Israele: l’elezione del nuovo procuratore della CPI solleva interrogativi sull’inchiesta per crimini di guerra

Alex MacDonald

17 febbraio 2021 – Middle East Eye

Dirigenti israeliani hanno accolto con favore la nomina del britannico Karim Khan al vertice dell’istituzione

Questo articolo è stato modificato il 18 febbraio 2021 per eliminare una frase che affermava erroneamente che l’avvocato irlandese Fergal Gaynor compariva tra i firmatari di una lettera pubblicata su Irish Times nel 2009 che chiedeva l’espulsione dell’ambasciatore israeliano a causa del bombardamento di Gaza. In realtà la lettera fu firmata dal dr. Fergal Gaynor, un accademico del Collegio Universitario di Cork.

L’elezione dell’avvocato britannico Karim Khan a Procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI) ha ancora una volta agitato lo spettro della “politicizzazione” dell’organizzazione e sollevato preoccupazioni riguardo a cosa potrà significare questa nomina per l’inchiesta sui presunti crimini di guerra di Israele e di Hamas.

L’avvocato cinquantenne, che precedentemente aveva condotto un’inchiesta dell’ONU su crimini dell’Isis in Iraq, è stato eletto venerdì a scrutinio segreto, dopo che gli Stati membri della CPI non sono arrivati ad un accordo sulla sostituzione del suo predecessore, Fatou Bensouda.

Il voto, senza precedenti nella storia di 23 anni dell’istituzione, ha visto Khan prevalere di poco sull’irlandese Fergal Gaynor.

Sulla stampa israeliana sono stati pubblicati articoli secondo cui dirigenti israeliani “hanno sostenuto dietro le quinte la candidatura di Khan” ed hanno accolto la sua elezione come una vittoria per Israele, benché il Paese non sia membro della CPI.

Probabilmente Khan si sente sotto pressione politica da parte di Israele dopo che a inizio febbraio la CPI ha annunciato di avere giurisdizione per investigare su presunti crimini di guerra da parte di israeliani e palestinesi nella Striscia di Gaza assediata e nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

L’inchiesta della CPI è stata approvata da Bensouda e non è ancora chiaro quale sarà la posizione di Khan in merito.

Il nuovo Procuratore capo della CPI deve ignorare le inevitabili pressioni politiche perché rinunci ad ogni possibile inchiesta formale su presunti crimini di guerra commessi nei territori occupati nel 1967 da qualunque parte”, ha detto a Midlle East Eye Chris Doyle, direttore del ‘Council for Arab-British Understanding’ (Consiglio per l’intesa arabo-britannica, ndtr.).

La questione deve essere definita sulla base della legge e delle prove. Niente dimostra che Karim Khan farà qualcosa di diverso.”

Un’inchiesta ‘antisemita’?

L’avvio dell’inchiesta su crimini di guerra è stato accolto con rabbia dai dirigenti israeliani, che l’hanno denunciata come ‘antisemita’.

L’inchiesta indagherà sulle violazioni commesse durante la guerra di 50 giorni nel giugno 2014, che causò l’uccisione di 2.251 palestinesi – per la maggior parte civili – e di 74 israeliani, quasi tutti soldati.

Viene avviata dopo 5 anni di istruttoria preliminare della CPI.

In seguito all’annuncio di inizio febbraio, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha denunciato che “una Corte creata per impedire atrocità come l’Olocausto nazista contro il popolo ebraico sta ora prendendo di mira l’unico Stato del popolo ebraico.”

Quando la CPI indaga Israele per falsi crimini di guerra, si tratta di puro antisemitismo”, ha detto.

Bensouda, che ha presieduto l’apertura dell’inchiesta su Gaza, è stata un bersaglio al vetriolo da parte di Israele. L’amministrazione Trump, in solidarietà con l’irritazione israeliana riguardo all’inchiesta della CPI, le ha imposto delle sanzioni.

Nel dicembre 2019 il quotidiano israeliano vicino a Netanyahu Yedioth Ahronot ha pubblicato un articolo intitolato “Il diavolo del Gambia e la Procuratrice dell’Aja”, in cui tentava di coinvolgere Bensouda in crimini commessi dall’ex presidente del Gambia Yahya Jammeh.

Israel Hayom, un altro quotidiano di destra, l’ha accusata di essere stata “consapevolmente irretita” dalla “strumentalizzazione del sistema giudiziario internazionale per realizzare l’obbiettivo diplomatico di distruggere lo Stato di Israele”.

Nel maggio 2010 il Ministro israeliano Yuval Steiniz ha detto che Bensouda aveva assunto una “tipica posizione anti-israeliana” relativamente alla CPI ed era determinata a “recare danno allo Stato di Israele e infangare il suo nome.” E a febbraio l’ex ambasciatore israeliano all’ONU Danny Danon l’ ha accusata di “ignorare Paesi che compiono terribili violazioni dei diritti umani.”

Se qualcuno deve stare sul banco degli imputati, questa è la Procuratrice capo della CPI Fatou Bensouda”, ha twittato.

Al momento, la nomina di Khan è stata accolta calorosamente da molti politici israeliani.

Il deputato Michal Cotler-Wunsh, un importante parlamentare israeliano che si occupa delle questioni della CPI, ha detto che Khan ha accolto “il potenziale della CPI di adempiere alla sua importante missione di sostenere, promuovere e proteggere i diritti di tutti coloro che hanno bisogno della sua esistenza in quanto tribunale di ultima istanza.”

Israel Hayom ha riferito che l’elezione di Khan potrebbe addirittura “portare dirigenti di Gerusalemme a riconsiderare il boicottaggio della CPI.”

Altri sono meno ottimisti. Funzionari che hanno parlato in forma anonima a Israel Hayom hanno detto che Khan dovrà ancora essere “giudicato in base alle sue azioni.”

Il fatto che altri si sono comportati male non significa che la sua scelta sia buona”, hanno detto.

Uno strumento politico’

Mentre Khan assumerà ufficialmente la carica di Bensouda a giugno, resta ancora da vedere se seguirà la strada di chi lo ha preceduto e continuerà l’inchiesta, o si piegherà alle pressioni politiche.

Da quando è nata nel 1998 la CPI ha sempre subito critiche perché è sembrato che si stesse concentrando eccessivamente sui Paesi in via di sviluppo africani, facendo invece poco per chiamare a rispondere delle proprie azioni Stati più potenti.

Il successo o il fallimento di un’inchiesta formale sulla guerra di Gaza potrebbe portare a dare o togliere credibilità all’istituzione.

Un’inchiesta formale dovrebbe essere annunciata e condotta con energia e giustizia. Mettere tutte le parti di fronte alle loro responsabilità per le proprie azioni è essenziale. È il modo più efficace per assicurare che simili crimini non saranno più consentiti in futuro”, ha detto Doyle.

Fallire in questo renderà la CPI agli occhi di molti un mero strumento politico delle grandi potenze piuttosto che il luogo della giustizia e della sanzione in difesa di quanti ne sono privati.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Biden difende Israele mentre il Jewish National Fund israeliano progetta l’insediamento di nuove colonie

Tamara Nassar

15 febbraio 2021, Electronic Intifada

Secondo quanto riferito, il Fondo Nazionale Ebraico di Israele [ente non profit dell’Organizzazione sionista mondiale con poteri para-statali fondato nel 1901 a Basilea per comprare e acquisire terra nella Palestina ottomana ed espandere l’insediamento degli ebrei, ndtr.] sta pianificando di acquistare terra palestinese di proprietà privata nella Cisgiordania occupata per espandere le colonie di soli ebrei.

Domenica la dirigenza dell’organizzazione ha approvato la proposta, che era stata riportata dai media israeliani nei giorni precedenti. Il consiglio di amministrazione dovrebbe prendere una decisione finale dopo le elezioni politiche israeliane di marzo.

Sembra che la proposta del Fondo dia priorità all’espansione delle colonie nella Valle del Giordano, nella Gerusalemme occupata, nel blocco degli insediamenti di Gush Etzion nella Cisgiordania meridionale e nell’area delle colline a sud di Hebron. Secondo i media israeliani, il gruppo non costruirà nuove colonie ma amplierà quelle già esistenti.

L’ “ampliamento” delle colonie esistenti – spesso ben oltre i confini originali – è uno stratagemma che Israele utilizza da tempo nel tentativo di minimizzare le critiche internazionali alla sua colonizzazione della terra palestinese. Inoltre, “l’acquisto di terreni” da parte delle organizzazioni israeliane delle colonie in Cisgiordania è spesso fraudolento.

Sebbene la mossa del Fondo venga descritta nei media israeliani come un “importante cambiamento politico”, essa è del tutto coerente con la sua agenda storica.

Sin dalla sua creazione nel 1901 da parte di Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista di colonizzazione della Palestina, il Fondo ha un obiettivo fondamentale: acquisire terra palestinese ad uso esclusivo degli ebrei.

Terra rubata

 L’organizzazione ha collaborato alla pulizia etnica dei palestinesi sulle loro terre al fine di costruirvi colonie per soli ebrei.

Il Fondo pretende di possedere circa il 15% della terra nell’attuale Israele.

Questa terra è riservata all’uso esclusivo degli ebrei, anche se gran parte di essa è stata rubata ai palestinesi. Il Fondo tenta spesso di dare una facciata di ambientalismo alla colonizzazione della terra palestinese. Notoriamente pianta foreste sulle rovine dei villaggi palestinesi per cancellarne la presenza.

A causa del suo ruolo nella pulizia etnica e nel razzismo, gli attivisti di tutto il mondo hanno fatto una campagna per privare il Fondo del suo status di ente di beneficenza, che gli permette di raccogliere donazioni deducibili dalle tasse. Il giornalista israeliano Barak Ravid ha riferito che l’ultima mossa del Fondo è stata sollecitata dalla lobby degli insediamenti israeliani.

I leader dei coloni mirano a più che raddoppiare il numero di coloni ebrei da circa 400.000 a un milione nell’Area C, il 60% della Cisgiordania occupata che rimane sotto il completo dominio militare israeliano. Il Fondo da sempre opera per colonizzare la terra di tutta la Palestina storica – sia nella parte risultante dalla fondazione di Israele nel 1948 che nei territori che occupa dal 1967 – tanto direttamente che attraverso gruppi di facciata.

In risposta all’articolo del quotidiano israeliano Haaretz, il Fondo ha detto di “aver operato nel corso degli anni e di continuare a farlo in modo trasparente, in tutte le parti della Terra di Israele, comprese la Giudea e la Samaria”. Giudea e Samaria è il nome che Israele usa per la Cisgiordania occupata, per addurre una rivendicazione pseudo-biblica sulla terra palestinese. Tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, comprese Gerusalemme Est e le alture del Golan in Siria, sono illegali secondo il diritto internazionale e sono considerate crimini di guerra.

In risposta ai piani del Fondo, il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che l’amministrazione statunitense ritiene “sia fondamentale astenersi da passi unilaterali che esacerbino le tensioni e che minino gli sforzi per far avanzare una soluzione negoziata a due Stati”.

L’amministrazione Biden sostiene la politica di Trump

Sebbene possa sembrare una critica rispetto all’amministrazione Trump, questa dichiarazione non rappresenta un cambiamento sostanziale. Pressato dai giornalisti, Price si è apertamente rifiutato di definire illegali le colonie israeliane – come avevano fatto tradizionalmente per decenni le amministrazioni statunitensi anche se non hanno mai intrapreso alcuna azione per fermarle.

 Invece, Price ha sostenuto il cambiamento di politica dell’amministrazione Trump del novembre 2019 dichiarando che le colonie non violano il diritto internazionale. L’amministrazione Biden sembra non meno determinata di Trump a proteggere Israele dalle conseguenze delle sue azioni. Dopo che all’inizio di questo mese la sentenza della Corte Penale Internazionale ha aperto la strada a un’indagine sui crimini di guerra israeliani in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, compresa la costruzione di colonie, l’amministrazione Biden ha espresso senza mezzi termini la sua opposizione all’indagine.

Nel frattempo Israele ha continuato a demolire case e strutture palestinesi a ritmo accelerato. Negli ultimi mesi, le forze israeliane hanno più volte sequestrato e distrutto strutture della comunità di Khirbet Humsa nella Cisgiordania occupata. Secondo la documentazione delle Nazioni Unite nel mese di febbraio Israele ha demolito e sequestrato più di 60 strutture della comunità e ha sfollato con la forza 175 persone – più di metà delle quali bambini. Tutto questo fa parte dell’impegno di lunga data di Israele a cambiare con la forza la composizione demografica nell’area – pulizia etnica – e garantire una maggioranza ebraica in preparazione dell’annessione.

 

Ali Abunimah ha contribuito alle ricerche.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il declino dei settori produttivi palestinesi: il commercio interno come microcosmo dell’impatto dell’occupazione

 Ibrahim Shikaki 

7 febbraio 2021 – Al Shabaka

Sintesi

L’occupazione israeliana ha paralizzato i settori produttivi palestinesi, portando al predominio del commercio interno nell’economia palestinese. L’analista politico di Al Shabaka Ibrahim Shikaki esamina come queste distorsioni strutturali si siano sviluppate in conseguenza delle politiche economiche oppressive di Israele da quando ha occupato la Palestina nel 1967. Shikaki propone delle raccomandazioni alla comunità internazionale e alle organizzazioni umanitarie su come appoggiare l’autodeterminazione economica dei palestinesi.

