Covid-19 in Palestina : la duplice lotta dei palestinesi contro l’epidemia e l’apartheid

Samah Jabr

26 aprile 2020Chronique de Palestine

Ho scritto questo articolo in una giornata che ha visto la conferma di un aumento improvviso e in controtendenza dei casi di Covid-19 tra i palestinesi del piccolo quartiere di Silwan, a Gerusalemme est.

In quello stesso giorno dei soldati israeliani al posto di controllo di Qalandia mi hanno negato l’accesso al mio luogo di lavoro a Ramallah, nonostante gli avessi mostrato il mio documento di responsabile ufficiale d’urgenza del Ministero della Salute palestinese – che è stato ignorato dai soldati con queste parole: “Noi non riconosciamo un simile documento.”

Nella Palestina occupata la pandemia di Covid-19 ha già colpito le diverse comunità palestinesi, ciascuna delle quali dispone di un sistema sanitario fragile, non integrato nel sistema nazionale. Al tempo stesso è documentato il fatto che i palestinesi di Gerusalemme e quelli del 1948 [cioè con cittadinanza israeliana, ndtr.], che sono in carico al sistema sanitario israeliano, soffrono da tempo di disuguaglianze nelle cure.

Tali disuguaglianze hanno già un impatto sulle patologie croniche, sulla speranza di vita e sui tassi di mortalità. La risposta del sistema sanitario israeliano al Covid-19 ha accentuato il divario tra la maggioranza ebrea (80% della popolazione) e la minoranza palestinese (20%), servite dallo stesso sistema.

Nonostante che la minoranza palestinese sia sovra-rappresentata tra gli operatori sanitari all’interno del sistema sanitario israeliano, le loro comunità sono state tuttavia insufficientemente servite durante questa pandemia. Le forniture di materiale informativo in lingua araba sono state tardive, l’accesso ai servizi Covid-19 nelle città arabe è stato difficoltoso. Non vi è stata una rappresentanza araba nel Comitato di salute d’ emergenza e vi è stata una enorme carenza nei test.

Tutti questi elementi hanno contribuito all’aumento dei casi che attualmente osserviamo nelle comunità arabe. Mentre mobilitava la maggioranza ebrea per affrontare la pandemia, il Primo Ministro israeliano si è impegnato in una odiosa campagna discriminatoria contro la partecipazione araba nel governo ed ha criticato ingiustamente i palestinesi affermando che non rispettavano le regole di isolamento – forse per fornire in anticipo una falsa spiegazione nel caso di un aumento del numero di palestinesi contagiati.

In realtà i quartieri palestinesi hanno aderito alle regole relative alla pandemia più scrupolosamente di quelli ebrei, benché fossero trattati peggio. Il sovrintendente della polizia Yaniv Miller, incaricato di assistere le pattuglie nelle zone ebraiche che non rispettavano l’isolamento, ha dichiarato alle reclute dell’esercito: “Vi ricordo, ragazzi, che non ci troviamo nei territori (occupati) della Cisgiordania, né sul confine. Un poliziotto ci mette molto a sparare. Un poliziotto spara solo come ultima risorsa dopo che hanno sparato su di lui,” (riportato da Haaretz il 3 aprile 2020).

Con un altro tentativo di mascherare le ineguaglianze nella prestazione di servizi sanitari, la ministra israeliana della Cultura Miri Regev [del partito di destra Likud, ndtr.] è persino riuscita a scovare due cittadini arabi, Ahmad Balawneh, un infermiere, e Yasmine Mazzawi, un’ addetta alle ambulanze, per far loro accettare il suo invito ad accendere una torcia durante le commemorazioni del Giorno dell’Indipendenza [israeliana] il 29 aprile, che è anche il giorno della Nakba [lett. catastrofe, la pulizia etnica operata dalle milizie sioniste, ndtr.] palestinese…Un insulto collettivo, camuffato da premio!

La situazione in Cisgiordania e a Gaza riflette i differenti livelli di oppressione politica cui sono sottoposte le due regioni. Recentemente ho descritto le misure prese dal Ministero della Salute in Cisgiordania in un’intervista, che spiega che le rigide misure riguardo all’isolamento, con tutti i loro devastanti effetti economici, sono la miglior linea di condotta che l’Autorità Nazionale Palestinese potesse adottare, stante la nostra mancanza di risorse a livello di cure sanitarie specialistiche e l’assenza di sovranità sui nostri confini.

Gaza è ancor meno preparata e più svantaggiata: lì la situazione potrebbe essere molto pericolosa a causa dell’impatto assai negativo dell’assedio e delle condizioni socio-economiche devastanti. La popolazione di Gaza sopravvive con una densità di 5.000 abitanti per km2 e una forte incidenza di anemia, malnutrizione e insicurezza alimentare.

Gli abitanti di Gaza soffrono di una serie altrettanto rilevante di patologie croniche e di problemi di salute mentale; sono alla mercé di una vasta gamma di poteri oppressivi che decidono su qualunque cosa e su chiunque entri e fugga dalla sua gabbia. L’interruzione degli aiuti americani – una punizione politica – ha compromesso l’UNRWA (agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr.), gli ospedali palestinesi di Gerusalemme e molti altri ambiti del sistema sanitario in Palestina.

Malgrado questa realtà, Israele intende vantarsi del suo sostegno, della sua generosità e del suo aiuto all’Autorità Nazionale Palestinese. Le Nazioni Unite hanno lodato Israele per la sua “eccellente” collaborazione con l’Autorità Nazionale Palestinese nella lotta contro il Covid-19 attraverso diverse fasi: il trasferimento di 25 milioni di dollari all’Autorità Nazionale Palestinese (a partire dai soldi delle imposte precedentemente trattenuti!), l’invio di attrezzature mediche in Cisgiordania e a Gaza – tra cui 20 apparecchi respiratori da aggiungersi agli 80 già esistenti – , 300 kit per i test e 50.000 mascherine.

Israele ha lasciato passare verso i territori palestinesi i materiali ordinati dall’OMS ed ha consentito a Gaza di ricevere denaro dal Qatar. Quelli che sono impressionati dalla bontà di Israele sembrano ignorare l’articolo 56 dellaquarta Convenzione di Ginevra che stabilisce: “Con tutti i mezzi di cui dispone, la potenza occupante ha il dovere di assicurare e  di mantenere, con la collaborazione delle autorità nazionali e locali, i presidi e i servizi medici e ospedalieri, la sanità pubblica e l’igiene nel territorio occupato, in particolare per ciò che riguarda l’adozione e l’applicazione delle misure profilattiche e preventive necessarie a lottare contro la diffusione delle malattie contagiose e delle epidemie. Il personale medico di tutte le categorie è autorizzato a svolgere le proprie funzioni.”

Coloro che fanno gli elogi di Israele sembrano anche ignorare che l’epidemia dell’occupazione continua ad infierire come sempre, con le demolizioni di case – mentre tutti sono esortati a “restare a casa” – le uccisioni e gli arresti, mentre si pianifica l’annessione della Valle del Giordano.

Passa inosservata l’unica prescrizione specifica per la pandemia: che i soldati israeliani devono indossare un equipaggiamento di protezione individuale quando entrano a Betlemme per arrestare delle persone. E passa inosservato il fatto che le forze israeliane letteralmente scaricano gli operai palestinesi ai posti di controllo della Cisgiordania ogni volta che sospettano che questi lavoratori siano contagiati.

Non si nota neanche il tentativo del governo israeliano di scambiare prigionieri israeliani con gli aiuti sanitari a Gaza! La verità è che Israele è responsabile della malattia dei palestinesi e del deterioramento del loro benessere, cosa che avrà ripercussioni sulla nostra epigenetica (*) per le future generazioni.

In queste circostanze i palestinesi si uniscono a tutti coloro che oggi sulla Terra lottano contro la pandemia. Facendolo, intendiamo affermare il nostro desiderio di sovranità e ci sentiamo anche meglio preparati ad affrontare la chiusura e l’incertezza di molte altre comunità in cui si litiga per acquistare armi da fuoco o stoccare le merci dei supermercati, o procurarsi materiale sanitario al mercato nero.

In Palestina cerchiamo di accettare questa sfida con spirito di collaborazione sociale e di altruismo. I nostri risultati ci permettono di dire che “fin qui va tutto bene” e ci rendiamo conto che questa non è la tappa più difficile nella nostra lunga lotta per l’autodeterminazione e per la libertà.

L’urgenza dovuta alla pandemia infatti contribuisce a rafforzare la fiducia dei palestinesi nelle nostre capacità di essere indipendenti e non ci sentiamo soli in questa battaglia. Al di là di ciò, crescono le nostre speranze di poter utilizzare l’ambito della medicina come una forma di diplomazia in tempi di crisi, creando dei canali per collaborare con altri Paesi che ci avevano lasciati soli nella nostra lotta nazionale….

L’attuale crisi non deve impedirci di lavorare per i nostri obbiettivi a lungo termine. È ora più urgente che mai mettere fine all’assedio di Gaza e al sistema di apartheid che riduce la Palestina ad un incubatore di epidemie sanitarie e sociali.

Nota :

(*) Meccanismo che modifica la fisionomia dei geni.

La dottoressa Samah Jabr è una psichiatra che lavora a Gerusalemme est e in Cisgiordania. Attualmente è responsabile dell’Unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese. Ha insegnato in università palestinesi e internazionali. La dottoressa Jabr funge spesso da consulente delle organizzazioni internazionali in materia di sviluppo della salute mentale. È anche una prolifica scrittrice. Il suo ultimo libro è stato tradotto in francese: ‘Dietro i fronti – cronache di una psichiatra psicoterapeuta palestinese sotto occupazione’ [ed. italiana: “Dietro i fronti”, Sensibili alle foglie, 2019].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)

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Un suicidio a Gaza

Sarah Helm

26 aprile 2020Chronique de Palestine

La morte di un giovane e talentuoso scrittore palestinese ha messo in luce un forte aumento del numero di suicidi.

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Nota redazionale : questo articolo è stato scritto nel maggio 2018, quindi quasi due anni fa. Riteniamo comunque interessante proporlo ai lettori in quanto rappresenta una intensa descrizione della situazione drammatica vissuta a Gaza, in particolare dai giovani, e dei problemi anche di carattere psichiatrico derivante dall’assedio israeliano, a cui negli ultimi tempi si è aggiunto il problema della pandemia da coronavirus, di cui naturalmente questo articolo non parla.

Una notte d’agosto 2017 Mohammed Younis, uno studente di 22 anni, quando è tornato a casa in un quartiere relativamente benestante di Gaza era agitato. Era depresso, ricorda sua madre, Asma. Ma non si è troppo preoccupata quando lui si è chiuso nella sua stanza.

Scrittore talentuoso i cui racconti, per molto tempo pubblicati sulla sua pagina Facebook, avevano conquistato un ampio pubblico, Mohammed stava per conseguire la laurea in farmacia e si era garantito un voto eccellente. Nei suoi scritti esprimeva il dolore e la disperazione della sua generazione. Solo i libri gli permettevano di evadere. Spesso si isolava per leggere e scrivere o per fare esercizio con il sacco da boxe.

La mattina seguente Mohammed non si è svegliato. Quando Asma, con l’aiuto di suo fratello Assad, ha forzato la porta della stanza, lo ha trovato morto. Si era soffocato.

