Il turismo al servizio di occupazione ed annessione

Halah Ahmad 

13 ottobre 2020 – Al-Shabaka

Sintesi

Per l’impresa sionista il turismo è stato fondamentale fin da quando i primi sionisti si sono stabiliti in Palestina. L’analista politica di Al-Shabaka Halah Ahmad analizza il ruolo del turismo, soprattutto di quello religioso, nella diffusione della narrazione sionista e dello Stato di Israele, concentrandosi sull’impatto dannoso del turismo verso gli insediamenti israeliani nella terra palestinese illegalmente occupata. Fornisce indicazioni per un turismo etico che promuova il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione.

Il turismo, e più specificamente quello religioso, gioca un ruolo diretto nella legittimazione ed espansione del furto di terre palestinesi da parte di Israele. Mentre i tentativi di annessione sotto il governo di estrema destra di Netanyahu, appoggiato dalla Casa Bianca di Trump, viola palesemente la governance globale dei diritti umani e le leggi internazionali, il turismo israeliano nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) legittima in modo sostanziale questa espansione, rendendo nel contempo complici i turisti e gli operatori turistici. Infatti varie organizzazioni hanno criticato il turismo nelle colonie israeliane illegali, così come il ruolo di varie attività economiche nell’espansione delle colonie.  

Questo articolo affronta il ruolo storico e persistente dell’industria turistica nell’originario movimento sionista e nel progetto colonialista dell’odierno Stato di Israele, in particolare con la diffusione di idee bibliche dell’eterna proprietà ebraica sulla Palestina e di narrazioni razziste della superiorità degli ebrei israeliani sugli arabi in termini di governo e conoscenza. La glorificazione di Israele nella pubblicità turistica israeliana come Stato straordinariamente moderno in continuità provvidenziale con un passato biblico mette in ombra la sua continua espulsione, oppressione e sfruttamento dei palestinesi.

L’articolo si basa sulla letteratura esistente riguardo al problematico turismo religioso in Israele/Palestina e propone uno studio di caso per illustrare gli aspetti nefasti di questa industria. L’articolo fornisce anche uno sguardo sul ruolo del turismo nella negazione del diritto dei palestinesi a sviluppare un’industria turistica a vantaggio della propria economia, mentre Israele pregiudica l’accesso dei palestinesi ai loro siti di importanza archeologica, religiosa e naturalistica. Infine richiama l’attenzione su iniziative concrete intese a suscitare consapevolezza sulla dannosa industria turistica israeliana e offre suggerimenti per consentire ai turisti, ai pellegrini e alla società civile internazionale di sostenere l’autodeterminazione dei palestinesi attraverso un turismo etico.

Il turismo, chiave del colonialismo di insediamento sionista

Da quando i suoi fondatori misero gli occhi sulla Palestina alla fine del XIX° secolo, il progetto colonialista sionista ha affermato di offrire un governo e un’intelligenza superiori colonizzando la terra (1). In effetti nel 1944 David Ben-Gurion, dirigente del movimento sionista e primo capo del governo di Israele, pronunciò il famoso discorso “Gli imperativi della rivoluzione ebraica”, in cui suggerì che i lavoratori ebrei sarebbero stati i maestri che avrebbero portato “conoscenze culturali, scientifiche e tecnologiche moderne” per fare “fiorire il deserto”. Dall’inizio del XX secolo l’iconografia sionista riflette questi concetti di sviluppo ebraico e “lavoro ebraico” superiori. Moshe Shertok, il secondo primo ministro israeliano, ripeté questa idea esprimendo opinioni negative sugli arabi: “Non siamo venuti in una terra vuota per ereditarla, ma per conquistare un Paese dal popolo che vi abita, che lo governa in virtù del suo linguaggio e della sua cultura primitiva” (2) .

L’iniziale attività promozionale sionista prodotta dall’Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina utilizzò vivaci immagini e simbolismo religioso per incoraggiare ebrei europei a immigrare in Palestina, e il famoso manifesto “Visita la Palestina”, disegnato da Franz Krausz nel 1936, ne è un chiaro esempio. L’obiettivo del poster commissionato dalla Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina non era di incoraggiare visite temporanee, ma, di fatto, l’immigrazione permanente.

Durante le prime ondate dell’insediamento sionista in Palestina, le organizzazioni sioniste esaltavano anche gli investimenti in hotel, e tra il 1917 e il 1948 ne apparvero molte decine. Cosa importante, l’Associazione per lo Sviluppo Turistico della Palestina utilizzò anche mappe della Palestina per mostrare luoghi biblici ebraici sulla topografia esistente, costruendo in ultima analisi un legame visuale sia per immaginare una continuità ebraica in Palestina dall’antichità al presente, sia per pianificare un esteso insediamento coloniale che avrebbe oscurato qualunque concetto di appartenenza ai palestinesi.

Nel continuo tentativo di legittimare le loro rivendicazioni sulla terra, i sionisti hanno utilizzato l’archeologia. Come ha sostenuto l’antropologa Nadia Abu El-Haj nel suo fondamentale Facts on the Ground, le organizzazioni sioniste e la società israeliana degli anni ’50 e ’60 esaltarono l’archeologia come “hobby nazionale”, fondamentale per la “formazione e l’adozione di un immaginario coloniale-nazionale e per dare consistenza alle proprie rivendicazioni territoriali” (3).

In effetti Edward Said ha evidenziato come, attraverso un turismo fondato su un’archeologia selettiva e una descrizione orientalista degli arabi e dei palestinesi, i sionisti eliminarono il ricordo storico della Palestina e dei palestinesi (4). In altre parole, l’archeologia era uno strumento di legittimazione legato fondamentalmente allo svago turistico e collettivo, gettando le basi di quella che è emersa nell’attualità come una delle destinazioni turistiche più popolari.

Fin dalla sua creazione nel 1948 lo Stato di Israele ha sostenuto il progetto sionista, con la narrazione della superiorità infrastrutturale, intellettuale e produttiva sulla popolazione palestinese che continua a opprimere attraverso l’occupazione militare e le continue espulsioni. Oltretutto oggi il ministero del Turismo israeliano ribadisce i concetti di progresso e superiorità intellettuale israeliana insieme a labili e discutibili rivendicazioni di racconti biblici che forniscono un falso senso di continuità con il passato.

Il continuo utilizzo da parte di Israele delle narrazioni bibliche per escludere i palestinesi dalle guide ufficiali e dai viaggi turistici è particolarmente evidente a Gerusalemme, l’epicentro del turismo religioso. Le guide turistiche israeliane su Gerusalemme si rivolgono in particolare ai visitatori cristiani ed ebrei, con descrizioni di itinerari e luoghi che spesso mettono in evidenza solo storie giudaico-cristiane. Nel 2011 il ministero del Turismo ha descritto come segue il quartiere musulmano di Gerusalemme: “Il quartiere musulmano presenta chiese e moschee, e ci sono varie case e yeshiva [scuole religiose, ndtr.] ebraiche tuttora rimaste,” omettendo il fatto che le case ebraiche in quel quartiere sono state acquistate di recente, spesso da coloni sionisti estremisti appoggiati dall’esercito israeliano (5).

Più di recente, quando il governo israeliano ha promesso l’annessione della Valle del Giordano e di parti della Cisgiordania, il ministero del Turismo israeliano ha esaltato il turismo nelle colonie della Cisgiordania come area per investimenti strategici. Di sicuro ciò comprende il turismo nelle colonie controllate da Israele, definite illegali dalle leggi internazionali, ed esclude le città e cittadine palestinesi, in molte delle quali lo Stato israeliano vieta l’ingresso ai suoi cittadini.

Oltre a sviluppare siti di turismo archeologico nelle terre palestinesi occupate, le campagne turistiche di Israele in Cisgiordania circostanziano il furto illegale di terra palestinese. Sia il turismo storico che quello attuale, che partecipa all’impresa di colonizzazione illegale, accelerano l’annessione israeliana compresa nel più complessivo progetto coloniale sionista e sono complici della negazione ai palestinesi del diritto alla loro terra e all’autodeterminazione.

L’impatto dannoso del turismo nelle colonie

Le illegali colonie israeliane nei TPO costituiscono una minaccia per l’autodeterminazione palestinese. Negano anche l’accesso dei palestinesi alle risorse naturali e culturali e il loro uso. Infatti lo sfruttamento di queste risorse per il turismo da parte dei coloni ostacola lo sviluppo economico dei palestinesi, creando dipendenza dall’aiuto estero e consentendo all’impresa colonialista israeliana di prosperare. Cioè, il successo e la sostenibilità della colonizzazione israeliana attraverso il turismo nelle colonie dipendono dalla più complessiva oppressione economica e militare inflitta ai palestinesi attraverso le colonie.

Per illustrare le dimensioni dell’impresa coloniale di Israele nei TPO è importante contestualizzare il differente accesso alla terra e alle risorse tra i palestinesi e lo Stato israeliano. In particolare, oltre il 60% della Cisgiordania costituisce l’Area C, sottoposta al totale controllo amministrativo e militare israeliano. Un rapporto del 2017 dell’UNOCHA [Agenzia delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, ndtr.] evidenziava che oltre il 10% della Cisgiordania si trova all’interno dei confini municipali delle colonie, costituendo ulteriori zone cuscinetto attorno agli insediamenti a cui i palestinesi non possono accedere. Mentre i confini fisici delle colonie costituiscono oltre il 5% della Cisgiordania, un rapporto del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU del 2013 ha evidenziato che oltre il 43% della Cisgiordania è sotto la giurisdizione dei consigli dei coloni israeliani. In più il rapporto ha mostrato che questi consigli controllano l’86% della Valle del Giordano e del Mar Morto.

Al-Haq, organizzazione non governativa indipendente palestinese per i diritti umani, ha pubblicato molti rapporti sullo sfruttamento economico della terra e delle risorse palestinesi in Cisgiordania per il turismo nelle colonie. Nel suo rapporto dell’aprile 2020 accusa le aziende turistiche e i loro Paesi d’origine di essere convolti nell’impresa di colonizzazione in Cisgiordania, tra gli altri territori occupati. In seguito a questi rapporti, aziende turistiche come Airbnb, che operano nelle colonie israeliane, sono state oggetto di campagne di base per il disinvestimento e perché rispondano delle violazioni dei diritti umani. Inoltre Amnesty International ha criticato parecchie compagnie perché traggono profitto operando nelle colonie israeliane, con nomi particolarmente noti nell’industria turistica come TripAdvisor, Expedia, Booking.com e Airbnb. 