Introduzione

L’occupazione israeliana ha sistematicamente inflitto ai palestinesi costi economici disastrosi, che gli economisti hanno analizzato per decenni. Tuttavia una dimensione che queste analisi hanno trascurato riguarda le distorsioni nella struttura dell’economia palestinese e l’impatto dannoso di queste distorsioni. Il termine “struttura economica” si riferisce al contributo di diversi settori economici, compresi agricoltura, industria, edilizia e commercio, alle variabili economiche fondamentali della produzione (PIL) e dell’impiego.

Considerando che uno studio complessivo di queste distorsioni strutturali va oltre l’ambito di questo articolo, ci concentreremo su un particolare settore economico che ha giocato un ruolo sempre più predominante nell’economia palestinese: il commercio interno. In sintesi, il commercio interno riguarda la vendita e l’acquisto di beni al dettaglio e all’ingrosso, compreso il commercio con Israele. Il crescente rilievo del contributo del commercio interno nell’attività economica complessiva in Palestina è parte di un costante allontanamento dai settori produttivi come agricoltura e industria verso servizi, commercio ed edilizia.

Questo articolo sostiene che il predominio del commercio interno a spese dei settori produttivi non è né il risultato di uno sforzo consapevole di politiche da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) né il risultato di un governo liberista del mercato. Al contrario è il sottoprodotto delle politiche di occupazione israeliane e una chiara conseguenza della dipendenza dell’economia palestinese da quella israeliana fin dal 1967.

L’articolo sostiene che il commercio interno è un microcosmo dell’economia palestinese nel suo complesso, evidenziando l’inutilità dell’appoggio internazionale e dei donatori per lo sviluppo sotto occupazione. Al contrario, ciò che sarebbe necessario riguarda il rafforzamento dell’elaborazione indipendente, trasparente, responsabile e collettiva di politiche palestinesi, un tipo di guida e governo che la dirigenza palestinesi degli ultimi 25 anni non può dirigere o realizzare.

Il predominio del commercio interno in Palestina

Prima di approfondire i dati che dimostrano l’attuale predominio del commercio interno nell’economia palestinese è utile familiarizzarsi con le attività economiche e i sotto-settori che rientrano in questa categoria generale. Secondo la più recente Classificazione Industriale Standard Internazionale [classificazione delle attività economiche definita dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite, ndtr.] (ISIC-4), la denominazione ufficiale relativa al settore del commercio interno è “Commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di veicoli a motore e motocicli.”

Questa classificazione generale include 43 diversi sotto-settori. Secondo il censimento delle imprese PCBS [Ufficio Centrale di Statistica palestinese, ndtr.] del 2017 i tre settori prevalenti, che rappresentano il 50% di ogni struttura economica nel commercio interno palestinese, erano “vendita al dettaglio in negozi non specializzati prevalentemente di cibo, bevande o sigarette”, “commercio al dettaglio di cibo in negozi specializzati” e “vendita al dettaglio di vestiti, calzature e prodotti di cuoio in negozi specializzati”. In altre parole metà di tutte le unità economiche nel maggior settore dell’economia palestinese era composta da negozi di generi alimentari, noti come “al-dakakin”, così come da negozi di cibo e vestiti al dettaglio.

Dati della Contabilità generale del PCBS mostrano che il commercio interno gioca un ruolo sempre più importante in termini di contributo al valore aggiunto (cioè PIL) complessivo della Palestina. Nel 2018 il commercio interno ha rappresentato il 22% sul totale del PIL palestinese (circa 2,9 miliardi di euro nel 2018). Ciò supera il contributo di qualunque altro settore economico come agricoltura (7,5%), industria (11,5%) e il più complessivo settore dei servizi (20%), che include istruzione, salute, l’immobiliare e altri settori. All’interno del solo settore privato il commercio interno rappresenta circa il 40% del valore aggiunto.

Il fatto che il commercio interno rappresenti quasi un quarto dell’attività economica totale non è una cosa naturale nell’economia palestinese né rappresentativa della specializzazione della sua forza lavoro. Come mostra il grafico 1 che segue, i primi giorni dell’ANP a metà degli anni ’90 videro un periodo di breve durata di elevata fiducia che contribuì a determinare un ruolo relativamente forte del settore manifatturiero. Tuttavia gli anni della Seconda Intifada (2000-2005) ridussero praticamente tutti i settori economici tranne la pubblica amministrazione, rispecchiando l’aumento degli aiuti alla spesa salariale del settore pubblico come ultima risorsa per l’ occupazione.

Fonte: PCBS. Calcolo nazionale a prezzi attuali e costanti, vari anni.

Ramallah – Palestina.

Nel 2006, dopo la Seconda Intifada, cominciò ad emergere un chiaro modello verso una svolta neoliberista e un crescente accesso al credito. Ma, nonostante questa svolta, i settori produttivi palestinesi rimasero stagnanti o declinarono, mentre il contributo del commercio interno più che raddoppiò in 10 anni (dal 10% nel 2008 al 22% nel 2018). La cosa non sorprende dato che la svolta neoliberista rafforzò il predominio delle attività economiche “che eludono l’occupazione”, che operarono per evitare gli ostacoli posti da Israele con pochissima attenzione nei confronti del popolo palestinese. I settori produttivi non lo fanno in quanto devono contrastare lo status quo del controllo israeliano sulla terra e le frontiere, fondamentali per l’agricoltura e l’industria.

Comunque il contributo al PIL è solo uno degli indicatori del predominio del commercio interno. Dal 1997 ogni dieci anni il PCBS ha condotto un censimento generale, incluso un censimento delle imprese, che fornisce dati sul numero di attività economiche nazionali e dei lavoratori in ognuno dei vari settori e sotto-settori. Per sua natura il censimento non copre alcune attività economiche, come il lavoro in Israele e l’auto-impiego. Tuttavia l’esclusione del lavoro dei palestinesi in Israele consente al censimento di offrire una stima migliore dell’occupazione creata dal settore privato interno.

Le tendenze evidenziate dal censimento sono rivelatrici. Il numero di imprese che operano nel commercio interno sono aumentate da 39.600 nel 1997 a 56.993 e 81.260 rispettivamente nel 2007 e nel 2017. Mediamente queste cifre rappresentano il 53% di tutte le attività economiche che operano nell’economia palestinese. Come detto sopra, e come spiegato nella tabella 1, tre sotto-settori rappresentano metà di questo dato.

Tavola 1: I principali sotto-settori palestinesi

 

Sottosettori

Numero di imprese

Percentuale delle imprese del commercio interno

Percentuale su tutte le imprese

Negozi alimentari “al-dakakin”

17309

21%

11%

Negozi alimentari al dettaglio

10567

13%

6.7%

Negozi di vestiti al dettaglio

10364

12.7%

6.5%

Parrucchieri e trattamenti estetici

8629

Non inclusi nel settore del commercio interno

5.5%

 

Fonte: PCBS, 2018. Censimento della popolazione, delle abitazioni e delle imprese, 2017, Risultati finali.

Rapporto sulle imprese., Ramallah-Palestina

Riguardo all’occupazione, mediamente il 37% di tutti i lavoratori inclusi nel censimento erano impiegati nel settore del commercio interno, di gran lunga il maggiore tra tutti i settori economici, seguito da quello manifatturiero (22%). Oltretutto il settore era il secondo come lavoro femminile (18%) dopo quello relativo all’istruzione, che impiega il 26% di tutte le lavoratrici incluse nel censimento. Tuttavia è da notare che la presenza delle donne nel settore del commercio interno sottostima la partecipazione complessiva delle donne. Per esempio, il censimento delle attività del 2017 indica che, mentre le donne rappresentano il 24% del totale della forza lavoro (rispetto al 76% degli uomini), nel settore del commercio interno la manodopera era approssimativamente divisa tra il 91% di uomini e il 9% di donne.

Va anche notato che dal boom del credito privato nel 2008 il commercio interno è stato il settore economico a godere del maggior numero di crediti e mutui agevolati, tra il 20% e il 25% del totale del credito al settore privato (1). L’ammontare del credito erogato alle attività del commercio interno è cresciuto dai circa 250 milioni di euro nel 2008 all’1,11 miliardi di euro nel 2019, un aumento quasi del 250% in dieci anni. Il settore più vicino nel 2019 è stato il credito per il “patrimonio edilizio residenziale”, con circa 865 milioni di euro. Per contestualizzare il tutto, settori produttivi come l’agricoltura e l’industria sommavano rispettivamente solo circa 76 milioni e 372 milioni di euro.

Inoltre il lavoro palestinese in Israele, che nel 1987 raggiunse più del 40% della forza lavoro palestinese totale, nell’economia palestinese ha avuto un duplice impatto sulla crisi dei settori produttivi e la crescita delle attività legate al commercio. In primo luogo, mentre questi lavoratori palestinesi migranti venivano pagati il 50% in meno dei lavoratori israeliani, i loro stipendi erano comunque più alti della media di quelli palestinesi nell’economia interna. Ciò ha attirato lavoratori per il mercato israeliano e fatto salire artificialmente i salari palestinesi all’interno, accrescendo i costi per i produttori palestinesi. In secondo luogo, il lavoro in Israele ha creato quello che l’UNCTAD [Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, ndtr.] definisce la “differenza tra produzione interna e reddito.”

In altre parole, il reddito dei lavoratori palestinesi in Israele creò un potere d’acquisto notevolmente superiore a quello dei settori produttivi interni. Il reddito addizionale si rivolse all’edilizia o a un sempre maggiore livello di importazioni, e quest’ultimo portò a un livello di deficit commerciale senza precedenti.

Da quanto detto risulta chiaro che il commercio interno è il principale settore che contribuisce alla produzione, all’occupazione e al debito personale nell’economia palestinese. Ciò significa un grave colpo per i settori produttivi palestinesi. La comprensione di come si sia determinata questa situazione richiede un esame della storia economica della Palestina che riguarda le distorsioni strutturali create dall’occupazione israeliana e il rapporto di dipendenza determinato dalle politiche economiche colonialiste di Israele da quando ha occupato la Palestina nel 1967.

Dipendenza e commercio nel contesto israelo-palestinese

Gli studiosi latinoamericani sono stati i primi a proporre la teoria della dipendenza. La specifica osservazione che hanno fatto è che le risorse, comprese le risorse umane, naturali ed altri beni primari sono state esportate dai Paesi periferici dal Sud Globale ai Paesi centrali nel Nord Globale, mentre i prodotti finiti si sono spostati nella direzione opposta. In seguito a ciò non solo la maggior parte della produzione di valore aggiunto avviene nel centro, ma anche la struttura economica della periferia è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro invece che del proprio sviluppo a lungo termine.

La dipendenza ha chiuso le economie della periferia in un ciclo di sviluppo rachitico per cui sono state incapaci di sviluppare una forte base produttiva, il loro deficit commerciale è andato alle stelle e sono rimaste dipendenti dal lavoro e dai mercati delle economie del centro. In termini marxisti, il centro fa uso dell’“esercito industriale di riserva” della periferia per garantire prezzi bassi della produzione ed ha aperto i mercati della periferia alle proprie merci per garantirsi che non ci siano crisi di “sovraproduzione”, con le imprese che non riescono a vendere i propri beni perché quello che producono supera di molto la domanda esistente.

Con una dipendenza così intesa, la relazione tra le economie palestinese e israeliana dal 1967 offre un esempio da manuale. Da una parte le risorse naturali (come terra, acqua e minerali), prodotti non finiti e risorse umane (lavoro) si sono spostati dalla periferia palestinese all’economia centrale israeliana, mentre i beni finiti si sono spostati dall’economia israeliana a quella palestinese.

Nei primi 20 anni dell’occupazione israeliana il deficit complessivo del commercio estero dell’economia palestinese è cresciuto da 28 a 541 milioni di euro. Oltretutto questo deficit commerciale è stato prevalentemente il risultato degli scambi con Israele, che nei primi 20 anni crebbero da 82 milioni a 1 miliardo 18 milioni di euro. I palestinesi hanno esportato in Israele beni dell’industria leggera e alcuni prodotti agricoli, mentre hanno importato beni di consumo finiti e durevoli, che sono prodotti non di consumo immediato ma che durano per alcuni anni.

Questa tendenza non è cambiata dopo la creazione dell’ANP nel 1994. Al contrario, alimentata dall’aiuto internazionale e dalla disponibilità di credito in seguito alla Seconda Intifada, nel 2019 il deficit commerciale ha raggiunto il picco di 4,5 miliardi di euro, con più di metà (il 55%) di questo debito attribuibile al commercio con Israele. Già negli anni ’80 più di due terzi di tutto il commercio palestinese era legato ad Israele. Dalla fondazione dell’ANP, mediamente il commercio palestinese è dipeso da Israele per il 75% delle importazioni e per l’80% delle esportazioni.

Sia importazioni che esportazioni raccontano una storia di dipendenza. In molti casi le importazioni palestinesi da Israele venivano in precedenza prodotte all’interno, compresi vestiti, calzature, bibite, mobili e persino beni per l’edilizia e farmaci. D’altronde le esportazioni raccontano di una accresciuta dipendenza. Dall’inizio dell’occupazione nel 1967 Israele non solo ha sfruttato il lavoro a buon mercato dei migranti palestinesi, ma ha anche sfruttato il lavoro palestinese all’interno della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme est, compreso quello femminile.