La popolarità di Mohammed sulle reti sociali era tale che l’annuncio della sua morte ha suscitato un’ondata di choc, tristezza e ammirazione, a Gaza e al di fuori. “Era un combattente che aveva come armi solo le sue storie tristi”, si poteva leggere tra i numerosi commenti postati su Facebook. Ma questo cordoglio pubblico seguito alla morte di un giovane scrittore di talento segnalava che il suicidio di Mohammed non era che una tragedia in più in un territorio in cui migliaia di giovani abbreviano la propria esistenza. Era ormai impossibile negare una realtà sulla bocca di molti: la sofferenza provocata dall’assedio e la disperazione riguardo al futuro, soprattutto tra i giovani talenti gazawi, comportano una preoccupante recrudescenza dei suicidi.

I terribili eventi che si sono verificati la scorsa settimana nella zona cuscinetto di Gaza hanno attirato l’attenzione di tutto il mondo sulle sofferenze e la disperazione dei palestinesi di Gaza, quando decine di migliaia di persone hanno rischiato la vita per protestare contro il loro imprigionamento dietro le barriere e i muri di Gaza. Dall’inizio della Grande Marcia del Ritorno, una serie di manifestazioni che sono cominciate a fine marzo 2018, sono state uccise più di 100 persone, soprattutto per mano dei cecchini israeliani schierati dietro la barriera di recinzione.

Spesso si sarebbe detto che questi manifestanti si lanciassero letteralmente contro i proiettili israeliani. All’inizio delle proteste ho discusso della zona cuscinetto con dei ragazzi che hanno confidato che non gli importava di morire. “Noi moriamo a Gaza comunque. Possiamo ugualmente essere uccisi dai proiettili”, ha affermato un adolescente accanto alla frontiera vicino alla città di Khan Younis. Era con degli amici che la pensavano allo stesso modo; uno di loro era già stato colpito ad una gamba ed era in sedia a rotelle.

Se le cineprese di tutto il mondo si avventurassero un po’ più dentro a Gaza, nelle strade e dietro le porte delle case, vedrebbero la disperazione in quasi tutte le famiglie. Dopo dieci anni di assedio, i due milioni di abitanti di Gaza che vivono ammassati in una minuscola striscia di terra si ritrovano senza lavoro, con un’economia distrutta, privati del minimo indispensabile per vivere decentemente – elettricità o acqua corrente – e senza alcuna speranza di libertà né alcun indizio che la loro situazione possa cambiare. L’assedio spezza gli animi, spingendo i più vulnerabili al suicidio, in proporzioni mai viste prima.

Fino a poco tempo fa i suicidi erano rari, in parte a causa della resilienza dei palestinesi, acquisita nel corso di 70 anni di conflitto, e anche per via di sistemi di clan solidi, ma soprattutto perché darsi la morte è proibito nelle società musulmane tradizionali. È solo quando il suicidio diventa un atto di jihad [guerra santa, anche in senso spirituale, ndtr.] che i morti vengono considerati martiri destinati al paradiso, mentre gli altri vanno all’inferno.

In quasi 30 anni di reportage da Gaza, prima del 2016 non ho quasi mai sentito parlare di suicidi. All’inizio di quell’anno, nove anni dopo l’inizio dell’assedio, una chirurga ortopedica inglese che lavorava come volontaria all’ospedale al-Shifa di Gaza mi ha informato che lei e i suoi colleghi stavano constatando un certo numero di ferite inspiegabili, provocate secondo loro da cadute o da salti da edifici alti.

Alla fine del 2016 i suicidi erano diventati così frequenti che il fenomeno ha cominciato ad essere di dominio pubblico. I dati forniti dai giornalisti locali lasciano intendere che il numero dei suicidi nel 2016 è stato almeno tre volte superiore a quello del 2015. Ma secondo gli esperti sanitari di Gaza, se i numeri riportati dai media indicano senz’altro un sostanziale aumento, essi sottostimano ampiamente il tasso reale. I suicidi sono “mascherati” da cadute o altri incidenti e le false dichiarazioni e la censura sono moneta corrente, a causa della stigmatizzazione del suicidio.

Comunque dal 2016 Gaza ha anche conosciuto un’ondata di atti di immolazione durante i quali degli uomini si sono dati fuoco in pubblico.

Non assistevamo a questo genere di eventi catastrofici da dieci anni”, afferma il dottor Youssef Awadallah, psichiatra a Rafah, città situata al confine tra Gaza e l’Egitto. I professionisti della salute mentale e i parenti dei defunti accusano gli effetti dell’assedio che, secondo loro, è molto più dannoso per il benessere – mentale e fisico – della popolazione delle continue guerre. I medici di Gaza avvertono che il prolungato assedio del territorio ha provocato un’“epidemia” di problemi mentali di cui il crescente numero di suicidi non è che un aspetto – in particolare si riferiscono all’aumento dei casi di schizofrenia, di sindrome da stress post-traumatico, di tossicodipendenza e di depressione. Per la prima volta l’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, ha cominciato a verificare eventuali tendenze suicidarie in tutti i pazienti sottoposti a cure sanitarie primarie, in seguito a ciò che viene descritto come “un aumento senza precedenti” di decessi.

Uomini e donne di tutte le età e di tutti gli strati sociali sono vulnerabili alle pulsioni suicide, affermano alcuni medici di Gaza. In uno stesso giorno di marzo, una ragazzina di15 anni e un ragazzo di 16 si sono impiccati. Tra le vittime ci sono uomini disperati perché non possono sopperire alle necessità della famiglia, donne e bambini vittime di maltrattamenti, spesso in situazioni di povertà estrema e di sovraffollamento ed anche donne incinte che affermano di non voler mettere al mondo figli a Gaza. In aprile una donna incinta di sette mesi si è tagliata le vene.

Tra i maggiormente vulnerabili si trovano gli studenti più brillanti di Gaza, alcuni dei quali si sono suicidati appena prima o poco dopo aver conseguito il diploma. In marzo, mentre intervistavo a casa sua un uomo d’affari fallito, ho visto la fotografia di un uomo dall’aspetto intelligente, con gli occhiali, messa ben in evidenza – al punto che ho creduto che si trattasse di un “martire” ucciso durante un conflitto. Ma il suo ritratto non presentava nessuna delle iconografie simili ai poster dei martiri che si possono vedere dovunque a Gaza. Avevo un interprete con me e lui ha riconosciuto la foto: il figlio dell’uomo d’affari era uno dei suoi amici più brillanti all’università. “Si è impiccato, ha confidato l’uomo d’affari. Non vedeva futuro a Gaza.”

Qualche mese prima delle impressionanti scene di massacri che hanno accompagnato la Grande Marcia del Ritorno, la storia di Mohmmed Younis aveva particolarmente catturato l’attenzione. Non solo perché la sua scrittura, con le sue rappresentazioni creative della vita a metà dei gazawi, suscitava ammirazione, ma anche perché dopo la sua morte alcuni hanno iniziato a descriverlo come un martire. “È più che un martire”, ha affermato sua madre.

Secondo alcuni suoi amici ha combattuto il nemico con la penna ed è morto in quanto vittima dell’assedio. Alla sua morte, Mohammed è stato anche affettuosamente onorato per il suo coraggio ed i suoi scritti da parte di molti suoi fan sulle reti sociali e anche dal Ministro della Cultura palestinese Ehab Bseiso in un elogio funebre. Membro dell’Autorità Nazionale Palestinese laica al potere in Cisgiordania, Bseiso è parso lasciar intendere di considerare Mohammed come un martire, affermando che non aveva “bisogno di scusarsi per la sua precoce dipartita”. Le sue storie non saranno mai dimenticate, ha aggiunto: “Tu resterai uno dei giganti del nostro tempo, Mohammed.”

Ma questa discussione sul “martirio” di Mohammed ha diffuso la paura a Gaza, soprattutto tra i genitori che temono che i loro figli facciano lo stesso, se pensano di poter evitare l’inferno. “Vediamo i nostri figli a scuola e all’università impegnarsi duramente ed essere impazienti di entrare nel mondo, trovare un lavoro ed essere normali – poi più niente”, mi ha confidato il padre di due laureati. “Se il suicidio deve essere considerato una morte “nobile”, altri potrebbero intraprendere questa strada. È molto pericoloso.”

Forse lo stesso Mohammed si è chiesto se potesse essere considerato un martire. In “Il martire sconosciuto”, un racconto pubblicato postumo in una raccolta intitolata “Foglie d’Autunno”, parla di un corpo non identificato portato all’ospedale al-Shifa, dove delle famiglie cercano di identificarlo. “Mi riconosceranno?” si chiede il narratore.

Uno dei luoghi di lettura preferiti da Mohammed era il caffè del giardino dell’hotel Mama House, in un angolo tranquillo del quartiere alberato di Remal a Gaza. Mama House è da tempo uno degli hotel preferiti dai visitatori stranieri che spesso regalano dei libri alla sua biblioteca – un’altra attrattiva per Mohammed che, con l’assedio di Gaza, faticava a trovare libri per soddisfare la sua sete di lettura.

Quando studiava all’università al-Azhar che si trova nei pressi, si poteva scorgere Mohammed con il suo fisico alto e magro tra la folla di studenti che si riversavano nelle strade di Gaza dopo i corsi. Evitando le automobili, i cavalli e i carri, si allontanava dalla folla – a volte per andare nella farmacia dove lavorava a tempo parziale, o in un bar, spesso quello del Mama House. Ordinando un caffè, si sedeva in un angolo tranquillo, si accendeva una sigaretta, ricaricava il suo cellulare e cominciava a scrivere delle storie.

Con due ore di elettricità al giorno, collegare un apparecchio [alla rete elettrica] è un lusso a Gaza. Però Mama House dispone di un generatore, come la maggior parte dei luoghi che hanno una clientela di professionisti. Medici, giornalisti e insegnanti ci vanno per socializzare, fare un tiro di narghilè o guardare il Barcellona sul grande schermo.

Pochi studenti avevano i mezzi per poter andare al Mama House; figlio unico, Mohammed era “viziato” da sua madre, gli dicevano gli amici per prenderlo in giro. Ma i suoi amici, i suoi professori e i clienti della farmacia avevano tutti di lui l’immagine di “un bravo ragazzo, un ragazzo gentile” e di “un ragazzo triste”.

Alcuni hanno anche visto le cicatrici sui suoi polsi, segni di precedenti tentativi di suicidio. Le sue storie indicavano che era come tutti gli altri ragazzi di Gaza, in quanto descriveva i loro sentimenti con tanta eloquenza. In una di queste ha scritto: “Quando si vive in una casa che si ama e che non si lascia, non ci sono problemi, ma se si è rinchiusi in casa contro la propria volontà, ci si sente paralizzati e disperati.”

Ha scritto della propria tristezza. I suoi genitori hanno divorziato quando era un bambino e Mohammed si è sentito rifiutato dal padre. I suoi lettori potevano ben comprendere questo dolore, perché tutte le famiglie di Gaza sono spezzate: per la maggior parte hanno avuto dei membri uccisi nel conflitto e molte sono state separate da anni di esilio o smembrate dal carcere. Migliaia di palestinesi sono oggi rinchiusi nelle prigioni israeliane.

Gran parte dei lettori era femminile: le donne erano attratte dalla sua malinconia particolare. “Poteva scrivere dell’assurdità della vita di tutti noi – l’umiliazione come la tragedia. Sapeva che questo posto era sbagliato”, ha detto una ragazza che conosco, che è fuggita in Egitto attraverso i tunnel per ottenere una borsa di studio americana. “È normale”, ha detto ridendo.

È così”, lamenta Mustafa alAssar, un gazawi di 17 anni che vuole studiare diritto internazionale, cosa impossibile perché non ci sono corsi di questo tipo a Gaza e lui non può andarsene. “Ci si rende improvvisamente conto che non si può essere la persona che si vorrebbe, a Gaza. E non si può far vedere chi si è a nessuno fuori, perché non si può uscire. Dunque non si può essere la persona che si vuole essere.”

