La guida essenziale per i palestinesi ai fini dell’attraversamento di un posto di controllo israeliano.

George Zeidan

19 agosto 2020 – + 972 MAGAZINE

Per non creare dei problemi ai nostri oppressori, ecco una guida in 10 passaggi per aiutare i palestinesi a evitare la profilazione razziale ai posti di blocco e magari arrivare puntuali.

Anni fa, un palestinese abitante a Ramallah – chiamiamolo “Ahmad” – aveva programmato un colloquio per il visto presso il consolato americano a Gerusalemme.

Appassionato fondista, Ahmad voleva recarsi negli Stati Uniti per partecipare ad una importante maratona. Ma per presenziare al colloquio aveva bisogno di un permesso rilasciato da Israele per entrare nella Gerusalemme Est occupata. Se non fosse stato per i posti di blocco militari e il muro di separazione israeliani, il consolato sarebbe stato a pochi minuti di auto da casa sua.

Purtroppo la richiesta di permesso di Ahmad venne negata dalle autorità israeliane. Quindi, un amico, che chiameremo “Tamer”, decise di aiutarlo con un piano un po’ sfrontato.

Mentre si avvicinavano al checkpoint, Tamer sorrise al soldato israeliano di guardia e agitò la mano con sicurezza, come se stesse salutando un conoscente. Poteva sentire Ahmad dietro di lui che recitava sottovoce ansiosamente quante più preghiere poteva.

Il soldato diede un’occhiata ai passeggeri e, invece di fermarli per controllare i loro documenti, fece cenno perché l’auto passasse.

Ahmad alla fine avrebbe ricevuto il suo visto per gli Stati Uniti e in seguito, quell’anno, completò la sua gara con un ottimo risultato e si qualificò anche per un’altra importante maratona. I suoi amici erano entusiasti per lui, ma erano anche contenti di aver trovato un modo per ingannare il sistema dei posti di controllo: usando il razzismo degli israeliani contro di loro.

Diversi posti di controllo, diverse carte d’ identità

Non tutti i palestinesi hanno il “privilegio” di attraversare un posto di controllo israeliano per entrare nella Gerusalemme est occupata o in Israele. In effetti, molti non sono mai stati “dall’altra parte” perché non è mai stato concesso loro un permesso e nemmeno la possibilità di richiederlo. Ad esempio, a circa 2 milioni di palestinesi di Gaza, sotto assedio dal 2007, è stato impedito di lasciare la Striscia, anche verso altre parti dei territori occupati, se non in circostanze umanitarie eccezionali.

I palestinesi con maggior facoltà di spostarsi attraverso la cosiddetta “linea verde” [confine convenzionale che separa i territori palestinesi dai “territori occupati”, ndtr.] sono quelli che detengono la cittadinanza israeliana essendo in possesso di documenti di identità blu e quelli con residenza a Gerusalemme est e in possesso di documenti di identità rossi. Durante i loro viaggi dalla Cisgiordania in Israele, questi palestinesi hanno due opzioni: o attraversare i posti di controllo del tipo di quelli presenti nei terminal degli aeroporti o utilizzare quelli che vengono chiamati “bypass”.

I posti di controllo in stile aeroporto presentano corsie pedonali e automobilistiche. I palestinesi della Cisgiordania con i permessi possono entrare in Israele solo attraverso questi posti di controllo. Le corsie per le auto sono solitamente lente e trafficate, ma sono l’unica opzione se palestinesi con documenti di identità diversi viaggiano nella stessa macchina. Ad esempio, nel caso di una coppia palestinese di cui una persona ha la residenza a Gerusalemme e l’altra una carta d’identità della Cisgiordania con un permesso, quest’ultima dovrebbe attraversare da sola a piedi mentre la prima rimarrebbe in macchina e si riunirebbe al proprio partner dall’altro lato.

I posti di blocco bypass sono molto più insidiosi in quanto i valichi non sono utilizzati solo dagli arabi; sono destinati soprattutto a mettere in collegamento i coloni israeliani in Cisgiordania con il resto di Israele. Attraversare questi posti di blocco è un’esperienza molto diversa che assomiglia più al passaggio attraverso un casello autostradale. I soldati israeliani stanno ai lati di ogni terminal cercando di identificare le “minacce” – palestinesi – da selezionare per [sottoporli] a perquisizioni più invasive.

Come sembrare un “non-arabo”

Ciò che è diventato noto a tutti i palestinesi è come attraversare questi posti di blocco nel modo più efficiente possibile. Il trucco, in parole povere, è avvicinarsi al valico come un “non arabo”.

Dopotutto la fatica per i soldati israeliani è notevole: molti di loro devono annoiarsi a stare al sole tutto il giorno, consultando le liste di profilatura razziale per facilitare il proprio lavoro. Deve anche essere difficile a volte distinguere tra un arabo e un ebreo israeliano solo dal loro aspetto: ci somigliamo moltissimo.

E così, per non affaticare troppo i nostri oppressori, ho messo insieme una guida in 10 passaggi per aiutare i palestinesi a nascondere o attenuare la loro “arabicità“:

1) Avete considerato la possibilità di allevare un animale domestico? In caso contrario, iniziate a tenerne uno ora e portatelo fuori spesso. I soldati israeliani non pensano che gli arabi siano abbastanza in gamba da avere animali domestici. I gatti vanno bene, ma io consiglierei i cani perché sono molto più grandi e più visibili nelle auto. Evitate di prendere un cane carino perché è meglio non rischiare che i soldati fermino l’auto per giocare con lui.

2) Tatuaggi, piercing e altri accessori per il corpo sono molto utili. Per i soldati israeliani gli uomini arabi non sono abbastanza fichi da indossare orecchini; quindi, conducenti uomini, se non li indossate già, assicuratevi di tenere un orecchino magnetico in macchina. Per le conducenti donne, consiglierei di farvi tatuaggi all’henna; sono a buon mercato e facilmente rimovibili, assicuratevi solo che siano chiaramente visibili. Inoltre, l’uso dell’henna significa che potete far rivivere la cultura palestinese facilitando il vostro viaggio attraverso il posto di controllo.

3) Chiudete i finestrini dell’auto durante l’attraversamento. Gli arabi hanno l’abitudine di tenere la mano fuori dal finestrino. Questa pratica è utile quando guidate in una città palestinese e per strada dovete salutare 50 persone che conoscete, ma a un posto di blocco state solo cercando guai.

4) Lavate la vostra auto ogni giorno: è un segno di agiatezza. Macchine sporche o confezioni di fazzoletti con scritte in arabo sono una cattiva idea.

5) Tingetevi i capelli di biondo. È sia di moda che utile; più bianchi appaiono i passeggeri, meno ragioni avranno i soldati per fermare l’auto. La probabilità di un arabo biondo, credono alcuni israeliani, è molto bassa e, di conseguenza, i soldati non saranno inclini a fermarvi.

6) Lavorate duro per permettervi di avere continuamente un’auto nuova. Per i soldati israeliani, le vecchie auto sono un segno di arretratezza e implicano che l’autista abbia lasciato solo di recente il cammello come mezzo per andare al lavoro. Evitate però di prendere una Mercedes: a quanto pare si sa che gli arabi preferiscono quella marca. Sì, è un’ottima macchina, ma non a questo fine.

7) È dimostrato che anche guidare con donne che fumano riduce le possibilità di essere fermati dai soldati; pensano che alle donne palestinesi non sia permesso fumare. Naturalmente, mi interessa la salute generale delle donne palestinesi, quindi non incoraggerò le donne palestinesi a fumare ogni volta che attraversano un posto di controllo, ma tenetelo a mente.

8) Uomini, dovete stare molto attenti alla barba; in realtà possono capitare entrambe le cose: che vi aiuti o vi danneggi. O volete assicurarvi di stare al passo con gli stili da intellettuale anticonformista più contemporanei, altrimenti sembrerà solo una pratica religiosa e vi si ritorcerà contro.

9) Mostrate il vostro sostegno alla comunità LGBTQ . I soldati israeliani pensano che tutti i palestinesi siano omofobi.

10) Ascoltare musica in ebraico mentre si attraversa il posto di blocco ha dimostrato di funzionare per alcune persone. La musica mizrahi [combina elementi della musica araba, turca e greca con i ritmi e le melodie della musica dei sefarditi e degli ebrei mizrahì, cioè provenienti da Paesi arabi o musulmani, ndtr.] può essere una buona via di mezzo per combinare melodie arabe con parole ebraiche. Ma fate attenzione perché questa tattica è stata troppo utilizzata.

La guida di cui sopra rimane la soluzione migliore per un palestinese che voglia arrivare al lavoro o agli appuntamenti in tempo. In un mondo giusto non dovremmo ridurre la nostra “arabicità” per muoverci liberamente da un luogo all’altro. Ma molti di noi sono diventati troppo insensibili per provare anche solo il dolore e l’umiliazione di questi posti di blocco. Fino a quando il nostro diritto di spostarci non sarà soddisfatto, potrebbe essere l’unica strategia che abbiamo sotto il dominio dell'”unica democrazia in Medio Oriente”.

George Zeidan è un co-fondatore di Right to Movement Palestine [Diritto al movimento Palestina, ndtr.], un’iniziativa che utilizza lo sport per mettere in luce la condizione della vita dei palestinesi e la libertà di movimento.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




“Una rara opportunità”: palestinesi attraversano un varco nella barriera di separazione per godersi il mare

Ahmad Al-Bazz e Oren Ziv 

11 agosto 2020 – +972

Migliaia di famiglie palestinesi stanno passando attraverso grandi buchi nella barriera della Cisgiordania per visitare la costa, mentre l’esercito israeliano per lo più fa finta di niente.

