Evidentemente non per tutti i minori vale la pena di lottare: razzismo, coscienza e la NSPCC  

Martin Kemp

 

12 gennaio 2021 – Middle East Monitor

 

 

L’Associazione Nazionale per la Prevenzione della Crudeltà contro i Minori (NSPCC), la maggiore ONG per l’infanzia della Gran Bretagna, è al centro di una campagna perché rinunci ai suoi rapporti con JC Bamford Excavators Ltd (JCB), ditta costruttrice di macchinari per l’edilizia, da cui ha ricevuto donazioni per milioni di sterline. I mezzi della JCB vengono usati dalle forze di sicurezza israeliane per distruggere le case dei palestinesi e per costruire insediamenti illegali/colonie nella Cisgiordania occupata. Denunciata nel 2012 in una relazione dell’organizzazione anti-povertà War on Want, nel 2020 la ditta è stata inserita dall’ONU in una lista di aziende implicate in violazioni delle leggi internazionali. In seguito all’esposto di Lawyers for Palestinian Human Rights [Avvocati per i Diritti Umani dei palestinesi, ong britannica, ndtr.] si trova attualmente sotto inchiesta da parte del Dipartimento per il Commercio Internazionale.

 

Non c’è bisogno di essere un esperto per rendersi conto della crudeltà a cui sono sottoposte varie migliaia di minori palestinesi dalla politica israeliana di distruggerne le case, o per immaginare l’estremo stress subito dalle decine di migliaia di famiglie che, ricevuto l’ordine di demolizione, ignorano totalmente quando i bulldozer dell’esercito arriveranno ad eseguirlo. Una ricerca eseguita da  PCC/Save the Children [ong internazionale per la difesa dei diritti dei minori, ndtr.], ad esempio, conferma, ovviamente, che i minori coinvolti rimangono profondamente segnati da tale esperienza.

Non sarebbe sicuramente accettabile che un governo europeo trattasse in questo modo i cittadini di una minoranza etnica. In che modo allora la NSPCC riesce a conciliare la sua missione benefica e gli stretti legami con una azienda simile?

Edward Colston (1636-1721), il mercante di schiavi di Bristol la cui statua è stata abbattuta durante le proteste di Black Lives Matter dello scorso anno, era un cittadino modello: uno stimato mercante che per senso civico finanziava molte opere filantropiche, compresi ricoveri per indigenti, ospedali e scuole per i giovani. Questo pio filantropo, che contribuì a costruire anche chiese, non fece nulla per scandalizzare la società britannica. E tuttavia, per i suoi concittadini antirazzisti del XXI secolo e ormai per il mondo intero, Colston rappresenta il ruolo avuto dalla Gran Bretagna nella corsa genocida per impadronirsi delle ricchezze dell’Africa, i cui costi per la popolazione di quel continente e le cui conseguenze su chi venne deportato e reso schiavo sono impossibili da quantificare.

Per spiegarci l’estrema contraddizione fra umanità e crudeltà che ci rivela il lascito di questo individuo dobbiamo considerare il razzismo anti-nero che prese piede in Gran Bretagna contemporaneamente all’espansione della sua potenza colonizzatrice e schiavizzante. Possiamo dare per scontato che l’amor proprio di Colston fosse garantito dalla convinzione che gli uomini e le donne nere che comprava e vendeva non erano per niente esseri umani, bensì beni mobili proprio come i vini e i tessuti in cui commerciava. La barbarie del bianco veniva proiettata sulle sue vittime, che potevano quindi essere considerate “selvaggi”.

Forse anche Colston avrebbe fatto donazioni alla NSPCC se fosse esistita a quei tempi, e l’equivalente tardo-seicentesco di questa organizzazione benefica, avendo interiorizzato gli stessi presupposti egemonici di Colston, ne avrebbe accettato i soldi senza alcuna remora.

Il razzismo anti-nero è ancora una ferita profonda nella nostra cultura e continua a produrre discriminazione e sofferenza alla popolazione di colore, però viene ormai quasi universalmente considerato una vergognosa aberrazione. Questo non vale, tuttavia, per ogni forma di razzismo. L’accumulazione del capitale, lo sfruttamento della manodopera, l’estrazione delle risorse naturali e persino forme di aperto colonialismo hanno ancora la priorità sui diritti delle popolazioni non-bianche. Esistono ancora specifici gruppi da disumanizzare e demonizzare, che devono essere resi “superflui” per il mondo moderno e la cui esistenza deve venire spinta ai margini della coscienza “bianca”.

L’autorità ufficiale di regolamentazione per le operazioni delle organizzazioni benefiche registrate in Gran Bretagna è la Charity Commission, che fornisce indicazioni per fare in modo che i fondi abbiano provenienza non dubbia e vengano spesi per fini leciti. Lo scopo è evitare il tipo di polemiche in cui venne coinvolta la London School of Economics quando accettò sovvenzioni dal defunto leader libico Mu’ammar Gheddafi.

A fronte delle richieste ricevute affinché rifiuti il denaro ricavato da attività che comportano danni gravi e permanenti per i minori palestinesi, la NSPCC ha replicato che “in conformità con le indicazioni della Charity Commission, la NSPCC ha prodotto linee guida etiche per la raccolta di fondi aziendali che riflettono i nostri valori… e mette in atto procedure efficaci di controllo basate sui criteri approvati dai suoi amministratori fiduciari in relazione alle aziende partners.”

Desta sorpresa che la NSPCC si senta autorizzata a considerare i profitti derivati dalla demolizione delle case, con tutte le crudeltà che ne derivano, alla stregua di denaro pulito? Forse la ragione sta nel fatto che quelle indicazioni consigliano soltanto di rifiutare i fondi “associati a qualsiasi organizzazione che abbia a che fare con la schiavitù, la tratta e il lavoro minorile oppure in cui un direttore o funzionario sia stato condannato per un crimine sessuale.”

In un opuscolo intitolato “Living Our Values” [Nel Rispetto dei Nostri Valori, n.d.tr.], la NSPCC dichiara: “Faremo sentire la nostra voce quando qualcosa non va… Cerchiamo di realizzare cambiamenti culturali, sociali e politici – influenzando legislazione, politica, pratiche e comportamenti e garantendo servizi che vadano a vantaggio di giovani e bambini.”  

Qui la NSPCC riconosce la responsabilità di contestare le regole comuni nel caso in cui esse mettano in pericolo i giovani. Tuttavia, quando si tratta di minori in Paesi lontani, essa suggerisce che le priorità commerciali del governo facciano premio sull’applicazione delle norme morali: “Le attività di esportazione di un’impresa non sono sottoposte al nostro codice deontologico” a meno che non riguardino Paesi “sottoposti formalmente a restrizioni da parte del governo/Dipartimento per il Commercio del Regno Unito.” 

 

Con questo approccio legalistico i funzionari della organizzazione benefica riescono ad eludere la sfida morale insita nel rapporto reciprocamente vantaggioso con JCB. Forse potremmo chiedere perché non si siano consultati invece con i loro omologhi palestinesi (del PCC [Palestinian Counseling Center, ong psicologi, educatori e attivisti di comunità che opera nei territori occupati, ndtr], GCMHP [Gaza Community Mental Health Programme, ong palestinese di operatori della salute mentale che opera a Gaza, ndtr.], DCI [Defence for Children International-Palestine, ong che difende i diritti dei minori, ndtr.] o PTC [Palestine Trauma Center, ong che offre sostegno psicologico a minori, famiglie e persone traumatizzate, ndtr.], per esempio) per scoprire quali siano le conseguenze delle demolizioni di case sulla salute mentale dei minori.

È possibile che lo stesso complesso psicologico-ideologico che permise a Colston di essere al contempo mercante di schiavi e stimato filantropo sia ravvisabile all’interno della NSPCC?

In un recente rapporto alla Assemblea Generale ONU, il professor Nils Melzer, relatore speciale sulla tortura, ha esaminato i meccanismi utilizzati da “perpetratori e spettatori” per giustificare la propria tolleranza alle torture.  Messi di fronte a violazioni inconfutabili dei diritti umani, essi “tendono a sopprimere i dilemmi morali che ne derivano grazie a schemi di negazione e di auto-inganno in gran parte inconsci.” In questi casi il meccanismo ideale è il razzismo, che, proiettando la brutalità dei perpetratori sulle sue vittime, le disumanizza agli occhi dei più forti e le sottrae così al giudizio della coscienza.

 

Il colonialismo delle colonie contiene una “logica di eliminazione”. Come disse l’allora Primo Ministro israeliano Golda Meir, “Non è vero che c’era un popolo palestinese in Palestina, che noi siamo arrivati, lo abbiamo cacciato e gli abbiamo portato via il Paese. Semplicemente non esisteva.”

Questo razzismo di tipo eliminatorio pervade l’intera cultura israeliana e influenza la mentalità dominante all’interno del mondo occidentale. Si può continuare a percepire Israele come una democrazia solo se i palestinesi che vivono senza diritto di voto nella Palestina storica e i profughi nei Paesi vicini non vengono riconosciuti come esseri umani al pari nostro e dei cittadini ebrei di Israele.