Nel dicembre 2017 il Dipartimento degli Affari Negoziali dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha pubblicato un rapporto che documenta l’impatto negativo dello sviluppo turistico nelle colonie sul settore turistico palestinese. Il rapporto evidenzia che, secondo il rapporto dell’OCHA del 2017, se l’Area C fosse trasferita sotto il controllo palestinese, come previsto dagli Accordi di Oslo, l’economia palestinese crescerebbe in modo notevolissimo, pari a un aumento del 35% del PIL. Tuttavia nel 2016, quando Israele ha approvato 20 milioni di dollari di finanziamento per le colonie, il ministero del Turismo israeliano e il primo ministro Netanyahu hanno entrambi sottolineato che i principali obiettivi di questi finanziamenti sono stati i luoghi turistici e la costruzione di hotel nelle colonie della Cisgiordania. Poi, nel gennaio 2020, il ministro della Difesa Naftali Bennett [del partito di estrema destra dei coloni Yamina, ndtr.] ha approvato la costruzione di parchi nazionali e riserve naturali in Cisgiordania come parte di una spesa di oltre 110 milioni di dollari nel primo trimestre dell’anno, la più alta in un decennio, nelle colonie della Cisgiordania.

Israele nega anche attivamente ai palestinesi lo sviluppo economico del proprio settore turistico, limitando il movimento dei turisti, dei lavoratori palestinesi del settore e del trasporto turistico. Nel rapporto del dicembre 2017 l’OLP ha documentato le differenti prassi per la concessione di licenze del ministero del Turismo israeliano, scoprendo che le guide turistiche israeliane contano oltre 8.000 permessi di accesso approvati a siti in Israele e in Cisgiordania, mentre i permessi approvati ai palestinesi rappresentano lo 0,5%. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha anche chiesto permessi per sviluppare oltre 10 siti turistici in Cisgiordania. Come nel caso di tentativi simili a Gerusalemme est, Israele li ha sistematicamente negati.

Tali ostacoli allo sviluppo dei palestinesi rappresentano un’attiva continuazione dell’originaria narrazione sionista della maggiore capacità di sfruttare la terra con una profezia che si auto-avvera, utilizzata allora per rappresentare un destino decretato dalla Bibbia. Infatti, oltre ad essere luoghi per i profitti delle imprese, le colonie israeliane sono diventate uno scenario per rafforzare “il rapporto del popolo ebraico con la terra di Israele.”

Turismo religioso a sostegno del colonialismo di insediamento israeliano

Il turismo religioso è fondamentale nella narrazione sionista dei diritti in base alla Bibbia e della continuità dell’insediamento ebraico in Palestina. Le città palestinesi di Betlemme, Gerico, Nablus, Ramallah, al-Khalil (Hebron) e villaggi come Sabastia e Burqin sono tra i molteplici luoghi di grande significato religioso nella tradizione abramitica. Molti di questi siti sono centri del turismo cristiano, che continua a giocare un ruolo particolarmente importante nella diffusione della narrazione coloniale sionista, soprattutto tra i turisti degli Stati Uniti. Mentre questi luoghi si trovano nei TPO e sarebbero fondamentali per attirare pellegrini e promuovere il settore turistico palestinese, Israele li rivendica come luoghi storici propri.

Negli itinerari di programmi e viaggi religiosi sionisti compaiono in modo considerevole parecchi luoghi problematici. Herodion, per esempio, un sito archeologico e parco nazionale in Cisgiordania, vede scavi devastanti e la rimozione di reperti nonostante l’opposizione dell’ANP in base alle leggi. Nel contempo questi scavi hanno anche lasciato i villaggi vicini senza acqua per oltre tre settimane. Oltretutto, benché sia una colonia illegale costruita su terre di proprietà del villaggio palestinese di Bi’lin, il governo israeliano ha riconosciuto Modi’in Illit come città israeliana, in flagrante violazione delle leggi internazionali e persino di quelle israeliane. Un altro sito è l’acquedotto di Biyar, rovine romane di 2000 anni fa che, benché vengano pubblicizzate come un sito del patrimonio culturale israeliano, si trovano sulla terra palestinese occupata, rafforzando la narrazione dell’antica storia ebraica per legittimare e continuare l’occupazione della terra. Nel solo 2014 le visite turistiche all’acquedotto hanno portato un profitto di 4,5 milioni di dollari.

Il Jerusalem Walls National Park [Parco Nazionale dei Muri di Gerusalemme] è un altro esempio, costruito nella Gerusalemme est occupata e utilizzato in tempi diversi per giustificare la demolizione di case palestinesi per fare spazio al “cammino della Bibbia”. Un altro luogo è Tel Shiloh, un sito archeologico su territorio palestinese occupato che attrae annualmente decine di migliaia di turisti cristiani e dove è stato costituito un parco tematico biblico con finanziamenti della famiglia statunitense Falic, che appoggia gruppi di coloni di destra e lo sviluppo delle colonie. L’appropriazione da parte di Israele di questi siti per il turismo religioso, insieme a molti altri nella Gerusalemme est occupata come la Città di David (Silwan), il Giardino di l’Orto del Getsemani (Monte degli Ulivi) e la Via Dolorosa (Città Vecchia), rafforza la narrazione sionista di un’eterna appartenenza ebraica per negare la questione dell’espulsione dei palestinesi.

In questo senso per decenni i principali finanziatori e sostenitori sionisti dello Stato di Israele hanno garantito il turismo religioso verso Israele all’insegna dei rapporti interreligiosi, dell’appoggio a Israele o del pellegrinaggio. Figure come Naty Saidoff, Sheldon Adelson, Steve Green, Ira Rennert, Roger Hertog, Simon Falic e la famiglia Falic, così come l’attuale ambasciatore USA in Israele, David Friedman, sono tra i grandi donatori e finanziatori che appoggiano sia lo sviluppo di colonie israeliane, compresi esplicitamente sia lo sviluppo turistico e le aziende vitivinicole che il sostegno e l’educazione sionisti filoisraeliani negli USA. Significativamente parecchi di questi donatori statunitensi sono anche noti finanziatori di gruppi di estrema destra ed islamofobi.

I turisti religiosi continuano ad essere coinvolti in queste dinamiche, e dunque diventano parte della diffusione della strategia sionista di colonizzazione di insediamento, appoggiando materialmente il furto e l’occupazione delle terre palestinesi e la continua violazione dei diritti umani dei palestinesi. Il caso di studio che segue illustra il danno provocato ai palestinesi dall’industria del turismo dei cristiano-sionisti.

Passages: uno caso di studio del turismo cristiano-sionista

Passages [Passaggi] è un’organizzazione statunitense dli turismo religioso che considera visitare Israele un “rito di passaggio per ogni cristiano”, anche per “rendere la storia di Israele parte della propria storia.” Il programma è lautamente sovvenzionato da finanziatori cristiani ed ebrei conservatori e negli USA lo si può trovare presso 157 tra università e organizzazioni. Le università sono per lo più cristiane, ma includono anche alcune grandi università pubbliche come, tra le altre, la Texas A&M, l’università della Florida e quella del Minnesota. Passages vanta anche 7.000 ex-studenti in tutti gli Stati Uniti. Non sorprende che abbia espliciti legami con il governo israeliano e sarebbe frutto dell’ingegno di Ron Dermer, ambasciatore di Israele negli USA. Nel 2015 Dermer ha ospitato all’ambasciata israeliana a Washington il lancio del programma. All’avvenimento hanno partecipato anche l’ambasciatore USA in Israele, David Friedman, e l’ex-ambasciatore israeliano negli USA, Michael Oren.

Una ricerca su Passages di Friends of SabeelNorth America [Amici di Sabeel, ong cristiana per la pace in Terra Santa, ndtr.] (FOSNA), insieme ad alcune organizzazioni di solidarietà con la Palestina nei campus, ha rivelato i problematici itinerari percorsi dai tour, compresi i luoghi degli itinerari turistici, così come la narrazione cristiano-sionista che vi viene proposta (6). In questi viaggi Passages glorifica Israele come Stato moderno che manifesta una continuità provvidenziale con un passato biblico, rendendo strategicamente irrilevante l’espulsione e l’oppressione dei palestinesi. Questa narrazione sionista è emblematica dello sfruttamento del turismo religioso da parte di Israele per nobilitare e favorire il suo progetto colonialista, presentando falsamente la situazione come una disputa territoriale (tra niente di meno che esseri superiori e selvaggi) invece che un’occupazione.

Oltre a problematiche visite alle Alture del Golan occupate e ad ex-avamposti delle Israeli Defense Force [Forze di Difesa Israeliane] (IDF), FOSNA riporta che il viaggio intende evidenziare la persecuzione dei cristiani in Medio Oriente e la presunta drammatica vulnerabilità di Israele, inquadrando vari giorni del viaggio nel contesto dei rischi che Israele corre a causa dei suoi vicini, compreso un viaggio a Sderot, la città israeliana di fronte a Gaza. Sderot non è una città di importanza religiosa per i viaggiatori cristiani ed è nota per le opinioni di estrema destra dei suoi abitanti. Infatti Sderot è stata il luogo del famoso incidente degli abitanti seduti sulle sdraio a guardare i bombardamenti israeliani di Gaza durante l’offensiva del 2014, che uccise oltre 2.000 palestinesi e 73 israeliani.

Passages afferma esplicitamente la sua intenzione di sviluppare sentimenti filo-israeliani tra i leader cristiani negli USA. È modellato su Birthright Israel, o Taglit, che offre viaggi totalmente pagati e molto pubblicizzati a giovani ebrei americani perché visitino Israele e che in anni recenti è stato avversato da campagne nazionali da parte di organizzazioni ebraiche progressiste USA per la sua rappresentazione ingannevole di Israele. Tuttavia i viaggi di Passages sono oggetto di un’attenzione molto meno critica e un impegno molto minore per documentare e contrastare i loro discutibili programmi.