Nelle ultime due settimane decine di migliaia di palestinesi della Cisgiordania hanno viaggiato liberamente nelle città e paesi al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndtr.] attraverso brecce nella barriera di separazione israeliana, e la maggior parte di loro si è diretta verso le spiagge.

Questo attraversamento di massa, avvenuto mentre i soldati israeliani stavano a guardare, ha coinciso con la festa musulmana del Eid al-Adha [festa del sacrificio], che dura quattro giorni ed è iniziata il 30 luglio. Ogni anno i palestinesi che celebrano la ricorrenza in occasione della festa presentano domanda per avere permessi, che a volte il ministero della Difesa concede in base a condizioni molto restrittive.

Quest’anno Israele non ha concesso permessi festivi, apparentemente a causa della crisi da COVID-19, ma il varco nella barriera di separazione ha consentito ai palestinesi di andare comunque verso la costa, in genere a loro vietata, per festeggiare i giorni di festa.

I buchi nella barriera si trovano soprattutto lungo la parte centro-settentrionale della Cisgiordania, benché ce ne siano alcuni anche nei pressi di Hebron [Al-Khalil in arabo] e Modi’in [nella zona centro-meridionale, ndtr.]. Uno dei principali punti di passaggio si trova nei pressi del villaggio cisgiordano di Far’oun, a ovest di Tulkarem, dove sono stati usati dai viaggiatori locali almeno due buchi larghi tre metri.

Lo scorso mercoledì, quando +972 ha visitato quella parte della barriera, che è attrezzata con sensori di movimento e telecamere di sorveglianza, i palestinesi attraversavano tranquillamente in sicurezza sotto gli occhi di due soldati israeliani che stavano controllando la zona. +972 ha visto tre jeep militari israeliane passare davanti ai varchi senza impedire ai palestinesi di attraversare.

Sul lato israeliano della barriera decine di autisti di autobus offrivano ai palestinesi che passavano dalla loro parte di portarli ad Haifa, Giaffa e Acre [città israeliane da cui nel ’48 furono espulsi molti palestinesi, ndtr.]. Dalla parte opposta, oltre a qualche ambulante che vendeva i propri prodotti nell’affollato punto di passaggio, c’erano autisti che offrivano di riportarli nelle città cisgiordane di Nablus e Tulkarem.

Questa mattina l’esercito israeliano ha chiuso con filo spinato il buco nella barriera a Far’oun e sparato lacrimogeni contro i palestinesi che si trovavano lì vicino e stavano cercando di attraversare. Tuttavia i viaggiatori si sono spostati verso altri varchi aperti più avanti lungo la barriera.

Che permesso potrei avere?”

Dalla fondazione di Israele nel 1948 i palestinesi sono stati sottoposti a limitazioni sempre diverse sugli spostamenti, prima sotto il governo militare all’interno della Linea Verde sui cittadini palestinesi di Israele fino al 1966, poi sotto l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Queste restrizioni sono state notevolmente estese in seguito alla firma degli accordi di Oslo negli anni ’90 e alla costruzione del muro di separazione israeliano iniziata negli anni 2000. Mentre ai palestinesi della Cisgiordania con permessi viene in genere richiesto di attraversare certi posti di controllo per soli palestinesi, i cittadini israeliani viaggiano liberamente senza permessi e con pochi controlli attraverso i checkpoint per soli israeliani sulla Linea Verde.

Sto visitando Giaffa per la prima volta dal 1999,” dice K.J., che ha chiesto l’anonimato per la sua sicurezza personale e ha viaggiato con sua moglie e due figlie. Aggiunge di non aver potuto andare al di là della Linea Verde o all’estero a causa di un “divieto dovuto a motivi di sicurezza” imposto alla sua famiglia dalle autorità israeliane. “Questo buco è una rara opportunità di visitare il territorio del 1948 (all’interno della Linea Verde).

Il sistema di permessi di Israele, gestito dal ministero della Difesa, vieta agli uomini palestinesi con meno di 50 anni e alle donne con meno di 45 di attraversare la Linea Verde senza un permesso. Chiunque sia più giovane deve fare richiesta per ragioni specifiche, come lavoro o cure mediche.

Alcuni palestinesi che attraversano i varchi nella barriera affermano di non avere i requisiti per ottenere i permessi in base alla rigida normativa israeliana. “Sono giovane e celibe. Che permesso potrei avere?” dice M.A., affermando che non gli è mai stato concesso un permesso di viaggio.

Lunedì pomeriggio centinaia di palestinesi hanno continuato ad attraversare la barriera nella zona di Tulkarem. La mattina soldati israeliani che stazionavano a Far’oun hanno lanciato lacrimogeni contro quelli che cercavano di attraversare, ma in seguito la gente ha continuato a passare dall’altra parte senza problemi.

La polizia militare israeliana ha arrestato e rimandato indietro decine di palestinesi che cercavano di attraversare la barriera tra Zeita, un villaggio palestinese nella zona di Tulkarem, e Jatt, una cittadina palestinese in Israele. Uno degli arrestati afferma di essere entrato in Israele con un permesso, ma che voleva tornare indietro attraverso quel punto di passaggio. “Possiamo tornare da dove vogliamo,” dice.

Salah, un altro palestinese arrestato, mentre veniva preso da una jeep militare ha raccontato a +972: “Se non vogliono che entriamo, perché hanno aperto la barriera? O chiudono i buchi o smettono di intervenire quando noi entriamo (in Israele) per andare a lavorare o alla spiaggia.” Un soldato gli ha risposto: “È una barriera, perché di punto in bianco la state attraversando? Non potete attraversare qui.”

Chi ha fatto il buco?

Secondo gli abitanti palestinesi di Far’oun il buco nella barriera, come molti altri come questo, è stato praticato in origine da passeur che portano lavoratori palestinesi a giornata all’interno della Linea Verde. Questo varco è stato a lungo una causa di conflitto tra l’esercito israeliano e i lavoratori palestinesi “che a volte è finito con incursioni nel mio villaggio e persino con spari contro i lavoratori,” afferma Khaled Badir, un giornalista palestinese che vive a Far’oun.

Secondo lui, in seguito alla crisi del COVID-19 e alle conseguenti restrizioni imposte sui lavoratori con permesso, un numero maggiore di persone ha iniziato a utilizzare i buchi nella barriera, ma l’esercito israeliano non ha fatto niente per bloccare il crescente uso. “Abbiamo iniziato a renderci conto che l’esercito sta implicitamente consentendo ai lavoratori di attraversare non presentandosi vicino alla barriera durante le ore in cui passano i pendolari,” dice.

È stata la prima volta che Badir ha assistito al fatto che i soldati israeliani abbiano fatto finta di niente mentre i palestinesi passavano attraverso la breccia nella barriera per entrare in Israele. “Sono sicuro che si tratta di una decisione presa dagli alti comandi. Ma non capisco la ragione che ci sta dietro,” afferma.

All’inizio di agosto, durante l’Eid, il buco nei pressi di Far’oun è diventato sempre più trafficato, in quanto i palestinesi sono stati informati attraverso le reti sociali della rara opportunità di attraversare la barriera. Ci sono state reazioni contrastanti riguardo a quelli che approfittavano del varco: anche se alcuni invitavano gli amici a visitare luoghi in genere a loro vietati, altri hanno criticato il fatto di contravvenire alla chiusura totale dovuta al COVID-19 imposta dall’Autorità Nazionale Palestinese durante l’Eid.

L’ANP deve ancora emanare un comunicato ufficiale riguardo agli spostamenti a Far’oun. Tuttavia i mezzi di informazione palestinesi hanno riportato che la ministra della Salute dell’ANP, Mai Kaileh, ha evidenziato i “gravi rischi” di viaggiare nelle “zone del ‘48” a causa dell’alto numero di casi di COVID-19 tra gli israeliani.

Nel contempo Bashar Masri, un imprenditore e uomo d’affari palestinese, ha chiesto all’ANP di riconsiderare le attuali regole riguardanti il COVID-19, affermando che queste “provocano una depressione economica sul mercato palestinese… dopo che improvvisamente l’occupazione ha aperto i posti di controllo, cosa che ha spinto le persone a viaggiare per svago e per fare spese (nei mercati israeliani).”

Ma le affermazioni di Masri, ed altre simili, hanno provocato grandi proteste da parte dei palestinesi, che hanno invitato altri come loro “a viaggiare ed andare a vedere le città da cui sono stati espulsi nel 1948.” In risposta alcuni palestinesi hanno postato su Facebook storie in cui i visitatori cantano canzoni palestinesi di liberazione, mentre altri foto dei loro parenti rifugiati che visitano, per la prima volta dopo molti anni, le città di origine da cui vennero cacciati.

Se solo potessimo entrare sempre”

A poche decine di chilometri di distanza, lungo il litorale tra Giaffa e Tel Aviv, migliaia di palestinesi si sono goduti la spiaggia, e qualcuno ci è rimasto fino a notte. Quelli che hanno viaggiato dalla Cisgiordania erano facilmente identificabili, perché continuavano a stare in acqua persino dopo che per quel giorno i bagnini erano tornati a casa. Molti di loro hanno postato sulle reti sociali immagini riprese in diretta per le loro famiglie rimaste a casa.

Osama, 43 anni, di Nablus, che è andato in spiaggia a Giaffa con la moglie e i figli, non aveva visto il mare da 34 anni. i suoi familiari ci sono stati per la prima volta.

È una sensazione incredibile,” dice. “Mio nonno era di Giaffa, di Kufr Salame [villaggio a sud di Tel Aviv, distrutto dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.]. Per guadagnarsi da vivere confezionava arance, e venne espulso durante la Nakba [la “catastrofe” in arabo, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel ’48, ndtr.].”