 

La mentalità colonialista delle culture metropolitane garantisce che la protezione teoricamente garantita erga omnes dalle leggi internazionali venga applicata invece in modo selettivo. A parole si professa il rispetto per la Convenzione ONU sui Diritti del Minore, ma nei fatti alcuni governi la ignorano impunemente.

È deplorevole che l’impegno della NSPCC nei confronti dei bambini maltrattati venga pregiudicato dalla sua riluttanza ad andare oltre le convenzioni per impegnarsi direttamente a favore dei giovani che vivono nella Palestina occupata. 

 

Comportandosi secondo l’etica dell’attuale capitalismo razziale, i funzionari della NSPCC non sono nè più nè meno malvagi di Edward Colston. Ciascuno a modo suo è rappresentativo del suo periodo storico e del suo milieu sociale, ciascuno riflette la collusione della società britannica con l’illegalità internazionale, nel passato con la schiavitù, oggi con il colonialismo degli insediamenti israeliani.

 

Il fatto che il razzismo anti-palestinese sia così diffuso nella nostra società non autorizza un’organizzazione benefica impegnata nella protezione dei minori che si promuove con lo slogan “vale la pena lottare per ciascun bambino”, ad assecondarne la bieca logica.

Evidentemente, per quanto riguarda la NSPCC, non per tutti i minori vale  la pena di lottare.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero) 




Rapporto OCHA del periodo 22 dicembre 2020 – 4 gennaio 2021

Il 26 dicembre, in seguito al lancio di due razzi, da Gaza verso Israele, le forze israeliane hanno effettuato una serie di attacchi aerei sulla città di Gaza, provocando il ferimento di tre palestinesi, tra cui una bambina di sei anni, e significativi danni a strutture civili adiacenti.

Secondo fonti ufficiali israeliane, gli attacchi aerei avevano come obiettivi una struttura sotterranea ed un sito utilizzati per la fabbricazione di razzi. Le strutture civili danneggiate includono due scuole, due manifatture, un ospedale, una moschea, tralicci per l’energia elettrica ed una conduttura per l’acqua; i danni a quest’ultima hanno interrotto l’approvvigionamento idrico a 250.000 persone circa. I razzi palestinesi erano stati intercettati in aria e non avevano provocato ferimenti di israeliani, né danni. Da metà agosto scorso, questo è il primo scontro con feriti e danni materiali importanti.

Nelle aree [di Gaza] adiacenti la recinzione perimetrale e in zone di mare al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 45 occasioni. In un episodio separato, accaduto al largo della costa di Rafah, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco verso una imbarcazione palestinese, arrestando tre pescatori. Nessuno di questi episodi ha provocato feriti. In queste aree, di solito, le sparatorie si svolgono per imporre restrizioni di accesso.

Il 1° gennaio, un palestinese di 24 anni è stato colpito al collo da un proiettile sparato da un soldato israeliano e, al momento, è paralizzato; egli aveva cercato di impedire il sequestro di un generatore elettrico privo dell’autorizzazione richiesta da Israele. L’episodio è avvenuto ad Ar Rakeez: una delle 14 Comunità di pastori dell’area di Massafer Yatta (a sud di Hebron) i cui residenti sono a rischio di trasferimento forzato poiché l’area è stata designata da Israele come zona “chiusa” e destinata all’addestramento dei suoi militari.

In Cisgiordania, scontri scoppiati durante operazioni israeliane di ricerca-arresto, condotte nei pressi di due ospedali, hanno provocato il ferimento di due palestinesi, tra cui una donna incinta, e l’interruzione delle attività ospedaliere [seguono dettagli]. In un episodio verificatosi il 27 dicembre, nella città di Ramallah, due persone, che stavano nel cortile di un ospedale, sono state colpite da proiettili di gomma sparati dalle forze israeliane dall’esterno; è stata danneggiata anche un’ambulanza. Il 4 gennaio, nella città di Tulkarm, in un altro episodio, le cui circostanze rimangono poco chiare, le forze israeliane sono entrate in un ospedale ed hanno lanciato granate stordenti.

In Cisgiordania, in scontri con forze israeliane, sono rimasti feriti altri 89 palestinesi, compresi 16 minori [seguono dettagli]. Quarantasei feriti si sono avuti vicino al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante le reiterate proteste contro le attività di insediamento colonico, tra cui la creazione di un nuovo insediamento avamposto [non autorizzato da Israele]. Altri 30 palestinesi sono rimasti feriti nella comunità di Al Karmel, nel sud di Hebron, durante la demolizione di una casa. Nella città di Nablus, Beituniya e Al Bireh a Ramallah, e nei Campi profughi di Aqbet Jaber (Gerico) e Ad Duheisheh (Betlemme), operazioni israeliane di ricerca-arresto hanno innescato scontri con palestinesi, 11 dei quali sono stati feriti. Degli 89 feriti, 65 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 13 sono stati colpiti da proiettili di gomma, sei sono stati aggrediti fisicamente e cinque sono stati colpiti con armi da fuoco.

Il 24 dicembre, nel villaggio di Tura (Jenin), forze israeliane hanno arrestato un palestinese sospettato dell’omicidio di una donna israeliana, il cui corpo era stato ritrovato il 20 dicembre, vicino all’insediamento di Tal Menashe. Secondo le autorità israeliane, l’uomo ha confessato di aver ucciso la donna per motivi nazionalistici. In relazione a questo episodio sono stati arrestati anche altri quattro palestinesi.

Il 3 gennaio, vicino al villaggio di Deir Nidham (Ramallah), una donna israeliana, che transitava in auto, è stata gravemente ferita da una pietra lanciata da un palestinese. Successivamente, le forze israeliane hanno condotto una serie di operazioni di ricerca nel villaggio, arrestando nove palestinesi, tra cui, secondo quanto riferito, il presunto aggressore. Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, in ulteriori episodi di lancio di pietre, tre israeliani sono rimasti feriti e 14 veicoli israeliani hanno subito danni.

A motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate trentaquattro strutture palestinesi provocando lo sfollamento di 22 persone e creando ripercussioni su oltre 170. Tutte le strutture prese di mira, tranne due, e tutti gli sfollamenti sono stati registrati in Area C, interessando 12 Comunità palestinesi. Le due strutture sopraccitate sono state demolite in Gerusalemme Est dagli stessi proprietari per evitare maggiori spese e multe.

In due episodi distinti, le forze israeliane hanno spianato con i bulldozer terreni agricoli e sradicato circa 850 alberi di proprietà palestinese, con la motivazione che la terra è dichiarata [da Israele] “terra di stato” [seguono dettagli]. Vicino al villaggio di Al Jab’a (Betlemme) sono stati rasi al suolo circa 1,5 ettari di terreno e sono stati sradicati 350 ulivi e 150 viti, minando i mezzi di sussistenza di almeno tre famiglie. Nella Comunità beduina di An Nuwei’ma Al Fauqa (Gerico), durante una demolizione, le forze israeliane hanno sradicato 350 ulivi.

In diversi episodi, palestinesi sono stati colpiti da pietre o attaccati in altro modo da aggressori ritenuti coloni israeliani. In due episodi distinti, avvenuti a Gerusalemme Est e Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), un ragazzo e un uomo sono stati aggrediti fisicamente e feriti. Nei villaggi di At Tuwani (Hebron), Huwwara e Jalud (Nablus) e Kifl Haris e Sarta (Salfit), coloni hanno lanciato pietre e danneggiato veicoli, case e ulivi; nell’ultima di tali località gli aggressori hanno lanciato una granata assordante all’interno di una casa, senza provocare feriti. In tutta la Cisgiordania sono stati registrati decine di casi di lancio di pietre contro auto palestinesi; in tre degli episodi sono stati danneggiati veicoli. A quanto riferito, alcuni di questi episodi si sono verificati durante proteste di coloni per la morte di un ragazzo israeliano in un incidente d’auto: l’auto si era schiantata mentre era inseguita dalla polizia israeliana [che sospettava che gli occupanti avessero lanciato pietre contro auto palestinesi]. Alcune di queste proteste hanno comportato scontri tra coloni e polizia israeliana.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 5 gennaio, vicino all’incrocio di Gush Etzion (Hebron), il coordinatore della sicurezza di un insediamento israeliano ha sparato, uccidendo un palestinese che, secondo quanto riportato da media, aveva tentato una aggressione con coltello.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Un rave, una DJ e un dibattito: i palestinesi scandalizzati da un tecno-party in un luogo sacro

Akram Al-Waara – Ramallah, Cisgiordania occupata

31 dicembre 2020 – Middle East Eye

Nonostante fosse stata concessa l’autorizzazione per l’evento, il governo palestinese ha arrestato la famosa DJ palestinese Sama Abdulhadi e la tiene in carcere da quindici giorni

* Nota redazionale. Oggi 4 gennaio Sama Abdulhadi è stata scarcerata su cauzione ma rimane inquisita e non può lasciare la Palestina per Parigi dove abita.