Cosa importante, sebbene i viaggi di Passages si concentrino sull’esperienza religiosa cristiana in Terra Santa, essi intendono esplicitamente collegare il fatto di essere in Israele con l’appoggio allo Stato di Israele. Infatti il programma di Passages mette in risalto dialoghi con soldati israeliani, una visita alla Knesset [il parlamento, ndtr.] israeliana ed esperienze culturali per comprendere la “cultura tecnologicamente innovativa” e “il dinamismo economico” di Israele. Nel contempo gli itinerari del viaggio ignorano, o affrontano in modo superficiale, le vicende dei musulmani e dei palestinesi nella regione e non mettono in discussione l’illegale occupazione di molti dei luoghi religiosi visitati in Cisgiordania. Di fatto una particolare narrazione della persecuzione di cristiani ed ebrei e di Israele come rifugio religioso si prestano ad un progetto di estraniamento islamofobico comune a molti mezzi di comunicazione americani.

Le testimonianze di ex-partecipanti ai viaggi di Passages riflettono la prospettiva adottata dall’agenzia turistica e non sorprende che sul suo sito in rete Passages sottolinei queste testimonianze. Per esempio un partecipante al viaggio scrive: “Non sono la stessa persona che ero quando sono partito per Israele. Ho una motivazione nuova per stare dalla parte di Israele, e sento che i piani di Dio per la mia vita dopo l’università sono di sostenere la Terra Santa nel mio lavoro futuro. Grazie a Passages, il mio cuore è pieno della passione di sentirmi unito a Israele.” L’aspirazione politica a “stare dalla parte di Israele” implica un’avversione nei confronti di ogni critica allo Stato di Israele e, in quanto programma che si basa sulla fede, il viaggio riesce alla fine ad identificare l’impegno biblico o spirituale per la Terra Santa con il progetto coloniale sionista laico.

Un partecipante ha sottolineato che il suo viaggio in Israele è stato particolarmente speciale non solo per le visite ai siti biblici, ma anche per l’opportunità di saperne di più su Israele come “Stato moderno”. Una descrizione del genere espone il progetto sionista: promuovere l’immagine di uno Stato eccezionale, tecnologicamente avanzato, e di un popolo a cui vengono sovrapposte le immagini orientaliste degli arabi come sottosviluppati. Un’altra ha scritto che il suo viaggio “ha messo Israele ed il popolo ebraico al centro del mio cuore quando rifletto sulla mia fede cristiana (…). Mi trovo a parlare di Israele a chiunque sia disposto ad ascoltarmi.” Le dichiarazioni di alcuni dei partecipanti indicano un sentimento di autentico impegno interconfessionale nel “conflitto”, sottolineando costantemente anche l’ammirazione per il moderno Stato di Israele.

Ciò che molte testimonianze hanno in comune è la sconcertante riproposizione della propaganda sionista riguardo a un progresso superiore al resto del Medio Oriente, un discorso sulla divina provvidenza incarnata dallo Stato ebraico e una connessione esplicita tra la storia antica e biblica e il moderno Stato di Israele, tutto ciò con poche, o senza, discussioni sui duemila anni che ci sono in mezzo, dove figurano ampiamente la storia islamica così come l’espulsione coloniale sionista dei palestinesi. Il quadro continua a mettere in ombra, e di fatto a giustificare, l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

Passages esemplifica la più complessiva infrastruttura del turismo religioso al servizio del discorso coloniale sionista e il progetto israeliano di costruzione dello Stato. Ciò è particolarmente evidente nel contesto del tentativo di una vasta annessione da parte di Netanyahu, che ha coltivato forti rapporti politici con gli evangelici statunitensi, l’80% dei quali si identifica come cristiano-sionista. Passages fa parte di parecchi programmi analoghi che intendono promuovere il dialogo interreligioso mobilitando attivamente ed esplicitamente l’appoggio al progetto colonialista, sia storico che in corso, da parte di Israele in Palestina. Non solo questi viaggi lavorano per ridurre al silenzio e inficiare le storie e le narrazioni palestinesi, ma sostengono anche materialmente un settore turistico nelle terre palestinesi occupate illegalmente, cosa che mina gli stessi tentativi dei palestinesi per una sostenibilità economica duratura.

Alternative e suggerimenti

Nel 2019 la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele (PACBI) ha pubblicato l’appello delle organizzazioni della società civile palestinese per un turismo etico. La dichiarazione chiede ai turisti di “non nuocere” e di evitare i luoghi storici e religiosi nei TPO controllati dalle autorità israeliane o promossi come siti israeliani. Allo stesso modo le organizzazioni cristiane palestinesi hanno prodotto una guida turistica che chiede ai visitatori cristiani di sostenere le agenzie di viaggio palestinesi come Walk Palestine, viaggi organizzati dal Siraj Center for Holy Land Studies [Centro Saraj per gli Studi sulla Terra Santa] a Beit Sahur, e di evitare i viaggi organizzati dagli israeliani o i siti sfruttati da Israele nei TPO.

I gruppi americani come Eyewitness Palestine [Testimone oculare in Palestina] forniscono anche delle opzioni alternative ai pellegrini e ad altri turisti per visitare la Palestina evitando di essere complici dell’oppressione e dell’occupazione israeliane. Inoltre un numero crescente di iniziative “Palestine Trek” [Escursione in Palestina] nei campus universitari, come quelli di Harvard, Cambridge e Berkeley, offrono opportunità per un turismo etico in Palestina che possa evitare le rappresentazioni intese a “rifarsi un’immagine con la fede” da parte di Israele e di contribuire materialmente all’industria turistica israeliana. Insieme ad altre, queste alternative rafforzano i diritti umani e la dignità palestinesi e fanno da modello affinché la società civile sostenga delle alternative.

Altri suggerimenti includono:

  • Le organizzazioni della società civile, e in particolare le organizzazioni religiose negli Stati Uniti, dovrebbero valutare in modo critico il ruolo del turismo a favore di Israele nella legittimazione dell’annessione illegale e delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi.

  • Le organizzazioni di sostegno alla Palestina con sede nei campus degli Stati Uniti possono giocare un ruolo importantissimo, opponendosi ai viaggi degli studenti nei TPO o negli altri territori occupati. I viaggi di Passages possono servire da obiettivo principale delle campagne per bloccare la complicità con le violazioni israeliane dei diritti umani, nel quadro di una campagna più ampia per porre fine all’occupazione israeliana condizionando al rispetto del diritto internazionale l’aiuto militare americano a Israele.

  • Le autorità di controllo e i responsabili politici devono riconoscere la necessità di porre fine alle attività economiche con soggetti israeliani dall’altra parte della Linea Verde [cioè nei territori occupati, ndtr.]. Le imprese che operano nei TPO dovrebbero quanto meno essere obbligate ad adottare misure di controllo con effetti di interdizione per garantire che non contribuiscano a progetti colonialisti israeliani illegali, né ne traggano benefici.

Note:

1. Rashid Khalidi, The Hundred Year’s War on Palestine: A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917-2017 [La Guerra dei Cent’Anni contro la Palestina: una storia di colonialismo di insediamento e di resistenza] (New York: Metropolitan Books, 2020), p. 7.

2. Benny Morris, Righteous Victims: A History of the Zionist-Arab Conflict,1881-2001 (New York: Vintage Books, 2001), 91 [Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano, 2001], p. 91.

3. Nadia Abu El-Haj, Facts on the Ground: Archaeological Practice and Territorial Self-Fashioning in Israeli Society [Fatti sul terreno: pratiche archeologiche e auto-produzione del territorio nella società israeliana] (Chicago: University of Chicago Press, 2001), p. 2.

4. Edward Said, The Question of Palestine [La questione palestinese, Gamberetti Editrice, Roma, 1995] (New York: Vintage Books, 1992), p. 158.

5. Yara Hawari, “The Old City of Jerusalem; Whose Heritage? Tourism, Narratives and Orientalism” [La Città Vecchia di Gerusalemme: quale eredità? Turismo, Narrazioni e Orientalismo], p. 22

6. FOSNA e qualche altra associazione universitaria anonima di solidarietà è riuscita a partecipare a un viaggio di Passages e l’ha condiviso con l’autrice per questo articolo. L’itinerario non è stato pubblicato, ma le informazioni in questa sezione riguardante i viaggi di Passages vengono direttamente dal programma del tour.

Halah Ahmad

Halah Ahmad, analista politica di Al-Shabaka, ha conseguito il master in Politiche Pubbliche all’Università di Cambridge come studentessa del programma Lionel de Jersey Harvard presso l’Emmmanuel College. Ha fatto ricerche in politica strategica per agenzie governative e Ong in Grecia, Albania, a Berlino, in Cisgiordania, a San Francisco, a Chicago e a Boston. Attualmente dirige lavori su politica e relazioni pubbliche presso il Jain Family Institute, un istituto per le ricerche in scienze sociali applicate con sede a New York. Le sue ricerche riguardano vari argomenti, dallo sviluppo equo e il benessere sociale all’urbanistica, al turismo, all’espulsione, alle questioni abitative e alla giustizia economica. Halah si è laureata con lode in religioni comparate e sociologia ad Harvard.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Adolescente palestinese muore dopo essere stato “percosso dai soldati israeliani”

25 ottobre 2020 – Al Jazeera

Il direttore del centro medico dice che Snobar è morto per le ferite al collo subite mentre veniva picchiato dalle forze israeliane.

Secondo diverse fonti di informazione palestinesi un adolescente palestinese è morto a causa delle ferite riportate dopo essere stato percosso dai soldati israeliani vicino alla città di Turmus-Ayya, a nord-est di Ramallah.

Il ministero della Sanità palestinese ha affermato che Amer Abedalrahim Snobar sarebbe arrivato in ospedale dopo essere stato “colpito duramente al collo”.

Ahmed al-Bitawi, direttore del Palestine Medical Complex [complesso sanitario situato a Ramallah comprendente 5 ospedali con varie specializzazioni cliniche, ndtr.], ha confermato domenica mattina ai notiziari palestinesi che Snobar sarebbe morto a causa delle ferite riportate in seguito ad unaggressione da parte di soldati israeliani.