Osama aggiunge di non essere sicuro se sia stato per ragioni economiche o politiche che gli è stato concesso di attraversare la Linea Verde, ma ciò non incide sulla sua gioia per aver avuto questa possibilità. “Spero di poter tornare, ma chissà cosa succederà domani,” dice.

Rashid, 16 anni, di Deir Abu Mash’al, nei pressi di Ramallah, racconta come lui e i suoi amici sono entrati in Israele attraverso il varco nei pressi del villaggio di Ni’lin senza essere bloccati dai soldati.

Questa è la seconda volta nella mia vita che vado al mare,” afferma. “Sono contentissimo. Se solo potessimo entrare sempre!”

Alaa, una laureata in pubbliche relazioni di Nablus, è andata in spiaggia con i suoi amici, con cui ha raccolto conchiglie e ha scritto parole sulla sabbia. “Sono entusiasta di essere qui,” dice. “Non ho avuto paura di attraversare la barriera.”

Basel, 42 anni, di Qalquilya, dice di non essere mai stato sulla spiaggia prima. È stato accompagnato da sua moglie e da tre figli, che sono rimasti in mare dopo il tramonto. “Siamo rimasti rinchiusi per cinque mesi, per via del coronavirus, in isolamento a casa. Dovevamo uscire a prendere aria,” dice Basel. “La gente è disoccupata. È meglio che (la barriera) sia aperta, in modo che la gente possa lavorare e andare a farsi un giro. È meglio che morire chiusi in casa imprigionati.”

Anche il valico di Allenby dalla Cisgiordania alla Giordania è soggetto a nuove restrizioni a causa della pandemia da coronavirus, facendo sentire i palestinesi ancor più in gabbia del solito.

Basel stenta a descrivere le sue impressioni su Giaffa: “È veramente la sposa del mare, come si dice. Dopo la spiaggia andremo al (famoso ristorante di Giaffa) “Il vecchio e il mare”, che ci hanno detto essere eccellente.” Benché il viaggio sia stato dispendioso, dato che è disoccupato, Basel afferma di aver intenzione di tornare il prossimo mese.

La scorsa settimana sono tornato qui tre volte,” dice un giovane di Jayyous, nei pressi di Qalqilya. “Sono passati cinque anni dall’ultima volta che sono stato in spiaggia.”

Le scene sulla spiaggia di Giaffa hanno ricordato quanto il litorale sia vicino alla Cisgiordania, e come sarebbe una situazione “normale”, senza separazioni.

Se fosse un vero confine, pensi che lo lascerebbero attraversare dalle persone?”

Questa settimana il confine tra Israele e la Cisgiordania era praticamente del tutto cancellato,” ha twittato sabato un giornalista israeliano. Questa è stata infatti l’impressione presso la barriera di separazione e in spiaggia. Molte persone hanno evidenziato che non c’erano soldati presenti nei vari punti attraverso i quali sono passati in Israele, o se c’erano, i soldati sono semplicemente rimasti a guardare da lontano.

Un cinquantenne di Betlemme, che con la moglie e la figlia ha viaggiato da Far’oun a Giaffa, dice: “La situazione della Cisgiordania è arrivata a un punto di rottura. C’è tensione, e trovare la barriera aperta sta consentendo alle persone di respirare un po’, di godersi la spiaggia.”

Benché l’Eid sia finito la scorsa settimana, durante il fine settimana e anche dopo il flusso di visitatori verso la spiaggia è continuato. Anche se non si sa per quanto tempo questa politica ufficiosa durerà, i media israeliani sono rimasti relativamente indifferenti alla questione, e qualcuno ha notato che la situazione pone scarsi rischi per la sicurezza o per la salute. Ci sono stati persino commenti ironici sul fatto che, in assenza dei turisti dall’estero, ci sono stati almeno turisti palestinesi dalla Cisgiordania.

Si sono fatte varie supposizioni sul perché sia stato consentito ai palestinesi di entrare in Israele attraverso buchi nella barriera di sicurezza, e un’ipotesi è che ciò rappresenti un’esibizione di autorità da parte di Israele.

La ragione per cui è tutto aperto è politica,” dice un autista di Taybeh in attesa di passeggeri. “(Israele) vuole dimostrare chi comanda, e indebolire l’ANP. Quando l’ANP istituisce una chiusura totale, Israele apre tutto.”

Nei pressi di uno dei varchi nella barriera un palestinese di 60 anni dà una spiegazione simile. “Vogliono dimostrare che non ci sono Israele e Palestina, ma solo un unico territorio. Si stanno preparando ad annettere tutta la Cisgiordania. Se ci fosse un vero confine, pensi che lascerebbero passare la gente? Vogliono annullare la frontiera.”

Ci hanno impedito di entrare, ma io sto andando in Palestina,” ha detto un altro mentre stava attraversando la barriera con la sua famiglia. “Abbiamo aspettato per decenni che (il confine) fosse aperto, e ora possiamo andare liberamente in spiaggia.”

Il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che loro non si occupano della questione del movimento dei palestinesi attraverso i varchi nella barriera di separazione.

Ahmad Al-Bazz è un giornalista e documentarista che vive nella città cisgiordana di Nablus. Dal 2012 è membro del collettivo di fotografi “Activestills” [collettivo di fotografi impegnato nel sostegno dei diritti dei popoli oppressi con particolare riguardo ai palestinesi, ndtr.].

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia “Activestills” e redattore di Local Call [versione in lingua ebraica di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità che si mobilitano e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sulle case popolari e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e su quelle a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gestire l’occupazione e nascondere i crimini di guerra: come Israele ha trasformato il paesaggio in Palestina

Clothilde Mraffko

sabato 1 agosto 2020 – Middle East Eye

Vegetazione, architettura, strade, muri…Il progetto sionista ha rimodellato il paesaggio in Israele e nei territori occupati, creando complessi intrecci in cui la presenza palestinese è nascosta, quando non è messa sotto sorveglianza o rinchiusa

Per il viaggiatore europeo che arriva dall’aeroporto di Tel Aviv l’ingresso a Gerusalemme offre un panorama stranamente familiare. Poco prima che la città santa scopra le sue prime colline, l’autostrada si snoda tra monti verdeggianti. Qui gli alberi ricordano più le foreste europee che i paesaggi del vicino Libano. Lungi dall’immagine biblica di uliveti, sono pini e cipressi a coprire i rilievi.

Ancor prima della creazione di Israele nel 1948 “gli immigrati sionisti che arrivarono qui dall’Europa, in particolare da quella dell’est, volevano che il paesaggio fosse più verde, con alberi, che assomigliasse a quello che conoscevano”, ricorda a Middle East Eye Noga Kadman, ricercatrice indipendente, autrice del libro Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948 [Cancellati dallo spazio e dalla consapevolezza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati del 1948].

Allora molti emigrarono con in testa un mito: la Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra, gli ebrei. Solo che in realtà, all’inizio del 1948 circa 900.000 palestinesi vivevano all’interno delle frontiere di quello che sarebbe diventato Israele.

Nell’immaginario dei nuovi arrivati ebrei sussisteva nonostante tutto l’“idea che il paese fosse stato abbandonato per centinaia di anni,” continua Noga Kadman. Quindi gli immigrati si misero a piantare a tutto spiano sul territorio, ricorrendo principalmente a due specie di alberi: l’eucalipto e il pino di Aleppo, o pino di Gerusalemme.

Importato dall’Australia l’eucalipto venne inizialmente piantato ovunque: serviva a prosciugare le paludi e soprattutto cresceva molto in fretta. Ma, troppo avido di acqua, non era effettivamente adatto alla Palestina.

Venne sostituito un po’ alla volta dal pino di Aleppo che, a differenza di quello che farebbe pensare il suo nome, non è neppure lui una specie locale. Si trova piuttosto nel Mediterraneo occidentale, ad esempio nel sud della Francia. Anch’esso cresce rapidamente, resiste alla siccità, ma al contempo è più vulnerabile agli incendi.

Il paesaggio si trasformò dunque un po’ alla volta, soggetto alle iniziative del Fondo Nazionale Ebraico (FNE). L’agenzia, creata dall’inizio del XX secolo per acquisire terre in Palestina per gli immigrati ebrei, dal 1948 venne incaricata di occuparsi delle terre da cui erano stati cacciati i palestinesi, definite, in assenza dei loro proprietari, proprietà dello Stato.

Attualmente il Fondo gestisce soprattutto le foreste in Israele e si vanta di aver piantato “centinaia di milioni di alberi”, asserisce in sua difesa uno dei portavoce del Fondo, Alon Brandt, in una lettera di risposta a Middle East Eye. Precisa che l’organizzazione non ha piantato solo pini di Aleppo, ma anche ulivi, la specie locale per eccellenza.

Ma alcune critiche fanno notare che le piantagioni del FNE non hanno creato dei veri ecosistemi. Al contrario, dato che queste specie non sono abbastanza diversificate, questi luoghi non hanno l’aspetto di vere foreste: i pini hanno reso il suolo acido e gli animali non abitano effettivamente in questi luoghi in cui il sottobosco non ha messo radici.

Prendere possesso della terra”

Ma il FNE non cerca solo di rinverdire la Palestina. “Piantare alberi era un modo per prendere possesso della terra,” sostiene Noga Kadman. A tutt’oggi, nelle “località palestinesi in Israele, se non si vuole che le città si ingrandiscano con la costruzione di nuove case, gli si piantano attorno dei boschi,” aggiunge.