In pratica gli imprenditori israeliani mandavano tessuti grezzi a imprenditori palestinesi in subappalto che poi avrebbero assunto donne palestinesi pagando loro bassi salari. Il prodotto finale sarebbe tornato agli uomini d’affari israeliani che spesso li avrebbero venduti sui mercati palestinesi. In seguito a ciò, molti dei beni considerati esportazioni palestinesi in Israele erano in realtà prodotti intermedi legati a israeliani e in seguito rivenduti sul mercato palestinese come beni finiti e imballati in modo che i capitalisti israeliani ricavassero guadagni dalla fase finale della catena produttiva. In altre parole, la dipendenza era così stretta che persino le esportazioni non erano l’esito di un prospero settore produttivo, ma un risultato della disparità di potere imposta da Israele all’economia palestinese, con la stragrande maggioranza dei benefici a favore del regime israeliano.

I costi economici dell’occupazione militare israeliana

Le dinamiche fin qui delineate mostrano non solo la stretta dipendenza dei palestinesi dai prodotti e dal mercato del lavoro israeliani, ma spiegano anche come il commercio di beni, soprattutto israeliani, sia progressivamente diventato la principale attività economica in Cisgiordania e a Gaza. Ciò è stato in parte dovuto all’influenza del reddito di lavoratori [palestinesi, ndtr.] in Israele e delle rimesse dei palestinesi che lavorano nei Paesi del Golfo, e in parte all’indebolimento dei settori produttivi.

Tuttavia non sono state solo queste dinamiche sotterranee di dipendenza che hanno potenziato il commercio interno e indebolito i settori produttivi. C’è stato anche un impegno coordinato da parte del regime israeliano a soffocare l’attività economica dei palestinesi, rafforzando nel contempo negozianti e commercianti palestinesi. I tentativi di ridurre il settore produttivo palestinese sono stati documentati da rapporti ufficiali israeliani. Per esempio nel 1991 il rapporto della Commissione Sadan [creata dal ministro della Difesa Moshe Arens per studiare la situazione economica nei territori occupati, ndtr.] affermò: “Nessuna priorità è stata data alla promozione dell’imprenditoria locale e al settore degli affari” e che “le autorità hanno scoraggiato tali iniziative ogni volta che esse entravano in competizione sul mercato israeliano con le imprese israeliane esistenti.”

In effetti alcune delle prime ordinanze militari emanate da Israele erano di natura economica, il cui risultato fu la chiusura di tutte le banche che operavano in Cisgiordania e a Gaza e l’imposizione di una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni tuttora in vigore. Queste restrizioni hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività economica o importare nuovi macchinari, anche per l’edilizia. Tra il 2016 e il 2018 le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% delle licenze edilizie nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania. Oltretutto il blocco imposto contro Gaza dal 2007 ha diminuito la possibilità delle sue imprese ed ha gravemente colpito i settori produttivi, costando in ultima analisi all’economia più di 13 miliardi di euro nel periodo dal 2007 al 2018.

Dal 1967 Israele ha anche controllato il commercio palestinese. Mentre consentiva a qualche prodotto agricolo e dell’industria leggera di entrare nel mercato israeliano, questi beni erano necessari all’industria e al settore della trasformazione di prodotti agricoli come sesamo, tabacco e cotone. Una parte fondamentale della strategia economica di Israele è stata la politica dei “ponti aperti”, che ha consentito movimenti di beni senza restrizioni tra la riva orientale e quella occidentale del fiume Giordano. Ciò è stato usato per “svuotare” il mercato palestinese di certi prodotti palestinesi per far posto a quelli israeliani, che non avrebbero potuto essere esportati nei Paesi arabi a causa del boicottaggio arabo contro Israele.

Gradualmente il commercio all’ingrosso e al dettaglio dei prodotti israeliani ha giocato un ruolo fondamentale nelle attività economiche in Cisgiordania e a Gaza. Dalla sua istituzione nel 1981 l’“Amministrazione civile” dell’esercito israeliano, l’unica istituzione governativa della Cisgiordania e a Gaza fino al 1994 e che mantiene ancora il controllo dell’Area C, ha offerto incentivi e bonus economici a impresari e commercianti palestinesi che accettano di esportare alcuni prodotti. Ciò non solo priva i mercati palestinesi di questi prodotti, ma è stato anche fondamentale per le riserve di denaro estero di Israele, in quanto una delle condizioni di questi incentivi era depositare i pagamenti in dinari giordani nelle banche israeliane. La politica dei “ponti aperti” ha spostato la produzione palestinese dalla soddisfazione delle necessità locali alla produzione di beni ed alla coltivazione di prodotti destinati ai mercati esteri.

Svuotando il mercato palestinese e consentendo il libero movimento dei prodotti israeliani, la politica dei “ponti aperti” ha creato dipendenza sia della produzione che del consumo dai prodotti israeliani e nel contempo ha rafforzato il ruolo del commercio tra i ricchi commercianti capitalisti palestinesi.

Effettivamente i proprietari di grandi imprese economiche e i dirigenti delle camere di commercio nelle città palestinesi hanno fatto fortuna grazie all’occupazione. Alcuni di questi mercanti godono persino di franchigie ed hanno iniziato a commerciare prodotti israeliani. Siccome il loro interesse corrisponde a quello dei commercianti israeliani, e in conseguenza della loro tendenza a ingraziarsi e a negoziare con il regime occupante, essi sono visti come “la prima classe sociale ad essersi legata all’economia israeliana.”

Il dopo Oslo e la continua capitolazione nella formulazione di politiche

I primi 25 anni dell’occupazione israeliana impedirono lo sviluppo dei settori produttivi palestinesi e concentrarono l’attività economica nella compravendita di beni importati, la grande maggioranza dei quali israeliani. Dopo l’istituzione dell’ANP nel 1994 cambiò molto poco nella struttura dell’economia. Accordi firmati, tra cui il Protocollo di Parigi, diedero all’ANP il controllo formale sulle entrate fiscali. Tuttavia l’accordo formalizzò semplicemente la già esistente iniqua unione doganale tra le due economie. Livelli asimmetrici dei prezzi continuarono a danneggiare sia produttori che consumatori palestinesi, dato che obbligarono l’economia palestinese ad operare soggetta ad una struttura israeliana con costi elevati, nonostante la grande disparità dei livelli di reddito tra le due economie.

Cosa più importante, il controllo sui confini, sulle risorse e sul sistema dei permessi nella maggior parte dei terreni agricoli palestinesi – e sui terreni adatti a scopi industriali – rimane nelle mani di Israele. I settori produttivi continuano a ridursi e il commercio interno diventa più importante che mai. L’élite economica palestinese ha anche abbandonato le attività produttive che richiederebbero di opporsi allo status quo, optando invece per investire in servizi, finanza e importazioni. Il potere economico dei capitalisti palestinesi con rapporti nei Paesi del Golfo non dà origine ad attività legate alla produzione. I loro utili sono invece ricavati “da diritti di importazione esclusivi su prodotti israeliani e dal controllo su ampi monopoli.”

I progetti internazionali dopo la Seconda Intifada sono andati nella stessa direzione, compresi il progetto “The Arc” della Rand Corporation [organizzazione no profit USA, ndtr.], il piano di John Kerry [segretario di Stato Usa nell’amministrazione Obama, ndtr.] e del Quartetto [composto da ONU, USA, UE e Russia, ndtr.] nel 2014 e, più di recente, quello di Jared Kushner [genero e consigliere di Trump per il Medio Oriente, ndtr.] del 2019. Mentre questi piani variano quanto al livello di coinvolgimento dei palestinesi e alla sensibilità riguardo alla situazione politica, adottano una versione fondamentalista del mercato in opposizione a un approccio più sfumato riguardo al ruolo del settore pubblico. Per esempio il piano Kushner trasuda ideologia economica conservatrice, come la cosiddetta struttura fiscale a favore dello sviluppo. Si basa anche sui principi della dottrina “legge ed economia” che porta al controllo giudiziario sulla legislazione per dare priorità a un’ideologia economica ortodossa al di sopra di considerazioni di carattere morale e giuridico.

In sintesi, la crescita del commercio interno ha portato a un allontanamento dalla produzione e verso attività che danno meno spazio allo sviluppo ed alla trasformazione dell’economia. Tuttavia, oltre alle tendenze produttive sfavorevoli, ci sono altre preoccupazioni sociali. Le donne sono sottorappresentate in questo segmento della forza lavoro e la preponderanza del commercio interno porta a un impatto redistributivo negativo all’interno della società palestinese.

Una misura della differenza di reddito che ne risulta può essere valutata attraverso l’evoluzione della quota di reddito, che è la quota di entrate totali prodotta dal lavoro rispetto a quello totale generato dal capitale (profitto, rendita e interesse). Mentre non esistono serie ufficiali della quota di reddito, un semplice indicatore si ottiene dividendo il compenso dei dipendenti di un settore per il valore aggiunto lordo, individuando così la distribuzione tra i lavoratori e i capitalisti. Utilizzando questo metodo il commercio interno presenta risultati peggiori rispetto ad altri settori, con una media negli ultimi 10 anni del 15% rispetto alla media del 27% in tutti i settori dell’economia.

Conclusione e suggerimenti su come procedere

Non c’è un suggerimento di politiche uguale per tutti per risolvere le distorsioni strutturali nell’economia palestinese che l’hanno allontanata dai settori produttivi. Tuttavia la crescita dei settori produttivi dovrebbe essere coltivata in un più ampio contesto di politiche economiche per lo sviluppo. Fadle Naqib, esperto di politica economica della Palestina, riassume le sue tre raccomandazioni per il settore economico in questo modo: rivitalizzare il settore agricolo, espandere il settore manifatturiero e adottare una strategia nazionale per lo sviluppo tecnologico.

Tuttavia andrebbe presa in considerazione anche la situazione politica che impatta sullo sviluppo economico palestinese. In effetti nel 2010 la Banca Mondiale riconobbe che “l’efficacia del sostegno allo sviluppo a lungo termine è pesantemente dipendente dal contesto politico tra israeliani e palestinesi,” e, come tale, dovrebbe ripensare il proprio mandato, ruolo e ambito nelle attività in Cisgiordania e a Gaza.”

Quelle che seguono sono raccomandazioni per le istituzioni finanziarie internazionali, compresi la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, così come per la comunità internazionale e le organizzazioni umanitarie in generale, per sostenere l’autodeterminazione economica dei palestinesi palestinese:

  • Riconoscere che il rapporto tra le economie palestinese e israeliana ha distrutto ogni sviluppo possibile dell’economia palestinese. Quindi è sbagliato ed assurdo presupporre che le dinamiche che governano il rapporto tra le due economie siano quelle di un mercato libero.

  • Fornire aiuto internazionale diretto per appoggiare gli agricoltori palestinesi nelle zone minacciate di annessione, comprese quelle colpite dalle colonie israeliane e dal Muro.

  • Fare pressione sul regime israeliano per agevolare la concessione di permessi nell’Area C, comprese licenze edilizie per strutture residenziali e produttive.

  • Rafforzare una   elaborazione di politiche palestinesi indipendenti appoggiando centri di ricerca indipendenti e studiosi, sindacati e rappresentanti di gruppi che normalmente sono assenti dal processo decisionale, compresi donne, giovani e rifugiati. Ciò deve essere fatto con un processo trasparente, controllabile e collettivo che comprenda tutti i soggetti interessati.

  • Fare pressione sul governo israeliano per porre fine all’occupazione perché i palestinesi abbiano il controllo sulla loro politica economica.

  • Riconoscere che porre fine all’occupazione israeliana porterà anche il settore privato palestinese a fiorire e prosperare.

Note:

1. Dato ricavato dal sito dell’Autorità Monetaria Palestinese (PMA)

Ibrahim Shikaki

Analista politico di Al-Shabaka, Ibrahim Shikaki è professore associato di economia al Trinity College, Hartford, Connecticut. Ha ottenuto il dottorato presso la New School for Social Research (NSSR) di New York ed è stato docente presso le università NSSR, The International University College di Torino, Birzeit e Al-Quds. È stato anche ricercatore al Palestine Economic Policy Research Institute (MAS) di Ramallah e al Diakonia’s IHL Research Center a Gerusalemme est. I suoi recenti scritti includono un capitolo su politica economica della dipendenza e composizione di classe in Palestina in via di pubblicazione, e un articolo sugli aspetti economici del piano Barhain di Kushner.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Alcune riflessioni sulla decisione della Corte Penale Internazionale riguardante la sua giurisdizione territoriale in Palestina

François Dubuisson

6 febbraio 2021 – Mondoweiss

La decisione della CPI di indagare sui crimini di guerra in Palestina ha un enorme significato simbolico e, date le recenti denunce, prenderà probabilmente in considerazione il crimine di apartheid.

È eufemistico affermare che la decisione della Camera di prima istanza della Corte penale internazionale sull’apertura di un’indagine riguardante la situazione della Palestina fosse attesa, dato che, da quando nel 2009 è stato fatto il primo tentativo, l’iter per portare davanti alla CPI l’indagine sui crimini internazionali commessi in territorio palestinese nel contesto dell’occupazione israeliana è stato lungo e tumultuoso. Nella sua decisione del 5 febbraio il giudice del dibattimento preliminare ha confermato la posizione dell’Ufficio del Procuratore, esposta nel documento a lui trasmesso nel dicembre 2019, secondo cui la Corte ha giurisdizione per indagare su tutti i crimini commessi in tutti i Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme est.