Mohammed non era arrabbiato: piuttosto, era caduto nel comune stato di disperazione. Non avrebbe mai lanciato pietre, non più della maggior parte dei suoi coetanei. “Perché farlo? Per farsi sparare addosso? A chi importerebbe?”, si chiederebbero.

L’eroe di Mohammed era Bassel al-Araj, un leader del movimento della gioventù in Cisgiordania, che promuoveva la protesta pacifica, portava in visita i suoi compagni in luoghi simbolici della resistenza palestinese e parlava loro della storia della resistenza. Come Mohammed, al-Araj era scrittore e farmacista. “Andava pazzo per al-Araj”, mi ha detto un amico di Mohammed.

Prima di tornare a casa, Mohammed andava a vedere i nuovi doni fatti alla biblioteca di Mama House, sfogliando ‘Una lunga strada verso la libertà’ di Nelson Mandela, o un volume usurato di Agatha Christie.

In mezzo ai titoli di romanzi polizieschi c’erano alcune opere meno letterarie: copie polverose di rapporti dell’ONU su Gaza. Se Mohammed ne avesse preso uno, avrebbe trovato un’analisi del 2002 su un’ondata di attentati suicidi con le bombe avvenuti nei mesi più sanguinosi della seconda Intifada. Secondo Eyd Sarraj, un carismatico psichiatra di Gaza che nel 1990 ha fondato il programma comunitario di salute mentale di Gaza, gli attentati suicidi proliferavano per via della sensazione che la disperazione non smetteva di peggiorare, il che produceva “una situazione di sofferenza in cui la vita non è diversa dalla morte.”

Da bambino adorava ascoltare delle storie”, racconta Asma, la madre di Mohammed, seduta nel salotto della casa di famiglia. Tra le case in fondo alla strada si poteva scorgere appena un lembo di mare a forma di triangolo. I suoi nonni gli raccontavano le storie più belle su Jura, un vecchio e prospero villaggio di pescatori dove la famiglia aveva vissuto per secoli.

Durante la guerra arabo-israeliana del 1948 che ha portato alla creazione dello Stato di Israele, la famiglia di Mohammed, come più di 750.000 altri palestinesi, è stata cacciata dalla sua casa e non è mai stata autorizzata a tornare. Il villaggio di Jura, da tempo distrutto da Israele, si trova oggi sotto l’enorme porto di Ashkelon, che si può vedere dalla spiaggia sottostante la casa di Mohammed.

Io gli parlavo dei nostri aranceti, della nostra festa, di quando io correvo e nuotavo tra le onde”, racconta Modalala, la nonna di 88 anni, che indossa un foulard giallo vivo. Asma è seduta accanto a lei, vestita di nero. Il nonno di Mohammed gli parlava del proprio padre, che è cresciuto quando la Palestina faceva ancora parte dell’impero ottomano – gli ha raccontato che era molto colto, lavorava alla corte del sultano e viaggiava all’estero. “Ha detto a Mohammed che voleva tornare al suo villaggio prima di morire, ma è morto a Gaza e questo ha molto rattristato Mohammed.” In seguito Mohammed ha scritto di Jura e di “un ragazzo dai capelli d’oro che faceva dei salti per arrivare alla finestra e vedere il mare.”

Penso che il fatto di ascoltare delle storie e più tardi scriverle fosse il suo modo di sopportare la tristezza”, afferma sua madre. Suo zio Assad, che ha contribuito alla sua educazione, aggiunge che era altrettanto bravo in matematica: “Gli piaceva risolvere i problemi. Ha sempre voluto fare le cose da sé, sperimentare.”

Nei primi anni della vita di Mohammed la Palestina viveva una grande esperienza. È nato nel 1994, quando si sono visti i primi frutti degli accordi di pace di Oslo. Questi, firmati in pompa magna nel 1993, intendevano porre fine progressivamente all’occupazione da parte di Israele delle terre conquistate nel 1967 – Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme est –, sulle quali i palestinesi avrebbero dovuto costruire una specie di Stato.

Ma Oslo non pose rimedio alle ingiustizie del 1948. È uno dei motivi per cui l’accordo non ricevette un’accoglienza unanimemente positiva, soprattutto a Gaza, dove si trova la maggior concentrazione di rifugiati del 1948. Quasi tutti erano agricoltori le cui terre e case furono confiscate da Israele durante la guerra o appena dopo, mentre i loro raccolti e altre proprietà furono depredati. I villaggi arabi furono ripopolati da immigrati ebrei o distrutti. Su due milioni di palestinesi che vivono oggi a Gaza, 1,3 milioni sono rifugiati o discendenti di coloro che fuggirono qui nel 1948, il cui diritto al ritorno è sancito dalla Risoluzione 194 delle Nazioni Unite.

Nonostante le sue lacune, Oslo offriva qualche speranza di pace. In gran parte per il bene della generazione successiva, l’accordo venne recepito anche a Gaza, dove sui muri apparvero delle colombe al posto dei ritratti dei martiri. Nel 1998 a Rafah, nel sud, dove viveva allora la famiglia di Mohammed, venne aperto un aeroporto con la cupola dorata, una meraviglia agli occhi di un bambino. Ma nel giro di tre anni le cupole vennero sepolte sotto le macerie, distrutte dalle bombe israeliane. Quando Mohammed aveva 5 anni l’esperienza di Oslo si stava sgretolando, perché si era concretizzata una parte minima dei cambiamenti promessi. Questo tradimento alimentò il sostegno all’organizzazione militante islamica di Hamas, rivale del movimento laico di Fatah, che aveva appoggiato Oslo.

Recandosi a piedi a scuola, Mohammed passava davanti ai manifesti di una nuova generazione di “martiri”. Si trattava di kamikaze, molti dei quali erano stati reclutati a Rafah, su ordine del fondatore e ideologo di Hamas Ahmed Yassin, nato a Jura come i nonni di Mohammed. Yassin sosteneva che i kamikaze sarebbero andati in paradiso. Ma quando Israele si vendicò, una gran parte di Rafah venne rasa al suolo.

Quando chiedo alla madre di Mohammed come spiega Gaza ad un bambino, lei risponde che non c’è niente da spiegare: “I bambini lo vedono da soli. I posti di controllo, i bombardamenti, le incursioni nelle case – imparano che è così per tutti noi.”

Nel 2004, quando aveva 10 anni, molti membri della generazione post-Oslo tiravano nuovamente le pietre, come avevano fatto i loro padri. Ma Mohammed preferiva i suoi studi alla strada. Nel 2005, con l’intensificarsi dell’attività militante di Hamas, Israele ritirò il suo esercito e i suoi coloni da Gaza e ridispiegò le sue forze ai confini, dove era in costruzione un muro di separazione perché il nemico fosse più difficile da vedere. C’erano droni in cielo e cannoniere al largo del mare.

Nel 2006, quando le speranze di pace continuavano a indebolirsi, Hamas vinse le elezioni legislative per un autogoverno limitato in Cisgiordania e a Gaza. I suoi avversari di Fatah rifiutarono di riconoscere la vittoria di Hamas, dando luogo ad una guerra civile tra Hamas e Fatah durante la quale vennero uccisi centinaia di palestinesi. Quando Hamas infine prese il potere nel 2007 – mentre Fatah restava al governo in Cisgiordania – Israele definì Gaza “un’ entità terrorista”. Nei mesi seguenti impose un assedio che devastò la già debole economia di Gaza. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea appoggiarono Israele con un boicottaggio politico di Hamas.

Gaza è ormai isolata dal mondo esterno mentre Israele blocca la circolazione delle persone, del carburante e dei viveri – tutto, tranne un minimo aiuto umanitario – attraverso le frontiere. Anche il valico a sud verso l’Egitto a Rafah venne chiuso quando il presidente egiziano Hosni Mubarak, anch’egli desideroso di arginare i radicali islamici, si alleò con Israele. E’ dentro questo soffocamento che Mohammed Younis, ancora adolescente, ha trovato la voce per raccontare al mondo che cosa sia la vita dietro muri di prigione sempre più alti.

Mohammed aveva 13 anni quando iniziò l’assedio. La sua famiglia lasciò Rafah, alla frontiera sud di Gaza, per sistemarsi a Gaza City, che sua madre riteneva più sicura e con maggiori alternative in termini di scelta della scuola per Mohammed, che leggeva e scriveva sempre di più. Il suo talento venne scoperto per la prima volta al Centro Qattan, un’organizzazione benefica per i ragazzi di Gaza, dove vinse il primo premio in un concorso di scrittura.

Molti dei suoi primi racconti evocano un luogo strano e sinistro, che lui nomina raramente, ma che riconosciamo come Gaza. In un racconto intitolato “Geografia” il narratore si descrive come un animale in gabbia, che “perlustra ogni centimetro delle frontiere di Gaza.” A volte compaiono dei fantasmi e lui si chiede se la morte li abbia liberati o se “anche la morte li abbia incatenati.”

Le voci narranti di Mohammed sono consapevoli di essere imprigionate non soltanto dai muri, ma anche dalla sorveglianza. In un racconto, delle spie israeliane con nomi di copertura come ‘Abu Saleh’ convincono adolescenti a tradire persone che verranno poi uccise. “Volete che io denunci mio fratello?”, chiede un ragazzo ad un agente israeliano che lo ha chiamato al telefonino. “Il telefono suona di nuovo, lo schermo non smette di lampeggiare. Viene voglia di gettarlo a terra perché si rompa in mille pezzi, ma non ci si può impedire di raccoglierlo.”

Un’altra voce narrante arriva ad un posto di controllo dove “cadono dal cielo ghigliottine”, un’immagine che evoca le bombe israeliane lanciate durante l’attacco militare del 2008-2009, che uccise 1.400 palestinesi. Fu probabilmente dopo questo attacco che i dirigenti di Hamas nella locale moschea chiesero a Mohammed di partecipare ad un seminario. Hamas ha sempre ottenuto un appoggio popolare grazie alla sua azione di assistenza, venendo in aiuto alle necessità e attraverso programmi sociali, come anche istituendo scuole e seminari.  

Da adolescente Mohammed non era particolarmente religioso, spiega sua madre. Ma credeva in dio e voleva saperne sempre di più su che cosa ciò significhi, sulla vita dopo la morte.” Un ragazzo con uno spirito così vivace e curioso doveva rappresentare una recluta ideale e la sua famiglia era nota ai dirigenti di Hamas. Oltre al suo fondatore, lo sceicco Yassin, anche la famiglia del dirigente politico di Hamas Ismail Haniyeh è originaria di Jura. Secondo un amico, il motivo principale per cui questi militanti volevano che Mohammed si unisse a loro era che lui era “intelligente e curioso”. “Volevano che diventasse uno di loro – uno dei loro eroi, costruttore di armi come Yahia Ayache.” Soprannominato ‘l’ingegnere’, Ayache fabbricava bombe per Hamas e venne assassinato da Israele nel 1996.

Mohammed un giorno tornava con la barba e diceva : ‘Sono di Hamas’, racconta suo zio Assad. Ma un altro giorno diceva: ‘Sono della Jihad islamica’. Stava solo sperimentando. Si faceva le sue idee per conto suo, poi le abbandonava.”

Parecchi abitanti di Gaza che avevano votato Hamas nel 2006 cominciarono presto ad avere dei dubbi. I lanci di razzi degli islamisti contro Israele erano sempre ampiamente approvati a Gaza, come anche la rete di tunnel che avevano costruito sotto il confine sud con l’Egitto e che ha consentito al commercio clandestino di attenuare i peggiori effetti del blocco.