Nel Negev, nel sud di Israele, le autorità israeliane hanno demolito addirittura un intero villaggio per rimboschire il deserto. Lo scorso 12 febbraio la località di al-Araqib è stata distrutta per la 175sima volta. Su appezzamenti di terra che gli abitanti, beduini arabi israeliani discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948, sostengono essere loro, nel 2006 il FNE ha iniziato a piantare alberi: conta di crearvi con il tempo due boschi.

Gli alberi servono anche a nascondere le stigmate della nascita violenta di Israele: “La priorità della politica di riforestazione portata avanti dal FNE è di nascondere i suoi crimini di guerra in modo che Israele sia considerato come l’unica democrazia del Medio Oriente,” denunciava nel 2005 il militante israeliano dei diritti civili Uri Davis.

Tra il 1947 e il 1949, dai 750.000 agli 800.000 palestinesi vennero espulsi dalle proprie terre dalle milizie sioniste, cacciati con la forza o in fuga dai combattimenti per trovare rifugio nei Paesi confinanti. Nel maggio 1948 venne creato lo Stato di Israele; per i palestinesi questa data infausta è commemorata come la Nakba, la “catastrofe” in arabo.

Più di 400 villaggi vennero allora distrutti, ricorda Noga Kadman: “La metà di questi villaggi sono sepolti sotto cittadine israeliane o sono stati inglobati in esse.”

Ma una parte di essi, secondo lei 68, si trovano oggi su terre appartenenti al FNE, di cui “46 sono sepolti sotto un bosco.” Dal 1948 gli alberi vennero rapidamente piantati sulle rovine delle case palestinesi; Israele sperava così di dissuadere i rifugiati dal tentare di tornare e ricostruire le loro abitazioni.

Una politica proseguita nel 1967. Durante la guerra dei Sei Giorni le battaglie di Latrun permisero agli israeliani di impossessarsi di tutta Gerusalemme. Spinsero anche sulla via dell’esilio circa 10.000 palestinesi che vivevano in questa enclave, all’epoca sotto controllo della Transgiordania, molto vicina alla città santa.

Oggi palestinesi e israeliani conoscono il luogo soprattutto perché è uno degli spazi di svago più belli nei dintorni di Gerusalemme: 700 ettari con cascate, piste ciclabili e tavoli per scampagnate all’ombra.

Solo che il parco Ayalon in realtà è stato costituito sulle rovine di due villaggi palestinesi, Amwas e Yalu, totalmente rasi al suolo nel 1967, così come sulle terre di un’altra località, Beit Nuba. Oggi non ne resta che un santuario e dei fichi d’india che, in Palestina, servivano per delimitare i terreni delle famiglie. Le forme spinose con frutti rossi e gialli, che hanno paradossalmente dato il loro nome agli israeliani (sabra [frutto dei fichi d’india in ebraico. Si riferisce agli ebrei nati n Palestina, ndtr.]), costellano i sentieri del parco, come per ricordare che una volta vi si trovavano dei villaggi palestinesi.

I generosi donatori canadesi che resero possibile la costituzione del parco Ayalon, inaugurato dal FNE nel 1976, di questa tragica storia non ne sapevano niente.

Nel 1991 un servizio della televisione canadese rivelò al pubblico d’oltre Atlantico che il parco non solo venne in parte costituito dall’altra parte della Linea verde, la frontiera internazionalmente riconosciuta nel 1949 tra un futuro Stato palestinese e Israele – quindi su territorio occupato -, ma che servì soprattutto a seppellire le rovine di più di un migliaio di case distrutte. Il FNE fu costretto a scusarsi. Non ha risposto alle domande di MEE su questo argomento.

Si dovrà attendere il 2006 e una decisione della giustizia israeliana perché i visitatori potessero finalmente venire a conoscenza della tragica storia del luogo, sintetizzata in ebraico su cartelli in legno. L’organizzazione israeliana “Zochrot”, “Ricordi” in ebraico [associazione israeliana che si dedica a mantenere viva la memoria dei villaggi palestinesi distrutti da Israele, ndtr.], ha intentato un’azione legale contro il FNE per obbligarlo a non cancellare la memoria di Amwas e Yalu.

Una segregazione visibile

Se centinaia di villaggi palestinesi vennero rasi al suolo quando fu creato Israele, le grandi città vennero preservate, ma depurate da ogni presenza araba. Così, racconta lo storico israeliano Ilan Pappé nella sua opera “La pulizia etnica della Palestina”, nel 1948, insieme al mercato, “uno dei più belli del suo genere”, 227 case furono demolite a Haifa e circa 500 altre abitazioni palestinesi furono ridotte in polvere a Tiberiade, nel nord-est del Paese, a Jaffa e ancora a Gerusalemme ovest.

Israele si costruì così su un principio: nessuna mescolanza tra ebrei israeliani e quelli che vengono chiamati arabi israeliani, discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948 e che vissero sotto amministrazione militare fino al 1966.

Salvo rare eccezioni, spesso nelle zone più povere, “su tutto il territorio si nota una segregazione tra israeliani e palestinesi,” spiega a Middle East Eye Efrat Cohen-Bar, architetto dell’Ong israeliana per la difesa dei diritti umani “Bimkom”. L’idea principale “è che non si voglia stare insieme, e questo vale per entrambe le parti,” ritiene. A ognuno il suo quartiere, ognuno nella sua città.

Un credo ancora più evidente in Cisgiordania, territorio palestinese sotto occupazione israeliana dal 1967. Qui due mondi, i coloni israeliani e i palestinesi sotto occupazione, si incrociano ma non si incontrano mai. Una segregazione iscritta, in modo molto più brutale, nel paesaggio.

Così, dall’uscita da Gerusalemme, lungo la strada di Betlemme, il simbolo più evidente di questi paesaggi sotto occupazione compare da quando si supera il primo tunnel: a volte fatto di blocchi di cemento, a volte di staccionate più alte dei muri antirumore delle autostrade o ancora imponente recinzione, il muro di separazione costruito da Israele negli anni 2000, giudicato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia chiude l’orizzonte. In basso le case palestinesi si distinguono appena.

Questa frontiera, iscritta nel paesaggio, incarna di per sé sola tutte le altre strutture militari contro cui vanno a sbattere i palestinesi quando si avventurano fuori dalle loro città e villaggi: blocchi stradali, check point, torri di guardia, barriere…

Al contrario, attraverso un ingegnoso dedalo di tunnel, strade riservate alle vetture israeliane e ponti, i coloni israeliani passano da una colonia all’altra senza mai entrare in contatto con una località palestinese. Uno stato di fatto che l’annessione delle colonie, promessa da Israele in questi ultimi mesi con l’appoggio degli Stati Uniti, dovrebbe rafforzare. La segregazione non potrà che essere più impressionante.

La collocazione stessa delle colonie racconta questa storia di dominazione: “Storicamente i villaggi palestinesi erano costruiti in base a dove si trovavano le fonti d’acqua, quindi generalmente non sulla cima delle colline,” spiega Efran Cohen-Bar.

Ma praticamente tutte le colonie israeliane sono iniziate dalla cima. Anche un modo per dire: noi possediamo questa terra, è nostra.” La cima delle colline, meno fertile, è anche spesso il luogo più a disposizione per nuove costruzioni.

L’occupazione israeliana si sviluppa in modo strategico: il paesaggio cambia in base all’evoluzione degli interessi israeliani.

All’inizio era un tentativo di controllare il territorio, un po’ come se le colonie fossero dei mezzi corrazzati e delle basi militari. Poi sono state piazzate in modo da bloccare la creazione di uno spazio palestinese contiguo, distruggendo così la possibilità di uno Stato,” precisa a Middle East Eye Eyal Weizman, fondatore di “Forensic Architecture” [Architettura Forense], un’organizzazione che indaga le violazioni dei diritti dell’uomo utilizzando, tra le altre cose, l’architettura.

Del resto la mappa dello Stato palestinese immaginato da Donald Trump nel quadro del suo “piano di pace” è il risultato di questa strategia: vi si individua un insieme di isolette palestinesi legate le une alle altre da tunnel e ponti, senza omogeneità geografica.

Così in Cisgiordania il visitatore può identificare due mondi con un solo colpo d’occhio: da una parte case palestinesi con i tetti piatti, sparse sul fianco della collina, sopra i campi, dall’altra le colonie, spesso un insieme di edifici tutti uguali, identificabili per i loro tetti rossi, a punta, all’occidentale, e arroccati sulla cima dei rilievi.

In Israele non abbiamo bisogno di quel tipo di tetti, che servono per la neve,” rileva Efran Cohen-Bar. “Ma non volevamo assomigliare a loro (ai palestinesi), volevamo differenziarci.”

Per parte sua Eyal Weizman sostiene che i tetti rossi erano obbligatori: permettono all’esercito israeliano di individuare rapidamente dal cielo le colonie, e quindi i luoghi da non bombardare.

Le case dei coloni israeliani sono disposte in cerchio e “si affacciano sul paesaggio per sorvegliare, per ragioni militari e di sicurezza e per godere del panorama”, spiega. “Da un lato gli israeliani non vogliono palestinesi sul posto, hanno distrutto la loro cultura e vogliono che se ne vadano. Ma dall’altra leggono gli elementi tradizionali del paesaggio, ad esempio gli uliveti e le case di pietra, come rappresentazioni bibliche.”

Perché Israele, pur avendo modificato profondamente il paesaggio palestinese per i suoi scopi strategici, continua a vendere ai turisti e ai suoi abitanti l’immagine di una terra vergine, identica a quella dove gli ebrei vivevano ai tempi della Bibbia.