Nella sua decisione la Camera ha adottato un approccio cauto per limitare la portata del suo ragionamento al quadro specifico dello Statuto di Roma e della competenza della Corte, senza influenzare l’esito più ampio della controversia tra Palestina e Israele. Tuttavia, il significato simbolico di questa decisione va al di là del quadro relativo esclusivamente alla Corte penale internazionale.

La Camera ha stabilito per la prima volta che la Palestina debba essere considerata uno “Stato contraente dello Statuto di Roma”, a seguito del riconoscimento, nel 2012, attraverso l’adozione della Risoluzione 67/19, di uno “status di Stato osservatore non membro presso le Nazioni Unite”. In quanto Stato membro la Palestina può quindi fare appello alla giurisdizione della CPI, in particolare alla sua giurisdizione territoriale, e può anche presentare un deferimento all’Ufficio del Procuratore, cosa che ha fatto nel 2018. Il secondo punto cruciale è stato determinare l’estensione precisa dei territori sui quali la Corte può esercitare la propria giurisdizione penale. Secondo lo Statuto di Roma, la Corte può esercitare la giurisdizione sui crimini commessi nel territorio di uno Stato contraente. Nel caso specifico la questione era determinare la precisa estensione del territorio della Palestina, tenendo conto dell’occupazione israeliana e dell’annessione di Gerusalemme est. Al riguardo sono state sollevate varie obiezioni dinanzi alla Camera, osservando che non dovesse spettare alla CPI determinare i confini dello Stato palestinese, che restano oggetto di contenzioso da parte di Israele, e che persistessero troppe incertezze al riguardo. Ancora una volta, la Camera è stata cauta nell’indicare che avrebbe dovuto solo determinare il quadro relativo alla giurisdizione penale territoriale nel contesto dello Statuto di Roma, e non indicare i confini tra Palestina e Israele. Al fine di stabilire che il territorio della Palestina su cui la Corte ha giurisdizione comprende tutti i territori palestinesi occupati, la Camera si è basata principalmente sul diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, come stabilito in numerose risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In particolare, la Camera ha fatto riferimento alla risoluzione 67/19 che concede alla Palestina lo status di Paese osservatore, il che “riafferma il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e all’indipendenza del proprio Stato di Palestina nel territorio palestinese occupato dal 1967″. Infine, la Camera ha ritenuto che gli Accordi di Oslo, che escludono i cittadini israeliani dalla giurisdizione penale dell’Autorità Nazionale Palestinese, non avessero effetti sulla determinazione della giurisdizione territoriale della Corte.

La Camera ha quindi convalidato la giurisdizione della Corte nella massima misura possibile, senza restrizioni territoriali, il che consentirà all’Ufficio del Procuratore di condurre le proprie indagini su tutti i crimini commessi dal giugno 2014 sul territorio palestinese, compresa Gerusalemme Est. Quali saranno le esatte conseguenze della decisione della Camera riguardo il procedimento dinanzi alla CPI ma anche, più in generale, nel contesto del conflitto israelo-palestinese?

L’Ufficio del Procuratore (OTP) potrà ora aprire formalmente un’indagine per stabilire le responsabilità penali individuali per i crimini previsti dallo Statuto (in particolare crimini di guerra e crimini contro l’umanità). Finora l’OTP ha identificato quattro categorie principali di crimini di guerra che intende indagare: crimini commessi da Hamas e altre organizzazioni palestinesi nel contesto della guerra di Gaza del 2014 (Operazione “Margine Protettivo”), consistenti principalmente nel lancio di missili sulla popolazione civile israeliana; crimini commessi nello stesso contesto dall’esercito israeliano, consistenti principalmente nel prendere di mira e uccidere civili palestinesi e nella distruzione di edifici civili; crimini commessi dall’esercito israeliano nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno” del 2018 a Gaza, durante la quale i soldati hanno aperto il fuoco e ucciso circa 200 civili palestinesi e ferito molti altri; crimini commessi nel contesto della politica di colonizzazione del territorio palestinese, in particolare l’insediamento della popolazione civile ebraica israeliana.

L’Ufficio del Procuratore ha rilevato che nel corso delle indagini questi diversi fatti potrebbero essere integrati da altri. In effetti, sono stati identificati solo i crimini di guerra, mentre molti rapporti internazionali si riferiscono a crimini contro l’umanità, specialmente se si considera la politica di occupazione israeliana nel suo insieme. A questo proposito, si dovrà probabilmente prendere in considerazione l’esame del crimine di apartheid, in particolare alla luce dei recenti rapporti delle associazioni israeliane Yesh Din e B’Tselem [ONG impegnate nella testimonianza delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.], che hanno stabilito l’esistenza di un crimine di apartheid imputabile all’autorità israeliana, tenendo conto di tutte le caratteristiche della politica di occupazione, che discrimina sistematicamente tra i coloni israeliani e la popolazione palestinese.

Il compito dell’Ufficio del Procuratore sarà ora quello di indagare in modo più accurato sui fatti più gravi e identificare le persone responsabili, nei cui confronti dovrebbe essere tenuto un processo. Da questo punto di vista la situazione sarà diversa per i sospetti palestinesi e israeliani. Per i primi, la Corte può fare affidamento sull’obbligo di cooperazione incombente sulla Palestina in quanto Stato contraente dello Statuto, che riguarderà sia l’indagine sui fatti che il possibile arresto delle persone nei cui confronti fossero mosse delle accuse. Per i crimini che coinvolgono funzionari israeliani, la situazione sarà più complicata, poiché Israele rifiuterà la cooperazione e ostacolerà l’accesso degli investigatori al territorio sia israeliano che palestinese. L’indagine dovrà quindi basarsi principalmente su informazioni fornite da altre fonti e da rapporti internazionali esistenti. Sarà anche estremamente difficile ottenere l’arresto di israeliani sospettati. Tuttavia, per gli aspetti più evidenti dei crimini commessi da governanti israeliani, come la politica di insediamento portata avanti in modo molto ufficiale, attraverso canali decisionali abbastanza facilmente identificabili, la determinazione della responsabilità penale individuale sarà normalmente più facile e potrà essere fatta risalire ai massimi livelli dello Stato. Anche se lo svolgimento di un processo all’Aia contro governanti israeliani potrebbe rivelarsi molto ipotetico, il semplice atto d’accusa o l’emissione di un mandato di arresto contro alti responsabili militari o politici israeliani avrebbe già una grande forza simbolica, probabilmente in grado di stabilire un certo grado di pressione sugli Stati occidentali, alleati dello Stato di Israele.

Sebbene la Camera sia stata attenta a limitare la portata della sua decisione al quadro rigoroso della Corte penale internazionale, è necessario notare che la posizione giuridica della Palestina sulla scena internazionale viene di conseguenza rafforzata. In primo luogo, la Palestina deve effettivamente essere considerata come uno Stato per tutti i procedimenti legali che è probabile che intraprenda davanti alla Corte Penale Internazionale o altrove (come i procedimenti pendenti dinanzi alla Corte internazionale di giustizia relativi al trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme). In secondo luogo, e ancora più fondamentale, si riconosce che il diritto del popolo palestinese a uno Stato si applica a tutti i territori occupati dal 1967, compresa Gerusalemme Est. Sebbene la Camera abbia formalmente sottolineato che si stesse pronunciando solo sulla giurisdizione penale della Corte, in realtà la sua decisione si riferisce alla sostanza del diritto all’autodeterminazione e al quadro territoriale entro il quale debba essere esercitato. Viene quindi riconosciuto che i palestinesi “hanno diritto” a tutti i territori occupati al di là della linea verde [confine dello Stato di Israele dal 1949, sulla base degli accordi dell’armistizio tra Israele e Stati arabi, fino alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, ndtr.] e che le rivendicazioni territoriali di Israele a questo riguardo, che si sono recentemente manifestate attraverso i piani di annessione, sono infondate. Questo punto è cruciale nella prospettiva di qualsiasi soluzione, sia essa una soluzione a due Stati o a uno Stato.

La prosecuzione del processo di indagine dell’OTP richiederà probabilmente molti altri anni, quindi ci vorrà del tempo perché emergano risultati concreti. Ma il significato pratico e simbolico della decisione è già un dato di fatto.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’obiettivo? Giudaizzazione. Lo strumento? Un’esercitazione militare in mezzo a un villaggio

Yuval Abraham  –

5 febbraio 2021 – 972 Magazine

Mentre i residenti di Jinbeh aspettano che l’Alta Corte determini il loro destino, l’esercito israeliano decide di tenere una vasta esercitazione proprio nel centro del villaggio.

La prima granata ci ha svegliati alle 2 del mattino, un’esplosione formidabile. La porta di metallo della stanza ha tremato e l’odore del fumo ha riempito l’aria. Mi sono alzato dal letto. L’esplosione è stata così vicina che si potevano sentire i soldati al piano di sotto gridare: “Yalla, continua. Presto.”

E’ esplosa un’altra bomba. L’esercito israeliano stava conducendo una massiccia esercitazione di addestramento a Jinbeh, un piccolo villaggio della Cisgiordania nella zona di Masafer Yatta sulle colline a sud di Hebron, dove vivono circa 150 palestinesi.

Si sono accese le luci delle case in tutto il villaggio. Alcuni residenti spaventati si sono precipitati fuori. Quando è tornato il silenzio, Hamdan, che dormiva accanto a me, ha detto: “È tutto, penso che sia finita. Torniamo a dormire. ”

Ma poi c’è stata un’altra esplosione. Le finestre sbattevano, i cani ululavano, io ero spaventosamente teso e tutto è continuato così fino alle 4 del mattino. Nessuno degli abitanti di Jinbeh è riuscito a dormire quella notte.

La mattina seguente abbiamo visto un gran numero di attrezzature militari nella valle. Trenta carri armati e un convoglio di autocarri pesanti carichi di proiettili stavano salendo fino al villaggio, spianando la stretta strada sterrata. Uno a uno, i carri armati hanno superato le dozzine di famiglie e bambini che erano fuori, stanchi dalla notte passata e completamente sotto shock.

Una nonna nata a Jinbeh nel 1942 mi ha detto che non aveva mai visto niente del genere. L’esercito ha condotto per decenni addestramento militare nella zona, ha detto, ma mai in questo modo. Non erano mai arrivati con i carri armati fino alle case abitate.

Nel 1980 l’esercito israeliano dichiarò la zona Area di Tiro 918 anche se dodici villaggi palestinesi, incluso Jinbeh, stavano lì da molto prima che Israele fosse fondato nel 1948. Obiettivo dell’esercito: allontanare i residenti palestinesi.

Mentre la nonna parlava, uno dei carri armati si è schiantato contro il cancello di pietra della casa accanto. Uno dei bambini ha detto di avere paura. Un altro autista da un carro armato ha salutato una ragazza vestita di viola e lei gli ha risposto. Un terzo carro armato è entrato nel cortile di una casa: molto probabilmente il conducente si era confuso sul percorso.

Un altro carro armato ha sbandato contro la vecchia casa di pietra di Ali, 60 anni. L’autista, che sembrava avere diciannove anni, era imbarazzato. Un ufficiale con la barba grigia ha battuto le mani in segno di disprezzo e gridato: “Deficiente, è così che tieni la strada?”

Ali si è avvicinato e ha visto che il carro armato aveva tirato giù dei grandi massi che ora stavano bloccando l’ingresso al suo edificio. L’autista non si è mosso di un centimetro. L’ufficiale ha gridato di nuovo: “Riprenditi dallo shock e corri immediatamente a prendere i cavi di traino”.

I carri armati hanno proseguito oltre gli altri edifici, e Ali è rimasto fuori casa. Ha chiesto a suo figlio di aiutarlo a tirare via i massi. Anche Ali è nato qui a Jinbeh. Mi ha detto che ha lavorato come operaio edile in Israele per tutta la vita, riparando strutture e strade. Nel Kibbutz Be’eri. A Nahal Oz. Così ha detto.

Ali ha detto di avere quattro fratelli che hanno lasciato Jinbeh negli ultimi dieci anni. Hanno abbandonato il villaggio in cui sono nati a causa delle politiche israeliane, a causa dell’Area di Tiro 918, ha sottolineato. Ha spiegato che l’esercito sta impedendo loro di asfaltare le strade e si rifiuta di concedere loro permessi di costruzione o di farli allacciare all’acqua e alla luce.

Jinbeh è uno degli oltre 200 villaggi palestinesi nell’Area C della Cisgiordania occupata su cui l’esercito israeliano ha pieno controllo, in cui vengono sistematicamente negati i permessi di costruzione anche se la terra è proprietà privata dei residenti.

L’esercito risparmia solo le vecchie case di pietra del villaggio, come quella di Ali. Tutto il resto – la clinica, la scuola, il campo da calcio – può essere demolito in qualsiasi momento. È una politica violenta; un modo per spingere le persone a lasciare la terra che possiedono. Ed è per questo che l’esercito ha dichiarato questa zona area di tiro, anche se qui ci sono raramente delle esercitazioni: per aumentare la pressione.

Nel 1999, col governo del primo ministro Ehud Barak, Israele ha emesso ordini di evacuazione contro i residenti di Jinbeh e di altri villaggi della zona, sostenendo che vivono in un’area di tiro. Ma l’obiettivo di giudaizzare l’area può farsi risalire al piano Allon del 1967, stilato dall’allora ministro del Lavoro Yigal Allon. Era un progetto del partito laburista per la costruzione di colonie nei territori palestinesi occupati.

