati di un gran numero di vittime.”

Mohammed ha lavorato in un ospedale da campo, ma a volte le è stato chiesto di avvicinarsi alla barriera di confine per fornire assistenza di emergenza.

“La pressione e lo stress cui eravamo sottoposti è stato enorme, soprattutto durante le proteste del venerdì”, ha aggiunto.

Il coraggio che ha dimostrato le è valso un notevole rispetto.

“Era una novità per i manifestanti vedere infermiere donne in prima linea”, ha detto a ‘The Electronic Intifada’. Ci esponevamo al pericolo e aiutavamo a salvare vite umane. Ma non c’ è voluto molto perché i manifestanti si abituassero a noi. Ascoltavano le nostre istruzioni e vi si sono attenuti.”

Isra Saleh el-Namey è giornalista a Gaza.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




La Grande Marcia del Ritorno: il massacro dei cecchini a Gaza

Richard Falk

10 giugno 2018, Global Justice in the 21st century

Nessun paese agirebbe con maggior moderazione di Israele”, Nikki Haley, Ambasciatrice USA alle Nazioni Unite.

Nota preliminare: Il massacro dei cecchini a Gaza in risposta alla Grande Marcia del Ritorno è un’altra pietra miliare nella resistenza palestinese e un ennesimo terrificante episodio nella storia dell’apartheid israeliano di violenza eccessiva e crudele, un sequel vergognoso di crimini per i quali non esiste un possibile tribunale giudicante che renda giustizia alle vittime. L’articolo che segue consiste nella giustapposizione di notizie, del bruciante editoriale di un giornalista israeliano coraggiosamente intransigente, Gideon Levy, e di un ampio e brillante commento del mio amico Jim Kavanaugh. L’articolo è dedicato alla memoria di Razan al-Najjar, la coraggiosa paramedica di 21 anni colpita a morte mentre assisteva i manifestanti palestinesi feriti più o meno vicino alla recinzione di Gaza. Questa giovane donna incarna la purezza della resistenza non violenta ed eroica, un’identità a cui è stata data profondità storica grazie alla sua gioia di vivere e al supremo sacrificio impostale dalla brutalità di un cecchino.

Si presume che la leadership politica e i comandanti militari israeliani abbiano scelto una tale esibizione di violenza eccessiva e vendicativa per un chiaro obiettivo politico, che rimarrà segreto. Sembrerebbe voler sfruttare il sostegno illimitato della presidenza Trump e una situazione politica regionale più che favorevole nella loro storia, ma ci si può ancora chiedere “a quale scopo?” Per me l’ipotesi migliore è che l’azione sia stata progettata per convincere la gente di Gaza, più che Hamas, che la resistenza, e in particolare la resistenza disarmata, è inutile. Senza un piano diplomatico e con il processo delle annessioni che procede senza ostacoli, Israele profitterebbe del riconoscimento palestinese che la lotta è finita e che i palestinesi hanno perso. La Grande Marcia del Ritorno è stata una sfida e un rifiuto ad ammettere la sconfitta, senza dubbio irritando Israele, e infliggendo una grande sconfitta nell’altra guerra: la Guerra di Legittimazione combattuta per conquistare i cuori e le menti sulla base di un elevato fondamento morale e politico.

Insomma, dobbiamo capire che il problema di vincere la Guerra di Legittimazione è principalmente una lotta per far sì che la verità venga ascoltata, venga compresa in tutte le principali questioni in campo. La legge e la morale sono dalla parte delle richieste palestinesi, ma questo si è sinora dimostrato politicamente irrilevante in quanto la geopolitica e le capacità militari pendono fortemente dalla parte di Israele. Può la resistenza palestinese, rafforzata da un crescente movimento di solidarietà globale, superare il vantaggio israeliano? Il tempo lo dirà. Finora le associazioni dei media si sono schierate con Israele, ed è un campo di battaglia nella Guerra di Legittimazione in cui i palestinesi hanno sinora sostanzialmente fallito.]

(Traduzione di Luciana Gagliano)




Pare che quattro palestinesi siano stati uccisi e decine feriti da fuoco israeliano durante proteste a Gaza*

Jack Khoury, Yaniv Kubovich, Almog Ben Zikri

8 giugno 2018, Haaretz

 In migliaia hanno protestato in cinque punti nei pressi della barriera di confine Oltre 600 feriti, di cui 117 da proiettili veri L’esercito israeliano piazza batterie “Iron Dome” per fronteggiare il lancio di razzi I palestinesi chiedono all’Assemblea Generale dell’ONU di condannare Israele.

Secondo il ministero della Sanità di Gaza venerdì quattro palestinesi sono stati uccisi e 92 feriti dal fuoco dell’esercito israeliano durante proteste sul confine di Gaza. In migliaia hanno partecipato a quella che si prevedeva sarebbe stata la più grande marcia contro la barriera di confine israeliano da settimane.

Secondo il ministero 618 palestinesi sono stati feriti in totale negli scontri fino alle 7 di sera, di cui 254 sono stati ricoverati in ospedale. Uno dei feriti era in condizioni gravissime, otto hanno subito gravi ferite e 125 sono stati lievemente feriti. Il ministero afferma che 117 persone sono state colpite da proiettili veri.

L’esercito israeliano si stava preparando nel caso in cui Hamas e la Jihad Islamica palestinese avessero iniziato a sparare colpi di mortaio e razzi quando fossero finite le proteste. L’esercito ha schierato un numero significativo di batterie “Iron Dome” [sistema di difesa antimissile, ndt.] nei pressi delle vicine comunità [ebreo-israeliane, ndt.].