“Sul collo di Snobar c’erano segni visibili di percosse”, ha detto Bitawi.

Il centro medico ha riferito che le ferite sul collo di Snobar sarebbero compatibili con percosse inferte dai soldati israeliani con il calcio dei fucili.

In una dichiarazione, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ha accusato le truppe israeliane di “un mostruoso atto di brutalità contro un giovane indifeso il cui unico crimine era essere palestinese”.

L’importante esponente dell’OLP Hanan Ashrawi ha sostenuto nella sua dichiarazione che Snobar è stato “brutalmente percosso” dalle truppe israeliane.

Snobar proveniva dal villaggio di Yatma, a sud della città occupata di Nablus, in Cisgiordania.

I membri di un’equipe di una ONG sanitaria hanno detto alle fonti di informazione palestinesi locali di aver tentato di eseguire la rianimazione cardiaca su Snobar prima di trasferirlo al centro medico.

L’esercito israeliano ha sostenuto che i soldati avrebbero risposto in seguito ad un episodio avvenuto a nord di Ramallah, dopo che sarebbero state lanciate delle pietre contro un veicolo dell’esercito.

Nel comunicato dell’esercito si legge che delle truppe di stanza “nella zona sono state inviate sul posto e hanno setacciato la zona alla ricerca di aggressori”.

“I primi dati emersi indicano che all’arrivo dei soldati … i due sospettati hanno cercato di scappare a piedi”, sostiene. “Durante la fuga, uno dei sospetti apparentemente ha perso conoscenza, è crollato a terra e ha battuto la testa. Il sospetto non è stato colpito dalle truppe delle IDF [esercito israeliano, ndtr.]”.

In una dichiarazione, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra, ha affermato che l’omicidio di Snobar sarà una “maledizione che continuerà a perseguitare i traditori arabi” – in riferimento ai recenti accordi di normalizzazione da parte di Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Sudan .

Il comunicato afferma che “la risposta a questo crimine efferato è la revoca del riconoscimento dell’entità sionista e di tutti gli accordi che ne sono derivati, e la formazione di una leadership nazionale unificata in grado di guidare la resistenza popolare contro l’occupazione sionista”.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Rapporto OCHA del periodo 6 – 19 ottobre 2020

La stagione della raccolta delle olive, iniziata il 7 ottobre, è stata perturbata o interrotta, da 19 episodi provocati da persone ritenute, o riconosciute, come coloni israeliani: 23 agricoltori palestinesi sono rimasti feriti, oltre 1.000 ulivi sono stati bruciati o danneggiati in altro modo, e grandi quantità di prodotti sono stati rubati

Nella periferia del villaggio di Burqa (Ramallah), in tre occasioni, coloni hanno preso a sassate e aggredito fisicamente palestinesi intenti a raccogliere olive, innescando scontri. In uno di tali scontri sono intervenute le forze israeliane: 14 palestinesi sono rimasti feriti e 30 alberi sono stati bruciati dai lacrimogeni. Gli altri ferimenti sono stati registrati in zone agricole nei pressi della città di Huwwara (Nablus) e nei villaggi di Ni’lin e Beitillu (Ramallah). Nei pressi dell’insediamento israeliano di Mevo Dotan (Jenin), circa 450 ulivi sono stati dati alle fiamme e distrutti; poco prima i contadini palestinesi del villaggio di Yaabad erano stati attaccati da coloni e costretti dai soldati israeliani ad allontanarsi. Anche nel villaggio di Saffa (Ramallah), in un’area chiusa dietro la Barriera, alcune centinaia di ulivi appartenenti a palestinesi sono stati incendiati e danneggiati. In altre dieci località, attigue ad insediamenti colonici, gli agricoltori, allorquando hanno potuto raggiungere i loro terreni, hanno scoperto che i loro ulivi erano stati vandalizzati o che i prodotti erano stati raccolti e rubati. Molti degli episodi hanno avuto luogo in aree ad “accesso limitato”; aree nelle quali, durante l’intera stagione del raccolto, le autorità israeliane consentono l’accesso ai palestinesi per soli due-quattro giorni.

Sono stati registrati altri quattro attacchi da parte di persone ritenute coloni [seguono dettagli]. Nel governatorato di Betlemme, un bimbo palestinese di un anno è rimasto ferito nell’auto su cui viaggiava, colpita da pietre. Nella vicina Al Khader, 40 alveari sono stati dati alle fiamme e bruciati. Nell’area Farsiya della Valle del Giordano settentrionale, pastori palestinesi sono stati aggrediti fisicamente da un gruppo di coloni e una delle loro pecore è stata uccisa. Nel villaggio di Jalud (Nablus) sono stati tagliati e danneggiati pali e cavi elettrici che portano energia a locali agricoli [palestinesi].

Le autorità israeliane hanno annunciato che, durante la stagione della raccolta delle olive, per gli agricoltori palestinesi vi saranno facilitazioni nel rilascio dei permessi di accesso alle loro terre che si trovano dietro la Barriera. In una lettera a un Gruppo israeliano per i Diritti umani, HaMoked, le autorità hanno comunicato che, a coloro che lo avevano ottenuto durante la stagione precedente, il permesso sarebbe stato concesso automaticamente e che il ritiro doveva essere effettuato presso gli uffici israeliani di coordinamento e collegamento distrettuale (DCL). Tuttavia, questa disposizione non verrebbe applicata [ai palestinesi] su cui pendono “obiezioni di sicurezza”. Negli ultimi mesi gli uffici della DCL sono stati sovraffollati, sollevando preoccupazioni per le potenziali trasmissioni COVID-19.

In Cisgiordania, oltre ai summenzionati episodi connessi alla raccolta delle olive, in scontri [tra palestinesi e forze israeliane] sono rimasti feriti ottantacinque palestinesi, tra cui almeno 11 minori, e due soldati israeliani [seguono dettagli]. La stragrande maggioranza di questi ferimenti è stata registrata nei campi profughi di Al Am’ari, Al Jalazun (Ramallah), Al Arrub (Hebron) e Balata (Nablus), a seguito di operazioni di ricerca-arresto ed episodi di lancio di pietre. Ad Al Jalazun, i soldati hanno sparato grandi quantità di lacrimogeni contro studenti che, a quanto riferito, avevano lanciato pietre; successivamente i militari sono entrati nell’edificio scolastico ed hanno rinchiuso gli studenti nelle aule. Cinque palestinesi sono rimasti feriti in scontri scoppiati durante l’aratura di un terreno prossimo all’insediamento colonico di Elon More; terreno di cui coloni israeliani avevano tentato di appropriarsi per stabilirvi un avamposto. I rimanenti ferimenti sono stati registrati in altri scontri o durante tentativi di entrare in Israele attraverso brecce della Barriera. Nel complesso, 21 palestinesi sono stati colpiti da proiettili di gomma e dieci da proiettili di armi da fuoco, mentre la maggior parte delle restanti persone sono state curate per inalazione di gas lacrimogeno.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 126 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 132 palestinesi. La metà delle operazioni sono state registrate nel governatorato di Gerusalemme; in particolare, il quartiere Al ‘Isawiya di Gerusalemme Est è stato sottoposto ad attività di polizia, quasi quotidiane, che hanno portato all’arresto di 30 palestinesi, compresi 13 minori.

Il 16 ottobre, da Gaza, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo verso il sud di Israele, colpendo un’area aperta, senza provocare feriti. Sempre a Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 30 occasioni, senza provocare feriti.

Il 18 ottobre, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza, ad est di Khan Younis, ed hanno devastato con buldozer terreni a circa 400 metri dalla recinzione perimetrale, distruggendo vaste aree di colture e sistemi di irrigazione. Secondo fonti israeliane, le operazioni avevano lo scopo di distruggere tunnel scavati da gruppi armati palestinesi per scopi militari.

In Area C, per mancanza di permessi di costruzione emessi da Israele, in tre circostanze, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato otto strutture di proprietà palestinese, sfollando 12 persone. Cinque delle strutture si trovavano in due Comunità nell’area di Massafer Yatta a Hebron, in un’area designata [da Israele] “zona per esercitazioni a fuoco”, destinata all’addestramento militare israeliano. Le restanti tre strutture sono state demolite nella Comunità di Al Farisiya-Khallet Khader della Valle del Giordano, sulla base di “Ordini Militari 1797” che consentono di effettuare le demolizioni entro 96 ore dall’emissione degli stessi. Nessun episodio è stato registrato a Gerusalemme Est, dove, il 1° ottobre, le autorità israeliane avevano annunciato che, a causa della pandemia COVID-19, avrebbero sospeso la demolizione di case abitate.

Un israeliano è rimasto ferito e nove veicoli israeliani, che viaggiavano all’interno della Cisgiordania, hanno subito danni ad opera di aggressori ritenuti palestinesi che, secondo fonti israeliane, hanno lanciato pietre o bottiglie di vernice.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’inviato dell’ONU non ha niente da dire mentre Israele respinge i suoi colleghi

Maureen Clare Murphy

16 ottobre 2020 – The Electronic Intifada

Giovedì Middle East Eye ha riferito che Israele, con una nuova aggressione contro ogni forma di controllo, ha sospeso la concessione dei visti ai dipendenti dell’ OHCHR, Agenzia per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Israele a febbraio ha annunciato l’interruzione dei rapporti con l’ONU dopo che questa ha creato una lista di aziende coinvolte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est.

La pubblicazione della lista è stata rinviata per anni, creando il sospetto che l’ONU stesse cedendo alla pressione politica affinché cancellasse l’informazione.

Ora che la notizia è stata resa pubblica, Israele sembra voler dar seguito alla sua promessa di punire l’agenzia ONU.

Secondo Middle East Eye “a partire da giugno nessuna delle richieste di nuovi visti ha ricevuto risposta, e i passaporti inviati per il rinnovo [del visto] sono tornati indietro vuoti”.

Nove dei 12 dipendenti stranieri dell’organizzazione hanno ora lasciato Israele e i territori palestinesi per timore di trovarsi là privi di documenti”, ha aggiunto Middle East Eye. “Tra loro vi è il direttore [della missione ONU] nel Paese, James Heenan.”