Questa tattica di utilizzare le aree di tiro per giudaizzare una zona non è attuata solo nelle colline a sud di Hebron. Israele ha dichiarato il 18 % circa della Cisgiordania area di tiro per l’addestramento militare, ed è un’area grande più o meno quanto la parte di Cisgiordania sotto il pieno controllo palestinese. Nel 2014 durante una riunione della sottocommissione parlamentare sulla “costruzione palestinese illegale nell’Area C”, il colonnello Einav Shalev, allora ufficiale operativo del comando centrale, ha ammesso che uno dei motivi principali per incrementare l’addestramento militare in queste aree di tiro è impedire che i palestinesi vi costruiscano.

È importante notare che si tratta di villaggi che esistono da molti decenni. I residenti non hanno modo di costruire legalmente perché l’Amministrazione Civile, il braccio dell’esercito israeliano responsabile del governo dei palestinesi nella Cisgiordania occupata, nega oltre il 98% delle richieste di permesso presentate dai palestinesi nell’Area C. Perfino discutere di questo problema in termini di rispetto delle leggi è assolutamente ridicolo, poiché la legge è chiaramente basata su pregiudizi etnici.

I residenti di Jinbeh hanno presentato una petizione all’Alta Corte israeliana in base a un argomento molto logico: se risiedono su terra di loro proprietà, come può lo Stato espellerli sostenendo che la zona è un’area di tiro? Lo Stato ha sostenuto che, sebbene i residenti di Jinbeh vivano effettivamente in quella zona, vi restano solo per una parte dell’anno in determinate stagioni. Pertanto, poiché il villaggio non è la loro “residenza permanente”, l’esercito può dichiarare la zona area di tiro e cacciare gli abitanti.

Questo è falso. Ma anche se fosse vero, è pur sempre la loro terra, la loro casa. Sono passati più di 20 anni da quando è stata presentata la petizione, che continua a essere trascinata di anno in anno senza una sentenza. Ma c’è una sentenza sul terreno: lenta evacuazione.

L’Amministrazione Civile viene qui ogni mese a demolire case e infrastrutture rifiutandosi di concedere permessi di costruzione, e le persone alla fine si arrendono e se ne vanno. Ma quest’anno il giudice dell’Alta Corte che presiede il caso va in pensione, il che significa che deve emettere una sentenza nei prossimi mesi e decidere se lo Stato può espellere tutti gli abitanti.

Questo è il contesto dietro le esercitazioni militari. Questo è il motivo per cui, dopo anni in cui non c’è stato alcun addestramento in questa area di tiro, l’esercito ha deciso di condurre un’esercitazione in prossimità delle case abitate. È evidente come prima della sentenza lo Stato voglia rafforzare la propria presenza nell’area.

Prima dell’esercitazione, i militari si sono impegnati a non entrare in terra palestinese e a non interferire con la routine quotidiana. Invece soldati e carri armati sono entrati più volte nei terreni agricoli e l’intera esercitazione – dalle esplosioni notturne ai carri armati che invadono la mattina seguente – ha gravemente sconvolto la vita degli abitanti di Jinbeh.

C’è anche chi si è felicitato di questa esercitazione: i coloni. Il Consiglio Regionale delle colline a sud di Hebron si è congratulato con l’Esercito israeliano per l’esercitazione, scrivendo in un messaggio che l’incremento dell’addestramento militare “è uno dei modi per rafforzare la governance, rafforzare il controllo e far rispettare la legge e l’ordine nell’area”.

Rafforzare la governance significa aumentare la pressione di Israele per espellere le comunità locali come quella di Jinbeh, che vive in aree che lo Stato vuole giudaizzare. Israele si sta attualmente concentrando su tre aree della Cisgiordania: la Valle del Giordano, le colline a sud di Hebron e un’area nota come E1, che collega Gerusalemme Est alla Cisgiordania. Là, Israele nega sistematicamente i permessi di costruzione ai palestinesi per costringerli ad andarsene.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 19 gennaio – 1 febbraio 2021

Secondo quanto riferito, due palestinesi hanno tentato di accoltellare militari israeliani, ma sono stati colpiti con armi da fuoco ed uccisi

[seguono dettagli]. Secondo fonti israeliane, il 26 gennaio, nei pressi dell’insediamento di Ariel (Salfit), un 17enne palestinese è stato ucciso dopo aver tentato di accoltellare una soldatessa israeliana: mentre per i media palestinesi non si tratterebbe di un tentativo di accoltellamento, i media israeliani hanno segnalato che la soldatessa ha dovuto essere curata per lievi ferite. Il 31 gennaio, vicino all’insediamento [colonico] di Gush Etzion (Betlemme), un 36enne palestinese si è avvicinato di corsa a soldati israeliani, tenendo in mano, a quanto riferito, un’arma improvvisata: è stato colpito ed ucciso.

In Cisgiordania, in scontri con le forze israeliane, sono rimasti feriti 25 palestinesi [seguono dettagli]. Sedici di questi feriti si sono avuti nel villaggio di Deir Abu Mash’al (Ramallah), durante un’operazione di ricerca-arresto che ha fatto seguito al ferimento di una 15enne, causato dal lancio di pietre contro veicoli israeliani (vedi ultimo paragrafo). Altri due feriti sono stati segnalati nelle città di Qalqiliya e Tubas, sempre nel contesto di operazioni di ricerca-arresto, e un altro nel villaggio di Zeita (Tulkarm). I restanti sei ferimenti sono avvenuti durante proteste contro le attività di insediamento [colonico] vicino a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Beit Dajan (Nablus) e Deir Jarir (Ramallah). Diciannove dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, tre sono stati colpiti da proiettili di gomma, due sono stati aggrediti fisicamente ed uno è stato colpito da proiettile di arma da fuoco.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 159 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 177 palestinesi. Il maggior numero di operazioni (35) è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme (prevalentemente a Gerusalemme Est), seguito dal governatorato di Hebron (26).

Il 19 gennaio, da Gaza è stato lanciato un razzo verso Israele; il razzo è caduto in un’area aperta. Successivamente, dalla recinzione perimetrale, le forze israeliane hanno sparato colpi di cannone, a quanto riferito, contro postazioni militari [palestinesi]; tuttavia, un proiettile ha colpito una casa palestinese nel Campo profughi di Al Maghazi, ferendo un uomo e provocando danni.

Vicino alla recinzione israeliana del perimetro di Gaza o in mare, al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 18 occasioni, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]: a nord di Beit Lahiya un palestinese è stato ferito. Al valico di Erez, le autorità israeliane hanno arrestato un uomo che accompagnava la moglie a Gerusalemme Est, per cure.

Il 23 gennaio, nella città di Beit Hanoun (Gaza), 47 persone, tra cui 19 minori e 15 donne, sono rimaste ferite a seguito di un’esplosione avvenuta all’interno di una casa. Secondo quanto riferito, la casa apparteneva a un membro di un gruppo armato palestinese e veniva usata per immagazzinare esplosivi. Diverse strutture civili sono state danneggiate, fra queste: 172 abitazioni, tre scuole, un ospedale ed una stazione di polizia. Secondo Shelter Cluster [Organismo internazionale di coordinamento di Agenzie che sostengono le persone colpite da catastrofi naturali e/o conflitti] oltre 1.000 persone hanno subìto conseguenze.

Il 1° febbraio, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato ufficialmente aperto per quattro giorni in entrambe le direzioni. Nei due mesi precedenti era rimasto chiuso.

Citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 69 strutture di proprietà palestinese, sfollando 80 persone e creando ripercussioni su circa 600 [seguono dettagli]. Tutte le strutture demolite, tranne una, si trovavano nell’Area C della Cisgiordania. Quarantacinque strutture, circa il 70%, erano in quattro Comunità della Valle del Giordano. Una struttura [delle 69] è stata demolita nel villaggio di Al Walaja (Betlemme), all’interno della linea di confine (stabilita da Israele) del municipio di Gerusalemme.

Il 1° febbraio, a Humsa al Bqai’a (Valle del Giordano), sono stati confiscati 25 ripari residenziali e per animali, sfollando 55 persone, di cui 32 minori; la maggior parte delle strutture era stata fornita come assistenza umanitaria, in risposta a una demolizione di massa, subita dalla stessa Comunità, il 3 novembre 2020. Secondo quanto riferito, ai residenti sarebbe stato detto che le loro strutture confiscate sarebbero state restituite se, entro 24 ore, si fossero trasferiti a Ein Shebli. La maggior parte dei membri della Comunità colpita risiede in un’area chiusa, designata dalle autorità israeliane come “zona di tiro”, cioè destinata all’addestramento militare.

Altre demolizioni e confische sono state effettuate nella Cisgiordania meridionale [seguono dettagli]. Nella Comunità di Umm Qussa, situata in una zona di Hebron dichiarata [da Israele] “zona militare”, sono state demolite una moschea ed una cisterna per l’acqua; mentre una rete idrica è stata danneggiata ai sensi di un “Ordine militare 1797”, che consente la demolizione dopo 96 ore dall’emissione di un “ordine di rimozione”. Il danneggiamento della rete ha riguardato l’accesso all’acqua di 450 residenti. Sempre a Hebron, a Khashem ad Daraj, il 31 gennaio, cinque famiglie hanno ricevuto un ordine di sfratto temporaneo, con l’intimazione di lasciare la propria residenza per quattro giorni, per consentire esercitazioni militari israeliane.

Secondo il Ministero dell’Agricoltura palestinese, vicino alla città di Tubas, le autorità israeliane hanno sradicato e distrutto migliaia di alberi che erano stati piantati otto anni fa, come parte di un progetto supervisionato dallo stesso Ministero. Anche nell’area di Khallet an Nahla, a Betlemme, le autorità israeliane hanno devastato con bulldozer un migliaio alberi di una proprietà privata. Entrambi gli episodi si sono verificati sulla base del fatto che la terra [in questione] era stata dichiarata [da Israele] “terra di stato”.

Sette palestinesi sono stati feriti, mentre centinaia di alberi di proprietà palestinese ed un numero imprecisato di veicoli sono stati vandalizzati da autori, conosciuti o ritenuti, coloni israeliani [seguono dettagli]. Quattro dei feriti, tra cui un minore, sono stati colpiti con pietre o aggrediti fisicamente mentre transitavano sulla Strada 60, nel governatorato di Ramallah. Gli altri tre sono stati aggrediti fisicamente a Hebron, in separati scontri con coloni: uno presso la comunità di Khirbet at Tawamin, durante un sit-in di protesta; gli altri due a Dura, durante la spianatura di un terreno da parte di coloni, apparentemente intenzionati ad impossessarsene. Secondo varie fonti palestinesi, circa 450 ulivi e alberelli sono stati sradicati o abbattuti a Mantiqat Shi’b al Butum, Adh Dhahiriya e al Baq’a (Hebron), a Shufa (Tulkarm) e a Kafr ad Dik (Salfit). Gli abitanti di Kafr ad Dik, Sarta (Salfit) e dell’area di Ash Shuyukh (Hebron) hanno riferito di danni a recinzioni, strutture agricole e cancelli, oltre il furto di attrezzi agricoli. Diversi veicoli palestinesi sono stati colpiti da pietre e danneggiati; alcuni mentre viaggiavano vicino a Betlemme e Qalqiliya, altri nei villaggi di Kifl Haris e Yasuf (Salfit) dove, a quanto riferito, coloni hanno lanciato pietre contro auto e case.

Secondo fonti israeliane, cinque israeliani sono stati feriti da autori ritenuti palestinesi. Uno dei feriti, uno studente ultra ortodosso, è stato accoltellato e ferito leggermente fuori dalla Città Vecchia di Gerusalemme; gli altri quattro, inclusa una ragazza, sono stati colpiti da pietre vicino ai villaggi di Burin (Nablus) e Kifl Haris (Salfit), mentre transitavano su strade della Cisgiordania. Secondo quanto riferito, un totale di 26 veicoli israeliani sono stati danneggiati, prevalentemente colpiti da pietre.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 3 febbraio, a Humsa al Bqai’a, le autorità israeliane hanno demolito o confiscato 21 strutture. Un’analoga operazione era stata effettuata nella stessa Comunità appena due giorni prima, il 1° febbraio [ultimo giorno del periodo considerato da questo Rapporto; vedere sopra, al paragrafo 9]. Le due operazioni militari israeliane [compiute il 1° ed il 3 febbraio], hanno complessivamente provocato lo sfollamento di 60 persone, di cui 35 minori.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.




Perché i torturatori dello Shin Bet non devono avere paura di essere puniti

Yael Stein

2 febbraio 2021 – +972

Liquidando le accuse allo Shin Bet per il brutale interrogatorio di un detenuto palestinese, il procuratore generale recita il suo ruolo nel nascondere l’approvazione israeliana della tortura.

La scorsa settimana il procuratore generale di Israele Avichai Mandelblit ha annunciato la sua decisione di archiviare un’inchiesta penale contro gli investigatori dello Shin Bet che avrebbero torturato un palestinese accusato di aver perpetrato un attacco violento nella Cisgiordania occupata.

Lo Shin Bet, servizio di sicurezza interna di Israele, ha incarcerato il quarantacinquenne Samer Arbeed dal 25 settembre 2019.[ vedi Zeitun ] L’agenzia lo ha interrogato in quanto sospettato di aver commesso un attentato dinamitardo che nell’agosto 2019 ha ucciso la diciassettenne israeliana Rina Shnerb presso una sorgente nella Cisgiordania occupata.