Mentre nelle settimane precedenti l’esercito ha affermato che Hamas non era interessato a uno scontro più ampio, il recente lancio di decine di colpi di mortaio contro Israele ha portato l’esercito a pensare che i gruppi islamici potessero cercare uno scontro limitato che includesse il lancio di razzi. Circa 10.000 dimostranti hanno manifestato in cinque punti lungo la barriera. Una postazione dell’esercito israeliano è stata danneggiata quando è stata colpita da spari da Gaza durante le proteste. Inoltre decine di aquiloni e di palloni aerostatici che trasportavano bottiglie molotov ed esplosivi sono state fatte volare all’interno di Israele, e sono stati lanciati contro le truppe israeliane ordigni esplosivi e granate.

Israele si aspettava che le proteste sarebbero state delle stesse dimensioni e violenza di quella del 14 maggio, quando circa 60 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane. Tuttavia pare che il numero dei presenti sia stato inferiore alle attese.

Si prevedeva che alcuni dei palestinesi che protestavano nel contesto della “Marcia del Ritorno” avrebbero sfoggiato indumenti che ricordano l’Olocausto, compresa una divisa a strisce che rappresentava l’abbigliamento che gli ebrei erano obbligati a indossare nei campi nazisti.

Gli organizzatori della protesta hanno detto che lo spunto intendeva mandare il messaggio che i palestinesi non sono responsabili dell’Olocausto, tuttavia ne pagano il prezzo. Hanno affermato che lo scopo complessivo della protesta era di mostrare al mondo che Israele sta commettendo crimini contro il popolo palestinese.

Venerdì i palestinesi e i loro sostenitori hanno chiesto che l’Assemblea Generale dell’ONU tenga una riunione d’emergenza per adottare una risoluzione che condanni l’”uso eccessivo della forza” da parte di Israele, soprattutto a Gaza, e vorrebbero raccomandazioni che garantiscano la protezione dei civili palestinesi. L’ambasciatore palestinese all’ONU Riyad Mansour ha detto di credere che il presidente dell’Assemblea Generale Miroslav Lajcak fisserà “molto presto” una data. Ha affermato che “molto probabilmente” avverrà il prossimo mercoledì pomeriggio. Mansour ha detto che la risoluzione presentata all’Assemblea Generale, come una precedente risoluzione del Kuwait, chiederà al segretario generale dell’ONU Antonio Guterres di fare una proposta entro 60 giorni “su modi e mezzi per garantire la sicurezza, la protezione e il benessere della popolazione civile palestinese sotto occupazione israeliana.”

Hamas ha esortato i palestinesi della Cisgiordania ad unirsi alla “Marcia del Ritorno” andando a Gerusalemme a pregare alla moschea di Al Aqsa o ai posti di blocco israeliani lungo la strada. Hamas controlla la Striscia di Gaza, ma in Cisgiordania la dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese è dominata dall’organizzazione Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Come durante precedenti manifestazioni nelle scorse settimane, l’esercito ha schierato cecchini lungo il confine con Gaza. Afferma di aver ricevuto avvertimenti su possibili tentativi di prendere di mira soldati con spari o esplosivi. Il comitato che organizza le marce settimanali ha affermato di progettare di continuare a farle, nonostante l’alto numero di vittime palestinesi durante le 11 manifestazioni precedenti. Sostiene che l’obiettivo è dire al mondo che i palestinesi continuano a rivendicare i propri diritti, compreso quello al ritorno. I gazawi, che hanno fatto volare aquiloni incendiari oltre il confine, avevano previsto di inviarne decine in Israele venerdì.

“Non siamo legati a nessuna organizzazione,” ha detto uno di quelli che hanno fatto volare gli aquiloni. “L’idea è nata quando abbiamo visto nella prima marcia bambini con aquiloni che avevano bandiere palestinesi. Abbiamo visto che un aquilone vola velocemente ed entra in territorio israeliano, e allora abbiamo pensato di legargli materiale infiammabile o qualcosa che brucia.”

“Non siamo terroristi,” ha insistito. “Siamo una generazione senza speranza e senza una prospettiva che vive sotto un assedio asfissiante, e questo è il messaggio che stiamo cercando di mandare al mondo. In Israele piangono per i campi e i boschi che bruciano. E che ne è di noi, che stiamo morendo ogni giorno? Personalmente, sono andato varie volte alla barriera ed è chiaro che è una questione di tempo prima che mi prenda una pallottola in testa o mi amputino una gamba a causa delle ferite [si riferisce al fatto che i cecchini israeliani usano proiettili a frammentazione che provocano ferite gravissime, soprattutto agli arti inferiori, ndt.]. Per cui faccio volare aquiloni e partecipo alle proteste piuttosto che morire.”

Afferma che, se Hamas o qualunque altra organizzazione palestinese stesse appoggiando gli aquiloni incendiari, lui e i suoi compagni non avrebbero tanti problemi ad avere il materiale per fabbricarli.

“Ogni aquilone costa circa 5 shekel (1,40 $),” spiega. “A Gaza sono parecchi soldi. Quindi la creatività ci porta a utilizzare ogni cosa a disposizione – cartone usato e plastica o qualunque cosa che possa essere usata per costruire un aquilone, che è molto semplice ma sta sfidando l’esercito più potente del Medio Oriente.”

Giovedì mattina l’esercito [israeliano] ha lanciato volantini sulla Striscia di Gaza, avvertendo gli abitanti di non avvicinarsi alla barriera o di non cercare di attaccare gli israeliani.

“Abitanti della Striscia di Gaza! Auguri, e che il Ramadan vi porti fortuna,” dicevano i volantini.

“Un uomo saggio tiene conto delle conseguenze delle proprie azioni in anticipo e sceglie quelle i cui vantaggi sono maggiori dei costi. Se ne tenete conto riguardo all’avvicinarvi o all’attraversare la barriera, arriverete alla conclusione che questa azione non ne vale la pena ed è persino dannosa.”

