Il lavoratore Abdulfatah Obayat torturato e picchiato a morte da coloni di Gilo

StoptheWall

17 gennaio 2021 – Chronicle de Palestine

NB. L’articolo di Stop the Wall è del 18 dicembre 2020

I coloni israeliani hanno torturato e picchiato a morte un operaio palestinese sul luogo di lavoro nell’illegale colonia israeliana di Gilo. Il corpo di Abdulfatah Obayat è stato ritrovato mercoledì scorso, 16 dicembre 2020, in un edificio della colonia.

La Nuova Federazione Sindacale Palestinese considera questo efferato omicidio una delle forme di brutalità più flagranti a cui sono sottoposti i lavoratori palestinesi nelle imprese israeliane. Facciamo appello all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, alla Confederazione Sindacale Internazionale e ai sindacati perché considerino Israele e le sue imprese responsabili dei loro crimini contro i lavoratori palestinesi.

Appello all’azione

Abdulfatah Obayat, un padre trentasettenne originario di Betlemme, è stato trovato morto mercoledì in un edificio della colonia illegale di Gilo. Prima di venire ucciso, Obayat è stato crudelmente torturato da una banda di coloni israeliani fanatici.

Quando ha appreso la notizia della morte di Obayat, la sua famiglia ha pubblicato la dichiarazione che segue:

Abdulfatah è stato martirizzato dopo essere stato brutalmente aggredito da un gruppo di coloni mentre lavorava nella colonia di Gilo. Il corpo di Abdulfatah è stato ritrovato in un edificio: presentava tracce di colpi e aveva una corda attorno al collo.

Quando i coloni l’hanno ucciso, Abdulfatah non faceva altro che guadagnarsi da vivere.”

Mohammed al-Blaidi, segretario generale della Nuova Federazione Sindacale Palestinese, ha commentato in questo modo l’inumana uccisione di Obayat:

L’uccisione di Obayat si iscrive nel contesto della sistematica discriminazione eretta a sistema contro i lavoratori palestinesi nelle imprese israeliane. I nostri lavoratori subiscono regolarmente atti violenti di pestaggio e uccisione, sia da parte delle forze di occupazione israeliane che dei coloni. I maltrattamenti dei lavoratori palestinesi da parte di datori di lavoro israeliani sono un’altra forma di brutalità nei loro confronti, soprattutto in quanto non beneficiano di alcuna protezione con condizioni di lavoro disastrose e pericolose.

Dopo lo scoppio della pandemia COVID-19 gli imprenditori israeliani hanno arbitrariamente licenziato migliaia di lavoratori palestinesi negando in modo totale i loro diritti. Sfortunatamente, nel contesto di queste gravi violazioni dei loro diritti umani, non c’è un reale e concreto sostegno ai diritti dei nostri lavoratori. Facciamo appello ai sindacati di tutto il mondo perché considerino Israele responsabile di ciò boicottandolo e sanzionandolo.”

I coloni israeliani e le forze di occupazione torturano e assassinano impunemente i palestinesi. Il regime di apartheid di Israele, che sottomette i palestinesi al proprio sistema giudiziario discriminatorio, non punisce i crimini commessi dai coloni e dai soldati contro i lavoratori palestinesi.

In questa situazione di apartheid e di colonizzazione, considerare Israele responsabile delle sue continue violazioni dei diritti dei nostri lavoratori nelle imprese israeliane è un obbligo delle organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori in tutto il mondo.

Chiediamo immediatamente all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, alla Conferenza Sindacale Internazionale e ai sindacati di tutto il mondo di considerare Israele responsabile, unendosi al movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), guidato dai palestinesi, e facendo una pressione efficace e urgente sui propri governi perché agiscano:

(1) dichiarando Israele Stato che pratica l’apartheid in base alla definizione della Convenzione delle Nazioni Unite sull’apartheid (1973) e chiedendo la riattivazione della Commissione Speciale delle Nazioni Unite contro l’apartheid.

(2) mettendo al bando i beni e servizi delle colonie israeliane e interrompendo ogni attività con le imprese israeliane e internazionali che operano nelle colonie israeliane e ne ricavano profitto.

(3) garantendo che la banca dati delle Nazioni Unite sulle imprese che svolgono attività legate alle colonie israeliane, pubblicata il 12 febbraio 2020, venga aggiornata e resa pubblica ogni anno in modo trasparente.

Il sistema israeliano di oppressione a tre livelli – apartheid, colonialismo di insediamento e occupazione – è un’impresa economica che si è sviluppata grazie allo sfruttamento di centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi.