Quando fanno pubblicità (per spingere la gente a sistemarsi nelle colonie) dicono: ‘Venite a vivere nella natura, venite a vivere nel Paese della Bibbia’,” evidenzia Eyal Weizman. Un paesaggio tuttavia plasmato da quelli che essi [gli israeliani] non vogliono vedere: i palestinesi. È un paradosso,” conclude l’architetto.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 14-27 luglio 2020

In Cisgiordania, 20 palestinesi sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane.

Questo dato è più basso di circa l’80% rispetto al numero medio di feriti registrati dall’inizio del 2020 in analoghe circostanze. Dei venti feriti, quattordici si sono avuti durante scontri scoppiati in due separate proteste contro la realizzazione di due avamposti colonici [israeliani] nei pressi dei villaggi di Asira ash Shamaliya e di Beita (entrambi in Nablus); tali avamposti sono stati successivamente smantellati dalle autorità israeliane. Gli altri sei palestinesi [dei 20], incluso un minore, sono rimasti feriti durante scontri innescati da operazioni di ricerca-arresto nei Campi profughi di Balata (Nablus), Al Jalazun (Ramallah) e Jenin, e nella città di Tulkarm.

Il 21 luglio, due ragazzi palestinesi (di 11 e 14 anni) sono rimasti ustionati (uno in modo grave) maneggiando un oggetto caduto da un aeromobile israeliano durante un addestramento militare, secondo quanto riferito; l’oggetto ha spontaneamente preso fuoco dopo la caduta. L’episodio è avvenuto nella città di Hebron, nell’Area (H2) controllata da Israele, nei pressi della casa dei ragazzi.

Il 25 luglio, nella città di Nablus, durante scontri, le forze di sicurezza palestinesi hanno sparato, uccidendo un palestinese e ferendone diversi altri. Gli scontri sono scoppiati quando le forze palestinesi, nell’intento di applicare le norme di blocco imposte nel contesto della pandemia, hanno tentato di chiudere negozi e arrestare i proprietari. Le autorità palestinesi hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta.

A Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno condotto 26 operazioni di ricerca-arresto; due di tali operazioni sono state effettuate presso sedi di istituzioni culturali ed una presso un centro di magazzinaggio della Società della Mezzaluna Rossa Palestinese (PRCS). In quest’ultimo caso, le forze israeliane hanno requisito circa 100 confezioni di alimenti destinati, secondo quanto riferito, alle famiglie in quarantena domiciliare per il COVID-19; le motivazioni dell’azione non sono ancora chiare. In seguito all’operazione svolta nei due centri culturali e all’arresto dei loro direttori, una rete di ONG palestinesi ha rilasciato una dichiarazione nella quale esorta la Comunità internazionale a difendere lo spazio civico e a proteggere le Organizzazioni della società civile palestinese. In una delle operazioni, svolta nel quartiere di Al ‘Isawiya, una unità sotto copertura ha aggredito fisicamente e arrestato un ragazzo palestinese di 12 anni.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree [interne alla Striscia e] prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, in almeno 22 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati segnalati feriti né danni alle proprietà. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate in Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate trenta strutture di proprietà palestinese, sfollando 25 persone e creando ripercussioni su altre 140 [seguono alcuni dettagli]. In un episodio accaduto il 21 luglio, le autorità israeliane hanno demolito una struttura alla periferia della città di Hebron che, secondo la Municipalità di Hebron, era pianificata per essere utilizzata come centro diagnostico del COVID-19; l’affermazione è contestata dalle autorità israeliane. Questa e altre tre strutture sono state demolite in base ad un “Ordine Militare 1797”, che consente la demolizione di edifici “non autorizzati” entro 96 ore dalla consegna della notifica. Le Organizzazioni Umanitarie e per i Diritti Umani hanno ripetutamente manifestato preoccupazione per questa procedura che, sostanzialmente, impedisce alle persone destinatarie dei provvedimenti di essere ascoltate da un organo giudiziario.

Dal 5 marzo (data di inizio dell’emergenza COVID-19), citando la mancanza di permessi [israeliani] di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 19 case abitate, esistenti prima di tale data, sfollando 104 palestinesi. Ciò è in contrasto con l’impegno, da parte delle autorità [israeliane], di sospendere la demolizione di tali strutture durante la pandemia. Durante questo periodo, altre sette case abitate sono state autodemolite dai proprietari, in ottemperanza all’emissione di ordini di demolizione. Dall’inizio dell’emergenza COVID-19, adducendo la motivazione della mancanza di permessi di costruzione, 282 strutture palestinesi di ogni tipo [abitazioni e/o strutture di servizio] sono state demolite o sequestrate in violazione del diritto umanitario internazionale.

Assalitori, ritenuti coloni israeliani, hanno ferito tre palestinesi ed hanno vandalizzato una moschea, circa 30 alberi ed altre proprietà [seguono dettagli]. Dei tre feriti, due sono stati aggrediti fisicamente con bastoni e pietre nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah) e un altro nella Zona H2 della città di Hebron. Il 27 luglio, nella città di Al Bireh (Ramallah,) una moschea è stata incendiata, danneggiandone parti e scritte in lingua ebraica sono state dipinte sui suoi muri. È stato riferito che la polizia israeliana ha aperto un’inchiesta. Nei villaggi di Turmus’ayya, Burin, Qaryut (tutti in Nablus) e Sa’ir (Hebron) sono stati incendiati o abbattuti circa 30 ulivi. Tra le altre proprietà vandalizzate sono da includere escavatori e altri strumenti di lavoro in una cava nel villaggio di Jamma’in (Nablus) e negozi chiusi nella Zona H2 della città di Hebron.

Un colono israeliano è stato aggredito fisicamente e ferito da palestinesi nell’Area H2 della città di Hebron. Secondo fonti israeliane, altri quattro israeliani sono rimasti feriti per il lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli in transito sulle strade della Cisgiordania. A quanto riferito, sei veicoli israeliani hanno subito danni a causa del lancio di pietre ed uno a causa del lancio di una bottiglia incendiaria da parte di palestinesi.

278

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




I coloni israeliani incendiano una moschea nella città di Al-Bireh in Cisgiordania

Redazione di MEE

27 Luglio 2020 Middle East Eye

Slogan razzista scritto sui muri dell’edificio nell’ultimo attacco “del prezzo da pagare” contro i palestinesi

Secondo l’agenzia di stampa Wafa dei coloni israeliani hanno organizzato un assalto incendiario contro una moschea palestinese nella città di Al-Bireh, vicino alla città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

I bagni e i sevizi igienici della moschea di Al-Bir wa al-Ehsan sono stati incendiati, e lasciati bruciare e distruggere dal fuoco, ma non è stato riportato nessun ferito.

Gli incendiari hanno imbrattato le pareti della moschea con graffiti che dichiarano “Assedio ad arabi e non ebrei” e “la terra di Israele è per il popolo di Israele”.

Il sindaco del comune di Al-Bireh, Azzam Ismail, ha detto a Wafa che i coloni israeliani sono entrati in città nelle prime ore del mattino di lunedì e, oltre ad innescare l’incendio, hanno imbrattato con graffiti e slogan razzisti le pareti interne della moschea,.

I residenti di Al-Bireh si sono accorti dell’incendio intorno alle 3 del mattino prima che i vigili del fuoco lo estinguessero e la polizia palestinese arrivasse per indagare sull’incidente.

Al-Bireh è circondato dagli edifici della colonia israeliana di Biet El a nord e dall’insediamento coloniale illegale di Psagot a sud. Ad ovest della cittadina si trova la città palestinese di Ramallah.

La moschea di Al-Birr wa al-Ehsan si trova ai margini della città.

Husam Abu al-Rub, il referente del awqaf [fondazione di matrice religiosa con fini sociali e benefici, ndtr.] dell’Autorità palestinese e del Ministero degli affari religiosi, ha condannato l’attacco dicendo: “È un un atto criminale e razzista di cui è responsabile il governo d’occupazione, dal momento che sostiene questi gruppi terroristici”, riferendosi a Israele.

A gennaio, i coloni israeliani hanno dato alle fiamme una moschea e scritto slogan anti-arabi sulle sue mura nel sobborgo dj Sharafat a Gerusalemme Est occupata.

Tali atti vandalici da parte dei coloni israeliani contro le comunità palestinesi sono attacchi noti come il prezzo da pagare” e sono usati per intimidire i residenti e affermare la supremazia ebraica nei territori che Israele ha occupato militarmente dal 1967.

Gli attacchi “il prezzo da pagare” sono diventati sempre più comuni in Cisgiordania.

Includono il taglio di pneumatici e le scritte con la vernice di slogan anti-arabi sulle automobili, aggressioni contro palestinesi, incendi dolosi contro proprietà e luoghi sacri e abbattimenti di alberi appartenenti a agricoltori palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele distrugge un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus a Hebron

Akram Al-Waara , Mustafa Abu Sneineh – Cisgiordania occupata

22 luglio 2020 – Middle East Eye

I soldati israeliani avrebbero assistito per due mesi alla costruzione di questa struttura indispensabile prima di inviare i bulldozer

Le autorità israeliane hanno distrutto un centro palestinese per la diagnosi del coronavirus che doveva fungere da guida nella città di Hebron, nel sud della Cisgiordania occupata.

La Cisgiordania fatica a contenere la seconda ondata di infezioni da coronavirus, dopo che sembrava aver avuto successo nel bloccare la pandemia con un rigido isolamento per parecchie settimane in marzo.

Hebron, la città più grande del territorio e locomotiva economica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), è stata particolarmente colpita. Fino ad oggi nei territori palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese ha registrato 65 decessi legati al coronavirus.

Il Comune di Hebron ha realizzato un centro di crisi dedicato al coronavirus, ma la stigmatizzazione sociale e le difficoltà causate dall’occupazione israeliana hanno ostacolato il suo lavoro.