Una festa organizzata sabato ha suscitato una polemica all’interno della società palestinese e scatenato un acceso dibattito sulla cultura e la religione. Questo clamore fa seguito alla diffusione di video che mostrano gente che fa festa bevendo e ballando nell’antico sito di Nabi Moussa, un luogo sacro musulmano situato nella Cisgiordania occupata, che secondo la tradizione islamica sarebbe il luogo di sepoltura di Mosè.

In un video ampiamente diffuso giovani palestinesi ballano sotto giochi di luce al suono di una musica tecno all’interno di un’antica costruzione a Nabi Moussa, tra Gerico e Gerusalemme.

In un altro video si vede un gruppo di giovani interrompere la festa gridando ai partecipanti: “Fuori! Subito! Uscite!”. Uno dei partecipanti risponde che hanno il permesso del Ministero del Turismo palestinese.

Ciononostante i giovani insistono nel disperdere i festaioli e si avvicinano alla DJ di fama internazionale Sama Abdulhadi – ritenuta la prima donna DJ professionista palestinese -, che fa filmare un video sul sito. 

Si sente Sama Abdulhadi pregare le persone che le si avvicinano: “Siamo desolati, siamo desolati, ce ne andiamo. Vi giuro che ce ne andiamo.”

Lunedì le forze dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) hanno arrestato Sama Abdulhadi e l’ hanno fermata per interrogarla, pur se i responsabili non hanno specificato i motivi del suo arresto. Martedì un giudice ha deciso di prorogare la sua detenzione di quindici giorni.

Una festa “immorale” e “irrispettosa”

Il video ha suscitato l’indignazione di molti palestinesi per i quali questa festa è un affronto all’islam e una “profanazione” del luogo sacro. Il giorno seguente fedeli palestinesi si sono recati a Nabi Moussa e hanno organizzato una manifestazione per pregare nella moschea del sito e condannare una festa “immorale” e “irrispettosa”.

Contemporaneamente si è visto sulle reti sociali uno slancio di solidarietà da parte di utenti di internet palestinesi e stranieri in difesa di Sama Abdulhadi, mentre una petizione per la sua liberazione è stata firmata da migliaia di fan e simpatizzanti.

Nei giorni successivi alla festa, dei video di palestinesi che esprimevano la propria indignazione hanno inondato Twitter, TikTok e Facebook; alcuni di loro chiedevano che i partecipanti alla festa, gli organizzatori ed i rappresentanti del governo che hanno concesso il permesso fossero ritenuti responsabili.

Ciò che è accaduto a Nabi Moussa è abbastanza sconvolgente per noi, in quanto palestinesi: è qualcosa che non possiamo accettare”, confida a Middle East Eye Alaa al-Daya, una studentessa di 23 anni originaria di Gerusalemme.  

Secondo me non è una bella cosa fare questo genere di feste in un luogo che ha tanta importanza religiosa e culturale per le persone”, sostiene.

La giovane spiega che il concetto di rave party, per di più nel luogo di un’antica moschea, non è accettato da una gran parte della comunità palestinese.

Secondo i partecipanti e gli organizzatori della festa l’evento aveva lo scopo di celebrare e preservare la cultura palestinese, precisa.

Ma io non sono d’accordo. Fare festa e bere non sono cose condivise da tutti i palestinesi. Ci sono altri modi per celebrare e proteggere la nostra cultura”, afferma.

Se si fosse trattato di un festival di dabkeh (danza tradizionale araba) o di musica tradizionale palestinese, forse le persone non vi avrebbero visto un problema così grave.”

Invece lo zio di Sama Abdulhadi, Samir Halileh, ha dichiarato che sua nipote faceva un video e intendeva ricreare un’ambientazione caratteristica della musica tecno. Ha aggiunto che le voci sulla presenza di droga erano infondate.

Affermazioni contraddittorie

I responsabili dell’Autorità Nazionale Palestinese si sono affrettate a smentire ripetutamente le affermazioni secondo cui il Ministero del Turismo aveva rilasciato un’autorizzazione per l’evento. Analogamente, il Ministero degli Affari Religiosi e quello del Turismo hanno subito dichiarato di non essere stati informati dell’evento.

Osama Estetia, responsabile dei musei del Ministero del Turismo, ha però dichiarato mercoledì che, quando avevano ricevuto la richiesta per filmare il sito allo scopo di promuoverlo in rete, i suoi servizi non erano stati informati del tipo di musica che sarebbe stata suonata.

L’impiegato che ha ricevuto la richiesta ha risposto trasmettendo un elenco di condizioni, in particolare il rispetto dei regolamenti del sito, delle procedure di pubblica sicurezza, della rilevanza religiosa e della privacy del santuario”, ha dichiarato in un’intervista rilasciata alla rete televisiva Al-Watan.

Osama Estetia ha declinato ogni responsabilità riguardo ai fatti, affermando che il ministero aveva chiesto agli organizzatori di coordinarsi con il governatorato di Gerico, in quanto il ministero non era responsabile della gestione del sito stesso.

Secondo lui erano stati gli organizzatori a proporre quel luogo, affermazione contraddetta dal capo della Commissione palestinese indipendente per i diritti umani, Ammar Dweik, che ha affermato il contrario.

Il Primo Ministro Mohammad Shtayyeh ha annunciato la creazione di una “commissione d’inchiesta” per scoprire ciò che è avvenuto e anzitutto perché la festa sia stata organizzata a Nabi Moussa.

Mahmoud al-Habbash, consigliere del presidente Mahmoud Abbas per le questioni religiose, ha pubblicato un comunicato in cui afferma di provare “disgusto e rabbia per quel che è avvenuto alla moschea di Nabi Moussa.”

Non so ancora chi sia responsabile di questo peccato, ma, chiunque sia, la sanzione sarà all’altezza dell’atrocità commessa. Una moschea è una casa di dio, il suo carattere sacro è il carattere sacro della religione stessa”, ha dichiarato.

Sama è un capro espiatorio”

Secondo lo zio di Sama Abdulhadi l’evento ha avuto luogo con l’approvazione del ministero e il problema sta nella definizione del sito stesso, cioè se si tratti di un sito sacro religioso o di un sito turistico che ospita un albergo, delle piazze e una moschea.

È chiaro che Sama è stata vittima di questo contrasto sulla definizione del luogo. Noi non accettiamo l’idea di aver urtato delle sensibilità religiose o profanato un luogo sacro e la disputa sulla natura del sito deve essere definita dal governo.”

Samir Halileh sostiene che sua nipote, che è disposta a collaborare, dovrebbe essere liberata e che dovrebbe essere doverosamente condotta un’inchiesta.

L’insieme del sito occupa 5.000 m2 e la moschea 60 m2. Ci siamo assicurati presso il Ministero del Turismo che fosse possibile organizzarvi una festa”, ha dichiarato alla tv Al-Watan [rete televisiva palestinese accusata da Israele di essere vicina ad Hamas, ndtr.].

Ci hanno detto che il sito comprendeva grandi cortili e che i turisti vi avevano accesso.”

Poco dopo il suo arresto ha iniziato a circolare una petizione per la liberazione di Sama Abdulhadi. Giovedì scorso contava circa 76.000 firme. Secondo la petizione l’incidente avvenuto a Nabi Moussa ha provocato “una feroce campagna di disinformazione sulle reti sociali, che ha alimentato reazioni violente e attacchi personali contro Sama.”

La petizione sottolinea anche il fatto che gli organizzatori hanno sicuramente ricevuto un’autorizzazione scritta dal Ministero del Turismo, che controlla il sito, ma altresì che la festa si è svolta nella zona del “bazar” e non dentro la moschea.

Il ministero era a conoscenza del genere di musica che sarebbe stata suonata durante il concerto – la musica tecno – e che il concerto sarebbe stato filmato in questo sito archeologico (…) allo scopo di promuovere i siti rilevanti del patrimonio palestinese e la musica tecno palestinese presso il pubblico musicale di tutto il mondo.”

Sama Abdulhadi e gli organizzatori del concerto non si sono forse resi conto che questo genere di musica non era consono al sito e alle sue implicazioni storiche, religiose e culturali, ma ciò non toglie che il Ministero del Turismo abbia l’intera responsabilità della decisione di autorizzare lo svolgimento del concerto”, specifica la petizione.

Tra i firmatari della petizione figura l’avvocata ed attivista palestinese-americana Noura Erakat, che ha dichiarato in un post su Facebook di aver firmato la petizione in quanto ritiene che Sama Abdulhadi sia “un capro espiatorio dell’Autorità Nazionale Palestinese.”

Per Alaa al-Daya, la giovane studentessa, gli organizzatori avrebbero dovuto essere informati meglio e Sama non avrebbe dovuto essere arrestata; secondo lei la vera responsabilità è del governo.

È chiaro che adesso il governo cerca di salvare la faccia e di addossare la colpa a qualcun altro, dopo aver visto le reazioni negative che tutto ciò ha provocato”, afferma.