La decisione di Obayat e di molti altri di lavorare nelle colonie israeliane non è affatto il risultato di una libera scelta. Lo strangolamento dell’economia palestinese e le politiche israeliane che minano ogni sviluppo dell’economia palestinese creano gli alti tassi di disoccupazione e di povertà che obbligano i lavoratori come Obayat a cercare lavoro nelle colonie.

Il fatto di spogliare i palestinesi delle risorse economiche chiave, principalmente le loro terre e le loro risorse idriche, è una delle principali ragioni che li spingono a cercare lavoro nelle colonie israeliane. Senza terra né acqua, non è possibile alcuno sviluppo economico palestinese, né oggi né in futuro.

Per guadagnare da vivere a sé e alla propria famiglia, Obayat ha dovuto lavorare nella colonia di Gilo, edificata sulla terra rubata al suo popolo. Gilo, costruita sulle terre di Beit Jala, Beit Safafa e Sharafat, si trova a sud-ovest di Gerusalemme est.

Creata nel 1971 e attualmente abitata da circa 30.000 coloni illegali, Gilo gioca un ruolo nell’isolamento e nella ghettizzazione di Gerusalemme, in quanto la isola da Betlemme, da Hebron e dal resto della Cisgiordania occupata.

La colonia è stata costruita principalmente su una cava da cui provengono le pietre che i palestinesi hanno utilizzato per costruire numerose strutture a Betlemme e a Gerusalemme. Questa cava rappresentava la principale fonte di reddito per gli abitanti palestinesi della regione.

La colonia di Gilo ha anche ridotto di molto le attività agricole dei contadini di Al Walajeh. Come ogni colonia di questa regione, Gilo ha anche limitato l’accesso dei palestinesi alle risorse naturali, soprattutto all’acqua.

Nel contesto della diffusione della pandemia da COVID-19, Israele ne approfitta per preservare la propria economia sfruttando centinaia di migliaia di lavoratori palestinesi, riducendoli in condizioni di lavoro inumane e gravose.

Lo sfruttamento e i sistematici maltrattamenti dei lavoratori palestinesi prima e dopo la propagazione della pandemia sono un elemento fondamentale dell’apartheid e delle pratiche colonialiste di Israele, che non fanno che prosperare.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Vittoria del BDS! Siviglia ha annullato la fiera europea delle armi elettroniche

Palestinian BDS National Committee

14 dicembre 2020 – Chronicle de Palestine

In un comunicato stampa pubblicato oggi dal Comune di Siviglia l’assessore comunale per la casa, il turismo e la cultura, Antonio Muñoz, ha annunciato l’annullamento della fiera degli armamenti “Electronic Warfare Europe”, che avrebbe dovuto svolgersi nel palazzo delle esposizioni e dei congressi di Fibes, a Siviglia, nel maggio 2021.

La stessa fiera era già stata annullata a Liverpool, nel Regno Unito, dove un partner era Elbit Systems, la più grande industria bellica privata israeliana, le cui armi sono regolarmente utilizzate dall’esercito israeliano per uccidere e mutilare civili palestinesi.

L’annullamento di Liverpool è avvenuto dopo che una forte coalizione locale – Against the Electronic Arms Fair [Contro la Fiera delle Armi Elettroniche], insieme alla Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina] (PSC), la Campaign Against Arms Trade [Campagna contro il Commercio delle Armi] (CAAT) e la Campaign for Nuclear Disarmament [Campagna per il Disamo Nucleare] (CND) – ha chiesto al consiglio municipale di Liverpool di annullare l’evento che era contrario all’etica in quanto incoraggiava le violazioni dei diritti umani.

Citando l’annullamento di Liverpool e prevedendo le ripercussioni negative per la città, il consiglio municipale di Siviglia ha dichiarato che la decisione del governo era stata presa a causa dell’ “aspetto negativo di collegare l’immagine della città a importante sede di un avvenimento controverso che ha ripercussioni nazionali e internazionali.”

La piattaforma Stop Ferias de Armas [Stop alle fiere degli armamenti] ha accolto l’ annullamento della fiera delle armi di Siviglia dichiarando:

Non vogliamo essere complici delle armi utilizzate per reprimere popoli oppressi come i palestinesi o i yemeniti. Le istituzioni spagnole non devono autorizzare le fiere degli armamenti nelle loro strutture.

Aggiunge:

Speriamo che il consiglio municipale di Siviglia sia coerente ed annulli anche gli incontri sull’aereospaziale e la difesa di Siviglia 2021, patrocinata da Airbus, una società che trae profitto dai crimini della guerra nello Yemen.