I volantini invitavano anche i gazawi: “Non lasciate che Hamas vi trasformi in uno strumento per i suoi meschini interessi. Dietro a questi interessi c’è l’Iran sciita, il cui obiettivo è incendiare la regione a favore dei propri interessi religiosi ed etnici. Non dovreste lasciare che Hamas vi trasformi in suoi ostaggi, in modo che possa raccogliere un capitale politico a spese del benessere e del futuro dei gazawi in generale e dei giovani in particolare. Per evitare risultati dannosi, vi invitiamo a non partecipare alle manifestazioni e al caos e a non mettervi in pericolo.”

L’ “Associated Press” [agenzia di stampa USA, ndt.] ha contribuito all’articolo.

*[L’articolo deve essere stato scritto quando la notizia delle uccisioni non era stata ancora confermata e così si spiega il titolo ipotetico. ndt]

(traduzione di Amedeo Rossi)




La paramedica di Gaza uccisa da Israele è stata colpita alla schiena

Ali Abunimah

2 giugno 2018, Electronic Intifada

Una fotografia scattata il 1^ aprile mostra la paramedica palestinese Razan al-Njjar mentre sta curando dei feriti in una tenda del pronto soccorso durante le proteste a Gaza vicino al confine con Israele. Il 1^ giugno Al-Najjar è stata colpita a morte da un cecchino israeliano mentre prestava soccorso a dimostranti feriti vicino a Khan Younis.

Nel corso dei loro continui attacchi indiscriminati contro i palestinesi che partecipavano alle proteste della ‘Grande Marcia del Ritorno’ a Gaza, svoltesi per 10 venerdì consecutivi, le forze di occupazione israeliane hanno colpito a morte un medico volontario e ferito decine di persone.

Venerdì sera, quando è stata colpita a morte, Razan Ashraf Abdul Qadir al-Najjar, di 21 anni, stava aiutando a curare ed evacuare dimostranti feriti ad est di Khan Younis.

L’associazione per i diritti umani “Al Mezan” ha affermato, citando testimoni oculari e proprie indagini, che, nel momento in cui è stata colpita, lei si trovava a circa 100 metri di distanza dalla barriera di confine con Israele ed indossava un giubbotto che la identificava chiaramente come paramedico. “Al Mezan” ha affermato che Al-Najjar è stata colpita alla schiena.

Al-Najjar era diventata famosa per il suo coraggio e perseveranza nel condurre la sua opera di soccorso nonostante l’evidente pericolo.

In precedenza era stata colpita dagli effetti dell’inalazione di gas lacrimogeni e il 13 aprile si è rotta un polso mentre correva per soccorrere un ferito. Ma Al-Najjar quel giorno si è rifiutata di andare in ospedale ed ha continuato a lavorare sul campo.

È mio dovere e mia responsabilità essere là ed aiutare i feriti”, ha detto ad Al Jazeera.

Ha anche reso testimonianza sugli ultimi momenti di vita di coloro che erano stati feriti a morte prima di lei.

Mi spezza il cuore il fatto che alcuni dei giovani feriti o uccisi abbiano espresso le loro ultime volontà di fronte a me”, ha detto ad Al Jazeera. “Alcuni mi hanno addirittura consegnato i loro effetti personali (come dono) prima di morire.”

Al-Najjar ha parlato del suo lavoro in una recente intervista televisiva che è stata ampiamente diffusa sui social media dopo la notizia della sua morte.

Molti utenti di Twitter, soprattutto di Gaza, hanno reso omaggio a al-Najjar.

I media palestinesi hanno diffuso immagini dei suoi familiari e colleghi che piangevano la sua morte.

Il dottor Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della sanità di Gaza, ha reso omaggio ad al-Najjar definendola una volontaria umanitaria impegnata, che non ha abbandonato il suo posto fino al punto di “offrirsi come martire”.

Mani alzate

[La foto qui sotto riprende Razan pochi istanti prima di essere uccisa da:http://www.globalist.it/world/articolo/2018/06/03/l-infermiera-palestinese-uccisa-dagli-israeliani-aveva-le-braccia-alzate-2025472.html ndt]


Il camice bianco che al-Najjar indossava, mostrato da sua madre in questo video, presenta un foro nella parte posteriore.

In una dichiarazione rilasciata sabato, il ministero della Sanità di Gaza ha affermato che al-Najjar faceva parte di un’equipe medica che “andava ad evacuare i feriti con entrambe le mani alzate, a dimostrazione del fatto di non costituire alcun pericolo per le forze di occupazione pesantemente armate.”

Le forze di occupazione israeliane hanno sparato proiettili veri direttamente al petto di Razan ed hanno ferito parecchi altri paramedici”, ha aggiunto il ministero della Sanità.

Dalla dichiarazione del ministero della Sanità non risulta chiaro quante volte al-Najjar sia stata colpita o in quale esatto punto della parte superiore del corpo. Il ministero ha anche pubblicato un video che mostra al-Najjar e i suoi colleghi che camminavano verso la barriera di confine con le mani alzate poco prima che al-Najjar venisse colpita.

Sabato il rappresentante speciale ONU per il processo di pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha twittato che “gli operatori sanitari non sono un bersaglio. I miei pensieri e le mie preghiere vanno alla famiglia di Razan al-Najjar.”

Tuttavia Mladenov ha omesso di condannare le azioni di Israele, invitandolo invece a “calibrare il suo uso della forza.”

Sabato in migliaia hanno seguito il funerale di al-Najjar, mentre i colleghi portavano il suo corpo coperto dalla bandiera palestinese e dal camice macchiato di sangue che indossava quando è stata uccisa.