Secondo quanto riportato dai mezzi di informazione, Arbeed era stato visitato da un medico la notte del suo arresto, poi di nuovo la mattina seguente e ancora una volta quel pomeriggio. Ogni volta sarebbe stato trovato in condizioni “ragionevoli” e riportato all’interrogatorio.

Tuttavia la mattina seguente Arbeed è stato portato in ospedale in condizioni critiche. Gli sono state riscontrate costole rotte e segni di traumi alle gambe, al collo e al torace. Il giorno dopo un funzionario dello Shin Bet ha informato il legale della famiglia che Arbeed era in ospedale, incosciente e collegato a un respiratore.

Scrivere la sceneggiata

Torturare i palestinesi durante gli interrogatori è una prassi di lunga data dello Shin Bet. Eppure è raro che detenuti palestinesi vengano mandati in ospedale in seguito a questi interrogatori violenti.

Il ricovero di Arbeed è finito sulle prime pagine ed ha suscitato pesanti interrogativi riguardo al comportamento dello Shin Bet, spingendo subito i dirigenti israeliani a promettere che la questione sarebbe stata oggetto di riesame.

Il primo intoppo di questa revisione è stato l’Ispettorato per le Denunce contro il Servizio di Sicurezza di Israele, il dipartimento incaricato di prendere in esame i sospetti di comportamenti delittuosi. Nel corso degli anni sono state vagliate dal dipartimento centinaia di denunce; in tutti i casi tranne uno il dipartimento ha concluso che non ci fossero sospetti di comportamento scorretto e li ha archiviati.

La torre di guardia della prigione Gilboa  (Moshe Shai/Flash90)

In genere il processo di insabbiamento finisce lì, ma nel caso di Arbeed lo sceneggiatore della farsa ha deciso di andare avanti ed ha avviato un’inchiesta penale. Gli investigatori sono stati interrogati. Testimoni hanno fatto dichiarazioni. Sono stati sequestrati documenti. Il Centro Nazionale Israeliano di Medicina forense ha persino ordinato un rapporto.

Alla fine, dopo un tempo sufficiente a far sì che il sipario potesse essere calato senza provocare troppi sospetti, il 24 gennaio il procuratore generale ha annunciato di aver chiuso la causa sul caso di Arbeed per “mancanza di basi per sostenere che è stato commesso un reato.”

Perché la base probatoria era così vaga? Non per mancanza di prove. Il fatto è che le azioni dello Shin Bet che hanno mandato in ospedale Arbeed non sono in realtà proibite. Non sono neppure perfettamente legali: ahimé, il Paese più morale al mondo non fa di queste cose. Eppure queste prassi sono profondamente legate ai protocolli interni dello Shin Bet, rendendo inevitabile la conclusione di Mandelblit.

Giustificare la tortura

Ovviamente i dettagli precisi di quello che viene consentito agli investigatori sono tenuti segreti. Ma nel corso degli anni centinaia di testimonianze di palestinesi dipingono un chiaro e orripilante quadro di quello che succede durante questi interrogatori, alcuni dei quali possono durare settimane.

Per iniziare, gli investigatori possono tenere i prigionieri isolati in celle strette, senza luce e sudicie. Possono negare ai detenuti cibo per giorni o dargli solo alimenti avariati, non cotti e immangiabili.

Possono picchiarli e impedire loro di andare in bagno. Possono minacciare di far del male a loro o alle loro famiglie, insultarli e urlargli contro. Possono legarli a una sedia in posizioni che provocano dolore per lunghi periodi. Possono far entrare nelle loro celle raffiche di aria gelida e rifiutarsi di fornire loro coperte.

Possono impedire loro per giorni di fare la doccia, di cambiare vestiti o di lavarsi i denti. Possono negare cure mediche adeguate e privarli del sonno per giorni e giorni.

Niente di tutto questo è contro la legge. La commissione Landau, formata nel 1987 dal governo israeliano, concluse che “una moderata pressione fisica” è l’“unico” metodo che gli investigatori possono utilizzare. Ciò che questo tipo di pressione in realtà indichi non è mai stato definito, anche se il rapporto della commissione includeva un allegato riservato che permetteva ulteriori metodi per estorcere informazioni ai detenuti.

Attivisti il 10 dicembre 2020 a Tel Aviv illustrano le varie tecniche di tortura messe in atto da Shin Bet . (Oren Ziv)

Nella sua famosa sentenza del 1999 l’Alta Corte israeliana ribaltò le conclusioni della Commissione Landau e vietò l’uso di una serie di metodi di tortura. Tuttavia i giudici lasciarono ancora agli investigatori la possibilità di invocare la “necessità di difesa”, giustificando l’uso della tortura e sostenendo che era indispensabile per urgenti ragioni di sicurezza, riferendosi eufemisticamente a cose come una “bomba ad orologeria”.

È per questo che gli investigatori israeliani non hanno necessità di nascondere alcunché ai propri superiori. Al contrario registrano meticolosamente i loro interrogatori in documenti segreti, in cui dichiarano i metodi che utilizzano e per quanto tempo e che possono essere presentati ai tribunali se richiesti. Ci sono anche medici che visitano i detenuti, confermando agli investigatori se le loro condizioni consentono di continuare con gli interrogatori. I giudici approvano sistematicamente la custodia cautelare e spesso prolungano gli ordini per negare assistenza legale ai palestinesi in arresto.

Rifarsi il trucco

Presa nel suo complesso, questa rete di norme e istituzioni serve a Israele come trucco per mascherare il fatto che consente, e persino incoraggia, torture durante gli interrogatori. Questo trucco fa un ottimo lavoro per nascondere le rughe e le atrocità di Israele, ma ogni tanto qualcosa va storto e salta fuori la verità, come nel caso di Samer Arbeed.

Quando ciò avviene le autorità israeliane si impegnano non a togliersi il trucco, ma a spennellarsene ancora un po’. L’autorità giudiziaria israeliana, molto esperta nell’insabbiare questi crimini, si mobilita rapidamente per creare un’apparenza di inchiesta seria e accurata intesa a nascondere la verità. E quando è tutto finito, ognuno tira un respiro di sollievo.

Tutto torna al suo posto, viene data l’approvazione giudiziaria e, cosa più importante, la tortura stessa continua ad essere legale.

Perché, ci si potrebbe chiedere, Israele si affanna tanto a truccarsi? Perché non viene allo scoperto e dice che torturare i palestinesi è accettabile?

Forse perché gli israeliani pensano che “all’estero non capirebbero.” Forse Israele dovrebbe affrontare serie ripercussioni sulla sua politica, e persino subire qualche conseguenza. Ma forse c’è un’altra ragione. La tortura, per sua natura, disumanizza una persona, la rende un guscio vuoto, un oggetto destinato a nuocere. Gli israeliani non vogliono ammettere che è così che essi vedono un altro popolo.

Quando il volto che ti fissa nello specchio diventa insopportabile, ti rimetti subito la maschera.

L’avvocatessa Yael Stein è direttrice di ricerca di B’Tselem.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Quando la polizia uccide un colono, i coloni seminano il terrore tra i palestinesi

Orly Noy

24 gennaio 2021 – +972 magazine

Da quando il mese scorso un adolescente israeliano è stato ucciso dalla polizia nel corso di un inseguimento, in Cisgiordania i coloni hanno continuato ad esercitare la loro furia attaccando e costringendo alla fuga i palestinesi.

Il mese scorso, il 21 dicembre, la polizia israeliana ha condotto un inseguimento ad alta velocità vicino all’insediamento di Kochav Hashachar nella Cisgiordania occupata. L’auto inseguita trasportava diversi giovani coloni israeliani radicali sospettati di aver scagliato poco prima pietre contro veicoli palestinesi in transito. Secondo quanto riferito, durante l’inseguimento l’auto della polizia si è schiantata contro quella dei coloni, facendola capovolgere e uccidendo il sedicenne Ahuvia Sandak.

I principali uomini di governo di Israele si sono affrettate a esprimere la loro solidarietà alla famiglia Sandak. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha invitato i genitori di Sandak nel suo ufficio per esprimere le sue condoglianze; il ministro della giustizia Amir Ohana ha reso visita alla famiglia e ha promesso di “scoprire cosa sia realmente accaduto”; Il rabbino capo di Israele David Lau ha inviato una lettera accorata ai genitori.

La morte di Sandak ha scatenato una serie di proteste in Cisgiordania e Israele, seguite nei territori occupati da un’esplosione di violenza contro i palestinesi – che non avevano nulla a che fare con la morte di Sandak.

Secondo Yesh Din, una ONG israeliana che documenta le violazioni dei diritti umani in Cisgiordania, dopo la morte di Sandak i coloni israeliani hanno commesso 52 azioni violente contro i palestinesi. In 37 casi i coloni hanno bloccato gli incroci centrali lungo la Strada 60 – una delle autostrade nevralgiche della Cisgiordania – e hanno scagliato pietre contro le auto dei palestinesi. Yesh Din ha riferito che 14 palestinesi, di cui due minori, sono stati feriti nel corso degli attacchi con lancio di pietre. In 11 casi i coloni hanno invaso città palestinesi e hanno lanciato pietre contro i civili e [le loro] case. In occasione di tre episodi gruppi di coloni hanno attaccato dei contadini palestinesi che lavoravano la loro terra.

“I coloni le hanno lanciato una pietra in faccia”

Una dei minorenni palestinesi feriti nell’ultimo mese è una ragazzina di 11 anni di nome Hala Alqut, del villaggio di Madmeh, appena a sud di Nablus. Il 17 gennaio decine di coloni del vicino insediamento di Yitzhar, noto per per il suo violento fondamentalismo, hanno fatto irruzione nel villaggio e lanciato pietre contro le case. Il padre di Hala, Mashour, ha riferito che sua figlia era uscita per andare a casa di sua zia proprio un attimo prima dell’attacco. “L’hanno raggiunta fuori casa, e quando mia moglie è andata a salvarla dalle loro grinfie hanno aggredito anche lei”.

Hala è stata ferita al viso ed è stata portata all’ospedale Rafidia di Nablus per le cure.

Mashour, che lavora in Israele, ha ricevuto la notizia dell’attacco mentre era al lavoro. “Mia moglie mi ha telefonato piangendo e urlando: ‘Vieni a vedere cosa è successo alla ragazza – i coloni le hanno lanciato una pietra in faccia’. Mi sono spaventato moltissimo. Quando sono arrivato, ho visto i vetri rotti e le pietre dentro casa”.

La moglie di Mashour, insieme a Hala e ai loro altri tre figli – compreso un neonato – erano presenti quando ha avuto luogo l’attacco. “Hanno lanciato una pietra e hanno rotto la finestra che si trovava sopra la testa del bambino. Avrebbe potuto finire in una tragedia molto peggiore”, dice Mashour. Il trauma, aggiunge, ha fatto sì che Hala smettesse del tutto di parlare.

Il secondo minorenne ferito il mese scorso, un bambino di cinque anni, è stato colpito pochi giorni dopo da un sasso lanciato contro l’auto della sua famiglia mentre attraversava il bivio di Assaf, nei pressi di Ramallah.

Quando ho chiesto al portavoce della polizia israeliana se la polizia avesse programmato di effettuare degli arresti a seguito delle aggressioni, ho ricevuto la seguente risposta: “La polizia israeliana, insieme alle altre forze di sicurezza, è dispiegata nei vari assi viari principali e nelle zone di attrito in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) per prevenire episodi di violenza, far rispettare la legge e mantenere l’ordine e la sicurezza pubblici”.

Il portavoce ha proseguito: “Per quanto riguarda l’incidente in cui il ragazzo è rimasto ferito, la polizia ha avviato un’indagine in cui sono state intraprese azioni investigative e raccolte prove, l’indagine è in corso”.

Stanno seduti nella mia casa al posto mio’

Nonostante il fatto che l’esercito israeliano abbia il controllo totale sui territori occupati, il compito delle indagini sugli atti criminali degli ebrei israeliani – anche quando sono commessi in Cisgiordania – spetta alla polizia. Anche questo fa parte del regime di apartheid di Israele, che mantiene due differenti sistemi giudiziari per due popolazioni, sulla base della loro nazionalità.

Tuttavia nella pratica né l’esercito né la polizia fanno molto per impedire i violenti pogrom compiuti dai coloni contro i palestinesi in Cisgiordania. A volte di fatto addirittura collaborano.

Ho assistito a questa cooperazione tra le forze armate israeliane e i coloni sabato 23 gennaio, quando mi sono unito a un gruppo di attivisti per una protesta di solidarietà nelle colline di Hebron sud. Gli attivisti si sono recati nella zona per solidarizzare con una famiglia palestinese della comunità di Khirbet Tawamin, dopo che lo scorso giovedì i coloni avevano invaso l’area e li avevano cacciati con la forza dalla grotta in cui vivono. I coloni hanno preso possesso della loro casa per ore cantando intorno a un falò che avevano acceso appena fuori dalla grotta.

In un post sconvolgente su Facebook il giornalista e attivista Yuval Abraham, che trascorre gran parte del suo tempo con le comunità palestinesi nelle colline di Hebron sud, ha riportato la sua telefonata con Abu Mahmoud, uno degli abitanti di Tawamin, che ha descritto in tempo reale le modalità in cui i coloni hanno preso possesso della sua casa:

[…] Abu Mahmoud dice: ‘Perché non hai risposto? Ho cercato di contattare l’esercito e la polizia, non arrivano. La sua voce giunge soffocata e la linea si interrompe. Restiamo entrambi in silenzio, Nasser e io. Un silenzio di paura. Nasser dice che forse dovremmo andare, ma è chiaro che è terrorizzato. Sono terrorizzato anch’io. Proviamo a chiamare di nuovo Abu Mahmoud. Non c’è campo.