Divieto di ingresso

Da lungo tempo Israele, che controlla i movimenti verso e dalla Cisgiordania e Gaza, ha espulso e negato l’ingresso a cittadini stranieri legati ad associazioni per i diritti umani o di solidarietà con i palestinesi.

Da molto tempo ha negato l’ingresso a Michael Lynk, incaricato dal Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU di monitorare la situazione dei diritti umani in Cisgiordania e a Gaza.

Tuttavia altri responsabili dell’ONU, come Nickolay Mladenov, inviato di pace per il Medio Oriente del Segretario Generale dell’ONU, continuano a godere dei favori di Israele e dei suoi sostenitori – anche quando attaccano le agenzie per i diritti umani dell’ONU e le loro indagini.

Il contrastante trattamento di questi due rappresentanti dell’ONU è in linea con i loro sforzi – o con l’assenza di essi – di rendere Israele responsabile per le sue violazioni dei diritti dei palestinesi. Rispecchia anche le loro divergenti vedute riguardo ai diritti dei palestinesi come qualcosa da proteggere o come moneta di scambio da negoziare in colloqui con Israele.

Lynk ha approvato la pubblicazione della lista delle attività economiche con le colonie, dicendo che “la continua violazione da parte di una potenza occupante non rimarrà senza risposta.”

Ha aggiunto che, in assenza delle colonie, sostenute dall’attività economica di imprese israeliane e straniere, “l’occupazione israeliana che dura da cinquant’anni perderebbe la sua ragion d’essere coloniale.”

Mladenov invia regolari rapporti al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’applicazione (o violazione) della Risoluzione 2334, che chiede a Israele di cessare la costruzione di colonie in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est.

Nonostante la rilevanza di ciò per il suo incarico, Mladenov è rimasto vistosamente in silenzio riguardo alla lista delle attività economiche con le colonie – sia prima che dopo la sua pubblicazione. Né ha aperto bocca contro il divieto d’ingresso israeliano nei confronti dei suoi colleghi dell’ONU, come Lynk.

Le richieste di intervento di Mladenov si limitano ad invitare a non specificati passi “verso una soluzione negoziata di due Stati.”

In evidente contrasto, Lynk ha accolto calorosamente la conclusione della procuratrice capo della Corte Penale Internazionale secondo cui vi è un ragionevole fondamento per indagare sui crimini di guerra (israeliani) in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Non così Mladenov.

Lynk ha evidenziato l’uso da parte di Israele di punizioni collettive per sottomettere i palestinesi che vivono sotto il suo governo militare. Ha invitato gli Stati terzi a prendere contromisure, incluse sanzioni “necessarie ad assicurare il rispetto da parte di Israele del suo obbligo di porre fine all’occupazione, conformemente al diritto internazionale.”

Invece Mladenov chiede che venga ripristinato “il dialogo tra tutti i decisori, senza precondizioni.”

Tuttavia il dialogo senza attribuzione di responsabilità non farà che consentire ad Israele di guadagnare altro tempo per colonizzare rapidamente la terra palestinese e reprimere violentemente la resistenza palestinese – come è stato negli ultimi 25 anni, segnati dal paradigma del processo di pace di Oslo.

Spazi ridotti

Nel frattempo le associazioni palestinesi impegnate nella responsabilizzazione [di Israele] stanno lavorando in un ambito sempre più ristretto, in quanto Israele cerca di limitare qualunque accesso alla giustizia.

I deputati del partito Likud del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu hanno proposto di ampliare la definizione statale di agenti stranieri.

Come sottolinea il Consiglio palestinese per i Diritti Umani, la legge israeliana “impone una condanna a 15 anni di carcere nei confronti di chiunque abbia coscientemente contattato un agente straniero senza fornire spiegazioni di ciò”.

Attualmente la legge definisce agente straniero chi agisce “per conto di uno Stato straniero o di un’organizzazione terroristica” in modo che “potrebbe mettere a rischio la sicurezza di Israele”.

Un emendamento proposto a questa legge sostituirebbe “Stato straniero” con “entità politica straniera”. I parlamentari promotori dell’emendamento citano l’Autorità Nazionale Palestinese e l’Unione Europea – che non sono Stati – come la ragione della necessità di modificare il linguaggio.

Il Consiglio palestinese per i Diritti Umani ha affermato che l’emendamento prende di mira “organizzazioni che cooperano con, o ricevono appoggio da, UE e ANP. Esso cerca di limitare ulteriormente il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani presentando la nostra attività come contatti con enti stranieri.”

Israele ha già approvato una legge che impone severe sanzioni a coloro che difendono il boicottaggio di Israele o delle sue colonie nella Cisgiordania occupata e sulle alture del Golan.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani hanno affermato che il boicottaggio è “il principale strumento di protesta civile…per porre fine all’occupazione.”

La legge israeliana impone anche alle associazioni per i diritti umani con sede nel Paese che ricevono più della metà dei loro finanziamenti da Stati esteri di dichiararlo nelle loro pubblicazioni.

Maureen Clare Murphy è vicedirettrice di The Electronic Intifada e vive a Chicago.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele verso una massiccia espansione delle colonie dopo la normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti

Tamara Nassar 

9 ottobre 2020 – Electronic Intifada

Israele sta avanzando con migliaia di nuove unità di insediamento nella Cisgiordania occupata.

Si tratta di una imponente espansione dell’opera di colonizzazione da parte di Israele: la stragrande maggioranza delle unità abitative sono pianificate in colonie “isolate”, fuori dalle vaste zone già individuate per l’annessione israeliana nel cosiddetto piano “Pace per la prosperità” del presidente Donald Trump.

Circa 350 unità saranno aggiunte a ciascuno degli insediamenti di Beit El, a nord della città occupata di Ramallah in Cisgiordania, a quello di Geva Binyamin, a nord-est di Gerusalemme est occupata, e all’insediamento di Nili, nella Cisgiordania centrale.

Quasi 1.000 nuove unità abitative dovrebbero essere consentite nel cosiddetto insediamento di Har Gilo, stretto tra Gerusalemme e Betlemme.

Israele sta anche portando avanti piani per quasi 700 nuove unità abitative nella colonia di Eli nella Cisgiordania centrale.

La costruzione è già iniziata e alcune unità sono in fase di approvazione retroattiva.

Altre 140 unità abitative saranno aggiunte a Shiloh, una colonia tra i villaggi palestinesi di Jalud e Quryut, che hanno avviato un’azione legale contro la costruzione.

Si prevede che lunedì l’Amministrazione Civile – il braccio burocratico dell’occupazione militare israeliana – darà il via libera definitivo a 2.500 unità e la prima approvazione per altre migliaia.

Tutte le colonie israeliane sono illegali ai sensi del diritto internazionale e la costruzione di insediamenti nei territori occupati è un crimine di guerra.

Tuttavia, l’espansione di colonie da parte di Israele oltre i territori dei cosiddetti blocchi [di colonie] segnala la rinnovata fiducia di non dover affrontare alcuna conseguenza per le proprie azioni.

Gli Emirati Arabi Uniti fanno un regalo a Israele

Ciò avviene mentre i principali negoziatori degli Accordi di Abramo – l’accordo di normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele – continuano a sostenere di aver congelato il piano di Israele di annettere formalmente ampie zone della Cisgiordania in cambio dell’accordo.

In realtà, sono stati gli Stati Uniti a congelare i piani di annessione di Israele mesi prima che fosse annunciato ad agosto l’accordo Emirati Arabi Uniti-Israele.

Da quando l’accordo di normalizzazione è stato reso pubblico, i leader israeliani hanno ripetutamente ribadito il loro impegno per l’annessione.

L’ambasciatore degli Emirati a Washington Yousef Al Otaiba e il suo amico, il miliardario e grande finanziatore della lobby israeliana Haim Saban, hanno discusso in un panel virtuale dietro le quinte i preparativi per l’accordo di normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti e Israele.

L’incontro, alla fine del mese scorso, è stato ospitato dalla pubblicazione Jewish Insider e moderato dall’ex funzionaria dell’amministrazione Trump Dina Powell McCormick.

Al Otaiba ha detto che il governo degli Emirati lo aveva incaricato di pubblicare a giugno un editoriale su un giornale israeliano segnalando che un’annessione israeliana di territori in Cisgiordania avrebbe rallentato gli sforzi di normalizzazione delle relazioni.

Al Otaiba spiegava che l’annessione sarebbe stata “pericolosa per la regione” e “pericolosa per Israele”, aggiungendo che, “ancora peggio”, sarebbe stato difficile per gli “americani proteggere la nostra parte di mondo”.

Non ha fatto menzione di quale posto avessero nella faccenda i palestinesi, nonostante l’oggetto dei negoziati fosse la loro terra.

L’idea è venuta da Abu Dhabi [la capitale degli EAU, ndtr.]. E mi è stata comunicata”, ha detto.

Al Otaiba quindi si è consultato con Saban su “dove avrebbe dovuto apparire e quando, e l’indicazione di fondo è stata: lo devi fare in ebraico”.

L’articolo, pubblicato sull’israeliano Yedioth Ahronoth [per molti anni il quotidiano israeliano più venduto, ndtr.], non era tanto un avvertimento quanto una lettera d’amore per Israele: intriso di lusinghe e offerte a Israele di ulteriori normalizzazioni – e di quelle decise dagli Emirati Arabi Uniti.

Ora Al Otaiba ammette che l’intento era davvero questo. Dice che il messaggio era: “ Vi diamo in cambio qualcosa di molto meglio dell’annessione”.

In altre parole, invece di essere messo di fronte alle ripercussioni per il suo esteso e pluri-decennale furto e la avvenuta colonizzazione della terra palestinese occupata, Israele sarebbe ricompensato per non aggiungere il crimine di annessione ai crimini in corso.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di fare a Israele un regalo per il quale, come ha detto Saban, gli israeliani “avrebbero dato il braccio destro”.

Al Otaiba ha insistito sul fatto che gli Accordi di Abramo “salvaguardano la fattibilità e la possibilità di una soluzione a due Stati che sarebbe altrimenti sepolta”.

In realtà, la soluzione dei due Stati è sepolta da tempo.