Attacchi ai medici

Al-Najjar è il secondo soccorritore ucciso dalle forze israeliane dall’inizio delle proteste della ‘Grande Marcia per il Ritorno’, il 30 marzo. Secondo il ministero della Sanità di Gaza, più di altri 200 sono stati feriti e 37 ambulanze sono state danneggiate.

Due settimane fa i cecchini israeliani hanno ucciso il paramedico Mousa Jaber Abu Hassanein.

Circa un’ora prima che venisse ucciso, Abu Hassanein aveva aiutato a soccorrere uno dei suoi colleghi, il medico canadese Tarek Loubani, che era stato ferito da un proiettile israeliano.

In seguito Loubani ha raccontato al podcast di The Electronic Intifada di essere stato colpito a una gamba mentre intorno a lui tutto era tranquillo: “Nessun pneumatico in fiamme, niente fumo, niente gas lacrimogeni, nessuno che si aggirasse davanti alla zona cuscinetto. C’era solo una squadra medica chiaramente identificabile, ben lontana da chiunque altro.”

Chirurghi di guerra

Secondo “Al Mezan” questo venerdì, come tutti i venerdì, le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili ricoperti di gomma e candelotti lacrimogeni contro i palestinesi lungo il confine est di Gaza, ferendo circa 100 persone, 30 delle quali con proiettili veri.

I dimostranti non costituivano pericolo o minaccia alla sicurezza dei soldati, il che conferma che le violazioni commesse da queste forze sono gravi e sistematiche e si configurano come crimini di guerra”, ha affermato l’associazione per i diritti umani.

Secondo “Al Mezan”, dalla fine di marzo le forze israeliane hanno ucciso 129 persone a Gaza, compresi 15 minori, 98 delle quali durante le proteste.

Mentre Israele venerdì continuava ad aumentare il tragico bilancio, il sistema sanitario di Gaza si trovava già senza la possibilità di far fronte all’affluenza di persone ferite dall’uso evidente di proiettili a frammentazione, che provocano ferite terribili che richiedono trattamenti intensivi e complessi e lasciano spesso le vittime con disabilità permanenti.

Più di 13.000 persone sono state ferite da quando sono cominciate le proteste, comprese quelle che hanno inalato gas lacrimogeni. Delle oltre 7.000 persone che hanno subito danni diversi dai gas lacrimogeni, più della metà sono state colpite da proiettili veri.

Giovedì il Comitato Internazionale della Croce Rossa (ICRC) ha comunicato che avrebbe fornito a Gaza due squadre di chirurghi di guerra e attrezzature mediche, per sostenere un sistema sanitario che ha affermato essere “sull’orlo del collasso”.

L’ICRC ha detto che la priorità per la sua missione di sei mesi sarebbe stata la cura delle vittime di ferite da arma da fuoco, tra cui circa 1.350 pazienti che avrebbero avuto bisogno da tre a cinque operazioni ciascuno.

Un simile carico di lavoro potrebbe travolgere qualunque sistema sanitario”, ha affermato l’ICRC. “A Gaza la situazione viene peggiorata dalla cronica carenza di medicinali, attrezzature ed elettricità.”

Baraccopoli infetta”

Le continue proteste a Gaza hanno lo scopo di rivendicare il diritto dei rifugiati palestinesi a ritornare nelle loro case e terre che sono ora in Israele e di chiedere la fine dell’assedio israeliano del territorio, che dura da oltre un decennio.

I due milioni di abitanti di Gaza sono “imprigionati dalla culla alla tomba in una baraccopoli infetta”, ha detto venerdì il responsabile dei diritti umani dell’ONU Zeid Ra’ad al-Hussein in una sessione speciale del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.

Zeid ha anche detto al Consiglio che ci sono “ poche tracce” del fatto che Israele stia facendo qualcosa per ridurre il numero delle vittime.

Ha confermato che “le azioni dei dimostranti di per sé stesse non sembrano costituire una minaccia immediata di morte o di ferite mortali tale che possa giustificare l’uso di forza letale.”

Zeid ha parlato al Consiglio quando esso stava prendendo in considerazione una bozza di risoluzione per avviare un’inchiesta internazionale per crimini di guerra a Gaza.

La settimana scorsa il Consiglio per i Diritti Umani ha deciso con 29 voti contro 2 di avviare un’inchiesta indipendente sulle violenze a Gaza.

Solo gli Stati Uniti e l’Australia hanno votato contro l’inchiesta, ma diversi governi dell’Unione Europea, inclusi Regno Unito e Germania, erano tra i 14 astenuti.

Medical Aid for Palestinians’, un’organizzazione benefica che ha fornito assistenza di emergenza in mezzo al crescente disastro, e una dozzina di altre organizzazioni, hanno criticato il rifiuto del governo britannico di appoggiare un’inchiesta “per accertare violazioni del diritto internazionale nel contesto delle proteste civili di massa a Gaza.”

Ma i tentativi di rendere Israele responsabile continuano, tra l’opposizione intransigente dei suoi sostenitori.

Venerdì sera il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato su una bozza di risoluzione proposta dal Kuwait, che deplora “l’uso eccessivo, sproporzionato e indiscriminato della forza da parte delle forze israeliane” e chiede “misure per garantire la sicurezza e la protezione” dei civili palestinesi.

Ha anche chiesto la fine del blocco di Gaza e deplorato “il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza contro zone civili israeliane.”

Dieci Paesi, inclusi i membri permanenti Russia e Francia, hanno votato a favore. Quattro, compresa la Gran Bretagna, contro.

Nonostante avesse i voti sufficienti per essere approvata, la risoluzione è stata resa vana dall’ambasciatrice USA Nikki Haley, che – come aveva promesso di fare – ha posto il veto del suo Paese.