Raed Maswadeh, ingegnere trentacinquenne la cui famiglia possiede il terreno sul quale è stata costruita la struttura, riferisce a Middle East Eye che tre mesi fa il Comune si è rivolto ai palestinesi per raccogliere denaro per la costruzione di questo centro.

La mia famiglia ha deciso di donare il proprio terreno all’ingresso settentrionale di Hebron per costruire una clinica di tracciamento del COVID-19”, racconta Maswadeh.

È stata costruita in memoria del nonno, morto recentemente di coronavirus. Maswadeh riferisce che il progetto è costato alla sua famiglia circa 250.000 dollari.

Questo terreno si trova nella zona C, una parte della Cisgiordania sotto totale controllo di Israele, che non rilascia quasi mai i permessi edilizi agli abitanti palestinesi. I coloni israeliani nella regione invece non hanno alcun problema di questo genere.

Maswadeh dice che, come per molte strutture nella regione, hanno cominciato a costruire il centro senza il permesso edilizio.

Se lo avessimo richiesto non lo avremmo ottenuto. Pensavamo che forse, con il COVID-19, ci sarebbero state delle eccezioni”, spiega.

Strumento di pressione

Il progetto mirava ad alleviare la pressione sugli ospedali di Hebron dove vengono curati i pazienti colpiti dalla malattia, che hanno raggiunto la loro capacità massima.

Maswadeh racconta a MEE che la costruzione è stata inaugurata due mesi fa e che i soldati israeliani pattugliavano la zona. Hanno visto che i bulldozer e i materiali da costruzione entravano sul posto, ma non hanno detto niente, prosegue.

Tuttavia il 12 luglio hanno ricevuto un ordine militare, consegnato da un comandante dell’esercito israeliano, di interrompere la costruzione.

Farid al-Atrash, avvocato specializzato nei diritti umani ed attivista di Hebron, spiega a MEE che la città è stata colpita dalla crisi ed ha un disperato bisogno di questo centro.

In questo modo possiamo controllare meglio le persone che entrano ed escono da Hebron e controllare il virus”, spiega.

Secondo lui la demolizione potrebbe essere un modo per Israele di far pressione sull’ANP perché riprenda il coordinamento amministrativo, che è stato interrotto come segno di protesta contro i progetti israeliani di annessione di alcune aree della Cisgiordania.

In generale Israele complica la lotta contro il virus per i palestinesi. Dopo che l’ANP ha interrotto ogni coordinamento con Israele, gli israeliani usano ogni mezzo a loro disposizione per fare pressione sull’ANP perché lo ripristini”, sostiene.

Faranno tutto ciò che possono per renderci la vita qui ancora più difficile.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




La vendetta contro i palestinesi è giustificabile, afferma un giudice israeliano nell’assolvere i due agenti di sicurezza che hanno assalito un uomo innocente

Jonathan Ofir

21 luglio 2020 – Mondoweiss

Ieri un incredibile verdetto è stato pronunciato dal tribunale distrettuale di Beersheba in Israele.

Due agenti di sicurezza israeliani sono stati assolti in una causa relativa al linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo, nonostante fossero stati ripresi mentre lo picchiavano e lo colpivano ripetutamente alla testa con una panca. Il giudice ha addotto il “ragionevole dubbio”.

Il linciaggio dell’ottobre 2015 da parte di una folla assetata di sangue è stato parte di una serie di episodi di “errore di identificazione” in Israele. In effetti in precedenza si era verificato un attacco terroristico alla stazione centrale degli autobus di Beersheba; un uomo non identificato di un villaggio beduino del Negev aveva aperto il fuoco, uccidendo un soldato e ferendo altre 11 persone.

Zarhum passava di lì ed è stato scambiato da un agente di sicurezza per l’assalitore perché aveva la pelle scura. Un portavoce della polizia ha dichiarato dopo l’accaduto: “Non è chiaro se [Zarhum] sia coinvolto nell’episodio o se gli abbiano sparato a causa del suo aspetto esteriore”.

Gli hanno sparato 8 colpi. Sebbene Zarhum fosse stato reso inoffensivo, la folla ha continuato a picchiarlo duramente, gridando “Terrorista!”, “Uccidetelo!”, “Rompetegli la testa, figlio di puttana!”. I due ufficiali si trovavano tra la folla. Il Times of Israel osserva:

L’accusa afferma che nelle fasi successive all’assalto [il soldato Yaakov] Shimba ha sferrato con forza un calcio a Zarhum alla testa e alla parte superiore del corpo. Pare che [l’ufficiale dei servizi penitenziali Ronen] Cohen gli abbia scagliato addosso una panca, e dopo che un altro uomo l’ha rimossa, l’avrebbe riafferrata per scagliarla nuovamente sull’uomo inerte.”

L’accusa afferma che, sebbene Zarhum risultasse tra i feriti più gravi nei tafferugl, sia stato condotto in ospedale solo dopo che tutti gli altri feriti erano stati evacuati (secondo Haaretz).

Gli autori del linciaggio hanno esultato per l’assassinio in diretta televisiva, quando ancora credevano che Zarhum fosse quello che aveva sparato.

È importante evidenziare che l’autopsia ha concluso che Zarhum è morto a causa delle ferite da arma da fuoco, non delle percosse, ma che le percosse erano gravi. L’accusa ha affermato che “gli imputati hanno commesso gravi atti di violenza nei confronti del defunto cittadino Haftom Zarhum, a cui avevano già sparato, che era ferito e perdeva molto sangue, per motivi di vendetta e al fine di scaricare la propria rabbia e non, come gli imputati hanno dichiarato, per auto-difesa”.

In origine in questo processo erano sotto accusa quattro persone, tra cui due civili. I civili nel 2018 hanno sottoscritto un patteggiamento che ha declassato l’accusa da “procurate lesioni con grave dolo” (che comporta un potenziale carcere di 20 anni) ad “abuso su incapace”. Uno di loro è stato condannato a quattro mesi di prigione e l’altro ha ricevuto 100 giorni di servizio comunitario e otto mesi di libertà vigilata e gli è stato ordinato di pagare un risarcimento di 2000 shekel [circa 470 euro] alla famiglia di Zarhum.

Ma gli agenti di sicurezza non hanno richiesto un patteggiamento, si sono dichiarati non colpevoli e hanno ottenuto l’assoluzione dal giudice.

Il giudice Aharon Mishnayot ha una lunga esperienza come consulente legale e giudice militare (dal 1990, giudice dal 1998), e ha trascorso l’ultima fase della sua carriera militare dal 2007 al 2013 come primo giudice dei tribunali militari nella Cisgiordania occupata.

Il giudice ha dichiarato che, dopo aver visto le prove era “certo che gli imputati fossero convinti che il defunto fosse uno dei tanti terroristi”, che gli attacchi (soprattutto da parte di lupi solitari) all’epoca avevano “creato tra la gente un’atmosfera di paura e panico” e che non poteva “ignorare il collegamento di quanto accaduto ai frequenti eventi terroristici succedutisi in quei giorni nello Stato prima del fatto in questione e le implicazioni che tutto ciò poteva avere sullo stato di sensibilità delle persone coinvolte”.

Ma gli imputati non stavano rispondendo a una minaccia alla sicurezza in quanto tale. Stavano agendo per vendetta. Il giudice suggerisce quindi che la mera vendetta nei confronti degli attacchi palestinesi sia una circostanza attenuante.

Di fronte all’affermazione dell’accusa secondo cui gli imputati erano in grado di distinguere tra “neutralizzare un terrorista, o tale in apparenza, e aggredire una persona innocente”, il giudice ha aggiunto di avere “paura che tale valutazione sia giusta nel contesto di una condizione utopica, in cui si possa facilmente distinguere tra bene e male e tra amico e nemico, ma sia in contrasto con la realtà effettiva e con il mondo reale e non rifletta correttamente le complesse circostanze della difficile situazione in cui sfortunatamente le persone nella stazione centrale, compresi gli imputati, si sono trovate la sera dell’assalto.

Quindi gli autori del linciaggio, e in particolare gli agenti di sicurezza, sarebbero semplicemente stati, secondo il giudice, essi stessi delle vittime, vittime di una “sfortunata circostanza”.

Ma che dire di Zarhum? Non è stato forse lui la vittima e in maniera più agghiacciante di questa “sfortunata congiuntura”? E gli autori del linciaggio non sono stati particolarmente determinanti perché questa congiuntura letale si verificasse? Dopotutto era solo un passante, ucciso per il colore della sua pelle.

E cosa accadrebbe se dei palestinesi, ad esempio, si comportassero come hanno fatto gli imputati?

Alma Bilbash [esponente dell’organizzazione Human Rights Defenders Fund, ndtr.] ha citato un caso paragonabile sulla sua pagina Facebook: nel 2005 un soldato israeliano, Eden Nathan Zada, ha aperto il fuoco su un autobus nel villaggio palestinese-israeliano di Shefa-Amr, uccidendo quattro [viaggiatori] e ferendone dodici. Dopo essere stato catturato e ammanettato, è stato picchiato a morte dalla folla. Quindi qui abbiamo a che fare con un vero e proprio attacco terroristico, con conseguente linciaggio del terrorista.

Mettiamo da parte la struttura asimmetrica del potere dei palestinesi in Israele nel confronto con lo Stato ebraico. Alla fine, sei palestinesi con cittadinanza israeliana sono stati condannati, quattro per tentato omicidio colposo, due per percosse aggravate. Tre di loro sono stati condannati a due anni di prigione, gli altri a 20, 18 e 11 mesi di prigione.