Al Otaiba ha persino ammesso che gli Emirati Arabi Uniti intendevano solo “fissare un tempo sull’orologio”, indipendentemente da come “venga alla fine utilizzato quel tempo “.

L’espulsione forzata dei palestinesi da parte di Israele nella Cisgiordania occupata non è mai cessata, come l’espansione di colonie solo ebraiche.

L’annessione, che Israele la faccia ora o più tardi, è solo il timbro ufficiale a decenni di demolizioni, espulsioni e costruzione di colonie.

In effetti, come dimostrano gli ultimi annunci, Israele sta espandendo ulteriormente i suoi insediamenti, a dispetto del regalo degli Emirati Arabi Uniti.

Il blocco è temporaneo

Nel frattempo, a seguito di un’azione legale da parte del gruppo di difesa Adalah contro la demolizione di case palestinesi nella Gerusalemme est occupata, Israele avrebbe interrotto temporaneamente “a livello nazionale” le demolizioni.

II 5 ottobre Adalah ha inviato un’altra lettera all’Amministrazione Civile esortandola a cessare le demolizioni e a concedere licenze edilizie nel resto della Cisgiordania, non solo a Gerusalemme est annessa da Israele [è praticamente impossibile per i palestinesi ottenere permessi edilizi in Cisgiordania e a Gerusalemme, ndtr.].

Dall’inizio dell’anno Israele ha fatto di più di 700 palestinesi dei senzatetto, la maggioranza dei quali durante la pandemia.

Ma la sospensione delle demolizioni a Gerusalemme, come lo stop all’annessione, rimangono solo una tregua temporanea, sempre che Israele la rispetti.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Creatività in tempi di COVID-19 in Palestina

di  Yumna Patel  

9 ottobre 2020 – Mondoweiss

Diciamoci la verità: il 2020, un anno non facile per quasi tutti, non lo è stato specialmente per i palestinesi imprigionati fra la pandemia e l’occupazione israeliana che però, nonostante le circostanze, hanno usato la pandemia per cercare soluzioni originali e creative ai problemi che dovevano fronteggiare.

In questo ultimo episodio della nostra serie sul COVID-19 in Palestina, vi facciamo conoscere dei palestinesi che hanno reagito alla pandemia usando innovazione e creatività per aiutare le loro comunità ad adattarsi alla crisi.

Iniziamo la nostra puntata a Ramallah, cuore economico e amministrativo della Cisgiordania occupata, sede dell’Autorità palestinese, di innumerevoli organizzazioni internazionali e aziende locali.

Vi portiamo nel campo profughi di Al-Amari dove un collettivo di donne ha portato la confezione di mascherine a un livello totalmente nuovo.

Ultimamente c’è stato un boom mondiale, sono stati creati migliaia di modelli diversi, ma appena il coronavirus è arrivato in questa comunità le donne hanno deciso di fare qualcosa di nuovo.

Volevano una soluzione poco costosa e riciclabile che includesse anche la tradizione palestinese del ricamo, tramandata da generazioni.

Abbiamo confezionato le mascherine in colori diversi e modelli semplici perché piacessero alla gente, dato che non molti amano indossarle,” ha detto a Mondoweiss Dowlat Abu Shawish, a capo del programma di fabbricazione delle mascherine del Centro delle donne al-Amari

Seguendo la nostra tradizione abbiamo ottenuto modelli bellissimi che ci proteggono,” continua, mostrandoci le mascherine a colori brillanti, con piccoli e intricati motivi ricamati.

Abbiamo creato vari modelli, uno con i cedri, un albero che ha un significato speciale per Ramallah, e uno con la stella di Betlemme, oltre alle kefiah [tipico copricapo arabo, ndtr.].”

Oltre alla protezione fornita alla loro comunità, il programma ha dato al gruppo delle donne del centro una fonte di sostentamento in un momento in cui i palestinesi stanno soffrendo per un livello di disoccupazione senza precedenti.

La cosa più importante è che abbiamo fatto buon uso del tempo a nostra disposizione. Molte delle signore che lavorano con noi vivono in circostanze difficili, mariti disoccupati o bambini con bisogni speciali, ognuna ha la sua storia. Fortunatamente siamo riuscite a creare dei lavori per quasi tutte,” conclude Abu Shawish. 

A Betlemme, a sud di Ramallah, il COVID ha colpito moltissimo la comunità locale che è andata in crisi per mancanza di turisti.

Quando alla Canaan Ecotourism, un’agenzia di viaggi alternativa, si sono resi conto che non ne sarebbero più arrivati per un bel po’, si sono rivolti a Internet e hanno deciso di sperimentare l’idea di tour politici della Palestina online.

Non ci aspettavamo assolutamente la pandemia e la crisi, avevamo altri progetti per il 2020,” ha detto a Mondoweiss Mohammad Abu Srour, uno dei fondatori del gruppo

Abbiamo dovuto adattarci e cercare modi alternativi per far vedere le nostre vite e la nostra condizione e per condividere la nostra situazione politica con chi non abita qui. A quel punto abbiamo dovuto cambiare e così abbiamo cominciato a offrire i tour online,” dice Abu Srour. 

Camminando lungo il muro di separazione israeliano che corre a nord di Betlemme separandola da Gerusalemme, Abu Srour, con il suo telefonino su un piccolo treppiede, comincia il suo tour per un gruppo in Danimarca.

Dai vostri schermi non potete farvi un’idea di quanto sia alto,” dice Abu Srour al suo gruppo. “Spero che quando questa crisi finirà avrete l’opportunità di venire a trovarci e vedere di persona quanto è alto e brutto e come impatta sulla vita quotidiana dei palestinesi.”

Abu Srour ci dice che lo scopo principale delle escursioni virtuali è di dare a quante più persone possibile accesso e opportunità di conoscere la Palestina, nonostante la pandemia. 

Uno dei nostri obiettivi è quello di presentare narrazioni, spiegazioni e percezioni alternative, concentrandoci sulla nostra situazione politica e culturale e sulle nostre tradizioni. Crediamo che i giovani abbiano molto di più da dire sul nostro Paese,” afferma Abu Srour. 

Così, nonostante l’occupazione israeliana e le difficoltà in cui ci troviamo fin dall’inizio della crisi, noi crediamo che i palestinesi siano ancora forti e pronti a continuare la lotta,” aggiunge. 

Tramite queste escursioni e attività stiamo offrendo alla gente la possibilità di imparare e saperne di più sulla Palestina. Anche questo fa parte della nostra lotta.”

Son passati sette mesi dal primo caso scoperto nella Palestina occupata. 

Da allora i palestinesi hanno affrontato, e probabilmente continueranno ad affrontare, una serie di sfide economiche e sanitarie eccezionali, esacerbate dalle annessioni e demolizioni israeliane e con la prospettiva di un vaccino ancora lontana.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 22 settembre – 5 ottobre 2020

Il 5 ottobre, nei pressi del villaggio di Beit Lid, a Tulkarm, le forze israeliane hanno colpito con arma da fuoco e ucciso un palestinese di 28 anni.

Secondo fonti di media israeliani, l’uomo faceva parte di un gruppo di tre persone che stavano lanciando bottiglie incendiarie contro soldati vicino al checkpoint di Enav; le altre due persone sono riuscite a fuggire. Questa morte porta a 20 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dall’inizio dell’anno.

In Cisgiordania, durante il periodo in esame, 27 palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane [seguono dettagli]. Nella città di Hizma (Gerusalemme), in circostanze non ancora chiare, soldati israeliani hanno sparato, ferendo alla testa un ragazzo di 15 anni. Vicino al villaggio di Qusra (Nablus), le forze israeliane, intervenute per fermare uno scontro tra coloni e agricoltori, hanno sparato proiettili di gomma e lacrimogeni, ferendo otto palestinesi. Gli scontri erano scoppiati dopo che alcuni coloni avevano aggredito contadini palestinesi intenti a lavorare la propria terra. A Kafr Qaddum (Qalqiliya), sette palestinesi sono rimasti feriti durante la protesta settimanale. Altri due sono rimasti feriti nel villaggio di ‘Asira al Qibliya, dove agricoltori palestinesi ed attivisti stavano arando e piantando alberi su un terreno, nel tentativo di impedire ai coloni di impossessarsene. Inoltre, nei Campi profughi di Jenin e Ein as Sultan (Gerico), e nei villaggi di Surif e Beit Ummar (entrambi a Hebron), nel corso di scontri per motivi specifici con le forze israeliane, sono stati registrati quattro feriti. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti, in circostanze non chiare, nel villaggio di Kafr Malik (Ramallah) e nella città di Jenin. I restanti due palestinesi sono rimasti feriti nei governatorati di Tulkarm e Jenin, nel tentativo di entrare in Israele attraverso brecce nella Barriera. Complessivamente, 14 persone sono state ferite da proiettili gommati, nove da proiettili di arma da fuoco e i rimanenti sono stati aggrediti fisicamente o hanno avuto bisogno di trattamento medico a seguito dell’inalazione di gas lacrimogeno.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 226 operazioni di ricerca ed hanno arrestato almeno 180 palestinesi; ciò rappresenta un aumento dell’87% rispetto alla media quindicinale registrata finora nel 2020. Come in precedenti settimane, la maggior parte delle operazioni (42) è avvenuta nel governatorato di Gerusalemme, in particolare nel quartiere Al ‘Isawiya di Gerusalemme Est, seguito dai governatorati di Hebron (35) e Qalqiliya (31). Ad al ‘Isawiya, nella notte del 1° ottobre, e fino a mezzogiorno del giorno successivo, si è svolta un’operazione su vasta scala, con almeno 18 [dei 180] palestinesi arrestati. Ad Al Isawiya, dalla metà del 2019, sono in corso intense operazioni di polizia che generano un aumento delle tensioni ed interruzioni delle attività quotidiane per almeno 18.000 residenti.

Il 25 settembre, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco contro un peschereccio palestinese, uccidendo due pescatori e ferendone un altro. L’imbarcazione sulla quale stavano navigando i tre pescatori, che erano fratelli, secondo quanto riferito, avrebbe sconfinato nelle acque egiziane a sud della città di Rafah. Dal novembre 2018, questo è il primo episodio in cui pescatori palestinesi vengono uccisi da forze egiziane. Il Sindacato di pesca a Gaza ha chiesto di sospendere la pesca per un giorno per protestare contro l’accaduto.