L’hanno arrestata solo per dimostrare di aver preso misure contro la festa. Sama non dovrebbe essere in carcere. È la persona che ha autorizzato la festa che dovrebbe esserci.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Israele ordina un’ondata di nuove demolizioni di case a Silwan, Gerusalemme

Ibrahim Husseini

31 dicembre 2020 – Al Jazeera

Gli abitanti temono che il Comune di Gerusalemme stia preparandosi a radere al suolo molte case palestinesi nelle prossime settimane

Gerusalemme est – Fakhri Abu Diab, 59 anni, potrebbe dover decidere a breve se contrattare una squadra [di muratori] per demolire la casa della sua famiglia.

Diab è un attivista della sua comunità e uno de molti abitanti palestinesi del quartiere Al-Bustan di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, a cui in dicembre sono stati intimati ordini di demolizione da parte del Comune di Gerusalemme.

Ha costruito senza licenza edilizia il suo edificio, nelle cui tre unità abitative vivono 13 membri della famiglia, in quanto, dalla prima volta in cui ha fatto domanda nel 1987, essa gli è stata negata per quattro volte. Se il Comune metterà in pratica l’ordinanza di demolizione, notificata il 9 dicembre, il costo potrebbe essere di 30.000 dollari.

Diab dice che, se perderà la casa, “al momento non ho alternative se non piazzare una tenda.”

Dice che nel solo mese di dicembre ad Al-Bustan sono stati consegnati 21 ordini di demolizione.

I proprietari di case e gli osservatori temono che il Comune, con l’appoggio del primo ministro Benjamin Netanyahu, stia preparandosi a radere al suolo nelle prossime settimane un numero significativo di case palestinesi in città.

Le nuove elezioni politiche israeliane, fissate in marzo, e gli ultimi giorni alla Casa Bianca del presidente USA uscente Donald Trump potrebbero accelerare questa iniziativa.

Ci sono molte pressioni da parte dell’estrema destra sia all’interno della città che a livello nazionale per approfittare del tempo che resta,” dice ad Al Jazeera Laura Wharton, consigliera municipale a Gerusalemme per il partito di sinistra [sionista, ndtr.] israeliano Meretz.

Wharton ritiene che il numero di ordini di demolizione pendenti a Gerusalemme est sia addirittura di 30.000. Tuttavia non prevede che tutti siano in pericolo immediato.

Nel solo 2020 le Nazioni Unite hanno registrato 170 demolizioni nella sola Gerusalemme est e 644 nell’area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndtr.] della Cisgiordania occupata.

I dati indicano che questo è il secondo numero di demolizioni più alto dal 2016, dopo che nel 2009 l’ONU ha iniziato a registrare le demolizioni nei territori palestinesi occupati.

Per contrastare la diffusione della pandemia da coronavirus, dal primo ottobre è entrato in vigore un congelamento delle demolizioni di case occupate a Gerusalemme est. Ma l’11 novembre l’amministrazione comunale di Gerusalemme ha improvvisamente posto fine al congelamento.

Quando Al Jazeera ha contattato il Comune di Gerusalemme per ottenere risposte sui nuovi ordini di demolizione, esso non ha affrontato il problema ma ha affermato in una dichiarazione: “Gerusalemme è una delle città leader al mondo nel farsi carico delle necessità dei suoi abitanti, di tutti i suoi abitanti, soprattutto durante questo difficile periodo.”

Silwan, che si trova a sud delle mura della Città Vecchia, è stato a lungo un bersaglio dei coloni religiosi ultranazionalisti che spesso influenzano il consiglio municipale di Gerusalemme, afferma Wharton: “È un problema quando ci sono estremisti all’interno del Comune e a livello nazionale un primo ministro che sta cercando di farsi votare,” dice Wharton ad Al Jazeera.

Lotta per Silwan

A Silwan vivono circa 30.000 palestinesi, molti in case scadenti e con scarse infrastrutture. Circa 500 coloni ebrei vivono in insediamenti sparsi nel quartiere.

La Fondazione della Città di David, una Ong israeliana comunemente nota come El-Ad (acronimo in ebraico che sta per “Per la Città di David”) venne fondata nel 1986 principalmente per avanzare rivendicazioni territoriali attraverso l’archeologia e l’insediamento di coloni a Silwan.

A metà degli anni ’90 venne contrattata per gestire il parco [archeologico, ndtr.] della Città di David, che essa intende estendere da Wadi Hilweh fino ai dintorni Al-Bustan.

Il progetto implica la demolizione di circa 90 case palestinesi per far posto a un parco nazionale e a un nuovo sviluppo urbano per i coloni.

In base al presupposto che migliaia di anni fa fosse un giardino dei re israeliti, il Comune di Gerusalemme ha ufficialmente cambiato il nome “Al-Bustan” in “Gan Hamelekh” (il Giardino del Re).

Il Comune ha sistematicamente negato agli abitanti palestinesi di Al-Bustan i permessi edilizi perché, in base ad un programma chiamato “La Valle del Re”, esso è considerato “un’area paesaggistica aperta”.

La mia casa è distrutta”

Sono stato maltrattato in ogni modo, la mia casa è distrutta… mia moglie e i bambini ora stanno vivendo lontano da me,” dice ad Al Jazeera il ventottenne Kazem Abu Shafe’a.

Abu Shafe’a aveva bisogno di una casa per la sua famiglia composta da quattro persone. Ma, in quanto assistente sociale per anziani con uno stipendio modesto, non poteva permettersi di lasciare Silwan.

Così in agosto ha deciso di costruire sopra la casa di sua madre, anch’essa con un ordine di demolizione, un’abitazione per la sua famiglia, senza presentare una richiesta di permesso.

È entrato nell’ appartamento aggiunto all’inizio di novembre, ma il 17 dello stesso mese funzionari comunali hanno consegnato ad Abu Shafe’a un ordine di demolizione.

Ha consultato un avvocato, ma questi gli ha detto che non si poteva far annullare l’ordinanza.

Abu Shafe’a ha iniziato a mettere in salvo i mobili, la moglie ha preso i figli ed è andata a vivere con i suoi genitori finché non troveranno un posto da affittare. Abu Shafe’a è rimasto a casa di sua madre.

Il 22 dicembre è arrivata la squadra per la demolizione, inclusi poliziotti e impiegati comunali.

Era circa mezzogiorno, non c’è stato nessun preavviso,” dice Abu Shafe’a. “Circa 30 poliziotti si sono sparpagliati nel quartiere e hanno operato la demolizione,” dice.

Impedire una capitale palestinese

A Silwan, al-Bustan non è l’unico quartiere che si trova sotto pressione da parte delle autorità israeliane.

Gli abitanti di Baten el-Hawa, nel cuore di Silwan, devono affrontare ordini di demolizione dopo che organizzazioni di coloni sono riuscite a far riconoscere rivendicazioni di proprietà nei tribunali israeliani.

Peace Now, un’associazione di monitoraggio delle colonie israeliane, afferma che le azioni legali dei coloni comporteranno l’espulsione di un’intera comunità a Gerusalemme est, in base all’applicazione della legge del “diritto al ritorno”, che Israele concede solo ai suoi cittadini ebrei.

Attraverso al-Bustan i coloni otterranno la contiguità di tre località: il “Parco della Città di David” ai confini di Wadi Hilweh e Baten el-Hawa ad est.

Il progetto è collegare tutte le colonie nei quartieri palestinesi,” dice ad Al Jazeera Hagit Ofran, ricercatore e portavoce di Peace Now [associazione israeliana contraria all’occupazione, ndtr.]. “Per circondare la Città Vecchia e impedire che Gerusalemme est sia la capitale dei palestinesi.”

Dal 2004, in netto contrasto con la politica di demolizioni dell’amministrazione comunale di Gerusalemme nei confronti dei palestinesi, a Batn el-Hawa sorge un edificio di sei piani, abitato da coloni ebrei.

La “Casa di Jonathan”, dal nome di Jonathan Pollard, un americano analista dell’intelligence che ha fatto la spia per Israele, è stata costruita 20 anni fa senza permesso, eppure il Comune ha ignorato un ordine del tribunale di svuotare e sigillare l’edificio ed ha lasciato intatto l’edificio.

Invece Zuheir Rajabi, 50 anni, e la sua famiglia di sei persone vivono a Batn el-Hawa a pochi metri dalla “Casa di Jonathan”.

Un tribunale israeliano ha deciso che la famiglia deve lasciare la propria casa dopo che l’associazione a favore dei coloni “Ateret Cohanim”, attraverso il Custode Israeliano delle Proprietà degli Assenti [che si occupa della gestione delle proprietà forzatamente abbandonate dai palestinesi, ndtr.] , si è impossessata della proprietà del terreno in nome di una fiduciaria benefica per ebrei yemeniti poveri immigrati oltre un secolo fa.

Ora a Batn el-Hawa ci sono 87 ordini di espulsione contro abitanti palestinesi in seguito a cause intentate da Ateret Cohanim.