La piattaforma Stop Feria de Armas en Sevilla, formata da più di venti organizzazioni, aveva mobilitato in poco tempo una forte opposizione sociale, inviando una lettera al sindaco di Siviglia, organizzando un webinar pubblico sul militarismo, con una larga copertura da parte dei principali giornali e si era coordinata con i partiti politici locali che si opponevano anche loro alla fiera delle armi.

Parlando a nome del movimento BDS che milita per i diritti dei palestinesi e che ha organizzato campagne di boicottaggio e di disinvestimento contro Elbit Systems e altre compagnie israeliane degli armamenti, Alys Samson Estapé ha dichiarato:

I gruppi progressisti, pacifisti e antirazzisti non vogliono più fiere degli armamenti in Europa; prima hanno fatto annullare quella di Liverpool e ora quella di Siviglia. Non c’è posto per le armi nelle nostre città. Invece di autorizzare le fiere delle armi, le istituzioni dovrebbero porre fine ad ogni commercio delle armi con regimi oppressivi come Israele, che testano i loro armamenti sui palestinesi, poi le vendono per reprimere la dissidenza ovunque nel mondo.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




L’inchiesta della CPI renderà giustizia alla Palestina?

Romana Rubeo, Ramzy Baroud

9 luglio 2020 – Chronicle de Palestine

In passato ci sono stati numerosi tentativi di obbligare i criminali di guerra israeliani a rispondere del proprio operato.

Il caso dell’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon (noto, tra l’altro, con il soprannome di “macellaio di Sabra e Shatila”), è particolarmente significativo, in quanto nel 2002 le sue vittime tentarono di farlo comparire davanti a un tribunale belga.

Come ogni altra iniziativa, la possibilità di un processo in Belgio è stata abbandonata in seguito a pressioni americane. La storia sembra ripetersi.

Il 20 dicembre la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale (CPI), Fatou Bensouda, ha deciso di aver raccolto elementi sufficientemente solidi per avviare un’inchiesta per presunti crimini di guerra commessi nella Cisgiordania occupata, a Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza. La decisione senza precedenti della CPI concludeva che non c’era “nessuna ragione sostanziale per credere che un’inchiesta non fosse al servizio degli interessi della giustizia.”

Da quando Bensouda, benché con molto ritardo, ha preso la decisione, l’amministrazione americana ha rapidamente preso misure per bloccare il tentativo della Corte di far sì che i responsabili israeliani rispondano del proprio operato. L’11 giugno il presidente americano Donald Trump ha firmato un decreto che impone sanzioni contro i membri dell’organo giudiziario internazionale, in riferimento alle inchieste della CPI sui crimini di guerra americani in Afghanistan e quelli israeliani in Palestina.

Gli Stati Uniti riusciranno ancora una volta a bloccare un’indagine internazionale?

Il 19 giugno abbiamo parlato con il dottor Triestino Mariniello, membro del gruppo di giuristi che rappresenta le vittime di Gaza davanti alla CPI. Mariniello è anche docente all’università John Moore di Liverpool, nel Regno Unito.

Ci sono molti dubbi sulla serietà, la volontà o la capacità della CPI di arrivare a questo processo. A un certo punto sono state poste questioni tecniche per sapere se la giurisdizione della CPI si estendesse alla Palestina occupata. Questi dubbi sono stati superati?

Lo scorso dicembre la procuratrice ha deciso di porre la seguente domanda alla Camera preliminare: “La CPI è competente, cioè, in base allo Statuto di Roma, la Palestina è uno Stato, non in generale in base al diritto internazionale, ma almeno secondo lo Statuto istitutivo della CPI? E, in caso affermativo, qual è la competenza territoriale della Corte?”

La procuratrice ha sostenuto che la Corte è competente per i crimini commessi in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e a Gaza. Questa richiesta alla Camera preliminare non era necessaria per una ragione molto semplice: la domanda è stata presentata dallo Stato di Palestina. Così, quando uno Stato (che faccia parte della CPI) deferisce una situazione alla procura, questa non ha bisogno dell’autorizzazione della Camera preliminare. Ma analizziamo le cose in un contesto più ampio.

L’impegno ufficiale dello Stato di Palestina con la CPI è iniziato nel 2009, in seguito alla guerra di Gaza (l’operazione “Piombo fuso”). All’epoca la Palestina aveva già accettato la giurisdizione della CPI. Al precedente procuratore ci sono voluti più di due anni per decidere se la Palestina fosse o meno uno Stato. Dopo tre anni ha dichiarato: “Non sappiamo se la Palestina è uno Stato, quindi non sappiamo se possiamo riconoscere la giurisdizione della CPI.” In seguito questa questione è stata sollevata davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e all’assemblea degli Stati Membri. In altri termini, hanno delegato la risposta a degli organi politici e non alla Camera preliminare.