Orly Noy [redattrice di Local Call, sito israeliano di notizie politiche, e attivista dell’Ong B’Tselem, ndtr.] cita nel suo post di Facebook un altro parallelo, il caso del 2015 di Shlomo Haim Pinto, un ebreo israeliano che, in seguito ad una “chiamata spirituale” ha preso la decisione di pugnalare un palestinese in un supermercato, ma ha scambiato Uri Razkan, ebreo mizrahi [cioè originario di un Paese arabo o musulmano, ndtr,], per un palestinese, lo ha pugnalato e gli ha causato ferite leggere. Pinto è stato condannato a 11 mesi di carcere.

Noy chiarisce che Pinto è andato in prigione solo perché la sua vittima era ebrea. Se Razkan non fosse stato ebreo, è possibile presumere che il giudice Mishnayot del caso Zarhum avrebbe assolto Pinto a causa di “ragionevoli dubbi”. Lei riassume così la “piramide della razza dominante”:

Se sei un uomo dalla pelle scura, ti trovi, per definizione, in un gruppo a rischio. Il colore della tua pelle ti segnala come bersaglio. Se sei ebreo e il tuo assassino è in uniforme, otterrai una copertura mediatica, ma dimenticati la giustizia o una condanna. Se non sei ebreo e il tuo assassino indossa l’uniforme, ringrazia se non verrai dichiarato terrorista post mortem. Se sei ebreo e il tuo aggressore non è un ebreo in uniforme, c’è la possibilità che paghi per le sue azioni. Se non sei ebreo e il tuo assalitore è un ebreo non in uniforme, la tua famiglia otterrà 2000 shekel [505 euro, ndtr.] per il tuo funerale. Se sei palestinese, indipendentemente dal fatto che il tuo assassino indossi l’uniforme o meno, stai sicuro che verrai dichiarato terrorista dopo la tua morte”.

Nel commentare il verdetto di ieri, l’avvocato di Ronen Cohen, Zion Amir, ha affermato che Cohen è un eroe:

Non c’è dubbio che questo è un grande giorno per un ufficiale che ha agito eroicamente durante l’accaduto, e invece di un premio ha ottenuto un atto d’accusa. Sono contento che il tribunale lo abbia assolto dopo una battaglia legale di quasi cinque anni “.

Cohen non sarebbe l’unico eroe nell’uccisione di Hafton Zarhum. Il soldato e compagno imputato Yaakov Shimba, secondo il generale israeliano (riservista) Gershon Hacohen, avrebbe meritato per il suo comportamento una medaglia d’onore. Hacohen ha testimoniato nel processo due anni fa e pur ammettendo di non aver nemmeno letto le accuse ha affermato che processare il soldato fosse “immorale” e che il soldato fosse “degno di rispetto” poiché “non ha sparato un proiettile”. (nemmeno l’assassino di George Floyd, Derek Chauvin, osserva Edith Breslauer su Facebook.)

Un altro generale che ha testimoniato nel 2018, Dan Biton, ha affermato che il soldato avrebbe agito “con calma” anche quando ha maledetto Zarhum.

“Proveniva dalla Golani (brigata di fanteria), quindi non ho bisogno di aggiungere altro. Se fosse appartenuto all’Armeria non sarebbe stato così. È la calma (nel maledire) che è tipica di quelli della Golani. Chi proviene dalla Golani maledice istintivamente. Alla fine, dopo aver verificato lo svolgersi dettagliato dei fatti, ha agito con calma”.

Immaginate come sarebbe andata se Shimba avesse avuto una brutta giornata. Per il generale Biton è stata una buona giornata, dopo tutto.

Non c’è alcun dubbio che Haftom Zarhum sia stato linciato. Non vi è certamente alcun dubbio che i due imputati abbiano svolto un ruolo decisivo nel suo linciaggio. Ma poiché sospettavano che Zarhum fosse un terrorista, sebbene non lo avessero visto ammazzare neanche una mosca né rappresentare alcun tipo di pericolo per loro, in realtà era innocuo, la loro sanguinaria vendetta era “ragionevole”. Ecco cos’è il “ragionevole dubbio”, nella neolingua israeliana.

Un particolare ringraziamento a Ofer Neiman [impegnato attivista israeliano a favore dei diritti civili dei palestinesi, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 30 giugno – 13 luglio 2020

In Cisgiordania, il 9 luglio, nei pressi del villaggio di Kifl Haris (Salfit), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese di 33 anni e ferendone un altro.

Fonti ufficiali israeliane hanno riferito che i soldati hanno aperto il fuoco contro due palestinesi visti lanciare una bottiglia incendiaria contro una postazione militare; uno dei due è stato ferito, mentre l’altro è fuggito. Successivamente il ferito [forse già morto] è stato prelevato da un’ambulanza palestinese. Fonti palestinesi hanno affermato che l’uomo rimasto ucciso era un passante. Le autorità israeliane hanno aperto un’indagine. Questo episodio porta a 17 il numero di palestinesi uccisi in Cisgiordania dalle forze israeliane dall’inizio del 2020. Un altro palestinese è stato colpito e ferito da forze israeliane durante scontri scoppiati dopo il funerale dell’uomo ucciso. Un cancello all’ingresso principale di Kifl Haris, che era stato chiuso il giorno prima dell’accaduto, è rimasto chiuso fino al 12 luglio, ostacolando gli spostamenti degli oltre 4.300 residenti [palestinesi].

Sempre in Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 72 palestinesi [segue dettaglio]. Quaranta di questi feriti si sono avuti durante operazioni di ricerca-arresto condotte nella città di Abu Dis (Gerusalemme), nel quartiere di Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est) e nella città di Nablus. Complessivamente, in tutta la Cisgiordania, ci sono state 150 operazioni di questo tipo, il 30% delle quali compiute a Gerusalemme Est e dintorni. Altri 30 feriti sono stati segnalati durante varie proteste contro attività riferibili a coloni: ad ‘Asira ash Shamaliya (Nablus), contro la creazione di un nuovo avamposto colonico in prossimità del villaggio; a Biddya (Salfit) per protestare contro i continui attacchi ad agricoltori (vedi sotto); a Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro le restrizioni di accesso di lunga data e contro l’espansione degli insediamenti colonici nell’area. Nella città di Hebron, un palestinese è rimasto ferito durante una protesta contro il Piano di annessione previsto da Israele, e un altro è stato ferito nel governatorato di Tulkarm, ad un checkpoint della Barriera. Tre dei ferimenti sono stati provocati da proiettili di arma da fuoco; i rimanenti sono da attribuire ad inalazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma ed aggressioni fisiche.

Durante il periodo di riferimento, quasi ogni giorno e per diverse ore, uno dei principali checkpoint che controllano l’accesso all’Area riservata della città di Hebron è rimasto chiuso, ostacolando l’accesso dei residenti palestinesi ai servizi di base dislocati in altre parti della Città. Le chiusure sono state attuate durante e dopo le quasi quotidiane proteste anti-annessione e successivi scontri avvenuti vicino al checkpoint (al di fuori dell’Area riservata). Queste restrizioni hanno esacerbato il contesto coercitivo imposto agli oltre 1.000 palestinesi che vivono in questa area della città di Hebron, dove sono stati costituiti insediamenti israeliani dedicati.

Il 5 luglio, un gruppo armato palestinese ha lanciato tre missili contro la regione meridionale di Israele; a seguito del lancio, forze [aeree] israeliane hanno attaccato la postazione di un gruppo armato e diverse aree aperte di Gaza. Non ci sono state vittime da ambo le parti; tre case ed una fattoria palestinesi sono state danneggiate dai raid aerei israeliani.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso sia ad aree [interne alla Striscia, ma] prossime alla recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 18 occasioni. Non sono stati registrati feriti, ma, in un caso, le forze navali israeliane hanno arrestato quattro pescatori e confiscato due barche; successivamente i pescatori sono stati liberati. Inoltre, in due casi, le forze israeliane hanno arrestato due palestinesi che stavano tentando di entrare in Israele: uno attraverso la recinzione e l’altro dal mare. In tre casi, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione.

Per mancanza di permessi di costruzione israeliani, sono state demolite o sequestrate trentuno strutture di proprietà palestinese, sfollando 13 persone e intaccando il sostentamento di oltre 100 altre [segue dettaglio]. Nella valle del Giordano, nella Comunità beduina palestinese di Fasayil, le autorità israeliane hanno demolito 12 abitazioni e strutture di sostentamento ad utilizzo stagionale. Quattro delle strutture colpite erano situate in quattro Comunità beduine, interne o attigue ad un’area destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adumim (Piano E1). Due strutture della Comunità di At Taybeh (Hebron), anch’esse in Area C, sono state demolite sulla base di un “Ordine militare 1797”, che prevede la rimozione accelerata di strutture prive di licenza, in quanto ritenute “nuove”. Nove strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui due nel quartiere di Al ‘Isawiya; qui, il 19 febbraio 2020, il Comune di Gerusalemme aveva annunciato un arresto semestrale delle demolizioni.

In due località situate nell’Area C del governatorato di Hebron, le forze israeliane hanno spianato con bulldozer terreni agricoli, con la motivazione che l’area è designata [da Israele] come “terra di Stato” [segue dettaglio]. Ad Al Baq’a, vicino alla città di Hebron, 0,4 ettari di colture stagionali e un muro di sostegno sono stati distrutti con bulldozer, mentre vicino alla città di Sair sono stati sradicati 70 ulivi.