Rajabi dice ad Al Jazeera che, se inizieranno a mettere in pratica le demolizioni, ci sarà una forte reazione da parte degli abitanti: “Se tutte le famiglie rimangono unite contro questa politica, allora possiamo bloccare l’esecuzione degli ordini,” afferma Rajabi.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Se fosse palestinese, persino Babbo Natale avrebbe bisogno di un visto e di un permesso di viaggio

Eman Abusidu

24 dicembre 2020 – Middle East Monitor

Mentre in tutto il mondo i cristiani celebrano il periodo natalizio come momento di gioia e rinascita spirituale, l’occupazione israeliana rende le cose difficili per i cristiani palestinesi. Anche se la Palestina, non dimentichiamolo, è il luogo natale di Gesù (la pace sia con Lui), i cristiani locali sono perseguitati dalle forze di sicurezza israeliane. Israele, tramite politiche discriminatorie, arresti arbitrari, prendendo di mira le chiese e con i checkpoint militari, applica intenzionalmente una politica che mira a espellere i cristiani dalla Cisgiordania occupata e dalla Striscia di Gaza, così come da Gerusalemme. I requisiti per ottenere i permessi per andare a visitare luoghi o persone e viaggiare fanno semplicemente parte della più ampia politica israeliana volta a negare ai palestinesi la libertà di movimento e di accesso ai loro luoghi religiosi.

Secondo un rapporto del 2019 dell’Ufficio centrale di statistica palestinese, in Cisgiordania vivono oltre 40.000 cristiani palestinesi, che due anni prima erano 47.000. Nella Striscia di Gaza, la popolazione cristiana si è ridotta dai circa 3.000 di 10 anni fa ai circa 1.000 di oggi, sui 2 milioni di abitanti del piccolo territorio. Prima degli accordi di Oslo c’erano circa 5.000 cristiani a Gaza. Sia i musulmani che i cristiani sanno che il calo è dovuto all’occupazione israeliana.

L’arcivescovo Atallah Hanna, capo della diocesi di Sebastia della Chiesa greco-ortodossa a Gerusalemme, ha condannato gli abusi dell’occupazione israeliana. “Ci sono gravi violazioni dei diritti umani del popolo palestinese, persino in occasione dei loro eventi religiosi,” ha detto l’arcivescovo Hanna. “L’occupazione israeliana ha costruito barriere razziste e militari per impedire a musulmani e cristiani di visitare i loro luoghi sacri e di preghiera.”

Il muro dell’apartheid e altri ostacoli degli israeliani rendono impossibile ai palestinesi di viaggiare facilmente, per esempio, dalla chiesa della Natività a Betlemme al Santo Sepolcro senza un permesso speciale delle autorità di occupazione. In molte occasioni si impedisce ai palestinesi di andare alla chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme e in altri luoghi sacri, inclusa la moschea di Al-Aqsa.

“Noi respingiamo il sistema di permessi che le autorità di occupazione israeliane danno e tolgono a chi vogliono loro,” ha detto il leader ortodosso. “Gerusalemme è la nostra città e la nostra capitale per tutti, cristiani e musulmani.”

L’occupazione rappresenta una minaccia sia per i musulmani che per i cristiani palestinesi. Le stesse crudeli punizioni collettive sono imposte su tutti durante le rispettive feste religiose. Come la loro controparte cristiana in Cisgiordania, i musulmani non possono entrare a Gerusalemme senza un permesso speciale delle autorità israeliane.

E non sono solo le persone religiose a essere prese di mira. Israele vuole cacciare dalla propria terra tutti i palestinesi di ogni religione o atei. Secondo la Legge dello Stato-Nazione ebraico del 2018 è chiaro che, nella Palestina occupata, solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione.

“Quando si tratta di ingiustizia e tirannia le autorità di occupazione non fanno distinzione fra un musulmano e un cristiano,” spiega Hanna. “Siamo tutti presi di mira, i nostri luoghi santi, istituzioni, vite, feste. Ma nonostante tutte queste difficoltà, noi celebreremo il Natale.”

Nonostante sia sotto assedio e separata dal resto della Palestina occupata, la Striscia di Gaza non è immune a tali arbitrarie misure israeliane. I cristiani di Gaza hanno bisogno di un permesso di viaggio per andare a Gerusalemme. Israele di solito respinge tutte le domande per motivi di “sicurezza”.

Comunque, ad alcune centinaia di cristiani palestinesi potrebbe essere permesso di andare da Gaza a Betlemme e Gerusalemme per unirsi ad altri cristiani e celebrare il Natale. L’anno scorso, Israele non l’ha permesso a nessuno. Quest’anno, a causa dell’epidemia di coronavirus, non è stata presentata nessuna domanda. Ci sono stati oltre133.000 casi di Covid-19 nei territori palestinesi occupati, incluse Cisgiordania, Gerusalemme Est e Striscia di Gaza.

Kamel Ayyad, il capo dell’ufficio di pubbliche relazioni della chiesa ortodossa di Gaza, mi ha detto che normalmente ogni anno la chiesa fa domanda per i permessi tramite l’Associazione Civile palestinese a Gaza City. “Gli israeliani respingono la maggior parte delle richieste, per ragioni di ‘sicurezza’,” ci conferma. Ayyad ha reiterato il diritto dei cristiani di Gaza a visitare i loro luoghi sacri. “Non è un’ironia che sia permesso ai cristiani di tutto il mondo e non ai palestinesi?”

L’arcivescovo Hanna fa notare che la pandemia finirà. “È solo questione di tempo, ma cosa ne sarà della catastrofe dell’occupazione israeliana che prende di mira i nostri giovani e ragazzi nella loro fede, nella loro libertà e nelle loro vite? Quando finirà tutto questo?”

Questa è una domanda importante che gli Stati arabi che hanno normalizzato le relazioni con Israele stanno totalmente ignorando. Israele invita turisti da tutto il mondo a visitare la Terrasanta, ma vieta alla popolazione indigena il diritto di viaggiare e vivere liberalmente. Sono sicuro che persino Babbo Natale, se fosse un palestinese, avrebbe bisogno di un visto e di un permesso di viaggio.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 dicembre 2020

Il 21 dicembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un 17enne palestinese di Qabatiya (Jenin), secondo quanto riportato, ha aperto il fuoco contro una postazione di polizia ed è stato successivamente colpito e ucciso dalle forze israeliane che lo avevano inseguito.

È stato anche riferito che un agente di polizia è caduto durante l’inseguimento, ferendosi in modo leggero.

Il 20 dicembre, una donna israeliana è stata trovata morta in un bosco vicino all’insediamento colonico di Tal Menashe (Jenin), dove ella viveva; le autorità israeliane sospettano che sia stata aggredita da un palestinese. I media israeliani ritengono questo caso conseguente ad una serie di lanci di pietre e aggressioni fisiche da parte di coloni israeliani contro palestinesi (per lo più antecedenti al periodo di riferimento).

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri con forze israeliane sono rimasti feriti un totale di 73 palestinesi, compresi 16 minori [seguono dettagli]. La maggior parte dei feriti (57) sono stati registrati a Kafr Qaddum (Qalqiliya), Al Mughayyir e Kafr Malik (Ramallah), durante proteste contro le attività di insediamento colonico. Quattordici palestinesi sono rimasti feriti nelle città di Tulkarm e Nablus e nel villaggio di Jaba’ (Jenin), nel corso di scontri verificatisi durante operazioni di ricerca-arresto; altri due sono stati feriti vicino a Jenin, mentre cercavano di entrare in Israele attraverso varchi della Barriera. Dei palestinesi feriti durante questo periodo, 10 sono stati colpiti da proiettili di armi da fuoco, 17 da proiettili di gomma e 40 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 183 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 154 palestinesi. La maggior parte delle operazioni sono state registrate nei governatorati di Nablus (39), Tulkarm (35), Gerusalemme (28) ed Hebron (23).

Ad est della città di Gaza, una abitazione, situata a circa un chilometro dalla recinzione perimetrale con Israele, è stata colpita e gravemente danneggiata da un proiettile di carro armato israeliano; a quanto riferito, il colpo è stato sparato accidentalmente. Nelle aree [di Gaza] adiacenti la recinzione perimetrale e al largo della costa di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 22 occasioni. Per due volte i bulldozer israeliani [sono entrati nella Striscia ed] hanno spianato terreni a ridosso della recinzione. A circa 100 metri dalla recinzione [all’interno della Striscia], le forze israeliane hanno collocato cartelli che vietano agli agricoltori palestinesi la coltivazione dei terreni prossimi alla recinzione, pena la rimozione forzosa delle colture.

A motivo della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate un totale di 21 strutture di proprietà palestinese, sfollando 14 persone e creando ripercussioni su oltre 100 [seguono dettagli]. Due case sono state sequestrate in due Comunità beduine (Abu Nuwar e Az Za’ayyem Za’atreh) situate nell’Area C del governatorato di Gerusalemme; tali Comunità si trovano all’interno, o nelle vicinanze, di un’area (E1) su cui Israele ha pianificato una vasta espansione di insediamenti [colonici]. Altre 16 strutture sono state demolite o sequestrate in diverse zone dell’Area C, sette delle quali interessano un’altra Comunità beduina (Ras ‘Ein al’ Auja) situata nella Valle del Giordano. Le restanti tre strutture, in Gerusalemme Est, sono state demolite direttamente dai loro proprietari per evitare maggiori spese e multe. Dal 2009, anno in cui OCHA ha iniziato a documentare sistematicamente questa pratica, il 2020 ha registrato un numero di strutture demolite inferiore solo a quello del 2016.