Poi Haley ha proposto la sua bozza di risoluzione, che assolve Israele da ogni responsabilità per la violenza a Gaza e attribuisce tutta la responsabilità della situazione ad Hamas.

L’unico Paese che ha votato a favore sono stati gli Stati Uniti.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Quel boato? È la Palestina che scatena uno tsunami legale contro i crimini di guerra israeliani

Victor Kattan

25 maggio 2018, Haaretz

La Palestina è decisa a far cadere su Israele tutto il peso delle leggi internazionali. E sta cominciando adesso.

Questa volta il governo di Benjamin Netanyahu potrebbe essere andato troppo in là nella difesa delle azioni delle sue forze armate a Gaza. Ciò potrebbe portare al fatto che Israele sia obbligato a difendere le proprie azioni davanti a una corte di diritto internazionale.

L’affermazione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman secondo cui “non ci sono innocenti a Gaza”, dove più di 60 palestinesi sono stati uccisi durante manifestazioni il 14 maggio, non poteva essere ignorata dalla dirigenza palestinese. Secondo il rapporto presentato dalla Palestina alla Corte Penale Internazionale (CPI), le persone colpite da cecchini e dal fuoco dell’artiglieria comprendono sei minori, un amputato alle due gambe, un infermiere e 11 giornalisti.

Se teniamo conto della decisione del presidente USA Donald Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme – che in sé è stata una flagrante violazione delle leggi internazionali – nello stesso giorno in cui ha avuto luogo la sparatoria, la dirigenza palestinese ha capito di dover prendere l’iniziativa, almeno per conservare la propria credibilità agli occhi del suo stesso popolo.

Supportato dai festeggiamenti che hanno accompagnato la decisione di Trump sull’ambasciata, il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra aver trascurato, o non avere preso sul serio, importanti iniziative diplomatiche palestinesi negli ultimi mesi che, prese insieme, potrebbero aver rovinato la festa.

Nel settembre 2017 la Palestina ha aderito all’Interpol, l’organizzazione internazionale di polizia; in aprile ha presentato una denuncia contro Israele per aver violato i suoi impegni in base alla “Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione Razziale”; e proprio la settimana scorsa il Consiglio ONU sui Diritti Umani ha deciso di inviare una commissione di inchiesta, appoggiata da quasi tutti i membri del Consiglio tranne gli USA e l’Australia, per indagare sull’uccisione di palestinesi sul confine di Gaza da parte di Israele.

Ora il ministro degli Esteri della Palestina Riyad al-Maliki ha presentato un ricorso su propria iniziativa alla Corte Penale Internazionale in cui si chiede alla procuratrice Fatou Bensouda di aprire un’indagine sui crimini commessi sul territorio dello Stato di Palestina.

La dirigenza palestinese potrebbe prendere ulteriori passi presso altre corti e tribunali internazionali, come la Corte Internazionale di Giustizia, chiedendo all’Assemblea Generale dell’ONU di fare richiesta di un parere consultivo a quella corte, se facendolo vi vedesse un beneficio politico.

Benché Israele non riconosca lo Stato di Palestina, oltre 130 Stati lo fanno. Dato che Israele sta occupando il territorio di uno Stato membro, in linea di principio la CPI ha giurisdizione in materia.

Il ricorso su propria iniziativa è stato presentato alla procuratrice Bensouda da funzionari del ministero degli Affari Esteri della Palestina. Lo Stato di Palestina ha goduto dello status di Paese osservatore nell’Assemblea Generale dell’ONU dal 29 novembre 2012, ed ha ratificato o aderito a numerosi trattati – compreso lo Statuto di Roma che ha creato la CPI.

Gli USA, per favorire Israele, potrebbero rendere questo ricorso alle leggi internazionali disagevole per i palestinesi. Nel 2015 il congresso USA ha approvato l’“Omnibus Appropriations Act” [“Legge per la Raccolta dei Finanziamenti”, ndt.] per impedire il trasferimento di un sostegno economico all’Autorità Nazionale Palestinese se questa avesse avviato “un’inchiesta giuridicamente autorizzata della Corte Penale Internazionale o avesse attivamente sostenuto un simile inchiesta, che sottoponga cittadini israeliani a un’inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Ovviamente i consiglieri giuridici della Palestina potrebbero sostenere di non aver iniziato loro, ma solo richiesto, l’apertura di un’inchiesta: solo il procuratore può avviare un’inchiesta.

Ma comunque l’amministrazione Trump ha già tagliato gli aiuti all’UNRWA, l’agenzia ONU incaricata di occuparsi dei rifugiati palestinesi, e ha tentato di chiudere la missione diplomatica della Palestina a Washington. Queste azioni hanno eliminato gli incentivi ed i privilegi economici che il presidente Obama, e le precedenti amministrazioni USA, avevano concesso alla dirigenza palestinese.

Finora questi benefici sembravano aver evitato che la dirigenza palestinese presentasse le proprie richieste contro Israele di fronte a corti e tribunali internazionali. La minaccia di ulteriori tagli all’Autorità Nazionale Palestinese evidentemente non ha dissuaso la leadership palestinese dal prendere questa iniziativa, che potrebbe indicare che essa ha trovato altri finanziatori che la tengono a galla.

La decisione di presentare un ricorso su propria iniziativa alla CPI è significativa perché mette pressione sulla procura affinché velocizzi il terzo esame preliminare che sta già svolgendo sulla Palestina.

Questa indagine è stata aperta quando la Palestina ha aderito alla Corte nel gennaio 2015 ed attualmente è nella fase 2 di un processo in 4 fasi. (La fase 1 consiste in una valutazione informativa; la 2 si concentra sulla giurisdizione; la 3 sulla potenziale ammissibilità dei casi; la 4 esamina l’interesse della giustizia).