Ciononostante, qualche anno dopo, per molti risultò evidente che gli odiosi attentati suicidi perpetrati durante la seconda Intifada, tra il 2000 e il 2005, avevano pregiudicato la causa palestinese. E sotto Hamas la vita a Gaza tornò rapidamente all’ oscurantismo culturale. Vennero imposti rigidi codici islamici, in particolare la chiusura di teatri e cinema, la privazione delle libertà per le donne conquistate a caro prezzo – l’uso del velo venne reso quasi obbligatorio – ed altre restrizioni sociali repressive. Per alcuni il governo di Hamas iniziò ad apparire come un assedio all’interno di un assedio.

Quando Mohammed si preparava all’università trovò la sua libertà nella lettura e nella scrittura. Imparò l’inglese da solo nella speranza di studiare letteratura inglese, e benché sua madre lo avesse convinto a studiare invece farmacia – essendo migliori le prospettive di lavoro – la letteratura rimase il suo primo amore.

Trovare dei libri era difficile; spesso il modo migliore era farli entrare clandestinamente attraverso i tunnel. “Era molto riservato riguardo ai suoi libri e li conservava nella sua stanza”, racconta Asma, che ci propone di farci vedere la stanza dove Mohammed passava il tempo e che lo ha visto morire.

Non è cambiato nulla dopo la sua morte”, dice Asma aprendo la porta di una cameretta con un letto e una scrivania sulla quale troneggiano trofei di scrittura che aveva vinto. Ci sono dei peluche su una sedia, un guantone da boxe. Asma prende dall’armadio una toga: ha presenziato alla cerimonia di consegna della laurea a Mohammed in vece sua, due mesi dopo la sua morte.

Quando apriamo un armadio a muro ne esce una cascata di libri. Ci sono dei romanzi – Dostoevskij, Dickens – e libri di filosofia – un’introduzione a Wittgenstein, Hegel, ‘La magia della realtà’ di Richard Dawkins. Tra i drammaturghi troviamo Euripide, Eugène Ionesco, Terence Rattigan e Arthur Miller. Si scorge la ‘Storia del sionismo’, posata sopra libri di Che Guevara e Charles Darwin. Per la maggior parte sono delle traduzioni in arabo, altre in inglese. Può darsi che Mohammed abbia letto ogni pagina di questa ampia raccolta, o forse gli piaceva semplicemente possederla, difficile saperlo. Resta comunque il fatto che, seduto tra queste quattro mura in compagnia di George Bernard Shaw, Sofocle e Mahmoud Darwish [il più importante poeta della letteratura palestinese, ndtr.], riusciva ad uscire dai muri di Gaza e a mettersi in contatto con un mondo più vasto.

Quando entra nella stanza sua nonna Modalala cominciamo a guardare i libri sull’altro scaffale, in particolare ‘Umiliati e offesi’ di Dostojevsky. Modalala prende una foto di suo nipote.

Torniamo nel salone illuminato dal sole, di fronte al mare, quando Asma inizia a pregare. Chiedo a Modalala perché secondo lei Mohammed si sia suicidato. “Non ci sono spiegazioni,  risponde. “Gli avevo detto: ‘Presto morirò’. E lui mi aveva risposto: ‘No, non farlo.’ Mi aveva confidato che voleva sposare una ragazza e io sapevo che era innamorato di lei. Quel giorno era gentile e bello. Gli avevo fatto da mangiare io, perché sua mamma stava digiunando. Gli avevo fatto un caffè, uno per me e uno per lui, avevo messo del miele nel suo e glielo avevo portato in camera. Lì si sentiva al sicuro.”

Vista da qui, anche la spiaggia di Gaza sembra un luogo sicuro per fare un picnic o organizzare una festa di matrimonio in un capanno dipinto e adornato con colori vivaci. Ma le cannoniere israeliane incrociano al largo delle coste e la sabbia di Gaza è imbevuta del sangue della famiglia Younis.

Mia nonna è stata uccisa proprio là, in groppa ad un asino”, racconta Modalala mostrando col dito la spiaggia dove da bambina lei e la sua famiglia vennero bersagliate dalle bombe israeliane mentre nel 1948 fuggivano da Jura verso il sud. Durante la guerra del 2014 quattro bambini di Gaza furono uccisi mentre giocavano sulla sabbia, non lontano di là.

La guerra del 2014 è stata la più devastante delle tre offensive israeliane che Mohammed ha conosciuto. Vennero uccisi più di 2.200 palestinesi ,di cui almeno 500 minori. Ormai lui scriveva sempre più di morti, riconoscendo a volte una certa sicurezza nella morte, e scriveva a proposito di “senso di perdita e di sicurezza, della fuga e della ricerca di un rifugio e della sopravvivenza nell’ annegamento, di semplici idee di suicidio”. Ma come molti altri, nello choc seguito al bombardamento, vide dei motivi di speranza.

La vastità delle distruzioni nel 2014 fu tale che il mondo iniziò a prestarvi attenzione. Gli avvocati palestinesi dei diritti umani speravano di poter perseguire Israele per crimini di guerra. Il Segretario Generale dell’ONU dell’epoca, Ban Ki-moon, dichiarò che l’assedio doveva cessare e che il mondo doveva pagare per la ricostruzione delle case, dei serbatoi e delle fabbriche di Gaza. Il popolo aveva già cominciato: vidi dei ragazzi arrampicarsi su muri di calcestruzzo pericolanti e riempire di pietre un carretto trainato da un asino. Dissodavano i loro frutteti per ripiantare alberi di clementine e ricostruivano la loro fabbrica di succhi bombardata.

Alla luce di questa attenzione mediatica mondiale, migliaia di apprendisti giornalisti di Gaza colsero l’occasione per diffondere al mondo esterno il loro racconto in diretta dalle macerie. Studenti che avevano ottenuto borse di studio in università straniere stavano agli angoli delle strade nella speranza di sapere se erano stati aperti i valichi per potersi affrettare a scappare e prendere il posto che spettava loro. Mohammed si iscrisse al centro culturale francese sperando di poter studiare letteratura a Parigi.

Ma un anno dopo le clementine erano morte e il proprietario della fabbrica di succhi sedeva accanto ad una scatola di cibo dell’ONU. Più dell’80% della popolazione dipende ormai dagli aiuti alimentari.

Dietro le porte chiuse, soprattutto laddove i bombardamenti del 2014 erano stati pesanti, vidi vite distrutte. Una giovane madre aprì un armadio di giochi colpito da una granata. Mi guardava mentre si rovesciavano dei pezzi rotti. Un giovane uomo stava seduto davanti ad uno schermo spento durante le lunghe ore senza elettricità. Ed il mondo aveva nuovamente voltato le spalle a Gaza.

Per la prima volta, dopo tutti questi anni di reportage da Gaza, incontrai ragazzini che chiedevano l’elemosina, sentii parlare di prostituzione e vidi tracce di tossicodipendenza e di violenze domestiche generalizzate, spesso in case dove in una stessa stanza vivevano fino a dieci persone. Dai bombardamenti del 2014 non sono state risistemate in altri alloggi. In mezzo a questa devastazione, ci sono prove che lo Stato islamico ottenga sempre maggior sostegno. Un gruppo di militanti islamici ha lanciò un ordigno esplosivo sul centro culturale francese dove studiava Mohammed.

I media internazionali si sono disinteressati della questione, a parte occasionali previsioni di una nuova Intifada. Quando ho chiesto a dei ragazzi del campo profughi di Jabaliya – dove è iniziata la prima Intifada – se questo fosse possibile, hanno fatto una gran risata, dicendo che il muro era più alto ed era stato prolungato fin sottoterra per bloccare i tunnel. Nessuno poteva più resistere. Ho chiesto se potesse apparire in Palestina un nuovo Mandela. “Se ci fosse, gli israeliani lo ucciderebbero”, ha risposto uno di loro.

Nel marzo 2017 l’eroe di Mohammed, Bassel al-Araj, scrittore e vecchio difensore della resistenza nonviolenta, è stato ucciso dalle truppe israeliane. È stato riconosciuto come “martire istruito”.

Sono tanti quelli che sono stati disgustati dall’incapacità dei dirigenti di Hamas e di Fatah di promuovere la causa palestinese, o almeno migliorare la vita dei comuni palestinesi – erano troppo occupati a litigare tra loro mentre l’assedio di Gaza si inaspriva. A proposito degli israeliani Mohammed ha scritto: “Almeno loro rispettano il proprio popolo, mentre noi, noi facciamo a pezzi il nostro. Ma loro ci hanno cacciati dalle nostre terre!” In uno dei suoi racconti, un ragazzo “lancia orgogliosamente una pietra contro un posto di controllo”, ma lascia perdere e torna a casa “per proseguire qui la sua eterna maledizione.”

Come i giovani tedeschi che sono morti scavalcando il muro di Berlino, i giovani palestinesi che sono morti cercando di fuggire in barca “tentavano di raggiungere delle città in cui la libertà è una scelta, non un regalo.”

Nella primavera ed estate del 2017 alcuni medici mi hanno riferito di altri suicidi camuffati da incidenti. I medici vedevano non soltanto persone che si buttavano giù dagli edifici, ma anche vittime di quelli che sembravano incidenti automobilistici deliberati e annegamenti che forse non erano accidentali. Pazienti che presentavano ferite da coltello dicevano di essere stati feriti nel corso di una “rissa”. Ho sentito testimoni parlare di individui disperati che erano entrati nella zona cuscinetto nella speranza di essere uccisi. Una ragazza che conosco mi spiega che si è fatta un’overdose perché non voleva sposarsi o crescere dei figli a Gaza.

Gli spiriti più resistenti vanno in pezzi. “Gli abitanti di Gaza vogliono vivere, ma non possono”, afferma il dottor Ghada al-Jadba, direttore dei servizi sanitari dell’UNRWA, l’agenzia dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi.

Youssef Awadallah, direttore del centro di salute mentale di Rafah, getta la testa all’indietro, fingendo di affogare. “Si soffoca. In realtà siamo in trappola, non in stato d’assedio”, butta lì, prima di battere le mani. “Come in Tom e Jerry”.

Ritiene che l’aumento del numero di suicidi si inserisca nel quadro di una crisi molto più vasta della salute mentale a Gaza. Secondo l’UNICEF circa 400.000 minori sono traumatizzati e necessitano di un sostegno psicosociale. La dipendenza dai farmaci, soprattutto da analgesici potenti, è diffusa. “Gli israeliani lo sanno”, dice Awadallah. “La guerra attuale mira a spezzare così la nostra resilienza, non la nostra resistenza.”

I servizi di salute mentale di Gaza, ancora precari, sono stati paralizzati dall’assedio. “L’altro giorno un uomo ha ucciso sua madre perché pensava che lo spiasse,” racconta Awadallah. “Un altro ha detto che gli israeliani gli avevano messo un dispositivo di sorveglianza nella testa. Ma noi che cosa possiamo fare? Non abbiamo né farmaci, né letti, né psichiatri.” Ricorda un altro caso in cui un uomo ha pugnalato i suoi figli prima di darsi fuoco: “Quando un uomo non può sopperire alle necessità della sua famiglia, soffre. Se arriva al punto di darsi fuoco, soffre talmente tanto che per lui non ha più importanza andare all’inferno.”

Allargando le mani, Awadallah spiega perché i giovani e i più intelligenti fanno parte degli individui più propensi a suicidarsi. “La distanza tra le loro aspirazioni e le reali possibilità è maggiore che per la maggior parte delle persone comuni e le aspettative nel futuro per cui si sono preparati ma che non potranno raggiungere diventano impossibili da sopportare.”