Il 5 ottobre, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo verso il sud di Israele, senza provocare feriti o danni a proprietà. Successivamente, l’aviazione israeliana ha effettuato un attacco aereo, prendendo di mira un sito militare a Gaza, provocando danni, ma non feriti.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare ai palestinesi le restrizioni loro imposte sia sull’accesso alle aree adiacenti la recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 28 occasioni; non sono stati registrati feriti. In uno degli episodi, le forze navali israeliane hanno usato cannoni ad acqua, facendo affondare tre barche da pesca. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, tre palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane vicino alla recinzione perimetrale mentre, secondo quanto riferito, cercavano di infiltrarsi in Israele.

Per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 42 strutture di proprietà palestinese, sfollando 53 palestinesi e creando ripercussioni di diversa entità su circa 150 persone [seguono dettagli]. La maggior parte delle strutture demolite (39), di cui 15 fornite come assistenza umanitaria, e tutti gli sfollamenti, sono stati registrati in Area C. Queste includevano sei strutture abitative, dislocate nelle Comunità di Ar Rakeez e Mantiqat Shi’b al Butum, sulle colline a sud di Hebron, situate in un’area chiusa destinata [da Israele] all’addestramento militare; sono state sfollate 27 persone [delle 53]. Nel villaggio di Kisan (Betlemme), nello stesso episodio, sono state demolite altre otto strutture, sfollando 13 palestinesi. Inoltre, a Khirbet Yarza (Tubas), Ni’lin (Ramallah) e Deir Samit (Hebron), sei strutture sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che consente la demolizione entro 96 ore dall’emissione del medesimo. A Gerusalemme Est sono state demolite tre strutture di sostentamento; non sono state registrate autodemolizioni.

Il 1° ottobre, in risposta a una lettera della Coalizione Civica per i Diritti dei Palestinesi a Gerusalemme e della ONG israeliana Adalah [Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele], il Ministero della Giustizia di Israele ha accettato di ripristinare la linea di condotta applicata a marzo con l’intento di fermare la demolizione di edifici residenziali abitati a Gerusalemme Est durante la prima ondata della pandemia COVID-19. L’accordo non si applicherà alle strutture realizzate dopo il 1° ottobre. L’emissione di ordini di demolizione amministrativa sarà, in generale, ridotta, in modo che gli ordini siano emessi solo per le costruzioni recenti, in particolare per quelle che si ritiene siano state realizzate traendo vantaggio dallo stato di emergenza.

A Hebron, le autorità israeliane hanno autorizzato la rimozione di un importante blocco stradale, in vigore dal 2000. La chiusura impediva ai residenti del villaggio di Qalqas di accedere alla Strada 60, situata a tre chilometri dalla città di Hebron. Negli ultimi 20 anni, migliaia di residenti sono stati costretti a utilizzare circonvallazioni, allungando il percorso fino a 11 chilometri.

Tre palestinesi sono rimasti feriti e dozzine di ulivi sono stati danneggiati in quattro episodi che hanno avuto coloni come protagonisti. I tre palestinesi erano impegnati nella misurazione del loro terreno vicino all’insediamento colonico di Yitzhar; sono stati inseguiti da una guardia e sono caduti, ferendosi. Inoltre, in tre località vicino ai villaggi di Al Jab’a e Al Khadr (Betlemme) e a Kafr ad Dik (Salfit), 80 ulivi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati da coloni. Infine, nella zona H2 della città di Hebron, coloni hanno aggredito una donna e rotto il suo cellulare; ella li stava filmando mentre attraversavano il suo terreno.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, quattro israeliani sono rimasti feriti quando aggressori, ritenuti palestinesi, hanno lanciato pietre contro tre veicoli e ne hanno rubato un altro. Altre 15 auto israeliane che percorrevano le strade della Cisgiordania avrebbero subito danni dal lancio di pietre.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Due palestinesi feriti dai soldati israeliani durante un attacco dei coloni ebrei

Redazione, WAFA e Social Media

26 settembre 2020 – Palestine Chronicle

Secondo l’agenzia di stampa palestinese WAFA, oggi (26 settembre) due palestinesi sono stati feriti dalle forze di occupazione israeliane durante gli scontri scoppiati nel villaggio di Qusra, vicino a Nablus in Cisgiordania, in seguito a un attacco di coloni ebrei contro due allevamenti di pollame di proprietà palestinese.

Ghassan Daghlas, che monitora le attività delle colonie ebree nella Cisgiordania settentrionale, ha riferito a WAFA che un gruppo di coloni ha attaccato le aziende situate alla periferia di Qusra, saccheggiandole e distruggendone il contenuto.

I coloni hanno anche incendiato un trattore parcheggiato in una delle fattorie e danneggiato dei serbatoi dell’acqua.

Daghlas ha detto che, mentre gli abitanti correvano per proteggere le loro proprietà, dei soldati israeliani che erano in zona sono intervenuti, ma solo per proteggere i coloni, attaccando i palestinesi.

Nel corso degli scontri i militari israeliani hanno sparato proiettili di gomma verso gli abitanti del villaggio, ferendone due.

La violenza dei coloni contro i palestinesi e le loro proprietà in Cisgiordania è di routine e raramente viene perseguita dalle autorità israeliane.

La violenza dei coloni non dovrebbe essere vista separatamente da quella inflitta dall’esercito israeliano, ma inquadrata nel più ampio contesto della violenta ideologia sionista che domina tutta la società israeliana,” scrive il palestinese Ramzy Baroud, scrittore e direttore di The Palestine Chronicle.”

Secondo B’tselem, gruppo [israeliano] per i diritti umani, “la violenza dei coloni ormai da lungo tempo fa parte della vita quotidiana dei palestinesi sotto occupazione. Le forze di sicurezza israeliane permettono queste azioni, in alcuni casi fanno persino da scorta armata o partecipano agli attacchi che finiscono con il ferimento o la morte di palestinesi, oltre a danni a terreni e proprietà.

Tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania occupata vivono tra i 500.000 e i 600.000 israeliani in colonie per soli ebrei in violazione delle leggi internazionali.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 settembre 2020

Nei governatorati di Jenin e Qalqiliya, in due episodi separati, le forze israeliane hanno lanciato granate assordanti e sparato contro lavoratori palestinesi che cercavano di entrare in Israele attraverso varchi aperti nella Barriera.

Nel primo episodio, avvenuto il 18 settembre, un uomo di 54 anni è morto di infarto mentre cercava di fuggire dalla zona; nel secondo caso, un uomo è stato ferito con arma da fuoco. Dallo scorso marzo, in seguito alla diffusione del COVID-19, gli attraversamenti non autorizzati di lavoratori, attraverso i varchi aperti nella Barriera, sono in aumento. Da allora, in questo contesto, le forze israeliane hanno ferito almeno 66 palestinesi, di cui 23 con armi da fuoco.

Complessivamente, in Cisgiordania, durante il periodo in esame, nove palestinesi sono stati feriti dalle forze israeliane [segue dettaglio]. Tre dei feriti sono minori (13, 14 e 16 anni), colpiti da proiettili di gomma sparati durante scontri nella città di Hebron e nel vicino Campo Profughi di Al Arrub. Le forze israeliane hanno condotto 161 operazioni di ricerca-arresto; due di queste, svolte nel villaggio di Kafr Dan (Jenin) e nella città di Tulkarm, hanno portato a scontri e al ferimento di due persone. Altri tre palestinesi sono rimasti feriti durante la protesta settimanale a Kafr Qaddum (Qalqiliya) e nel corso di un altro scontro verificatosi nella stessa area.

Il 15 settembre, un gruppo armato palestinese ha lanciato diversi razzi contro il sud di Israele, ferendo tre israeliani nella città di Ashdod. I lanci sono stati effettuati mentre, a Washington DC, venivano firmati gli accordi di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Successivamente, l’aviazione israeliana ha effettuato molteplici attacchi aerei contro siti militari di Gaza, senza provocare feriti. Queste nuove ostilità sopraggiungono dopo gli accordi del 31 agosto, che avevano messo fine a tre settimane di ostilità intermittenti.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare ai palestinesi le restrizioni loro imposte sia sull’accesso alle aree adiacenti la recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno otto occasioni; non sono stati registrati feriti. In quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate [nella Striscia di] Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, al valico di Erez, le autorità israeliane hanno arrestato un paziente [palestinese] in viaggio per cure e, nei pressi della recinzione perimetrale, almeno altre cinque persone che, a quanto riferito, tentavano di infiltrarsi in Israele.

A Gaza, un uomo di 44 anni, intento a coltivare la propria terra, è stato ferito dall’esplosione di un residuato bellico (ERW). Dall’inizio del 2020, almeno due persone sono state uccise e altre cinque sono rimaste ferite da detonazioni di ordigni bellici.

Per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, ventidue strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate, sfollando 50 palestinesi e diversamente riguardando circa 200 persone. Dodici delle demolizioni (di cui otto eseguite dai proprietari delle strutture) sono state registrate a Gerusalemme Est. Da queste [12] sono derivati tutti gli sfollamenti registrati in questo periodo [50]. Poco più della metà di tutte le demolizioni eseguite a Gerusalemme Est dall’inizio dell’anno a seguito di ordini di demolizione (134), sono state effettuate dai proprietari per evitare multe e commissioni più elevate. Le altre dieci strutture [delle 22] si trovavano in Area C. Cinque di queste sono state demolite ad At Taybe (Hebron) e Beit Sira (Ramallah), sulla base di “Ordini militari 1797”, che consentono le demolizioni entro 96 ore dall’emissione degli ordini medesimi. Il 10 settembre, il Coordinatore Umanitario [dell’ONU] ha espresso preoccupazione per il forte aumento delle demolizioni concomitante con l’inizio della pandemia ed ha invitato le autorità israeliane a porre immediatamente fine a questa pratica illegale.