Il testo del ricorso della Palestina alla CPI indica che, da quando nel gennaio 2015 la Palestina ha aderito alla Corte, il ministro degli Affari Esteri della Palestina ed i suoi giuristi dell’Aia hanno inviato all’ufficio del procuratore tre comunicazioni, un’osservazione e 25 successivi rapporti mensili.

Il ricorso “chiede alla procura di indagare, in base alla giurisdizione temporale della Corte, crimini precedenti, in corso e futuri che ricadono sotto la giurisdizione della Corte, commessi in ogni parte del territorio dello Stato di Palestina.” Il ricorso chiarisce che “lo Stato di Palestina comprende i territori palestinesi occupati dal 1967 da Israele, come definiti dalla linea dell’armistizio del 1949, e include la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e la Striscia di Gaza.”

Nella sua dichiarazione sul ricorso, l’ufficio di Bensouda ha spiegato che ciò non porta automaticamente all’apertura di un’inchiesta.” Deve ancora completare le 4 fasi di esame preliminare.

Al momento tutti i ricorsi su propria iniziativa alla CPI sono stati presentati da Paesi africani, compresi la Repubblica centro-africana (due volte), la Repubblica Democratica del Congo, le Comore, il Gabon, il Mali e l’Uganda. L’attenzione esclusiva della Corte sul continente è stato argomento di critiche, anche se John Dugard, uno dei legali che questa settimana hanno accompagnato il ministro degli Esteri palestinese alla CPI, giustamente ha sostenuto che sono gli stessi Stati africani che hanno presentato questi ricorsi.

La Palestina è stato il primo Stato non africano a presentare un ricorso su propria iniziativa ed il secondo a prevedere accuse di crimini commessi da Israele.

Il primo venne fatto dalle Comore nel 2013 riguardo a presunti crimini commessi da Israele sulla nave Mavi Marmara, una nave passeggeri con bandiera delle Comore che nel 2010 portava pacifisti verso Gaza [10 passeggeri turchi vennero uccisi durante l’attacco israeliano in acque internazionali, ndt.]. Nonostante due ricorsi, in quel caso il procuratore decise di non aprire un’inchiesta e chiuse la sua inchiesta preliminare.

Non ci sono ragioni per cui il fatto di non essere arrivati a un processo riguardo alla Mavi Marmara possa impedire al procuratore di valutare con cura le denunce palestinesi di crimini commessi nello Stato di Palestina.

È vero, la procura potrebbe avere difficoltà a raccogliere prove, in quanto Israele difficilmente collaborerà, e non è obbligato a collaborare in quanto Israele non è uno Stato membro del Trattato di Roma. Tuttavia, come ben chiarisce il ricorso, i crimini commessi da Israele a Gerusalemme est, in Cisgiordania e a Gaza “sono tra i più ampiamente documentati nella storia contemporanea.”

Questi presunti crimini includono la politica di colonizzazione di Israele, che viola direttamente lo Statuto di Roma ed è stata una delle ragioni per cui Israele non l’ha firmato nel 1998. Secondo il ricorso palestinese, come documentato dall’Ufficio Statistico Centrale di Israele, rispetto allo stesso periodo dell’anno prima c’è stato un aumento del 70% delle costruzioni di colonie tra l’aprile 2016 e il marzo 2017.

Il ricorso sostiene anche che l’esercito israeliano e i coloni hanno ucciso o ferito oltre 1.100 minori palestinesi nel solo 2017. Si riferisce alle uccisioni a Gaza del 14 maggio, alla demolizione di case a partire dal 2016, alla distruzione ed appropriazione di proprietà, alla detenzione illegittima, compresi 700 palestinesi tenuti in detenzione amministrativa che viene rinnovata indefinitamente, senza imputazioni o processo, sulla base di prove “segrete” tenute nascoste ai detenuti ed ai loro avvocati. Altre accuse, precisate in precedenti comunicazioni, osservazioni e rapporti mensili inviati all’ufficio della procura non sono state rese note.

Dei sei Stati che finora hanno fatto ricorso su propria iniziativa alla CPI, la procura ha aperto inchieste su cinque di essi: la Repubblica centro-africana (due volte), il Congo, il Mali e l’Uganda. Un altro (relativo al Gabon) è ancora nella fase 2. Rifiutando di aprire un’indagine sulla flottiglia di Gaza, la procura ha considerato i presunti crimini “non di una gravità sufficiente”. Ma è improbabile che questo argomento impedisca alla procura di indagare su presunti crimini di Israele in Cisgiordania e a Gaza, che sembrano essere molti gravi.

Se la prassi precedente insegna qualcosa, pare ci sia una notevole probabilità che la procura apra questa inchiesta sul caso palestinese. I ricorsi su propria iniziativa si sono conclusi con un processo e con arresti nei casi relativi alla Repubblica centro-africana, al Congo e all’Uganda, dove ordini di arresto sono stati emanati nel 2005 contro membri dell’Esercito di Liberazione del Signore [gruppo di guerriglia con connotazioni religiose responsabile di molte atrocità, ndt.]. I sospettati sono rimasti alla macchia per un decennio finché uno di loro, Dominic Ongwen, si è consegnato alla CPI. Il suo processo è in corso.

Il ricorso della Palestina alla CPI non rende pubblici i nomi delle persone accusate di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina, ma è probabile che comprendano autorità ai più alti livelli dello Stato, compresi politici e membri delle forze armate. 