Durante l’estate del 2017 tutti a Gaza sembravano in attesa di qualcosa. I pazienti malati di cancro aspettavano di sapere se potessero partire per sottoporsi ad un intervento chirurgico d’urgenza “all’estero”. I luoghi per i matrimoni in riva al mare, dipinti con colori vivaci, aspettavano che le coppie avessero il denaro per sposarsi. Tutti aspettavano la corrente elettrica.

Raji Sourani, direttore del Centro palestinese per i diritti umani, aspettava di sapere se le accuse di crimini di guerra sarebbero state ascoltate, ma perdeva la speranza. “Nessuno parla dell’occupazione. Nessuno parla delle vittime che vivono sotto occupazione – è Israele che viene considerato la vittima e che bisogna proteggere contro di noi. È una situazione kafkiana”, ha affermato all’epoca.

Nella sua stanza, Mohammed aspettava dei nuovi libri. Nell’elenco c’erano ‘Il processo’ di Kafka e Amleto.

Mohammed parlava di suicidio. Tuttavia era chiaro che aveva ancora speranze, perché parlava anche di fidanzarsi. I fidanzamenti e i suicidi sembravano a volte andare in parallelo: il produttore tessile in fallimento il cui figlio si era impiccato mi ha confidato che quest’ultimo doveva sposarsi la settimana successiva. E Mohammed era sicuramente innamorato, afferma sua madre: “Si vedeva bene che lo era”. Ha scritto riguardo ad un matrimonio a Jura, una prosa impregnata di un senso di perdita sia per il suo vecchio villaggio che per il suo futuro matrimonio, forse perché non poteva più sopportare il dolore della “moltitudine di contraddizioni che esplodono nella testa.”

Nei suoi ultimi scritti Mohammed è attratto dal dolore degli altri, riscontrandolo laddove è più acuto o più nascosto. Parla di un padre la cui figlia sta morendo in un luogo lontano e il quale confida: “Il senso di impotenza adesso mi uccide ogni giorno”.

Si sofferma anche sull’umiliazione dei posti di controllo, dove un viaggiatore viene portato in “un posto segreto simile ad una cella di prigione, senza alcuna forma di vita (…) dove essi sono rinchiusi semplicemente perché sono palestinesi. Perché le capitali e gli aeroporti sono preclusi ai palestinesi?”

Uno degli ultimi scritti di Mohammed era una pièce teatrale intitolata ‘Fuga’. Poco prima della sua morte aveva fatto un ultimo tentativo di scappare. Sua madre spiega che era stato accettato per studiare letteratura alla prestigiosa università ebraica di Gerusalemme, ma aveva scoperto che a causa della politica israeliana poteva aspettarsi di vedersi rifiutare il permesso di uscire da Gaza.

Perciò Mohammed lottava contro la disperazione e “cercava la bellezza”, anche se aveva comunicato ai suoi lettori che ascoltava ‘Komm, suber Tod, komm selge Ruh’ (‘Vieni dolce morte, vieni felice riposo’) di Bach. Anche quando è entrato nella sua stanza l’ultima sera ed ha chiuso la porta a chiave, forse Mohammed non era sicuro di compiere quel gesto. La posizione del suo corpo ha indotto suo zio Assad a credere che Mohammed avesse cambiato idea all’ultimo istante, ma era troppo tardi.

Nelle settimane e nei mesi precedenti la morte di Mohammed la sua disperazione è stata probabilmente aggravata dalla presa di coscienza che i suoi scritti non avrebbero mai potuto cambiare niente: ai suoi occhi il discorso palestinese era gestito da stranieri. Il suo suicidio è avvenuto poco tempo prima che Donald Trump riconoscesse Gerusalemme come capitale di Israele e rimettesse in discussione il diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno alle loro case.

Uno degli ultimi racconti di Mohammed si intitolava ‘La balena che ha bloccato la mia porta con la coda’. La voce narrante fa un sogno ricorrente nel quale delle balenottere lo vanno a trovare e tentano di suicidarsi. Si sveglia e si chiede perché le balene decidano di morire. Si risponde: “Sembra che le balene si suicidino quando perdono il senso dell’orientamento, quando non sanno più dove andare.”

Quando chiedo a Awadallah se considera Mohammed un martire, lui riflette un momento e sorride, spiegando che la disperazione di Mohammed gli ha provocato una grave malattia mentale e che è a causa di questa malattia che si è suicidato. A questo proposito, Awadallah spera che Allah si mostri benevolo verso Mohammed e gli permetta di andare in paradiso e non all’inferno.

Gli chiedo che cosa si sarebbe potuto fare per evitare il suicidio di Mohammed.

Niente,” risponde. “A parte nascere in un luogo diverso da Gaza.”

Questo articolo è stato modificato l’11 giugno 2018 per chiarire il riferimento all’impossibilità per Mohammed Younis di uscire da Gaza per studiare.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




“Quarantadue ginocchia in un giorno”: cecchini israeliani parlano apertamente del fatto di aver sparato contro i manifestanti a Gaza

Nota della redazione di Chronicle de Palestine

Non è senza esitazione che abbiamo deciso di tradurre e pubblicare questo documento. Per parafrasare Annah Arendt, “la banalità del male” dimostrata da questi racconti è terribilmente scioccante e prova una volta di più a che punto i palestinesi siano disumanizzati dai loro oppressori israeliani. Ma il paradosso è che siano quei “tiratori scelti” israeliani ad essere  quasi sempre privi di sentimenti umani, e la realtà che si impone è che il loro comportamento è apprezzato, è la “norma”, e che non c’è alcun contrappeso da parte della società israeliana, anch’essa profondamente corrotta da un’ideologia colonialista, razzista e segregazionista.

Neppure il lavoro giornalistico realizzato in questo documento va al fondo delle cose ed evita allo stesso modo di fare il possibile per evocare la moltitudine di uccisioni deliberate tra i manifestanti di Gaza. È la ragione per la quale abbiamo inserito una serie di foto [ nella traduzione ne abbiamo inserite solo alcune, ndtr.] che ricordano in modo molto diretto che le truppe d’occupazione hanno come missione uccidere, mutilare, terrorizzare, e che qualsiasi compiacimento a questo riguardo equivarrebbe ad esserne complici.

Bisogna tuttavia riconoscere che l’autore mette il dito su un sintomo che illustra la gravità del male: i soldati israeliani di una volta potevano ogni tanto avere ed esprimere delle remore di fronte al lavoro sporco che gli veniva richiesto, mentre oggi si lamentano di non aver potuto uccidere o mutilare quanto avrebbero voluto…Un segno dei tempi.

Hilo Glazer

6 marzo 2020 – Chronique de Palestine [traduzione di un articolo di Haaretz Magazine]

Oltre 200 palestinesi sono stati uccisi e circa 8.000 sono rimasti feriti durante quasi due anni di proteste settimanali sul confine tra Gaza e Israele. I cecchini dell’esercito israeliano raccontano le loro storie

So esattamente quante ginocchia ho colpito, dice Eden, che ha finito sei mesi fa il servizio militare nelle Forze di Difesa israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] come cecchino nella brigata di fanteria “Golani”. Per la maggior parte del tempo è stato schierato lungo il confine della Striscia di Gaza. Il suo compito: respingere manifestanti palestinesi che si avvicinavano alla barriera [tra Gaza e Israele, ndtr.].

Ho tenuto i bossoli di tutti i colpi che ho sparato,” dice. “Ce li ho nella mia stanza. Così non devo fare un calcolo approssimativo, lo so: 52 colpi precisi.”

Ma ci sono anche colpi “non precisi”, vero?

Ci sono stati episodi in cui il proiettile non si è fermato ed ha colpito anche il ginocchio di qualcuno che stava dietro (quello a cui ho mirato). Sono errori che capitano.”

Cinquantadue sono molti?

Non ci ho per niente pensato. Non sono centinaia di eliminazioni come nel film “American Sniper” [“Cecchino americano”, film USA di Clint Eastwood ambientato in Iraq, ndtr.]: stiamo parlando di ginocchia. Non la prendo alla leggera, ho sparato ad esseri umani, eppure…”

Come sei messo in graduatoria rispetto ad altri che hanno fatto il servizio militare nel tuo battaglione?

Dal punto di vista dei tiri, sono quello che ne ha di più. Nel mio battaglione direbbero: ‘Guarda, arriva il killer.’ Quando tornavo dal campo mi chiedevano: ‘Beh, quanti oggi?’ Devi capire che prima che arrivassimo noi le ginocchia erano la cosa più difficile da accumulare. C’è una storiella su un cecchino che in totale aveva [sparato a] 11 ginocchia, e la gente pensava che nessuno potesse superarlo. E allora io sono arrivato a sette-otto ginocchia in un giorno. In poche ore ho quasi demolito il suo record.”

Vedere per credere

Le dimostrazioni di massa sul confine tra Israele e la Striscia sono iniziate nel marzo del 2018 in occasione del Giorno della Terra [in cui i palestinesi ricordano una manifestazione di palestinesi cittadini israeliani contro l’esproprio delle loro terre nel 1976 che venne repressa nel sangue dalle forze israeliane, ndtr.], e sono continuate ogni settimana fino allo scorso gennaio. Secondo l’ufficio dell’ONU per il Coordinamento degli Affari Umanitari questi continui scontri per protestare contro l’assedio israeliano a Gaza sono costati la vita a 215 dimostranti, mentre 7.996 sono stati feriti da proiettili veri. Nonostante il grande numero di vittime, le tristi manifestazioni e la repressione lungo il confine sono continuate senza sosta per circa due anni, finché si è deciso di ridurne la frequenza a una volta al mese. Eppure anche nell’immediato il violento rituale del venerdì pomeriggio ha provocato scarso interesse nell’opinione pubblica israeliana. Allo stesso modo le condanne internazionali – dalle denunce per l’uso di una forza sproporzionata alle accuse che Israele stava perpetrando un massacro – sono svanite come neve al sole.

Fare luce su questo recentissimo pezzo di storia implica parlare con i cecchini. Dopo tutto sono stati la forza prevalente e più significativa nella repressione delle manifestazioni nei pressi della barriera. I loro obiettivi sono andati dai giovani palestinesi che cercavano di infiltrarsi in Israele o che lanciavano bottiglie molotov contro i soldati a manifestanti disarmati considerati i principali istigatori [delle proteste]. Ad entrambe le categorie si è risposto allo stesso modo: proiettili veri sparati alle gambe.

Delle decine di cecchini che abbiamo avvicinato, sei (tutti congedati dalle IDF) hanno accettato di essere intervistati e di descrivere quale sembrasse loro la situazione attraverso il mirino dei fucili.

Cinque sono di due brigate di fanteria – due a testa della Golani e della Givati, uno della Kfir – più uno dell’unità antiterrorismo Duvdevan. I loro nomi sono stati modificati. Non parlano per “rompere il silenzio” [riferimento al gruppo di militari ed ex-militari israeliani “Breaking the silence” che denuncia i crimini dell’esercito nei territori palestinesi occupati, ndtr.] o per fare ammenda delle proprie azioni, ma solo per raccontare quello che è successo dal loro punto di vista. Nel caso di Eden, persino il fatto che abbia anche ucciso un manifestante per errore non lo sconvolge: “Penso che ero dalla parte giusta e che ho fatto la cosa giusta,” insiste, “perché se non fosse stato per noi i terroristi avrebbero cercato di attraversare la barriera. Per te è ovvio che sei là per un motivo.”