In tre episodi diversi, circa 550 alberi di proprietà palestinese sono stati sradicati o vandalizzati in vario modo ad opera, secondo quanto riferito, di coloni israeliani. L’episodio più grave è avvenuto su un terreno coltivato da tre famiglie del villaggio di Biddya (Salfit), dove coloni sono intervenuti con una ruspa ed hanno distrutto 445 alberi da frutto, una struttura agricola, 1,7 km di muri in pietra e recinzioni in ferro. Secondo fonti israeliane, nonostante la mancanza di permessi di costruzione o approvazione ufficiale, i coloni rivendicano la proprietà della terra e intendono stabilirvi un nuovo insediamento. Gli altri due episodi si sono verificati in aree B e C, prossime al villaggio di As Sawiya (Nablus), dove circa 100 ulivi sono stati abbattuti o, in vario modo, vandalizzati. Dall’inizio dell’anno, quasi 5.000 alberi di proprietà palestinese, principalmente ulivi, sono stati distrutti o danneggiati. La stagione annuale della raccolta delle olive inizierà ufficialmente il 7 ottobre e, vicino agli insediamenti colonici e dietro la Barriera, si svolgerà con gravi restrizioni di accesso alla terra.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, aggressori, ritenuti palestinesi, hanno aggredito fisicamente e ferito due israeliani, ed hanno rubato i loro veicoli. Secondo quanto riferito, altre sette auto israeliane, in transito sulle strade della Cisgiordania, hanno subito danni da lancio di pietre.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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La Corte Penale Internazionale esclude l’indagine sulla Freedom Flottiglia a Gaza

Maureen Clare Murphy 

19 Settembre 2020 – Electronic Intifada

Una giuria della Corte Penale Internazionale ha respinto il ricorso contro la decisione della procuratrice capo di non procedere nell’indagine sull’attacco mortale di Israele a una nave in acque internazionali nel 2010.

I soldati israeliani avevano ferito a morte 10 persone a bordo della Mavi Marmara  dopo aver fatto irruzione sulla nave, che era parte di una flottiglia civile intenzionata a rompere l’assedio in corso a Gaza.

La decisione della camera preliminare di questa settimana sembra porre fine a sette anni di procedimenti legali e di botta e risposta tra la procuratrice Fatou Bensouda e il collegio dei giudici che le hanno ripetutamente chiesto di riconsiderare la sua decisione di non indagare.

Bensouda ha riconosciuto che “c’è un ragionevole margine di dubbio per credere che siano stati commessi crimini di guerra” dalle forze israeliane quando sono salite a bordo della Mavi Marmara.

Ma ha insistito sul fatto che l’attacco israeliano in alto mare non è “sufficientemente grave” da giustificare un procedimento giudiziario.

I giudici hanno identificato una serie di errori che è stato chiesto a Bensouda di correggere.

Nella loro decisione di questa settimana, i giudici affermano che Bensouda “non ha veramente riconsiderato” la sua decisione del 2014 di eludere l’indagine. Secondo i giudici, ha anche “commesso nuovi errori” lo scorso anno nel riaffermare le proprie decisioni.

Gli errori includono la valutazione del pubblico ministero della gravità dell’eventuale causa derivante dai fatti.

Nella sua conferma del 2019 della decisione di non perseguire, Bensouda ha affermato che i commando israeliani che hanno preso d’assalto la Mavi Marmara sembrano essere i principali responsabili dei presunti crimini e sarebbero perciò stati al centro di qualsiasi indagine.

Ha ritenuto non esserci basi ragionevoli per credere che gli alti comandi israeliani e i leader civili non presenti sulla Mavi Marmara fossero responsabili.

Come riassumono i giudici, Bensouda ha sostenuto che l’ambito dell’eventuale causa [giudiziaria] sarebbe probabilmente limitato e che l’identificazione degli autori dei crimini di omicidio intenzionale e lesioni gravi sarebbe difficile data la “situazione caotica” durante l’attacco alla Mavi Marmara.

I giudici sottolineano che la procuratrice ha “essenzialmente escluso dall’ambito” di un’eventuale indagine, “a parte gli stessi responsabili, altre categorie di persone, dai comandanti diretti… agli alti comandi [militari] e leader israeliani”.

I giudici aggiungono che una valutazione iniziale “non dovrebbe mai portare all’esclusione di alcune categorie di persone ancor prima che le indagini siano iniziate”.

La procuratrice ha dichiarato di essere stata incaricata in fase istruttoria non di “valutare se l’indagine si sarebbe estesa” a comandanti e funzionari di alto livello, “ma se si potesse portarla avanti per i principali responsabili, chiunque fossero”.

Non considerate le nuove prove

Bensouda inoltre si è basata solo sulle informazioni messe a sua disposizione al novembre del 2014. Ciò escluderebbe le prove derivanti tra l’altro dalle testimonianze a una commissione pubblica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e di Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano al momento dell’attacco alla Mavi Marmara.

Le affermazioni di Bensouda sono state contestate dal governo delle Comore, di cui la Mavi Marmara batte bandiera. In un appello presentato nel marzo di quest’anno, le Comore hanno sostenuto che le prove “dimostrano che l’intera operazione è stata attentamente pianificata e diretta da diversi ministeri e dai vertici” dell’esercito israeliano.

Le richieste della camera preliminare affinché Bensouda riconsiderasse la sua decisione, tuttavia, sostenevano che la cosa “avrebbe dovuto essere condotta sulla base delle informazioni già in possesso della procuratrice.

La quale era già in possesso di informazioni che “possono ragionevolmente suggerire che ci fosseroro un’intenzione e un piano preesistenti di uccidere i passeggeri”, notano i giudici. Si tratta dell’uso di armi da fuoco da parte dei militari israeliani deciso prima dell’assalto alla Mavi Marmara.

I giudici hanno anche criticato come “prematura” la decisione della procuratrice secondo cui il presunto maltrattamento dei passeggeri sulla Mavi Marmara da parte dei soldati israeliani non si qualifica come trattamento disumano.

“La procuratrice avrebbe dovuto riconoscere che c’era una ragionevole base per credere che fosse stato commesso il crimine di guerra di tortura o di trattamento disumano”, affermano i giudici.

Aggiungono che “il deliberato rifiuto di cure mediche nella giurisprudenza della Corte e di altri tribunali [israeliani] è da considerarsi equivalente a un trattamento crudele che costituisce un crimine di guerra … o altri atti disumani costituiscono un crimine contro l’umanità”.

I soldati israeliani e la polizia negano abitualmente cure mediche ai palestinesi colpiti da colpi di arma da fuoco in quelli che Israele sostiene siano attacchi ai suoi militari, ma che in molti casi non sono altro che uccisioni illegali.

I giudici accusano inoltre la procuratrice di aver introdotto considerazioni irrilevanti ai fini della valutazione della gravità dell’eventuale causa facendo riferimento alla “resistenza violenta dei passeggeri” sulla Mavi Marmara, ipotizzando addirittura che i soldati israeliani possano aver agito per legittima difesa.

Nella sua decisione del 2014 di non indagare, Bensouda comunque ha stabilito che i passeggeri a bordo della Mavi Marmara fossero protetti dalle Convenzioni di Ginevra e che la loro uccisione o lesioni fossero crimini di guerra.

Bensouda considerava che vi fosse un margine ragionevole per credere che fosse stato commesso un crimine che rientrasse nella giurisdizione della Corte. Per questo motivo, affermano i giudici, “non è appropriato che faccia affidamento su incertezze o sull’esistenza di diverse spiegazioni plausibili in merito alla presunta attuazione dei crimini”.

I giudici incolpano il pubblico ministero anche di non aver “dichiarato come abbia valutato il danno subito dalle vittime”, portandoli a concludere che “non ha attribuito alcun peso all’impatto dei presunti crimini sulle vittime dirette e indirette”.

Questo è altro rispetto all’entità dei crimini, che “si riferisce al numero delle vittime, all’area geografica colpita e alla durata e ‘intensità nel tempo dei presunti crimini “.

Secondo i giudici l’impatto è in relazione all’entità del danno subito dalle vittime, sia esso fisico, psicologico o materiale, e affermano che il numero delle vittime registrate per partecipare al procedimento relativo all’assedio di Mavi Marmara “è vicino a 500”.

Altri casi “di gravità paragonabile o minore” rispetto alle circostanze della Mavi Marmara erano stati riconosciuti tali da giustificare ulteriori azioni da parte della Corte, notano i giudici.

La “mancata e coerente applicazione del requisito di gravità” da parte di Bensouda …. “sottopone la Corte alle critiche di doppio standard e di arbitrio”, affermano.

Conclusione scioccante

I giudici, tuttavia, alla fine hanno respinto l’appello del governo delle Comore perché si proceda nell’indagine perché non è chiaro “se e in quale misura si possa chiedere alla procuratrice di correggere gli errori individuati dalla camera (preliminare)”.

Meno di 10 paragrafi nelle 51 pagine dell’istanza sono dedicati a spiegare il rigetto.

È una conclusione scioccante, viste le critiche alla procuratrice di non aver considerato in modo soddisfacente gli errori nel resto dell’istanza.

Il rifiuto della Corte Penale Internazionale ad indagare su quei crimini di guerra sarà senza dubbio frustrante per le vittime di Mavi Marmara che invocano giustizia da più di un decennio. Ancora una volta, Israele non deve farsi carico di conseguenze durature per presunti crimini di guerra.

Ma non si è liberato della CPI.

Nel dicembre dello scorso anno, dopo una lunga indagine preliminare, Bensouda ha raccomandato al tribunale di indagare sui presunti crimini di guerra perpetrati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

La stessa camera preliminare dei giudici che hanno liquidato la vicenda della Mavi Marmara presso la CPI sta attualmente valutando se il tribunale internazionale eserciti giurisdizione sul territorio palestinese occupato.

L’amministrazione Trump a Washington ha adottato una misura senza precedenti imponendo sanzioni economiche a Bensouda e a un altro membro della Corte Penale Internazionale a causa delle indagini della Corte in Afghanistan, che potrebbero portare all’incriminazione di personale statunitense, così come nella situazione in Palestina.

Nonostante le Comore abbiano portato il caso della Mavi Marmara alla Corte Penale Internazionale, si ipotizza che l’isola dell’Oceano Indiano sarà tra le prossime nazioni della Lega Araba a normalizzare le relazioni con Israele.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)