Benché gli ingranaggi della giustizia internazionale siano lenti, sono stati messi in movimento. È solo questione di tempo, finché la procura dovrà decidere se aprire un’inchiesta. Se decidesse che ci sono informazioni sufficienti per acconsentire all’apertura di un’indagine, è probabile che chieda la presenza di persone che vorrebbe interrogare e indagare perché implicate nella perpetrazione di crimini, perché testimoni di questi crimini, oppure perché ne sono stati essi stessi vittime.

Resta da vedere se Netanyahu sarà ancora il primo ministro di Israele quando, e se, il procuratore decidesse di aprire un’inchiesta. Nel frattempo Netanyahu non solo si deve preoccupare dei suoi problemi legali in patria [per accuse di corruzione, ndt.], ma anche di potenziali problemi legali all’estero, che potrebbero sorgere in un futuro non molto lontano.

Per il momento potrebbe essere al sicuro – dato che gode di immunità da procedimenti penali in base alle leggi consuetudinarie internazionali in quanto capo del governo israeliano. Israele non fa parte dello Statuto di Roma e potrebbe sostenere che non è vincolato alle norme dello Statuto che tolgono l’immunità ai capi di Stato per crimini che ricadono sotto di esso. I giuristi della Palestina potrebbero sostenere al contrario che i capi di Stato non godono di immunità se sono responsabili di aver commesso crimini in base allo Statuto di Roma. Potrebbero affermare che le disposizioni dello Statuto che prevedono l’esclusione dell’immunità dei capi di Stato per crimini di guerra e crimini contro l’umanità riflettono le leggi internazionali consuetudinarie, che sono vincolanti per ogni Stato, compreso Israele, anche se Israele non ha ratificato lo Statuto.

In base alle leggi internazionali membri dell’esercito israeliano di rango inferiore ed ex-autorità di governo non sarebbero tuttavia immuni dalla giurisdizione penale. Se la CPI emanasse un mandato, qualunque Stato che faccia parte dello Statuto di Roma potrebbe applicare quel mandato agli israeliani menzionati se visitassero il loro territorio.

Come potrebbe proteggerli Israele? Potrebbe conferire lo status diplomatico a ex-ufficiali offrendo loro posizioni di ambasciatore in Stati che non sono parti in causa o promuovere funzionari a importanti posizioni nel governo.

In un caso tristemente noto, il Regno Unito fornì all’ex ministra israeliana Tzipi Livni [denunciata da uno studio legale di Londra per crimini durante l’operazione militare “Piombo fuso” contro Gaza nel 2008-09, ndt.] un’immunità per una “missione speciale”, addirittura una provvisoria competenza giurisdizionale, benché non avesse più un incarico di governo.

Dato che 123 Stati fanno parte dello Statuto di Roma, compresa la Palestina, importanti autorità israeliane potenzialmente implicate in crimini di guerra a Gaza o nell’attività di colonizzazione di Israele dovranno presumibilmente pianificare con cautela le proprie vacanze. E se i calcoli politici e legali in patria diventassero sfavorevoli, Netanyahu potrebbe unirsi a questo gruppo maledetto.

L’unica soddisfazione che questi funzionari israeliani potrebbero allora trovare è che un’indagine della CPI potrebbe probabilmente prendere di mira anche Hamas, date le sue azioni durante l’operazione “Margine protettivo” nel 2014. A differenza dei funzionari israeliani, i membri di Hamas, compresi i suoi principali dirigenti, non godono di immunità, e sarebbero un obiettivo molto più facile per la Corte.

Victor Kattan è ricercatore senior all’Istituto per il Medio Oriente dell’università nazionale di Singapore (NUS) e ricercatore associato alla facoltà di diritto nella NUS.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le accuse contro il termine “scontri”: disinformare sul massacro di Israele a Gaza

Belen Fernandez

Mercoledì 16 maggio 2018, Middle East Eye

La volontà dei principali media di veicolare la propaganda israeliana come informazione credibile evidenzia magnificamente la natura degenere dell’industria delle “notizie”.

Tutti hanno sentito il detto: “È come sparare ad un pesce in un barile” [che equivale all’italiano “Sfondare una porta aperta”, ndt.].

In questi giorni sembra che il modo di dire sia stato forse appositamente concepito per descrivere gli avvenimenti nella Striscia di Gaza, dove il 14 maggio l’esercito israeliano ha massacrato non meno di 60 palestinesi, tra cui infermieri, persone disabili e una neonata. L’occasione: le proteste palestinesi contro i 70 anni di enorme ingiustizia e di un costante contesto di brutale oppressione e blocco da parte di Israele, coronati dalla recente inaugurazione dell’ambasciata degli USA di Trump a Gerusalemme.

Attacco contro la logica

Ovviamente Israele ha attribuito la colpa agli stessi palestinesi – in quanto nessun buon attacco contro Gaza è completo senza un conseguente attacco contro la logica. Secondo l’account twitter del portavoce dell’esercito israeliano, l’episodio è avvenuto come segue: “Durante il giorno l’organizzazione terroristica Hamas ha guidato massicci e violenti attacchi, che le truppe dell’IDF hanno sventato.”

Non importa che non ci siano tracce di violenza nella foto che accompagna il tweet, che invece sembra rappresentare palestinesi giovani e vecchi in piedi e che camminano nell’incantevole paesaggio carcerario in cui Israele ha ridotto la Striscia di Gaza.

Il giornalista Sharif Abdel Kouddous, che ha informato delle proteste a Gaza per “Democracy Now” [programma statunitense di un’ora trasmesso via radio, tv e internet, ndt.], ha verificato il terribile armamento a disposizione dei palestinesi, comprese pietre, aquiloni e palloncini e qualche bottiglia molotov – nessuno dei quali, ha specificato, poteva raggiungere i soldati israeliani, “che stanno seduti dietro queste protezioni ed eliminano la gente con fucili di precisione.”