Eden afferma di aver battuto il “record di ginocchia” nella manifestazione avvenuta il giorno in cui è stata inaugurata la nuova ambasciata USA a Gerusalemme, il 14 maggio 2018. Lo ha fatto in compagnia: in genere i cecchini lavorano in coppia, insieme a un localizzatore, che è anch’egli per formazione un cecchino, il cui compito è di fornire ai suoi colleghi dati precisi (distanza dal bersaglio, direzione del vento, etc.).

Eden: “Quel giorno il nostro collega ha raggiunto il maggior numero di colpi, 42 in totale. Il mio localizzatore non avrebbe dovuto sparare, ma gli ho concesso una pausa, perché stavamo arrivando alla fine del nostro turno e non aveva ancora colpito neanche un ginocchio. Alla fine te ne vuoi andare con la sensazione che hai fatto qualcosa, che non sei un cecchino solo durante l’addestramento. Così, dopo che ho sparato qualche colpo, gli ho suggerito di darci il cambio. Direi che ha colpito circa 28 ginocchia.”

Eden ricorda chiaramente il suo primo ginocchio. Il suo bersaglio era un manifestante sulle spire di filo spinato a circa 20 metri di distanza. “In quel periodo (all’inizio delle proteste) eri autorizzato a sparare a uno dei principali incitatori delle proteste solo se stava in piedi immobile, “afferma. “Ciò significa che, anche se stava andando in giro tranquillamente, era proibito sparargli, quindi non avremmo mancato il bersaglio e sprecato munizioni. Comunque, questo incitatore è sul filo spinato, io ho l’arma rivolta verso la barriera e non c’è ancora l’autorizzazione ad aprire il fuoco. Ad un certo momento lui sta di fronte a me, mi guarda, mi provoca, mi dà un’occhiata come dire ‘vediamo se ci provi’. Allora arriva l’autorizzazione. In piedi sopra di me c’è il comandante del battaglione, alla mia sinistra c’è il suo vice, a destra il comandante della compagnia – dei soldati tutti attorno a me, insieme alle loro mogli il mondo intero sta osservando il mio primo tiro. Molto stressante. Ricordo la vista del ginocchio nel mirino, scoppiato.

Razan Al-Najjar di 21 anni uccisa il 1 giugno 2018 da un cecchino mentre prestava soccorso ad un ferito
(Oumma)

Roy”, che ha fatto il servizio militare come cecchino nella brigata Givati fino al suo congedo un anno e mezzo fa, dice che il colpo che ricorda più vividamente è quello che ha attirato la maggior attenzione degli spettatori. “C’era pressione perché il comandante di battaglione era sul posto e tutti si occupavano di noi. C’era un palestinese che sembrava avere circa 20 anni, che non smetteva di andare in giro. Maglietta rosa, pantaloni grigi. Quello che fanno è correre continuamente e poi arrivare sul filo spinato. Era veramente bravo a farlo. In quella situazione puoi ucciderlo o colpire qualcuno dietro di lui. Ricordo chiaramente di aver temuto di mancare la sua gamba e poi di essermi sentito sollevato per aver centrato il bersaglio.”

Sollievo è anche quello che [ha provato] Itay, un ex-haredi [ebreo ultraortodosso, ndtr.] che era un cecchino del battaglione Netzah Yehuda (composto da ultraortodossi, l’equivalente della brigata Nahal): “Ho visto un giovane che stava per dar fuoco a una bottiglia molotov. In un caso simile non fai calcoli. Ho parlato alla radio, ho descritto il bersaglio e ho avuto l’autorizzazione. La pressione è assurda. Tutto quello che hai imparato e per cui sei stato addestrato è riassunto in un momento. Ti concentri, ti ricordi di prendere il respiro e poi, boom. Ho sparato al ginocchio ed è caduto. Mi sono accertato che tutto fosse a posto, di aver sparato nel posto giusto.”

Questa specie di verifica è parte delle regole d’ingaggio?

Itay: “L’ordine è di continuare a guardare dopo lo sparo per vedere se l’obiettivo è stato raggiunto. Fai rapporto su un colpo dopo un ulteriore controllo. Guardare dopo è la parte più facile, o, più correttamente, è la parte che ti dà sollievo. Perché in questo caso specifico il terrorista era a meno di 100 metri dai miei compagni e avrebbe potuto finire male.”

E dopo che hai guardato una seconda volta e vedi la ferita, anche quello è facile?

Non devi vedere una grande perdita di sangue, perché nella zona del ginocchio e delle ossa non ci sono molti capillari. Se vedi sangue non è un buon segno, perché probabilmente hai sparato troppo in alto. La scena normale dovrebbe essere che tu colpisci, rompi un osso – nel migliore dei casi rompi la rotula –, nel giro di un minuto arriva un’ambulanza per portarlo via e dopo una settimana ha una pensione di invalidità.”

Ma Shlomi, un cecchino della Duvdevan, dice che neppure colpire la rotula è raccomandabile: “L’obiettivo è provocare all’agitatore il minimo danno, in modo che smetta di fare quello che sta facendo. Così, quanto meno io, cerco di colpire in un punto più grasso, nella regione muscolare.

Puoi essere più preciso?

Shomi: “Sì, perché il Ruger (un tipo di fucile utilizzato per lo più durante le manifestazioni) è pensato per un uso a 100, 150 metri. Da quella distanza vedi la gamba persino a occhio nudo e con il mirino che aumenta la visuale di 10 volte puoi davvero vedere i tendini.”

Giovani con i megafoni

Chi viene considerato come un principale istigatore durante queste manifestazioni? I criteri sono piuttosto vaghi.

Un principale agitatore è un principale agitatore,” taglia corto Amir. Comandante di una squadra di cecchini della Golani che è entrato in azione durante la prima ondata di disordini lungo la barriera, spiega che “non è così complicato capire chi stia organizzando e incitando (gli altri manifestanti). Lo identifichi per esempio dal fatto che sta di schiena rispetto a te e guarda verso la folla. In molti casi ha anche un megafono.”

L’impressione di Itay è che “i principali agitatori siano per esempio persone che vanno in giro nelle retrovie, organizzando le cose. Non sono necessariamente un bersaglio, ma, per far loro sapere che vediamo quello che stanno facendo, potrei sparare in aria attorno a loro. Sai, quello che incita gli altri non rappresenta un pericolo immediato per me, almeno non direttamente, ma fa in modo che le cose accadano. Per cui colpirlo è un problema, ma lo è anche non colpirlo. Questa è la ragione per cui nel momento in cui si stanca di attivare gli altri e inizia a partecipare al caos è il primo che colpiamo, perché è il più importante rispetto al gruppo attorno a lui. È fondamentale per bloccare la fase acuta.”

Aggiunge: “Non colpisci quelli che incitano la folla per quello che stanno facendo. Non deriva da uno stato emotivo del tipo ‘È quello che sta provocando la rivolta, quindi abbattiamolo.’ Questa non è una guerra, sono disordini del venerdì pomeriggio. L’obiettivo non è di abbatterne il più possibile, ma di far cessare questa cosa al più presto.”

Secondo le regole d’ingaggio delle IDF un minorenne non è classificato come un agitatore importante. Secondo Eden, “ci sono età limite, e quindi tu non le colpisci.”

È veramente possibile definire la differenza tra un uomo smilzo e un adolescente ben piantato nel bel mezzo di una manifestazione? “Cerchi di capirlo in base al linguaggio del corpo,” afferma Amir. “Il modo in cui tiene una pietra, se sembra che sia stato trascinato nella situazione o che la stia dirigendo. Quelle manifestazioni assomigliano un po’ a un movimento giovanile, dal loro punto di vista. Anche se tu non conosci il loro ‘grado’ preciso, puoi dire in base al carisma chi sia il leader del gruppo.”

Roy sostiene che “nel 99,9% dei casi, l’identificazione è esatta. Ci sono un sacco di immagini del bersaglio e di mirini concentrati su di lui. Un drone sopra, vedette, il cecchino, i suoi comandanti. Non sono solo una, due o tre persone che lo stanno guardando, per cui non ci sono dubbi.”

Shlomi è un po’meno sicuro: “A volte è veramente difficile dire la differenza (tra minori e adulti). Guardi i tratti del volto, il peso, la massa corporea. Anche il vestito è un indicatore certo. I più giovani sono in genere vestiti con una maglietta. Ma senti, anche un sedicenne ti può causare un danno. Se rappresenta una minaccia il parametro dell’età non è necessariamente rilevante.”

Itay è d’accordo: “L’obiettivo è non colpire minorenni, ma una bottiglia molotov è una bottiglia molotov e non sa se la persona che la tiene in mano è un uomo di 20, un adolescente di 14 o un bambino di 8.”

Amir ricorda di aver affrontato un dilemma simile: “Per esempio, c’era un ragazzino il cui comportamento giustificava il fatto di sparargli, ma abbiamo valutato che avesse 12 anni e deliberatamente non lo abbiamo fatto – non solo per come sarebbe apparso sui media, ma per delle nostre considerazioni personali. Abbiamo deciso che lo avremmo veramente spaventato ed abbiamo colpito la persona vicino a lui. Per noi non era una cosa urgente. Sarebbe stato lì anche la settimana successiva.”

Niente “prima sparare e poi piangere”

Sono passati 53 anni dalla pubblicazione di “Il Settimo giorno”, una raccolta di testimonianze di soldati provenienti da kibbutz che esprimevano il proprio disagio emotivo dopo aver assistito ai combattimenti durante la guerra dei Sei Giorni [guerra preventiva di Israele contro i Paesi arabi nel 1967, ndtr.]. È un testo fondamentale per il modo in cui descrive Israele come una società che “prima spara e poi piange”. Più di mezzo secolo dopo il lamento dei soldati tornati dal campo di battaglia si può ancora sentire, ma, almeno secondo le voci qui citate, le loro basi ideologiche ed etiche sono state rovesciate. L’introspezione sul prezzo di sangue è stato sostituito dalle critiche per la debolezza dell’esercito e dalla sensazione che stia legando le mani ai suoi combattenti.

Ho visto sobillatori che attraversavano la barriera e non ho potuto fare niente, “dice Roy. “L’hanno saltata e ci hanno provocati, e poi sono tornati indietro. Ovviamente non hai l’autorizzazione a sparargli. Perché? Perché una volta che sono in territorio israeliano non sono considerati ostili se non hanno con sé un coltello o un fucile. Le limitazioni nei nostri confronti sono vergognose. Devi capire: anche se c’è un ventenne davanti a me che incita altri e dà fuoco a un copertone, prima devo informare il comandante di compagnia, che informa il comandante di battaglione, che parla con il comandante di brigata, che comunica con il comandante di divisione. Ci sono stati alcuni casi ridicoli. Durante quel lasso di tempo il bersaglio si è già spostato o si è nascosto.”

Amir descrive la catena di comando in questo modo: “Per ogni cecchino c’era un comandante a livello inferiore (un sottufficiale) come me, e anche un comandante superiore – un comandante o un vice comandante di compagnia. L’ufficiale superiore chiede l’autorizzazione a sparare al comandante della brigata di settore. Lo chiama alla radio e chiede: ‘Posso aggiungere un altro ginocchio per questo pomeriggio?’”