Questa indagine non c’è mai stata e non abbiamo mai ottenuto giustizia per le vittime di quella guerra.

Nel 2015 la Palestina ha accettato la giurisdizione della Corte ed è anche diventata uno Stato Membro. Tuttavia la Camera preliminare ha deciso di coinvolgere un certo numero di Stati, organizzazioni della società civile, Ong, accademici ed esperti per porre loro la domanda: in base allo Statuto di Roma la Palestina è uno Stato? La risposta è stata la seguente: la Camera preliminare si pronuncerà su questa questione dopo aver ricevuto le opinioni delle vittime, degli Stati, delle organizzazioni della società civile… e si pronuncerà nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.

Oltre all’amministrazione Trump, altri Paesi occidentali, come la Germania e l’Australia, fanno pressione sulla CPI perché abbandoni l’inchiesta. Ci riusciranno?

Ci sono almeno otto Paesi che sono apertamente contrari a un’indagine sulla situazione palestinese. La Germania è una di essi. Certi altri Paesi, ad essere onesti, ci hanno sorpresi perché almeno quattro di essi, l’Uganda, il Brasile, la Repubblica Ceca e l’Ungheria, avevano esplicitamente riconosciuto che la Palestina è uno Stato di diritto internazionale, e tuttavia ora presentano dichiarazioni davanti alla Camera preliminare della CPI in cui sostengono che non lo è più.

Naturalmente la questione è un po’ più complessa, ma in fondo questi Paesi sollevano davanti alla CPI argomenti politici che non hanno alcuna base giuridica. È sorprendente che questi Stati da una parte sostengano di essere favorevoli a una Corte Penale Internazionale indipendente, ma da un’altra cerchino di esercitare una pressione politica (su questo stesso organo giudiziario).

L’11 giugno Trump ha firmato un decreto in cui impone sanzioni alle persone legate alla CPI. Gli Stati Uniti e i loro alleati possono bloccare l’inchiesta della CPI?

La risposta è no. L’amministrazione Trump fa pressione sulla CPI. Per “pressione” intendo principalmente riguardo alla situazione in Afghanistan, ma anche a quella israelo-palestinese. Così ogni volta che c’è una dichiarazione di Trump o del segretario di Stato Mike Pompeo riguardo alla CPI, non dimenticano mai di citare la questione dell’Afghanistan.

In effetti la procuratrice sta facendo un’indagine anche su presunti crimini di guerra commessi da membri della CIA e soldati americani. Finora questa pressione non è stata particolarmente efficace. Nel caso dell’Afghanistan la Corte d’appello ha direttamente autorizzato la procuratrice ad aprire un’inchiesta, modificando una decisione presa dalla Camera preliminare.

Le successive amministrazioni americane non sono mai state molto favorevoli alla CPI e il principale problema a Roma durante la redazione dello Statuto nel 1998 riguardava proprio il ruolo del Procuratore. Fin dall’inizio gli Stati Uniti si sono opposti a un ruolo indipendente del Procuratore, o che egli potesse aprire un’inchiesta senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Questa opposizione risale alle amministrazioni Clinton, Bush, Obama e Trump.

Tuttavia oggi assistiamo a una situazione totalmente nuova, in quanto l’amministrazione americana è pronta ad imporre sanzioni economiche e restrizioni al rilascio di visti al personale legato alla CPI e forse anche ad altre organizzazioni.

L’articolo 5 dello Statuto di Roma – il documento che ha fondato la CPI – presenta una definizione allargata di ciò che costituisce “crimini gravi”, cioè crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione. Si potrebbe quindi sostenere che Israele dovrebbe essere considerato responsabile di tutti questi “crimini gravi”. Tuttavia la CPI ha scelto quello che si chiama il “campo di applicazione ristretto”, per cui l’indagine riguarderà solo la componente dei crimini di guerra. Perché?

Se esaminiamo la richiesta della procuratrice alla Camera preliminare, in particolare il paragrafo 94, è sorprendente constatare che la portata dell’inchiesta è piuttosto ridotta, e le vittime lo sanno. Non include (nel quadro della sua inchiesta sui crimini di guerra) che alcuni avvenimenti legati alla guerra di Gaza del 2014, crimini commessi nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno” e le colonie ebraiche (illegali).