Oltre a “proiettili ad alta velocità per cecchini”, Abdel Kouddous ha notato che i medici di Gaza hanno anche rilevato l’uso da parte di Israele di pallottole a frammentazione, ed hanno “visto ferite con buchi delle dimensioni di un pugno nei fori d’uscita.” Nell’ assediata enclave costiera palestinese, che in precedenza ha ricevuto munizioni al fosforo bianco, missili e numerosi altri proiettili israeliani, sono entrati in scena anche nuovi ed entusiasmanti droni che lanciano gas lacrimogeni.

Indipendentemente dai fatti sul terreno, i principali media occidentali hanno sempre avuto la capacità di trasformare lo scenario da pesce nel barile in uno completamente diverso. Pensate a titoli come: “Pesce in barile si scontra con sparatore”, oppure “Pesce muore in un barile mentre uno sparatore reagisce contro un’aggressione.”

Oppure “Pesce attratto dalla superficie dell’acqua e nel centro di un tumulto sulla terra” – un possibile corrispettivo del titolo del New York Times sul mortale attacco aereo israeliano contro quattro ragazzini che giocavano a pallone nel 2014: “Ragazzi attratti sulla spiaggia di Gaza e nel bel mezzo del conflitto mediorientale.”

Propaganda israeliana

L’informazione sul massacro più recente è stata molto simile. Per esempio, la BBC ha prodotto il titolo d’apertura “Decine di morti mentre si profila l’apertura dell’ambasciata USA”, che di fatto trasforma la morte di molte persone in un misterioso fenomeno che casualmente è avvenuto in concomitanza con un avvenimento diplomatico.

La responsabilità è eliminata dall’equazione, e il lettore medio del titolo è in difficoltà nel dedurre il rapporto causale in questione – così come si trova in difficoltà a decifrare, per esempio, “Pesci muoiono in massa in vista di un essere più grande.” Il titolo della BBC è stato più tardi modificato con “Scontri a Gaza: 52 palestinesi uccisi nella giornata più letale dal 2014”, il cui testo sottolinea che “l’esercito israeliano afferma che 40.000 palestinesi hanno partecipato a “violenti disordini” in 13 luoghi lungo la barriera di sicurezza della Striscia di Gaza.”

Va bene, violenti disordini di massa sarebbero stati quanto meno comprensibili alla luce degli ultimi 70 anni di tentativi israeliani di distruggere la Palestina. Ma la volontà dei principali media di trasmettere la propaganda israeliana come un’informazione credibile evidenzia magnificamente la natura degenere dell’industria delle “notizie”, che, invece di dire la verità, dice falsità a favore del potere.

Da parte sua la NPR [National Public Radio, rete radiofonica nazionale USA, ndt.] ha titolato: “55 manifestanti palestinesi uccisi, secondo fonti ufficiali di Gaza, quando gli USA aprono l’ambasciata a Gerusalemme”, mentre i titoli del New York Times sono passati da “Almeno 16 palestinesi morti nelle proteste mentre gli USA si preparano ad aprire l’ambasciata a Gerusalemme”, a “Almeno 28 palestinesi morti nelle proteste mentre gli USA si preparano ad aprire l’ambasciata a Gerusalemme”, fino, finalmente, a “Israele uccide decine di persone sul confine di Gaza mentre gli USA si preparano ad aprire l’ambasciata a Gerusalemme.”

L’ultimo titolo è insolitamente chiaro per una pubblicazione che ci ha regalato “Ragazzi attratti sulla spiaggia di Gaza”, benché l’articolo in sé conservi tutto il tema degli “scontri”. Un altro articolo del Times è ancora in preparazione: “Mentre l’ambasciata USA si sposta, decine di morti a Gaza”, che evoca l’immagine di una missione diplomatica con magici poteri sismici.

Una fonte di ispirazione

Nel contempo il “Washington Times” si presenta con il più chiaramente sociopatico: “Le più mortali proteste palestinesi da anni rovinano la storica apertura dell’ambasciata a Gerusalemme”. Com’era altrettanto prevedibile, Fox News sceglie la seguente introduzione alla sua notizia del massacro: “Almeno tre dei 52 palestinesi che sarebbero stati uccisi…in scontri prima dell’apertura dell’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme secondo l’esercito israeliano erano “terroristi armati” colti mentre cercavano di piazzare una bomba nei pressi della barriera sul confine di Gaza.”

Nessuno dei soliti media sospetti si è preoccupato di spiegare come sia possibile che il termine “scontri” possa mai essere utilizzato per una situazione in cui uomini, donne, bambini e anziani palestinesi – tutti intrappolati in un pezzetto di terra senza via d’uscita – sono attaccati da un esercito israeliano che possiede il monopolio della violenza e la tendenza a utilizzare la Striscia di Gaza come il proprio poligono di tiro privato.

Di certo i media servili hanno scelto molto tempo fa da che parte stare. Ma, mentre Israele continua le sue iniziative da pesce in un barile con il pretesto dell’“autodifesa”, una scomoda realtà è diventata sempre più chiara: gli esseri umani sono scomparsi con minor facilità.

E mentre i palestinesi commemorano ora settant’anni di resistenza alla pulizia etnica da parte di Israele, la loro resilienza di fronte alla depravazione totale è una rara fonte di ispirazione in un mondo impazzito.

– Belen Fernandez  è autrice di “The Imperial Messenger: Thomas Friedman at Work” [“Il messaggero dell’impero: Thomas Friedman [giornalista del NYT noto per le sue posizioni filoisraeliane] al lavoro] edito da Verso. È una collaboratrice della rivista “Jacobin” [“Giacobino”, rivista della sinistra radicale USA, ndt.].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)