L’impressione che ne ha ricavato Daniel, un soldato solitario [“lone soldier”, sono ebrei stranieri che vanno in Israele da volontari per fare il servizio militare, ndtr.] immigrato dagli Stati Uniti e arruolato nella brigata Givati, è che le procedure fossero più flessibili di così: “Come ogni cosa nelle IDF, non era del tutto chiaro, almeno non quando ci sono stato io. Ma in generale per sparare devi chiedere l’autorizzazione al tuo ufficiale superiore e lui chiede l’autorizzazione al comandante di compagnia o di battaglione. Se funzionasse come si suppone, ci vorrebbero meno di 10 secondi. I comandanti non erano particolarmente restrittivi nelle autorizzazioni a sparare. Si fidavano di te quando dicevi di aver identificato un obiettivo giustificato.”

Secondo Eden con il passar del tempo il filo della catena di comando si è allentato: “Se tu guardi indietro alle prime manifestazioni, quattro o cinque anni fa, prima dell’ondata degli ultimi due anni, scoprirai che era molto difficile avere un’autorizzazione. Allora dicevano che ogni ginocchio era una questione veramente importante. Nel periodo in cui le proteste si sono fatte molto più accese è diventato più facile avere il permesso. Nel mio periodo veniva dal livello del comandante di battaglione o di compagnia, a seconda della situazione.”

La richiesta di avere l’autorizzazione per ogni sparo di cecchino da parte del comandante di brigata ha avuto un peso sul numero di vittime palestinesi? I dati indicano che il numero degli uccisi è sceso drasticamente solo dopo il passaggio al Ruger, circa un anno dopo che sono scoppiati i disordini settimanali. Il Ruger è considerato meno letale di altri fucili. Eden, un veterano della zona di Gaza, dice di aver usato un fucile M24 e un Barak (HTR-2000): “Con il Barak, se tu spari a qualcuno al ginocchio, non lo rendi disabile, gli stacchi la gamba. Potrebbe morire dissanguato.”

Lo scorso luglio, dopo 16 mesi di scontri presso la barriera con Gaza, le IDF hanno cambiato le regole d’ingaggio per i cecchini nel tentativo di ridurre il numero di vittime. Un importante ufficiale ha spiegato le modifiche in un articolo della corrispondente militare della Kan Broadcasting Corporation [rete informativa pubblica israeliana, ndtr.] Carmela Menashe: “All’inizio abbiamo detto loro di sparare alle gambe. Abbiamo visto che in quel modo puoi rimanere ucciso, per cui abbiamo detto di sparare sotto il ginocchio. In seguito abbiamo diramato un ordine più preciso e abbiamo dato istruzioni di sparare alle caviglie.”

Eden lo conferma: “C’è stata una fase in cui l’ordine è stato proprio di mirare alle caviglie,” nota. “Non mi è piaciuto quel cambiamento. Devi avere fiducia nei tuoi cecchini. Mi è sembrato che stessero cercando di renderci la vita più difficile senza ragione.”

In che senso?

Eden: “Perché è chiaro che la superficie del corpo tra il ginocchio e la pianta del piede è molto più larga che tra la caviglia e il piede. È la differenza tra colpire 40 cm e colpirne 10.”

Roy, che ha finito il servizio militare prima che venissero aggiornate le regole d’ingaggio, afferma che in genere mirava in ogni caso più in basso: “Durante il tempo in cui sono stato in servizio era consentito sparare ovunque dal ginocchio in giù, ma io miravo alle caviglie, per non colpire più in alto, dio non voglia, o si sarebbe scatenato l’inferno. Preferivo così. Non avevo pietà per i sobillatori, ma sapevo che non sarei stato appoggiato dall’esercito. Non voglio essere un secondo Elor Azaria (il cosiddetto sparatore di Hebron, che è stato detenuto dopo essere stato condannato per aver ucciso un aggressore palestinese non più in grado di nuocere). Ho pensato meno al bersaglio e più a me stesso e alla mia famiglia, in modo che non dovesse subire la stessa sorte della famiglia di Elor.”

Saif al-Din Abou Zayd di 15 anni ucciso da una pallottola alla testa
(MaanImages)

Amir aggiunge: “Se tu per sbaglio compisci un’arteria principale della coscia invece della caviglia, allora o avevi intenzione di sbagliare o non avresti dovuto essere un cecchino. Ci sono cecchini, non molti, che ‘scelgono’ di sbagliare (e mirano più in su). Però il numero non è alto. (Per fare un confronto) ci sono giorni in cui conti 40 ginocchia nell’intero settore. Queste sono le proporzioni.”

Secondo Amir, la discussione su dove sparare – coscia, ginocchio o caviglia – è fuori tema: “Fammi raccontare una storia. Un giorno c’era molto lavoro da fare, un vero caos. Uno dei miei soldati voleva abbattere uno dei principali agitatori che rispondeva a tutti i criteri. Ha chiesto l’autorizzazione, ma il comandante di compagnia l’ha rifiutata, perché il tizio era troppo vicino a un’ambulanza.”

Una minima deviazione, anche se avesse solo colpito un fanale, e ci sarebbero stati articoli di giornale secondo cui le IDF avevano sparato a un’ambulanza. Il mio soldato ha sentito il rifiuto dell’autorizzazione, ma ha comunque sparato. Ha colpito la caviglia, come era previsto, un colpo preciso, chirurgico. Per cui da un lato ha disubbidito a un ordine, ma dall’altro ha portato a termine la sua missione.” (In seguito il soldato è stato punito e assegnato a un lavoro di pulizia).

E tu hai capito il suo ragionamento?

Amir: “Ovviamente. Per un soldato come quello, quel colpo è il suo obiettivo, la sua autodefinizione. Sono ragazzi di 18 anni, per lo più di un contesto socioeconomico molto povero. Il fatto che tu li metta in un corso per cecchini non significa che li trasformi in persone sensibili e mature. Al contrario li hai trasformati in macchine, hai fatto sì che pensino in modo limitato, hai ridotto le loro possibilità di scelta, hai sminuito la loro umanità e personalità. Nel momento in cui trasformi uno in un cecchino, questa è la sua essenza. Quindi ora vuoi anche portargliela via? Può sembrare radicale, perché sono un comandante, ma c’è un posto dentro di me che dice: ‘Ehi, mi hai disubbidito, è vero, ma ne sei uscito da uomo, hai dimostrato che il tuo ruolo (di cecchino) funziona.’”

Amir, che alle superiori si è diplomato in teatro e si definisce un “boyscout del nord”, descrive un altro caso di violazione delle norme avvenuto nella sua compagnia. “Anche quando non ci sono manifestazioni e tutto sembra calmo, ti fanno andare di corsa alla barriera con la pattuglia quando vi si avvicinano i pastori. Devi capire che non si tratta di pastori innocenti, lavorano per Hamas e per la Jihad Islamica per farti impazzire. Superano la linea perché tu risponda. Prendi un veicolo e vai a minacciarlo? Prima che tu arrivi lì se n’è già andato. Spari in aria? Non gliene può importare di meno. E a causa di questa insensatezza non dormi e tutta la compagnia diventa il burattino del pastore,” dice Amir.

Un giorno uno dei sottufficiali mi ha detto: ‘Ne ho abbastanza, non possiamo continuare così, abbattiamo una delle pecore, vale qualche centinaio [di euro, ndtr.].’ Pensa cosa porta un soldato, un musicista di una buona scuola superiore, l’ultimo ragazzo che diresti essere assetato di sangue, a dire via radio alla vedetta: ‘Vedi una pecora, a nord? Stai per vederla cadere.’ Dopodiché il pastore non è tornato. Qual è la conclusione? La deterrenza ha funzionato.”

Amir dice che questi due episodi devono essere compresi alla luce della natura dell’attività del suo battaglione sul confine con Gaza: “Anche prima che iniziassero le manifestazioni, eravamo in agguato da due mesi interi,” racconta. “Abbiamo osservato una squadra che cercava di improvvisare una bomba e di attaccarla alla barriera. C’era qualcosa che non andava in tutto ciò, l’ordigno non era esploso e ci siamo resi conto che stavano venendo a prenderla. Ma è andato avanti per un bel po’. Ogni giorno si avvicinavano e neppure quando il capo del gruppo era proprio sopra la bomba abbiamo avuto l’autorizzazione a sparare. Perché? Solo a causa della sensibilità dei media. Finché non avesse realmente preso l’ordigno era impossibile dimostrare al di là di ogni dubbio che avesse a che fare qualcosa, quindi vai poi a capire che tipo di narrazione Hamas avrebbe ricavato da ciò. Pensa quanto sia frustrante per i soldati. Siamo stati là nella pioggia per due mesi e non abbiamo fatto niente.”

E la frustrazione giustifica l’insubordinazione in base ad altre circostanze?

Amir: “No, ma quel caso illustra il paradosso delle regole d’ingaggio. Un terrorista che merita di morire sta davanti a me ma, poiché dobbiamo giustificarci con Haaretz o con la BBC, se la cava senza un graffio. Si crea una vigliaccheria che scende verso il basso. Così invece tu vai e fai fuori le ginocchia durante le manifestazioni. Non solo questo non è efficace, ma questa gente non merita neppure di perdere le proprie ginocchia. Mi identifico realmente con quello che una volta ha detto (l’ex-capo di stato maggiore delle IDF) Ehud Barak, che se fosse un palestinese sarebbe diventato un terrorista. Ciò mi ha colpito solo quando sono stato nei territori. Vedi bambinetti piangere quando prendi a pugni il loro padre, e ti dici: ‘Non mi posso aspettare nient’altro da loro.’”

Rapporto con lo sport

Ci sono cecchini che hanno avuto difficoltà a riprendere la loro vita dopo essere stati congedati?

Tuly Flint, un ufficiale dei servizi per la salute mentale della riserva e operatore sociale clinico specializzato in traumi, ha curato cecchini che hanno partecipato alla repressione di manifestazioni a Gaza durante gli ultimi due anni. I cecchini, dice, manifestano singolari caratteristiche quando si tratta di stress post-traumatico.

Se fossi uno dei trenta soldati che sono nella zona e sparassi una raffica, non saprei necessariamente se ho ucciso qualcuno,” dice, mentre il cecchino sa quando colpisce il suo bersaglio. “Il secondo tratto distintivo deriva dal fatto che al cecchino viene richiesto di non girare lo sguardo. Attraverso il mirino vede la persona a cui sta sparando e l’impatto del colpo, e ciò può fissare l’immagine nella sua memoria.”

Flint descrive un cecchino di un’unità d’élite che ha mirato al ginocchio di un manifestante ma ha colpito troppo in alto, e il dimostrante è morto dissanguato. “Quel soldato, un cecchino molto impegnato nella sua missione, descrive l’immagine del manifestante che muore dissanguato. Non può dimenticare l’uomo che grida di non lasciarlo solo. Ricorda anche in modo vivido quando hanno portato via il corpo e le donne che piangevano su di lui. Da allora non pensa ad altro e non sogna altro. Dice: ‘Non sono stato mandato per difendere lo Stato, sono stato mandato per uccidere.’ Anche il pensiero della fidanzata della persona che ha ucciso continua a perseguitarlo. Il risultato è che ha rotto con la propria fidanzata con cui stava da due anni. ‘Non merito di averne una’, dice.”

Daniel ha un vivido ricordo dei suoi colleghi dopo un colpo perfetto. “Le persone sembrano malate o scioccate. Il significato di ciò, sul momento, non li colpisce sul vivo. Un secondo dopo, un minuto dopo che ho sparato a qualcuno, mi metto a mangiare matza [pane azzimo, ndtr.] con cioccolato? Cosa cavolo sta succedendo qui?”