Nei pressi del villaggio di Suba (Hebron), le forze israeliane hanno spianato con bulldozer circa 3 ettari di terreno agricolo, sulla base del fatto che era stato dichiarato [da Israele] “terra di stato”. Durante l’operazione sono stati sradicati o danneggiati circa 930 ulivi, viti, mandorli e fichi d’india; danneggiati anche terrazzamenti agricoli, pali metallici, recinzioni e un cancello. I mezzi di sussistenza di otto famiglie sono stati colpiti.

Otto palestinesi, tra cui tre minori, sono stati feriti e almeno 740 alberi e alberelli di proprietà palestinese sono stati danneggiati da autori ritenuti coloni israeliani [seguono dettagli]. In tre distinti episodi, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente contadini palestinesi della comunità di Susiya, costringendoli ad abbandonare il loro terreno e ferendo un ragazzo e un anziano; questa è una delle molteplici comunità dell’Area C a rischio di trasferimento forzato. In altri tre episodi simili sono rimasti coinvolti agricoltori e altri residenti del villaggio di Kisan (Betlemme). Dopo la morte della donna israeliana [vedere 2° paragrafo], tre palestinesi sono stati feriti vicino a Hebron: un ragazzo e suo padre all’incrocio di Beit ‘Einun e un pastore vicino all’insediamento colonico di Asfar. Gli altri tre degli otto feriti palestinesi sono stati aggrediti fisicamente a Gerusalemme Est, nella Valle del Giordano e a Nablus. La vandalizzazione di circa 740 tra alberi e alberelli [vedere inizio paragrafo] è avvenuta nel corso di cinque episodi: uno di questi si è verificato nella Comunità di Khallet Athaba’ (Hebron), dove, tra ulivi e mandorli, sono stati danneggiati 400 alberi. Dall’inizio del 2020, almeno 8.550 alberi sono stati danneggiati da persone riconosciute, o ritenute, coloni israeliani.

Secondo fonti israeliane, due israeliani sono rimasti feriti e 17 veicoli israeliani, in viaggio sulle strade della Cisgiordania, sono stati danneggiati dal lancio di pietre e bottiglie di vernice ad opera di persone ritenute palestinesi.

Il 21 dicembre, a est di Ramallah, un ragazzo israeliano di 16 anni è deceduto e altri quattro coloni sono rimasti feriti per lo schianto della loro auto, inseguita dalla polizia israeliana; secondo quanto riferito, le autorità israeliane sospettavano che gli occupanti avessero lanciato pietre contro auto palestinesi.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




La guerra di Israele agli aiuti europei per i palestinesi.  

Asa Winstanley

 

18 dicembre 2020 – Middle East Monitor

 

Chiunque visiti la Cisgiordania, come ho fatto io in diverse occasioni, avrà notato qualcosa di piuttosto comune, specie nelle comunità rurali: insegne, cartelloni, targhe che pubblicizzano l’Unione Europea e altri donatori nei confronti delle comunità palestinesi.

L’esempio più insidioso di questo fenomeno neocoloniale è l’Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID) che, essendo in realtà controllata dal Dipartimento di Stato, è una ramificazione del “soft power” dell’impero americano.

USAID promuove in ogni parte del mondo dei cambi di regime e gli “interessi nazionali” americani – un eufemismo che sta in realtà per gli interessi delle maggiori corporazioni statunitensi – sotto la parvenza di aiuti umanitari. Una volta fotografai un manifesto USAID a Ramallah che era stato deturpato dalla scritta in inglese: “Non vogliamo il vostro aiuto”. Questo legittimo scetticismo palestinese nei confronti degli “aiuti” occidentali è motivato da un semplice fatto fondamentale: la causa palestinese non è assolutamente una mera questione umanitaria: è una questione politica.

Gli aiuti di USA e Europa ai palestinesi hanno un vizio di fondo, ritengo intenzionalmente, in quanto si pongono come se i palestinesi fossero stati sradicati da un uragano, dalla siccità o da altra calamità naturale. Sappiamo bene invece che i profughi palestinesi furono cacciati dalle proprie terre in seguito alla pulizia etnica perpetrata dal braccio armato di un movimento politico razzista, il sionismo. Prima e dopo la fondazione di Israele nel 1948, circa 800.000 palestinesi furono cacciati dalle proprie case sotto la minaccia delle armi. Questo non fu una calamità naturale; fu una decisione deliberata presa a freddo dai sionisti.

In quel contesto molti palestinesi vennero uccisi, e le loro case e villaggi furono cancellati dalle carte geografiche dal nascente Stato di Israele. Da allora Israele ha impedito sistematicamente a loro e ai loro discendenti di tornare nelle loro terre – che è loro diritto legittimo – semplicemente perché non sono ebrei. 

Gli aiuti destinati dall’Europa ai palestinesi sembrano più tesi a placare la coscienza dei progressisti europei che ad aiutare davvero i palestinesi nel lungo termine. La UE ostenta quanto “aiuti” e finanzi progetti palestinesi nella Cisgiordania occupata, ma questi progetti ignorano sia il fondamentale problema dell’occupazione israeliana sia la politica coloniale israeliana che costringe costantemente gli abitanti originari fuori dalle loro terre.

Di fatto, sia le scuole palestinesi sia altri progetti finanziati con gli aiuti della UE vengono abitualmente demoliti, danneggiati o rubati da Israele, che provvede quindi a sostituirli con insediamenti illegali. Questa settimana il mio collega David Cronin, che lavora a The Electronic Intifada, appellandosi alla libertà di informazione, è riuscito a quantificare la portata di questa distruzione degli aiuti della UE, rivelando che i danni e i furti perpetrati da Israele solo negli ultimi cinque anni ammontano complessivamente a più di 2 milioni di dollari. Dio solo ne conosce la cifra totale.

Cronin sostiene inoltre che quasi 20 anni fa i ministri degli Esteri della UE dichiararono pubblicamente che “si riservavano il diritto di richiedere il risarcimento” ad Israele per tali demolizioni “nelle sedi appropriate”. Tuttavia quella debole contestazione non si è tradotta in nulla di fatto.

Eppure, nonostante tali distruzioni vadano avanti da decenni, la UE continua a finanziare progetti in Cisgiordania, sapendo bene che probabilmente essi verranno prima o poi distrutti dall’esercito israeliano. E nel frattempo la UE non fa nulla per affrontare la causa che è alla radice di questa devastazione, vale a dire l’occupazione israeliana.

A dire il vero, la UE fa esattamente il contrario. L’Europa continua a premiare Israele con generose donazioni, sovvenzioni e investimenti scientifici e militari, per non parlare del sostegno politico e diplomatico. Tutto ciò mentre Israele, a tutti gli effetti, porta avanti una guerra contro i progetti UE che dovrebbero in teoria aiutare le comunità palestinesi.

 La nuova ambasciatrice israeliana in Gran Bretagna, l’oltranzista di destra Tzipi Hotovely, invoca abitualmente la distruzione delle comunità palestinesi per far largo alle colonie e ad altre infrastrutture funzionali alla occupazione israeliana in Cisgiordania. Inoltre, come altri politici israeliani, attacca e demonizza frequentemente sia la UE sia associazioni per i diritti umani guidate da dissidenti israeliani, questi ultimi perché, sostiene lei, sono il prodotto di un efferato complotto finanziato con fondi europei. L’anno scorso, in un video particolarmente scioccante, Hotovely è arrivata addirittura ad usare termini esplicitamente antisemiti per attaccare uno di questi gruppi ebraici israeliani per i diritti umani.  

 Ma badate bene, la UE non è la vittima innocente di questa guerra che Israele conduce contro gli aiuti finanziati dall’Europa. I politici e i burocrati europei sono anzi parte della farsa.

La priorità deve essere la fine dell’occupazione e del sistema di apartheid imposto ai palestinesi. Il minimo che Bruxelles può e deve fare è smettere immediatamente di sostenere Israele.

 Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Una lobby del partito democratico americano difende la demolizione israeliana di un villaggio palestinese

Alex Kane

16 dicembre 2020 – +972

 Un rapporto svela che Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica Per Israele] respingendo le critiche del proprio partito alla maggiore demolizione in Cisgiordania negli ultimi dieci anni ne incolpa i palestinesi.

Quando il 3 novembre i bulldozer israeliani hanno preso d’assalto e demolito il paesino di Humsa al-Fuqa (Khirbet Humsa), in Cisgiordania, 11 famiglie palestinesi sono rimaste senza casa, ma hanno anche attirato l’attenzione di alcuni Democratici a Washington.