Un minuto dopo Abu Mahmoud chiama (di nuovo). ‘Mi hanno cacciato di casa. Sono entrati tutti, i coloni, e si sono seduti lì al posto mio. “Ci manda un video. L’intera famiglia è fuori. I coloni sono a casa sua. Dice: ‘Perché la polizia non è qui? Perché l’Amministrazione (Civile) non è qui? Vieni presto. E noi non sappiamo cosa fare. Ci avviciniamo. Nasser dice: Entriamo nella stradina che porta a casa sua. Rispondo che forse [è meglio] di no. Poi dico no. Solo per un tratto, insiste Nasser, e la imbocchiamo, con il mio piede che trema sull’acceleratore. Vediamo 15 auto con targa israeliana parcheggiate e un falò. ‘Torniamo indietro, torniamo indietro. È pericoloso , dice Nasser.

I coloni se ne sono andati dopo alcune ore e la famiglia è potuta tornare a casa.

Il giorno seguente Abraham è tornato alla grotta di Tawamin. Mentre si trovava seduto insieme alla famiglia, ha assistito a una chiamata tra un rappresentante dell’Amministrazione Civile – il braccio del governo militare israeliano che ha il controllo sui palestinesi nella Cisgiordania occupata – e uno dei membri della famiglia. Nel corso della telefonata, che è stata registrata integralmente e pubblicata su Local Call [sito di notizie in lingua ebraica co-fondato e co-redatto da Just Vision e 972 Advancement of Citizen Journalism, che pubblica anche +972 Magazine, ndtr.], il rappresentante ammonisce in arabo la famiglia di assicurarsi che né giornalisti né attivisti entrino nella grotta.

“Non createci problemi oggi. Inteso?” ha detto il funzionario. “Assicuratevi di non accogliere giornalisti o persone che oggi potrebbero venire a casa vostra per esprimere [la loro] solidarietà.”

Quando il componente della famiglia palestinese dice all’interlocutore di non volere problemi, ma che i soldati non si sono mai fatti vivi dopo essere stati chiamati ripetutamente, il rappresentante ha urlato di rimando: “Alla fine se ne sono andati, giusto? Quindi [ciò è] khalas (“sufficiente” in arabo). I coloni non verranno più lì. Quella è la tua terra e la grotta ti appartiene, giusto? Quindi resta nella grotta. Non portare giornalisti e un mucchio di persone e non creare problemi o espellerò te e loro, capito?”

Una battaglia infinita

Khirbet Tawamin si trova a pochi passi dal villaggio di al-Rakiz, dove i soldati israeliani sono arrivati ​​all’inizio di questo mese per confiscare un vecchio generatore che serviva gli abitanti, dopo che l’amministrazione civile vi aveva eseguito delle demolizioni. Mentre i soldati cercavano di portar via il generatore, Haroun Abu Aram, uno degli abitanti di Al-Rakiz, ha cercato di riprenderlo. Un soldato gli ha sparato al collo, lasciandolo paralizzato.

Gli attivisti che si recavano a Tawamin per la manifestazione di solidarietà del sabato sono stati fermati ad un posto di blocco improvvisato della polizia a 10 chilometri dal villaggio. Ci è stato mostrato un ordine delle IDF [esercito israeliano, ndtr.] che dichiarava l’area “zona militare chiusa” – un noto trucco che l’esercito usa per tenere i palestinesi e gli attivisti di sinistra lontani da zone della Cisgiordania. La polizia ci ha invitato a fare dietrofront e ad andarcene.

Abbiamo trovato un percorso per Khirbet Tawamin attraverso le splendide colline polverose, solo per incontrare – a 10 minuti dall’arrivo – un gruppo di soldati armati che ha mostrato un’ulteriore ordinanza di zona militare chiusa. Dopodiché i soldati ci hanno dispersi con granate assordanti fino a quando abbiamo raggiunto il fondovalle, dove si trova l’insediamento coloniale israeliano di Susya (adiacente all’omonimo villaggio palestinese).

Mentre eravamo intrappolati tra una zona militare chiusa dietro di noi e l’insediamento coloniale israeliano estremista davanti a noi, un gruppo di coloni con cani di grossa taglia si è avvicinato a noi. I soldati, che evitano a tutti i costi il ​​confronto con i coloni, ancora una volta hanno dichiarato chiusa l’area e ci hanno allontanati.

Siamo risaliti verso Tawamin. I soldati che ci seguivano hanno ribadito ancora una volta l’ordine e uno di loro, che parlava correntemente l’arabo, è andato a parlare con i membri della famiglia che avevano temporaneamente perso la loro casa e avevano paura di ciò che poteva ancora accadere. Si può solo supporre che il soldato abbia ripetuto ciò che il rappresentante dell’Amministrazione Civile aveva detto loro al telefono pochi giorni prima: manda via gli attivisti, altrimenti

Qualche minuto dopo la famiglia ci è venuta incontro, ci ha ringraziato per la nostra presenza e ci ha chiesto di andarcene “per evitare problemi”. Siamo andati via, ovviamente. Conosciamo bene questa esperienza: che siano i coloni ad essere arrabbiati con l’esercito, o l’esercito ad essere arrabbiato con gli attivisti di sinistra, sono sempre i palestinesi a pagarne il prezzo.

I palestinesi e gli attivisti israeliani sanno fin troppo bene che la battaglia contro la violenza dei coloni è continua e senza fine. Oggi, 24 gennaio, e nonostante le promesse dell’Amministrazione Civile, circa 30 coloni israeliani hanno invaso lo stesso identico punto in cui gli attivisti avevano cercato di protestare solo un giorno prima. L’esercito è arrivato e ha disperso i coloni.

Orly Noy

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa dal farsi. È membro del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano i tratti che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi [ebrei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, ndtr.], esponente femminile della sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro una perenne immigrata, e il dialogo costante tra loro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Operai palestinesi scioperano in una zona industriale della Cisgiordania

Danny Zaken

14 gennaio 2021 – Al-Monitor

Gli operai palestinesi della Yamit stanno scioperando per ottenere il loro primo consistente aumento salariale in decenni.

La storia delle fabbriche israeliane nelle zone industriali in Cisgiordania in cui vige un’ambiguità legale ha risvolti economici e politici e la crisi da coronavirus ne ha evidenziato le dinamiche nel momento in cui i palestinesi lottano per l’uguaglianza salariare con gli israeliani.

Ogni giorno entrano in Israele circa 80.000 lavoratori palestinesi. Stando ai dati dell’Amministrazione Civile israeliana, un dipartimento del Ministero della Difesa [israeliano] che tiene i collegamenti tra le autorità palestinesi e quelle israeliane, i lavoratori hanno un salario mensile in media di 6.000 shekel [circa €1.500]. Ciò equivale all’incirca al salario minimo per gli israeliani, ma corrisponde a circa quattro volte la media nei territori palestinesi. Altri 30.000 palestinesi lavorano in Cisgiordania, principalmente nelle zone industriali adiacenti alle colonie israeliane. Alcune migliaia sono occupati nell’edilizia. Secondo l’Amministrazione Civile, i salari dei palestinesi che lavorano nelle colonie in Cisgiordania sono solo leggermente inferiori a quelli dei palestinesi che lavorano in Israele, con una media di circa 5.500 shekel [€1.400] al mese. Hanno anche diritto a condizioni e sussidi previsti dalla legge israeliana come pensioni, malattia e vacanze retribuite.

Un funzionario dell’Amministrazione Civile ha detto ad Al-Monitor che nel 2019 i redditi di questi 120.000 lavoratori sono ammontati a più di un quarto del totale delle entrate in Cisgiordania. Quest’anno la cifra è persino maggiore a causa della pandemia che ha devastato l’economia palestinese. Dato che Israele dipende in buona misura dalla forza-lavoro palestinese, soprattutto nell’edilizia, persino durante il picco delle ondate dell’infezione i lavoratori che altrimenti avrebbero dovuto essere in lockdown hanno avuto il permesso di entrare in Israele.

Nel 2007 la Corte Suprema ha deliberato che la legge israeliana si applica ai palestinesi impiegati in Israele e nelle colonie della Cisgiordania. Nove giudici hanno deciso all’unanimità che la nazionalità non poteva essere usata come scusa dai datori di lavoro per offrire loro condizioni che differissero da quelle della controparte israeliana.

La decisione si applica a tutti i palestinesi che lavorano in Israele e nelle colonie. Comunque non vale nella zona industriale di Nitzanei Shalom, che negli anni ’90, subito dopo la firma degli accordi di Oslo, fu costruita vicino alla città palestinese di Tulkarem e lungo la barriera di separazione. La Yamit, che costruisce filtri dell’acqua per uso agricolo e casalingo, si trova in questa zona industriale e perciò non è soggetta alla legge israeliana in generale.

La fabbrica impiega 80 palestinesi che guadagnano mensilmente fra i 5.000 e i 6.000 shekel (1.260-1.500 €). Alcuni vi lavorano da vent’anni o più e ora che hanno una considerevole esperienza professionale vogliono un aumento. Si sono persino organizzati come un sindacato con Maan, l’organizzazione sindacale israeliana.

I negoziati con la fabbrica sono iniziati l’anno scorso, ma, a causa del coronavirus, si sono trascinati per mesi. Alla fine Ofer Talmi, il proprietario, li ha informati che non avrebbe potuto soddisfare le loro richieste a causa della crisi economica conseguente al COVID-19. Ma i lavoratori si sono rifiutati di cedere. Il 31 dicembre 2020 sono scesi in sciopero. Sorpreso, Talmi ha mandato una email di protesta al capo di Maan, Assaf Adiv, dicendo che lui aveva soddisfatto tutti gli obblighi di legge verso i propri lavoratori. Poi ha aggiunto: “La terra di Israele appartiene al popolo ebraico. Quindi non voglio avere dei lavoratori palestinesi con legami di alcun tipo con lo Stato di Israele.” Furiosi per la risposta, gli scioperanti hanno passato la mail ai media palestinesi e israeliani.

Halil Shihab, uno degli scioperanti, dice: “Noi abbiamo lavorato per anni pagati con il minimo salariale. Noi siamo specializzati e prendiamo il minimo. Adesso lui dice che non vuole dare ai suoi dipendenti nemmeno le condizioni di base perché sono arabi, non certo perché non può permetterselo.”

Rendendosi conto dell’enormità del suo errore, Talmi ha diffuso una lettera in arabo in cui si scusava con i suoi lavoratori e li metteva in guardia che se lo sciopero fosse continuato sarebbe stato costretto a chiudere. Ha promesso a ognuno di loro 1.000 shekel [€ 253] se fossero ritornati al lavoro e ha detto che avrebbe ripreso i negoziati sui salari. “Voglio scusarmi e ritrattare quello che ho scritto nella mia mail precedente sul diritto alla Terra di Israele. L’ho scritta in un momento di estrema pressione. … Per me è molto duro vedere chiusi i cancelli della nostra fabbrica perché potrebbe avere serie conseguenze per tutte le nostre vite. Attraversiamo un periodo difficile e lo sciopero ci danneggia tutti. Mette in pericolo la nostra stessa esistenza.”

Secondo i dirigenti della fabbrica, Adiv aveva condiviso la prima lettera con organizzazioni antiisraeliane come il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, che l’ha usata per attaccare Israele. I suoi motivi, loro dicono, erano totalmente politici. Nel frattempo il proprietario della fabbrica dice ad Al-Monitor: “Yamit ha impiegato lavoratori palestinesi per oltre 35 anni. Opera in accordo con la legge e garantisce a tutti vari diritti e indennità, inclusi una paga migliore, pensioni, indennità per malattia e indennizzi. Assaf Adiv di Maan sta usando cinicamente questo momento difficile, sapendo che Yamit, come tante altre fabbriche e industrie in Israele e in tutto il mondo, sta affrontando enormi difficoltà a causa del coronavirus. Questo tentativo di interferire, apparentemente a favore di una o l’altra ideologia, causa un danno enorme a relazioni che altrimenti funzionavano bene, con una effettiva coesistenza che per anni è stata il marchio distintivo di questa fabbrica. ”

Adiv nega le accuse. In una conversazione con Al-Monitor afferma che tutto quello che voleva era ottenere migliori condizioni lavorative per dipendenti con anzianità. Se Talmi avesse dichiarato la sua disponibilità ad aumentare i salari alla fine della crisi, l’intera situazione si sarebbe risolta. Adiv ha anche affermato che nel corso degli anni Talmi, non avendo mai pagato i contribuiti al fondo pensioni dei lavoratori, ha risparmiato milioni.

Ali, un altro operaio, parla con Al-Monitor del conflitto. Chiedendo di non citare il suo cognome, dice: “Sono disposto a perdonare Ofer Talmi, ma lui deve capire che ci meritiamo di più. Se vuole veramente sostenere la coesistenza, che ci faccia vedere come. Poi noi lo aiuteremo a far uscire la fabbrica dalla crisi.” In questo caso il modello della zona industriale potrebbe sopravvivere. Altrimenti potrebbe trovarsi in serio pericolo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele deve essere sanzionato per aver rifiutato ai palestinesi le vaccinazioni contro il Covid-19.