Aggiunge: “Ci sono storie orribili, tremende di soldati che hanno preso di mira un manifestante e colpito qualcun altro. Conosco uno che ha preso di mira uno dei leader delle manifestazioni, che stava su una cassa e incitava la gente ad avanzare. Il soldato ha mirato alla sua gamba, ma all’ultimo momento l’uomo si è spostato e la pallottola lo ha mancato. Ha colpito invece una ragazzina, uccisa sul colpo. Quel soldato oggi è un rudere. È continuamente sorvegliato perché non si suicidi.”

Cecchini con il peso di esperienze come questa sono la minoranza. Da parte sua Amir dice che il tipo di sensazione che molti cecchini hanno è totalmente diversa, e richiama il mondo dello sport: “La zona dei disordini è come un’arena sportiva, una situazione in cui puoi vendere i biglietti,” dice. “Gruppo contro gruppo, con una linea nel mezzo e un pubblico di tifosi da entrambi i lati. Puoi assolutamente raccontare la storia di un incontro sportivo.”

In prima linea, continua, “ci sono i sobillatori: segnano la linea di partenza da cui le persone partono di corsa, da sole o in gruppo. Tutto è coordinato e pianificato in anticipo. Ci sono quei buchi nel terreno (per nascondersi) e ciò permette loro di giocare con noi. Possono correre 100 metri senza che io sia in grado di colpire i loro piedi. Sono anche abili a zizzagare. Due di loro saltano fuori, si nascondono, uno lancia una pietra in modo che l’altro possa andare avanti. Usano con te tattiche diversive. Sai, è una specie di gioco.”

Qual è lo scopo di questo gioco?

Amir: “Guadagnare punti. Se riescono a mettere la bandiera sulla barriera, vale un punto. Una bandiera piena di esplosivo è un punto. Lanciare indietro lacrimogeni è un punto. Persino anche solo toccare il muro, intendo la barriera, è un punto. C’è una battaglia in corso qui, ma non si sa quando verrà decisa, nessuno ha idea di come vincere la coppa, ma nel frattempo entrambe le parti continuano a giocare la partita.”

Un gioco per la cronaca. Le forze non sono esattamente equamente ripartite.

Vero. E non stiamo usando neppure un quarto della forza che potremmo esercitare.”

In altre parole, potremmo colpirli con un ko, ma preferiamo vincere ai punti?

Non stiamo neppure vincendo ai punti. Dopo un po’ di tempo là, in un rapporto ho detto: ‘Lasciatemi solo per una volta abbattere un ragazzino di 16, anche 14 anni, ma non con un proiettile alle gambe, lasciate che gli spari alla testa di fronte a tutta la sua famiglia e a tutto il suo villaggio. Lasciatemi spargere sangue. E allora forse per un mese non dovrò prendermi altre 20 ginocchia.’ Questo è un calcolo scioccante al limite dell’inimmaginabile, ma quando non usi le tue potenzialità non è chiaro che cosa stiamo cercando di fare là. Mi chiedi quale fosse il compito? Mi risulta difficile risponderti. Cosa ho considerato un successo dal mio punto di vista? Persino il numero di ginocchia che ho preso non è dipeso da me, ma dal numero di ‘anatre’ che hanno scelto di attraversare la linea.”

Ma uccidere un ragazzino a caso, pensi davvero che questa sia la soluzione?

Ovviamente non dovremmo far fuori ragazzini. Lo stavo dicendo per fare il punto della situazione: se tu ne uccidi uno ne devi risparmiare altri 20. Se tu mi riportassi a quegli appostamenti di due mesi e mi lasciassi agire, avrei fatto fuori quel figlio di puttana che stava sulla bomba, anche se ciò avrebbe significato che sarebbe tornato in seguito nei miei sogni. Anche oggi la situazione per cui ci sono da 5 a 10 persone che rimarranno invalide per il resto della loro vita, alle quali il mio nome è in qualche modo collegato, è una merda. E non solo nel senso che ciò mi pesa o meno sul cuore. Pensaci: là c’è un’intera generazione di minorenni che non sarà in grado di giocare a pallone.”

Solo ragazzi

Sembra che la presenza di minorenni alle manifestazioni desti le risposte più fortemente emotive tra i cecchini.

Un giorno c’era una bambina, penso che avesse probabilmente 7 anni, che portava una bandiera di Hamas ed è corsa verso di noi,” dice Shlomi di Duvdevan. “Mi sono accertato attraverso il mirino che non ci fosse niente di sospetto in lei, che la sua camicetta non avesse sporgenze, che non ci fossero segni di fili o bombe, e abbiamo gridato per fermarla. Fortunatamente si è spaventata ed è corsa via. Mi era chiaro che non le avrei sparato neppure se avesse attraversato il confine, ma mi ricordo di aver pensato: spero proprio che non continui ad avanzare.”

Abdullah al-Anqar colpito  da una pallottola esplosiva che gli ha causato l’amputazione dell’arto sinistro
(Hosam Salem/Al Jazeera)

Daniel: “Dal posto di guardia vedi un militante di Hamas, la sua faccia è di fronte a te e tu pensi tra te e te: spero davvero che faccia qualcosa in modo che gli possa sparare. Ma con i manifestanti il quadro diventa complicato, perché molti di loro sono solo adolescenti. Sono esili, piccoli, non ti senti minacciato da loro. Devi ricordare a te stesso che quello che stanno facendo è pericoloso.”

Come alcuni degli altri intervistati, Daniel sottolinea la rabbia dei soldati nei confronti dei genitori: “Una madre che porta il proprio figlio a una manifestazione come quella è una madre terribile,” dice. Amir afferma che può capire quei bambini: “Si guadagnano la vita in quel modo e non devo dirti io quanto sia difficile la situazione economica a Gaza. Ma i loro genitori non li capisco. Perché li trascini lì? Mandali a sgattaiolare (in Israele) di nascosto e a lavorare nell’edilizia, rovescia il governo di Hamas, qualunque altra cosa, solo non questo.”

Roy, che si identifica come di destra, è d’accordo che “non sono loro che dobbiamo combattere, ma Hamas, i terroristi, quelli che organizzano gli autobus per portare la gente e gli gettano qualche dollaro in modo che brucino pneumatici. Ho pietà di loro (i minori), sono veramente sfortunati. Mi ricordano dei bambini del quartiere che giocano con i mortaretti. Ero anch’io come quei ragazzini, per cui in questo senso mi identifico con loro.”

Ma, pur manifestando obiezioni contro il fuoco indiscriminato, Itay, del [battaglione di ultraortodossi, ndtr.] Netzah Yehudah pensa ancora che il numero di palestinesi feriti da proiettili veri sul confine durante oltre due anni in realtà dimostri che i soldati non hanno avuto il grilletto facile. “Ogni venerdì ci sono migliaia di manifestanti,” nota, “e se moltiplichi quel numero per 52 e poi lo raddoppi, hai centinaia di migliaia di persone. Rispetto a questi, 8.000 sono una piccola percentuale.”

Tuttavia aggiunge che “il potere che hai quando qualcuno entra nel tuo mirino, la consapevolezza che dipende da te se sarà in grado di camminare o meno, è terribile. Dal mio punto di vista, non è un potere che mi eccita. Non mi piace, ma è impossibile ignorarlo. È lì tutto il tempo. Dopo che sono stato congedato ho capito che è una cosa che non voglio provare mai più. Sono andato subito direttamente all’università e non a fare qualche lavoro nella sicurezza, cosa che avrei potuto ottenere per i miei trascorsi in combattimento.”

È il tuo destino”

Non tutti riescono a contenere la sensazione di esaltazione. Un video che ha circolato nel 2018 mostrava un palestinese che si avvicinava alla barriera e veniva colpito da un cecchino, mentre i soldati festeggiavano il colpo diretto con grida di “Bel colpo!” e “Che video favoloso!” Roy dice che la risposta dei soldati attesta una mancanza di professionalità e troppo entusiasmo, benché egli non abbia visto niente del genere nella sua squadra.

D’altra parte penso sia umano,” dice. “Quando hai un certo obiettivo, persino se stai sparando frecce a un bersaglio, ovviamente sei contento di aver fatto centro. L’errore dei soldati è stato nel loro comportamento. Che ridano un po’ di nascosto, ma non farci un video. È anche una questione di immagine.”

Anche Amir distingue tra la soddisfazione personale e le manifestazioni pubbliche che non stanno bene in un video: “I cecchini nella squadra che abbiamo sostituito erano una leggenda. Erano campioni delle IDF e avevano due o tre fighissime X (sui loro fucili) per essersi occupati della frontiera a Gaza. Abbiamo sentito la storia delle X e anche noi le volevamo. È la tua professione, il tuo destino, il significato del tuo esistere dal momento in cui ti alzi a quando vai a letto. Ovviamente vuoi mostrare le tue capacità.”

Devi festeggiare? Non c’è nessun altro modo?

Amir: “No. Prendi il tizio più scimmiesco che conosci, ed è quello che le IDF fanno, trasformano i ragazzi in babbuini, e cerca di farlo smettere di raccontare della sua prima volta. C’è il caos là, tutti sparano, ottengono grandi successi – ti aspetti che non aprano una bottiglia di champagne? Lui si è realizzato proprio in quel momento, è un attimo particolare. In realtà più lo fa e più diventa indifferente. Non sarà più particolarmente felice, o triste. Sarà normale.

I commenti dell’esercito

L’ufficio del portavoce delle IDF ha inviato questo comunicato ad Haaretz: “La risposta operativa ai violenti disordini e all’attività terroristica ostile che le IDF hanno dovuto affrontare dal marzo 2018, così come l’uso di proiettili veri, è adeguata in modo appropriato alla minaccia rappresentata da questi incidenti, in un tentativo di ridurre per quanto possibile il ferimento di quanti hanno provocato i disordini. Negli ultimi due anni la risposta operativa è stata influenzata dall’intensità degli eventi, dai cambiamenti nell’uso della violenza da parte di quanti hanno disturbato l’ordine pubblico, dal fumo che hanno diffuso e via di seguito.

Alla luce del cambiamento che è avvenuto nella natura dei disordini si è deciso di dotare le forze anche di proiettili Ruger, che provocano meno danni. Riguardo all’uso di fucili M24, facciamo notare che è un fucile usualmente in uso dei cecchini. In generale, nel quadro degli eventi in questione, non sono stati utilizzati fucili da cecchino Barak. Siamo stati informati di un uso eccezionale e specifico di questi ultimi, che è stato riportato e indagato. I risultati sono stati inviati all’unità dell’avvocatura di Stato militare per un ulteriore esame.

Le affermazioni attribuite a un ufficiale superiore riguardo alle regole d’ingaggio non riflettono la politica operativa delle IDF. L’ufficiale intendeva spiegare che, quando ci sono state informazioni di ferite non intenzionali da arma da fuoco che non erano al di sotto del ginocchio, in alcune circostanze il comandante di settore ha deciso di rendere più vincolanti le regole d’ingaggio e di dare istruzioni ai cecchini di mirare alle caviglie.

E nel caso in cui un combattente ha sparato a un capo-agitatore, benché non abbia ricevuto l’autorizzazione dal suo ufficiale superiore, lo sparo è avvenuto in accordo con le regole d’ingaggio con l’eccezione di questa trasgressione. Il caso è stato preso in considerazione a livello di comando e non è stato presentato all’unità dell’avvocatura di Stato militare perché se ne occupi. Allo stesso modo il caso in cui una pecora è stata indebitamente colpita, questo incidente è stato gestito a livello di comando e non è stato inviato all’unità dell’avvocatura di Stato militare perché se ne occupasse. Il vice-comandante di compagnia aveva cercato di infrangere la disciplina militare ed è stato condannato a sette giorni di detenzione.”

(traduzione dall’inglese e dal francese di Amedeo Rossi)