È sorprendente che non ci sia nessun riferimento alle presunte azioni di “crimini contro l’umanità” che, come dicono le vittime, sono ampiamente documentate. Non c’è alcun riferimento agli attacchi sistematici condotti dalle autorità israeliane contro la popolazione civile in Cisgiordania, a Gerusalemme est o a Gaza. L’ “ambito di applicazione ridotto”, che esclude i crimini contro l’umanità, è un elemento sul quale la procuratrice dovrebbe riflettere. La situazione generale a Gaza è ampiamente ignorata; non c’è alcun riferimento all’assedio che dura da 14 anni; non c’è alcun riferimento all’insieme delle vittime della guerra contro Gaza nel 2014.

Ciò detto, il campo d’indagine non è vincolante per il futuro. La procuratrice può decidere, in qualunque momento, di includere altri crimini. Speriamo che ciò avvenga, perché in caso contrario molte vittime non otterranno mai giustizia.

Ma perché la Striscia di Gaza viene esclusa? È a causa del modo in cui i palestinesi hanno presentato la loro causa o di come la CPI ha interpretato il caso palestinese?

Non penso che si debba dare la colpa ai palestinesi, perché le organizzazioni palestinesi hanno presentato (una grande quantità di) prove. Penso che si tratti di una strategia di perseguimento giudiziario a questo stadio e speriamo che ciò cambi in futuro, in particolare riguardo alla situazione a Gaza, dove è stato ignorato persino il numero totale di vittime. Più di 1.600 civili, tra cui donne e minori, sono stati uccisi.

A mio parere ci sono parecchi riferimenti al concetto stesso di conflitto. La parola “conflitto” si basa sul presupposto che ci siano due parti che si affrontano allo stesso livello e che l’occupazione israeliana in sé non sia oggetto di un’attenzione sufficiente.

Inoltre sono stati esclusi tutti i crimini commessi contro i prigionieri palestinesi, come la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Non è stato incluso neppure l’apartheid in quanto crimine contro l’umanità. Ancora una volta, ci sono prove schiaccianti che questi crimini vengono commessi contro i palestinesi. Speriamo che in futuro ci sarà un approccio diverso.

Quali sono secondo lei i diversi scenari e tempi che potrebbero risultare dall’inchiesta della CPI? Cosa dobbiamo aspettarci?

Penso che se esaminiamo i possibili scenari dal punto di vista dello Statuto di Roma, della legge vincolante, non credo che i giudici abbiano altra possibilità che confermare alla procura che in base allo Statuto di Roma la Palestina sia uno Stato e che la giurisdizione territoriale comprenda la Cisgiordania, Gerusalemme est e Gaza.

Mi sembrerebbe estremamente sorprendente se i giudici arrivassero ad una conclusione diversa. Lo Stato palestinese è stato ratificato nel 2015, e quindi non si può tornare dai palestinesi e dire loro: “No, voi non siete più membri.” Nel frattempo la Palestina ha partecipato all’assemblea degli Stati Membri, fa parte della commissione di sorveglianza della CPI ed ha preso parte a decisioni importanti.

È probabile che la procuratrice ottenga in via libera dalla Camera preliminare. Se ciò non avviene la procuratrice può (ancora) portare avanti l’inchiesta.

Gli altri possibili scenari non possono essere che negativi, perché impedirebbero alle vittime di ottenere giustizia. Se la questione viene portata davanti alla CPI è perché le vittime non hanno mai ottenuto giustizia davanti ai tribunali nazionali: lo Stato di Palestina non può giudicare i cittadini israeliani, mentre le autorità israeliane non vogliono giudicare le persone che hanno commesso dei crimini internazionali.

Se i giudici della CPI decidessero di non accettare la giurisdizione sui crimini di guerra commessi in Palestina, ciò priverebbe le vittime dell’unica possibilità di ottenere giustizia.

Uno scenario particolarmente pericoloso sarebbe la decisione dei giudici di confermare la competenza della CPI su certe parti del territorio palestinese escludendone altre, cosa che non ha alcun fondamento giuridico in base al diritto internazionale. Ciò sarebbe pericoloso, perché darebbe una legittimità internazionale a tutte le misure illegali che le autorità israeliane, ed ora anche l’amministrazione Trump, mettono in atto, compreso il piano di annessione, totalmente illegale (in base al diritto internazionale).

* Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e direttore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è “The Last Earth: A Palestinian Story” [L’ultima terra: una storia palestinese] (Pluto Press). Baroud ha un dottorato di studi sulla Palestina dell’università di Exeter ed è ricercatore associato al Centro Orfalea di studi mondiali e internazionali, università della California.

* Romana Rubeo è traduttrice freelance e vive in Italia. È titolare di un master in lingua e letteratura straniera ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica. Lettrice accanita, si interessa di musica, politica e geopolitica.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)