David Hearst

14 gennaio 2021 – Middle East Eye

La politica di Israele sul vaccino contro il coronavirus lo pone in violazione della Quarta Convenzione di Ginevra e dovrebbe portare a sanzioni

Israele da tempo ha abbandonato l’argomentazione, tanto spesso sentita durante la costruzione del muro, secondo cui la sua espansione in Cisgiordania oltre i suoi confini del 1967 sia un atto di autodifesa.

L’annessione da parte di Israele, culminata lo scorso anno nella dichiarazione del progetto di annettere fino al 60% della Cisgiordania, oggi è inquadrata come l’adempimento di una profezia biblica, secondo cui gli ebrei espulsi dalla terra di Israele sono destinati a ritornarvi. Questo fondamentalismo si propaga in una miriade di modi ben oltre la comunità dei coloni e la destra nazional-religiosa.

Annessione e sovranità

Dalla frase “L’anno prossimo a Gerusalemme” cantata alla fine del Seder pasquale [festa rituale che segna l’inizio delle festività della Pasqua ebraica, ndtr.] ai tentativi di stabilire l’identità delle antiche pietre intorno alla Città Vecchia di Gerusalemme attraverso l’archeologia, all’uso delle parole bibliche Giudea e Samaria per definire la Cisgiordania, il piano per costruire uno Stato i cui confini riconosciuti si estendano un giorno dal fiume al mare [dal Giordano al Mediterraneo orientale, ndtr.] è più che mai condiviso.

Secondo questa logica, il territorio che la comunità internazionale riconosce come occupato dovrebbe invece essere definito conteso. Solo una piccola parte dei profughi palestinesi espulsi da questa terra verrebbe riconosciuta come tale.

L’annessione non è altro che un’estensione della sovranità.

Le parole politicamente marginali nel corso di un decennio sono diventate opinione corrente nel successivo. I sionisti progressisti [lala di centro-sinistra del movimento sionista, ndtr.] hanno reagito con orrore alla nomina di Tzipi Hotovely [del partito nazionalista e di destra Likud, sotto la guida di Netanyahu, ndtr.] come attuale ambasciatrice di Israele nel Regno Unito. L’ex ministra delle colonie ha detto, tra le altre cose: “Questa terra è nostra. È tutta nostra. Non siamo venuti qui per scusarci”. Ma Hotovely dall’estrema destra sta solo dicendo ad alta voce ciò che molti, sia laici che religiosi, ora credono sia un dato di fatto.

A sinistra non c’è una figura, dal defunto Amos Oz in poi, che sfidi la Legge del Ritorno [emanata in Israele nel 1970, stabilisce che qualsivoglia persona nel mondo può stabilirsi in Israele e acquisire così la cittadinanza israeliana se è in grado di dimostrare di essere ebrea, ndtr.], la quale alimenta questa spinta verso est, o che la veda come qualcosa di diverso da un atto di rinascita ebraica. Nessuna forma di binazionalismo liberale potrebbe funzionare, ha detto Oz, “tranne che in sei luoghi: Svizzera, Svizzera, Svizzera, Svizzera, Svizzera e … Svizzera”.

Ma le convinzioni fondamentaliste sul destino di Israele non sono applicate universalmente come a prima vista sembrerebbe.

La politica sul Covid-19

Ci sono momenti in cui ai ministri israeliani conviene rinunciare a qualsiasi discorso sull’estensione della sovranità sui palestinesi. Fanno anzi il contrario rimuovendola. Questo è uno di quei momenti.

Il ministero della Salute israeliano non sembra avere alcun piano né alcuna responsabilità per la vaccinazione dei palestinesi che sono sotto occupazione o nelle loro prigioni. Il Covid distingue nei fatti tra palestinesi e israeliani. Al 9 gennaio, ha riferito l’OLP [Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndtr.], c’erano 165.000 casi attivi in ​​Palestina e Gerusalemme Est e 1.735 morti.

Mustafa Barghouti, un medico che fa parte del comitato sanitario palestinese sul Covid-19 ed ex ministro, ha scritto: “Ogni giorno vengono registrati più di 1.800 nuovi casi. Il tasso di contagio tra coloro che vengono sottoposti al test è nelle due aree [Palestina e Gerusalemme Est, ndtr.] del 30%, rispetto al 7,4% in Israele “.

Essendo diventato il primo Paese al mondo a vaccinare con la prima delle due dosi di somministrazione il 20% della sua popolazione, una percentuale dieci volte superiore a quella del Regno Unito e degli Stati Uniti, Israele si sta affermando come leader mondiale. Ma questa fretta si ferma davanti al muro, quando si tratta dei palestinesi sotto il suo controllo.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha affermato che il ministero della Salute israeliano ha respinto una richiesta avanzata, in occasione di “contatti informali”, di vaccinare gli operatori sanitari palestinesi in prima linea. “Il ministero della Salute israeliano ha affermato che avrebbe esaminato questa opzione, ma che al momento non era in grado di fornire vaccini a causa della loro carenza in Israele”, ha detto Gerald Rockenschaub, funzionario dell’OMS, nelle vesti di inviato dell’organismo internazionale per i palestinesi.

Anche il ministro della Pubblica Sicurezza israeliano ha inizialmente deciso di non vaccinare i prigionieri palestinesi che sono detenuti in condizioni di affollamento con scarsa o nessuna protezione contro il virus. Ci sono 4.400 palestinesi nelle prigioni israeliane, tenuti in celle sovraffollate, con scarsa igiene, umidità e mancanza di aria fresca.

Condizioni in cui è impossibile praticare il distanziamento sociale, lavarsi le mani, indossare indumenti protettivi o disinfettare le celle. “Questo ha reso i prigionieri palestinesi estremamente vulnerabili. Dallo scoppio della pandemia 189 prigionieri sono risultati positivi. I prigionieri infettati dal virus hanno segnalato cure pessime, isolamento, un antidolorifico e un limone”, afferma il rapporto dell’OLP.

Giovedì, sotto la pressione del presidente israeliano Reuvin Rivlin, il ministro della Salute Yuli Edelstein ha ceduto, riferendo a NPR [National Public Radio è un’organizzazione indipendente no-profit comprendente oltre 900 stazioni radio statunitensi, ndtr.] che i prigionieri palestinesi avrebbero ricevuto il vaccino la prossima settimana. Rivlin gli ha detto che privare i prigionieri del vaccino violerebbe i valori democratici.

‘I nostri vicini’

Tuttavia questa stessa responsabilità da parte dello Stato di Israele non sembra valere per i palestinesi [che vivono] nelle aree sotto la sua occupazione. Edelstein li chiama, invece, “vicini” che dovrebbero in realtà imparare a prendersi cura di se stessi.

Edelstein ha dichiarato lunedì a Sky News: “Penso che abbiamo aiutato i nostri vicini palestinesi sin dalle prime fasi di questa crisi, comprese le attrezzature sanitarie, comprese le medicine, compresi i consigli, comprese le forniture”.

“Non credo che ci sia nessuno in questo Paese, qualunque sia la sua opinione, che possa immaginare che io, con tutta la buona volontà, sottragga ad un cittadino israeliano un vaccino per consegnarlo ai nostri vicini”.

L’uso della parola “vicino” per descrivere i palestinesi in Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme è un’assurdità legale. Per stabilirlo, mi sono rivolto a Sir Geoffrey Bindman, avvocato della Corona [titolo giuridico onorifico britannico, ndtr.], uno degli esperti giuristi britannici in materia di diritti umani. Bindman ha esaminato le implicazioni legali internazionali della responsabilità di Israele di fornire il vaccino per il Covid-19 ai palestinesi sotto sua occupazione.

Egli ha sostenuto che sarebbero obbligati a farlo ai sensi dell’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra, che stabilisce che Israele, in quanto potenza occupante, deve garantire “l’adozione e l’applicazione delle misure profilattiche e preventive necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie”.

Egli ha dichiarato a MEE: “Israele ha degli obblighi su due livelli: l’articolo 56 della Quarta Convenzione di Ginevra impone obblighi al governo israeliano in quanto potenza occupante. L’etica medica richiede a tutti i membri della sua comunità professionale di non discriminare tra coloro che devono curare e di occuparsi di tutti i pazienti al meglio delle loro capacità“.

Bindman ha contestato la definizione dei palestinesi sotto la sua responsabilità come “vicini” da parte del ministro della Sanità israeliano.

“Non sono vicini di casa. Sono persone sotto occupazione e questo significa che Israele ha l’obbligo, sancito dalla Quarta Convenzione di Ginevra, di assicurarsi che siano adeguatamente curati. Israele ha violato la Convenzione di Ginevra in tutti i modi”.

Compromessa

L’Autorità Nazionale Palestinese, come sempre, è compromessa, divisa tra il suo desiderio di evidenziare le responsabilità di Israele e il suo evidente fallimento nel portare avanti le proprie. Le scadenze per l’arrivo del vaccino sono arrivate e passate, ma tale vaccino deve ancora materializzarsi. La ministra della Salute palestinese, Mai al-Kaila, ha annunciato che il suo ministero ha approvato il vaccino russo Sputnik V per l’uso d’emergenza in Palestina e che “non appena arriverà” sarà distribuito agli operatori sanitari, ai malati e agli anziani.

E il MOH [ministero della Salute palestinese] ha già ricevuto una lettera formale da AstraZeneca secondo cui i vaccini arriveranno “tra la metà e la fine” di febbraio. Dichiarazioni vaghe, ma ancora nessun piano per un programma di vaccinazione di massa. Il MOH afferma che sta lavorando con l’OMS e le società private per garantire il maggior numero di vaccini possibile, ma il divario tra parole e azioni non è mai stato così evidente.

Con l’indifferenza della comunità internazionale, ciò è destinato a persistere. I membri palestinesi della Knesset hanno fatto appello a Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite, riguardo la responsabilità di Israele di distribuire vaccini nell’area che l’ONU designa come Territori Palestinesi Occupati (TPO).

“Nello specifico il governo israeliano dovrebbe rendere noto il numero di dosi riservate ai palestinesi nei territori occupati, fornire una tempistica specifica per il loro trasferimento, garantire che i vaccini assegnati alle popolazioni palestinesi siano della stessa qualità di quelli distribuiti ai cittadini israeliani, facilitare l’ingresso nei TPO di vaccini e dispositivi medici e revocare il blocco della Striscia di Gaza per garantire che il sistema sanitario palestinese possa funzionare correttamente”, ha scritto a Lynk il dottor Yousef Jabareen, a capo del comitato per le relazioni internazionali della Lista Unita [coalizione politica israeliana formata da partiti che rappresentano in prevalenza gli arabo-israeliani, ndtr.]

La comunità internazionale non solo ha accettato che Israele rimanga impunito rispetto al diritto internazionale, ma ne è diventata complice. La terza agenzia per la fornitura di aiuti sanitari ai palestinesi è l’UNWRA, i cui finanziamenti si sono prosciugati per opera del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ma anche dei suoi alleati arabi.

Gli aiuti degli Emirati Arabi Uniti all’UNWRA – $ 52 milioni [43 milioni di euro, ndtr.] nel 2018, sono stati ridotti a $ 1 milione [830.000 euro, ndtr.] nel 2020. Anche l‘Arabia Saudita ha tagliato, tra il 2018 e il 2020, i suoi finanziamenti di $ 20 milioni [17 milioni di euro, ndtr.].

Bindman lamenta la mancata applicazione del diritto internazionale e suggerisce che la risposta giusta della comunità internazionale sarebbe costituita dalle sanzioni da parte dei Paesi membri delle Nazioni Unite. “L’applicazione del diritto internazionale è estremamente debole perché dipende dalla volontà delle Nazioni che lo stanno violando di correggere i propri errori”.

Alla domanda se la saga del Covid sarebbe motivo valido per delle sanzioni contro Israele, Bindman ha risposto: “Assolutamente sì”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst

David Hearst è il redattore capo di Middle East Eye. Ha lavorato per The Guardian [quotidiano britannico indipendente, nato a Manchester nel 1821, con sede a Londra, ndtr.] come capo redattore agli esteri. Nel corso di una carriera durata 29 anni, ha scritto sulla bomba di Brighton [attentato da parte dell’IRA, Esercito Repubblicano Irlandese, nei confronti del primo ministro Margareth Thatcher avvenuto il 12 ottobre 1984 al Grand Brighton Hotel di Brighton, in Inghilterra, in cui la Thatcher rimase illesa ma morirono 5 esponenti del suo partito, ndtr.], sullo sciopero dei minatori, sulle reazioni lealiste in seguito all’accordo anglo-irlandese in Irlanda del Nord, sui primi conflitti dopo la scissione dall’ex Jugoslavia di Slovenia e Croazia, sulla fine dell’Unione Sovietica, sui fatti della Cecenia con lo scoppio dei relativi focolai di guerra. Ha descritto il declino morale e fisico di Boris Eltsin e le condizioni che hanno creato l’ascesa di Putin. Dopo l’Irlanda, è stato nominato corrispondente dall’Europa per Guardian Europe, quindi è passato nel 1992 alla sede editoriale di Mosca, prima di diventare capo redattore nel 1994. Ha lasciato la Russia nel 1997 per entrare nella redazione esteri, è diventato editorialista europeo e poi editorialista associato per il settore esteri. È entrato a far parte di The Guardian da The Scotsman [giornale scozzese con sede ad Edimburgo, ndtr.], dove ha lavorato come corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)