Due settimane dopo le demolizioni, avvenute approfittando del giorno delle elezioni USA, Mark Pocan, parlamentare del Wisconsin, e 39 dei suoi colleghi del Congresso hanno inviato una lettera al Segretario di Stato, Mike Pompeo, criticando le azioni di Israele che costituiscono “una grave violazione del diritto internazionale” e un esempio di “annessione strisciante.” Nella lettera Pocan chiedeva anche che Pompeo verificasse se Israele aveva usato macchinari di fabbricazione americana.

La demolizione di Humsa al-Fuqa ha attirato grande attenzione nelle ultime settimane. Nella Cisgiordania occupata, l’esercito rade al suolo regolarmente edifici palestinesi senza permessi israeliani, che sono comunque praticamente impossibili da ottenere. Ma questa demolizione in particolare, approvata dalla Corte Suprema, ha causato la distruzione di 76 strutture, il numero più grande in una singola operazione negli ultimi dieci anni.

Non ci sono scuse per l’annessione de facto di territori palestinesi e l’America non può più restare in silenzio davanti a questi abusi dei diritti umani,” ha detto Pocan in una dichiarazione dopo la pubblicazione della lettera.

Ora il gruppo di pressione Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica Per Israele] (DMFI) sta cercando di sminuirne il contenuto. In una nota mandata a dipendenti Democratici del Congresso e in possesso di +972 Magazine, il gruppo dice che i membri che avevano firmato la lettera di Pocan erano “male informati,” e continua dando la colpa ai palestinesi che abitavano nel villaggio perché “sapevano di essere in pericolo,” giustificando in effetti l’operazione.

Il documento ci dà l’occasione di dare un’occhiata al dibattito sulla Palestina che si fa sempre più acceso fra i membri progressisti e quelli conservatori del partito Democratico e di vedere come DMFI stia tentando di intralciare i tentativi di criticare l’occupazione israeliana a Washington.

DMFI è l’ultima lobby filoisraeliana ad aprir bottega a Washington, ma i suoi membri non sono degli sconosciuti in parlamento. Guidati dal consigliere democratico di lungo corso Mark Mellman, la leadership e il consiglio di amministrazione sono affollati di affiliati con stretti legami con l’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC)  [Comitato per gli Affari Pubblici Americani e Israeliani], l’influente gruppo lobbistico israeliano a Washington.

È assolutamente ingiustificabile trovare scuse a chi butta la gente fuori casa nel mezzo di una pandemia globale,” dice Emily Mayer, responsabile politico di IfNotNow, gruppo ebraico anti-occupazione che ha esaminato la nota di DMFI. “Ma non è una sorpresa perché il documento sintetizza perfettamente la natura di DMFI: dietro la facciata progressista ripete argomenti pericolosi che giustificano lo status quo.”

Giustificare le demolizioni israeliane

Le due pagine di DMFI a commento della lettera di Pocan sono state diffuse il primo dicembre. Nel documento si sottolinea che la demolizione di Humsa al-Fuqa è avvenuta nell’Area C della Cisgiordania che, secondo gli accordi di Oslo, si trova “sotto il pieno controllo israeliano”. Non si fa nessun riferimento al fatto che, secondo il diritto internazionale, la zona, come il resto della Cisgiordania, è sotto occupazione militare.

Facendo eco alla giustificazione fornita dall’esercito israeliano, il documento continua dicendo che la comunità era stata “illegalmente collocata nel centro di un’area che dal 1972 è usata dall’esercito israeliano per esercitazioni militari operative,” e che per questo motivo, “coloro che vivono nell’accampamento si sono consapevolmente messi in pericolo.”

Inclusa nel documento c’è una foto aerea dove è segnata la zona di fuoco dell’esercito israeliano, che include Humsa, presa dal sito di Regavim, un gruppo di coloni di destra il cui logo appare nell’immagine nell’angolo in alto a sinistra.

Forse sarebbe stato meglio se il governo israeliano si fosse astenuto da un simile passo o lo avesse fatto diversamente,” scrive DMFI, “ma cercare di etichettare la rimozione di queste 7 tende e 8 recinti per animali come ‘illegale’ o ‘annessione strisciante’ o (come hanno fatto alcuni) ‘pulizia etnica’ riflette ignoranza dei fatti o l’intenzione di creare ostilità contro Israele malgrado i fatti.”

Il testo conclude che una “soluzione negoziata dei due Stati” porrebbe fine alle demolizioni e invita l’Autorità Nazionale Palestinese a “ritornare al tavolo dei negoziati.”

In risposta alle domande di +972, Mark Mellman, il direttore di DMFI, ha detto che la sua organizzazione “è fortemente schierata a favore di una soluzione negoziata dei due Stati, il che include critiche pubbliche e private alla proposta di annessione del governo israeliano, allo sviluppo di colonie nel corridoio “E-1” (Gerusalemme est) e al cambiamento delle politiche USA del Segretario Pompeo a favore di un’espansione delle colonie.”

Mellman continua: “Il documento di DMFI chiarisce che noi non prendiamo posizione sulla distruzione dell’accampamento, ma segnaliamo invece i problemi nel contenuto della lettera al Congresso e l’intento dei suoi autori che non hanno interpretato correttamente i fatti, usando un linguaggio esagerato. Nel sottolineare che gli abitanti non hanno diritti legali e che hanno montato il loro accampamento in una zona destinata da 48 anni per esercitazioni militari, noi seguivamo le sentenze della Corte Suprema Israeliana dell’anno scorso che abbiamo citato e che, in altri casi, aveva giustamente impedito ai coloni ebrei di sfrattare dei palestinesi da terre di loro proprietà.”

Democratici che si mascherano a favore dell’impunità”

Dagli anni ‘70, l’esercito israeliano ha dichiarato che il 18% della Cisgiordania occupata è una zona per esercitazioni militari. Secondo Al-Haq, associazione palestinese per i diritti umani, lì vivono circa 6200 palestinesi con un grave rischio di demolizioni ed evacuazioni. Al-Haq dice che le minacce israeliane di sfratti e le restrizioni all’accesso alle risorse “creano un’atmosfera oppressiva con cui si fa pressione sui palestinesi perché abbandonino queste aree e si trasferiscano altrove.” Nel frattempo, la Corte Suprema ha come al solito approvato lo sfratto di queste comunità, legalizzando in pratica l’uso di queste zone da parte dell’esercito quale pretesto per espellere i palestinesi.

Debra Shushan, direttrice del gruppo progressista per gli affari governativi, in un documento di risposta di J Street [gruppo ebraico statunitense sionista ma contrario all’occupazione, ndtr.] fatto circolare fra i parlamentari democratici e ottenuto da +972 Magazine, respinge le affermazioni di DMFI. Lei asserisce che le tesi di DMFI “rispecchiano quelle di Regavim” e che “Israele ha destinato molte zone per esercitazioni per cacciare comunità palestinesi e mantenere il controllo da parte di Israele.”

DMFI sta cercando di proteggere Israele dalle critiche sulle sue politiche che mettono a repentaglio la prospettiva di uno Stato palestinese e di una fine negoziata al conflitto israelo-palestinese,” conclude Shushan. “Minando la soluzione dei due Stati usando fonti e argomenti di destra pro-annessione, la difesa di DMF delle demolizioni ed espulsioni forzate non solo va contro i valori democratici, ma danneggia il futuro di Israele.”

Le attività di DMFI, fondato nel gennaio 2019, vogliono zittire le critiche del partito Democratico verso Israele. Nei quasi due anni di esistenza ha speso milioni di dollari per difendere i Democratici da fondamentali accuse da parte di progressisti che difendevano i diritti dei palestinesi. Secondo The Intercept [sito di controinformazione statunitense, ndt.] DMFI, con l’aiuto di donatori dell’AIPAC [American Israel Public Affairs Committee, Comitato per gli Affari Pubblici Americano-Israeliano, principale organizzazione della lobby filoisraeliana, ndtr.] ha anche speso molto in annunci che attaccavano Bernie Sanders durante le primarie presidenziali 2020; sebbene essi non citassero Israele, Sanders nella sua campagna elettorale ha ripetutamente criticato il governo israeliano.

Nel frattempo in Campidoglio DMFI ha duramente attaccato parlamentari democratiche progressiste come Betty McCollum [che ha presentato un disegno di legge per subordinare gli aiuti militari USA a Israele al rispetto dei diritti dei minori palestinesi, ndtr.] e Rashida Tlaib [parlamentare di origine palestinese appartenente al gruppo progressista “The Squad”, ndtr.], per la loro difesa dei diritti dei palestinesi mentre proclamava di sostenere “un progetto di politiche progressiste.”

L’AIPAC è diventata così dannosa per i Democratici dopo l’instancabile lavorio per sabotare il primo presidente afroamericano che sono saltati fuori altri gruppi che sperano di portare avanti un progetto simile con un altro nome,” secondo Yousef Munayyer, un dottorando presso l’Arab Center Washington DC. “Questi personaggi [del DMFI] si nascondono dietro la maschera democratica per smerciare la stessa vecchia storia, facendo credere che le incessanti violazioni dei diritti umani da parte di Israele siano incredibilmente complicate e che, alla fin fine, siano i palestinesi a essere colpevoli per le proprie sofferenze.”

Alex Kane è un giornalista di New York i cui articoli su Israele/Palestina, libertà civili e politica estera USA sono stati pubblicati, tra gli altri, da Vice News, The Intercept, The Nation, In These Times.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




“Forza letale intenzionale”: gli esperti delle Nazioni Unite accusano Israele di aver ucciso un ragazzo palestinese.

Redazione MEE

17 dicembre 2020 – Middle East Eye

L’uccisione del quindicenne Ali Abu Alia è una “grave violazione del diritto internazionale”, afferma l’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani

Gli esperti delle Nazioni Unite hanno condannato l’esercito israeliano per aver ucciso all’inizio di questo mese un ragazzo palestinese durante una protesta nella Cisgiordania occupata, definendo l’uccisione del quindicenne Ali Abu Aliya una “grave violazione del diritto internazionale”.

In una dichiarazione rilasciata giovedì dall’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, gli esperti hanno invitato il governo israeliano a condurre “un’indagine civile indipendente, imparziale, immediata e trasparente” sulla morte del ragazzo.

“L’uccisione di Ali Ayman Abu Aliyaa da parte delle Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] in circostanze in cui non vi era nessuna minaccia di morte o di lesioni gravi per le forze di sicurezza israeliane – è una grave violazione del diritto internazionale”, hanno dichiarato. “La forza letale intenzionale è giustificata solo quando il personale di sicurezza deve affrontare una minaccia immediata che può essere letale o provocare un grave danno fisico”.

I soldati israeliani hanno colpito all’addome il palestinese Abu Aliyaa il 4 dicembre, nel corso di una protesta vicino al suo villaggio di al-Mughayir, in Cisgiordania. In seguito è deceduto in seguito alle ferite.

L’esercito israeliano ha affermato di aver aperto un’indagine sull’incidente, ma ha negato che contro i manifestanti, che ha definito “rivoltosi”, siano state usate munizioni vere.

La dichiarazione delle Nazioni Unite di giovedì ha evidenziato che la manifestazione si svolgeva a al-Mughayir contro [la presenza di] un “avamposto di un insediamento coloniale illegale”. Pur riconoscendo che i ragazzi stavano lanciando dei sassi, ha sottolineato che non rappresentavano un pericolo immediato per le forze israeliane e ha messo in discussione la dichiarazione secondo cui non sarebbero state utilizzate munizioni vere.

“Abu Aliya è stato colpito all’addome con un proiettile di un fucile di precisione Ruger 0,22, sparato da un soldato israeliano da una distanza stimata di 100-150 metri. È deceduto più tardi in ospedale quello stesso giorno”, si legge nel comunicato.

“Gli esperti sui diritti umani non sono a conoscenza di alcuna affermazione secondo cui le forze di sicurezza israeliane si trovassero in alcun modo in pericolo di morte o di lesioni gravi”.

Gli esperti delle Nazioni Unite – Agnes Callamard, relatrice speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, e Michael Lynk, relatore speciale sui diritti umani nei Territori palestinesi – hanno anche evidenziato la questione più ampia dei maltrattamenti a danno dei bambini palestinesi.

Atrocità contro i minori

Abu Aliyaa è il sesto minorenne palestinese ucciso nel 2020 in Cisgiordania dalle forze israeliane mentre, secondo l’ufficio per i diritti delle Nazioni Unite, nel corso dell’ultimo anno sono stati feriti più di 1.000 minori palestinesi.

Le atrocità israeliane contro i minori sollevano “profonde preoccupazioni” in merito agli obblighi di Israele in materia di diritti umani, nella sua veste di potenza occupante nei territori palestinesi, hanno sostenuto Callamard e Lynk. Essi hanno anche sottolineato che le indagini israeliane sull’uso letale della forza contro i palestinesi “raramente si traducono in un’adeguata ricerca di colpevoli”.

“Questo basso livello di responsabilizzazione legale per l’uccisione di così tanti minori da parte delle forze di sicurezza israeliane è indegno di un Paese che dichiara di vivere secondo lo stato di diritto”, hanno affermato gli esperti.

L’uccisione di Abu Aliyaa ha causato indignazione tra i difensori dei diritti dei palestinesi, secondo i quali l’incidente rappresenta lo specchio degli abusi che i palestinesi subiscono per mano delle forze israeliane.

Anche l’Unicef, l’Unione Europea e alcuni parlamentari statunitensi hanno espresso preoccupazione per l’omicidio.

All’inizio di questo mese, la deputata statunitense Betty McCollum ha denunciato l’uccisione del ragazzo palestinese, definendola un’espressione del fenomeno dell’occupazione della Cisgiordania.

“L’uccisione di ieri in Cisgiordania di un minorenne palestinese di 15 anni da parte di un soldato israeliano che ha sparato al ragazzo all’addome è un orrendo omicidio sponsorizzato dallo Stato”, ha dichiarato McCollum a MEE in un comunicato del giorno successivo all’uccisione di Abu Aliya.

“Questo reato insensato deve essere condannato in quanto risultato diretto dell’occupazione militare permanente della Palestina da parte di Israele”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Perché l’UE aiuta Israele nel trattamento dei suoi rifiuti in Cisgiordania?

Adri Nieuwhof

10 dicembre 2020 – The Electronic Intifada

Tre aziende europee stanno partecipato al bando per la commessa riguardante un nuovo impianto di termovalorizzazione maggiormente rispettoso dell’ambiente [previsto] nella colonia israeliana di Maaleh Adumim.

L’ubicazione dell’impianto – nei territori occupati, e quindi illegale ai sensi del diritto internazionale – non ha tuttavia scoraggiato l’Unione Europea, che sostiene con 1,5 milioni di euro l’attuazione di un piano strategico israeliano per il 2030, riguardante la gestione dei rifiuti, che include l’impianto di Maaleh Adumim [colonia nella Cisgiordania a est di Gerusalemme, ndtr.].

L’impianto dovrebbe essere costruito presso il deposito per il riciclaggio “Buon Samaritano” a est (e ben all’interno del territorio occupato) di Maaleh Adumim e a poche centinaia di metri da piccole comunità di pastori palestinesi.

Né l’UE, né le aziende europee possono pretendere di non essere informate al riguardo. Il bando di gara per il progetto è stato pubblicato nell’ottobre dello scorso anno, lasciando molto tempo per una approfondita verifica.

Tuttavia nel novembre di quest’anno il quotidiano [economico, ndtr.] israeliano Calaclist ha rivelato che tre società europee sono disposte a sostenere Israele – la gara prevede che le società straniere debbano avere un partner locale – nella costruzione dell’impianto illegale.

Esse sono: l’azienda tedesca Standardkessel Baumgarte, che ha sede a Duisburg e che collaborerà con l’Israeli Generation Capital Fund.

La Hitachi Zosen Inova, con sede in Svizzera, propone una partnership con la TMM Integrated Recycling Industries, in passato di proprietà di Veolia [multinazionale francese leader mondiale nel trattamento delle acque, ndtr.].

TMM gestisce attualmente la discarica di Tovlan nella Cisgiordania occupata.

L’azienda italiana TM.E. S.P.A. Termomeccanica Ecologia di Milano collabora con la società israeliana Shikun & Binui, che ha realizzato progetti negli insediamenti di Maaleh Adumim e Har Homa.

In tutto si trovano in competizione per la gara otto gruppi, con altre società israeliane che lavorano in partnership con aziende cinesi e giapponesi.

Tutte le aziende che intendono partecipare alla realizzazione di questo sito illegale di termovalorizzazione a Maaleh Adumim violano il diritto internazionale e dovrebbero essere considerate legalmente perseguibili.

Supporto dell’Unione Europea

L’Unione Europea sostiene il Ministero israeliano della Protezione Ambientale nell’attuazione del suo piano strategico per il 2030 al fine di migliorare la gestione dei rifiuti israeliani nell’ambito del suo progetto di gemellaggio da 1,5 milioni di euro.

L’accordo di gemellaggio specifica che “tutte le azioni finanziate dall’UE sono soggette alla politica dell’UE nei confronti di Israele sulla base dei suoi confini definiti in linea con il diritto internazionale”.

Ma il piano strategico per il 2030 del ministero include la creazione del termovalorizzatore di Maaleh Adumim.

L’impianto costerà fino a più di 400 miliardi di euro e tratterà circa 1.500 tonnellate di rifiuti al giorno provenienti dall’area metropolitana di Gerusalemme, inclusa Maaleh Adumim.

Dovrà essere costruito un inceneritore per l’utilizzo dei rifiuti per la produzione di elettricità.

Il trasferimento del trattamento dei rifiuti israeliani nella Cisgiordania occupata è illegale secondo il diritto internazionale. Non giova in alcun modo alla popolazione originaria palestinese. L’UE dovrebbe revocare immediatamente il suo sostegno al progetto.

Il progetto di gemellaggio sostiene di voler “contribuire alla protezione della salute umana e dell’ambiente in Israele”.

A quanto pare, [il concetto di] salute umana, secondo l’UE, non si estende ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)