Cinque palestinesi sono stati feriti e decine di alberi e veicoli sono stati vandalizzati da coloni israeliani. Tutti i ferimenti si sono verificati in due episodi accaduti nel villaggio di Biddya (Salfit), quando coloni hanno attaccato agricoltori al lavoro sulla propria terra: tre sono stati colpiti con armi da fuoco, uno è stato aggredito fisicamente e un altro è stato morso da un cane sguinzagliato da coloni. Nel villaggio di Burin (Nablus) sono stati incendiati decine di ulivi, mentre alcuni altri sono stati sradicati nella Comunità di As Seefer (Hebron), situata in un’area chiusa, dietro la Barriera. Coloni israeliani hanno anche fatto irruzione nel villaggio Al Lubban ash Sharqiya (Nablus) dove hanno vandalizzato 12 veicoli.

Secondo una ONG israeliana, quattro israeliani, incluso un minore, che viaggiavano su varie strade della Cisgiordania, sono stati colpiti e feriti con pietre; un totale di 19 veicoli israeliani avrebbero subito danni a causa del lancio di pietre ed uno a causa del lancio di una bottiglia incendiaria da parte di palestinesi.

277

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




L’occupante israeliano teme una possibile riconciliazione palestinese

Adnan Abu Amer

11 luglio 2020 – Chronique de Palestine

I recenti incontri tra i rappresentanti di Fatah e di Hamas hanno ricevuto ampia copertura da parte dei media israeliani.

Queste riunioni sono fonte di grande inquietudine se servono a garantire al movimento Hamas una copertura politica e relativa alla sicurezza nella Cisgiordania occupata, consentendogli di riprendere le azioni di resistenza contro Israele. Soprattutto se l’Autorità palestinese pone fine alla persecuzione del movimento di resistenza islamica…

L’ultimo incontro a distanza si è svolto tra Jibril Rajoub, segretario generale del Comitato Centrale di Fatah ed ex capo della Forza di Sicurezza preventiva (dell’Autorità Nazionale Palestinese, o ANP), e Saleh Al-Arouri, vice-responsabile dell’ufficio politico di Hamas, che Israele presenta come “l’ideatore degli attacchi armati in Cisgiordania”.

Gli israeliani ritengono che questa riunione abbia dato semaforo verde ad Hamas per agire in Cisgiordania, anche se Mahmoud Abbas [presidente dell’ANP, ndtr.] non auspica il ritorno della resistenza armata.

Quello tra Rajoub- Al-Arouri è stato seguito da un altro incontro, tra Ahmed Helles, responsabile di Fatah per le questioni di Gaza, e Husam Badran, responsabile delle relazioni nazionali di Hamas. L’occupante israeliano teme che ciò sia il segnale della fine della situazione relativamente sotto controllo sul terreno.

Negli ultimi dieci anni si è assistito a parecchi incontri tra Fatah e Hamas e a tanti abbracci, sorrisi e strette di mano. In quasi tutte queste occasioni – troppo numerose per contarle – si è sentito affermare da Gaza, dal Cairo, da Beirut, da Doha e da Mosca, come da altri luoghi mantenuti segreti, che si è aperta una nuova pagina nelle loro relazioni. Tuttavia il punto comune di tutti questi annunci è che non hanno dato alcun risultato.

Questa volta ci si può aspettare qualcosa di diverso?

Non abbiamo altro nemico che Israele”

A proposito di queste recenti riunioni, gli israeliani hanno notato due novità: 1) né Rajoub né Al-Arouri hanno fatto dichiarazioni pubbliche sulla fine delle divisioni, la formazione di un governo di unità o l’indizione di nuove elezioni; 2) chi ha spinto i vecchi dirigenti a riprendere i colloqui è stato Israele.

Dal punto di vista israeliano, durante la conferenza stampa successiva alla riunione l’ANP ha avuto un chiaro obbiettivo, e non si è trattato di una riconciliazione con Hamas. Ha inteso solo contrariare Israele dopo aver messo fine al coordinamento in materia di repressione. Ma dare semaforo verde a Hamas per agire in Cisgiordania è la tappa successiva della campagna contro l’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr.].

Certo non l’hanno detto così, ma era questa la conclusione, dopo che si sono ascoltate espressioni come “una lotta comune sul terreno”. Rajoub ha dichiarato: “Non abbiamo altro nemico che Israele” e Al-Arouri è parso felice di questo annuncio ed ha chiamato ad una lotta comune in Cisgiordania.

Nonostante tutti questi aspetti, gli israeliani sono convinti che Abbas si atterrà alla sua politica di opposizione alla lotta armata. Si può immaginare che non voglia davvero vedere le bandiere verdi di Hamas sventolare ad ogni angolo di strada nel territorio palestinese sotto occupazione…

Tuttavia, quando Rajoub parla di Hamas in termini di lotta comune contro il piano israeliano di annessione, e seduto virtualmente accanto alla persona responsabile della creazione dell’infrastruttura militare di Hamas in Cisgiordania, corre il rischio di “cavalcare la tigre”. Questo incontro tra Fatah e Hamas può avere conseguenze immediate sulla volontà di quest’ultimo di condurre attacchi di resistenza armata nei territori occupati.

Semaforo verde” per il movimento Hamas nella Cisgiordania occupata?

Quanto ai dibattiti in Israele, essi insistono sul fatto che l’incontro tra Rajoub e Al-Arouri è il segnale di un partenariato tra Fatah e Hamas. Una simile cooperazione inquieta al massimo grado gli israeliani perché, per quanto limitata possa essere, resta un elemento di primaria importanza per il loro Paese. La velocità con cui è stato raggiunto l’accordo tra i due movimenti ha sorpreso i servizi di sicurezza israeliani, anche se non avevano escluso questa possibilità dal momento in cui Benjamin Netanyahu ha annunciato il suo piano di annessione.

Gli israeliani non prestano molta attenzione a ciò che viene detto durante le conferenze stampa palestinesi organizzate congiuntamente da Fatah e Hamas, poiché quel che conta è ciò che avviene sul terreno. Tutto dipende quindi dal possibile annuncio da parte dell’ANP che non fermerà i membri di Hamas e li lascerà agire liberamente in Cisgiordania.

Parlando di queste riunioni tra Fatah e Hamas, gli israeliani rivelano alcune informazioni importanti relativamente ai partecipanti. Rajoub, per esempio, è uno dei principali aspiranti alla successione di Abbas, e si è alleato con l’ex capo dei servizi di informazione, Tawfik Tirawi, e con il nipote di Yasser Arafat, Nasser Al-Qudwa.

Recentemente si è anche in parte riconciliato con il suo antico rivale Mohammed Dahlan, che è stato cacciato dalla Palestina occupata e vive in esilio a Abu Dhabi e in Serbia, da dove cerca continuamente di conquistarsi amicizie ed influenza tra le fila di Fatah.

Sempre secondo quanto si discute in Israele, Rajoub non è il prescelto di Abbas per la sua successione, né quello dell’ANP. Tuttavia il capo dell’ANP ha scelto Rajoub per coordinare le proteste contro i piani di annessione israeliani, e Rajoub si presenta anche come il solo uomo di Fatah in grado di raggiungere un accordo con Hamas.

Del resto, il fratello di Rajoub, Sheikh Nayef Rajoub, è un alto dirigente di Hamas in Cisgiordania.

Al-Arouri è un uomo molto astuto e di grande acume ed ha subito capito i vantaggi di un incontro con Rajoub. Ora è convinto che Hamas sarà in grado di organizzare grandi manifestazioni in Cisgiordania, cosa che Fatah non è stata capace di fare. I militanti di Hamas non rischieranno un arresto da parte delle forze di repressione dell’ANP e potranno riunirsi, almeno nei circoli politici.

Secondo l’interpretazione israeliana, le riunioni tra Fatah e Hamas potrebbero creare una situazione positiva per la resistenza sulla scena palestinese, dato che gli scontri tra i dirigenti dei due movimenti sarebbero sostituiti da un coordinamento e da garanzie reciproche. È davvero l’ultima cosa che Israele si augura….

Adnan Abu Amer dirige il dipartimento di scienze politiche e di mezzi di comunicazione dell’università Umma Open Education di Gaza, dove tiene corsi sulla storia della causa palestinese, la sicurezza nazionale e Israele. È titolare di un dottorato in storia politica all’università di Damasco e ha pubblicato parecchi libri sulla storia contemporanea della causa palestinese e del conflitto arabo-israeliano. Lavora anche come ricercatore e traduttore per centri di ricerca arabi ed occidentali e scrive regolarmente su quotidiani e riviste arabi.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




‘Un regime illegittimo’: un’importante organizzazione per i diritti umani svela i miti israeliani e riconosce l’esistenza dell’apartheid

Amjad Iraqi

9 luglio 2020 – +972 Magazine

Nel corso di un’intervista approfondita, Michael Sfard, avvocato per i diritti umani, spiega cosa abbia portato Yesh Din ad accusare Israele del crimine di apartheid in Cisgiordania

Vent’anni fa, quando Michael Sfard era un promettente avvocato per i diritti umani, si era energicamente opposto alla parola “apartheid” per descrivere il dominio militare di Israele su Cisgiordania e Striscia di Gaza. Sebbene fosse un critico feroce dell’occupazione che ha dedicato la carriera a difendere i diritti dei palestinesi, aveva detto a se stesso che “le parole contano,” e che l’occupazione, seppure profondamente ingiusta, era una struttura solo temporanea che poteva essere ribaltata con il contributo del diritto

Anni dopo, Sfard — ora un famoso avvocato — ha radicalmente cambiato opinione.

In quello che potrebbe passare alla storia come un momento significativo del dibattito pubblico israeliano, giovedì Yesh Din [“C’è la legge”, associazione israeliana che intende difendere i diritti dei palestinesi nei territori occupati, ndtr.], un’ONG per i diritti umani,   ha diffuso un dettagliato parere legale, stilato principalmente da Sfard, consulente legale dell’organizzazione, che afferma che l’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele, che dura da 53 anni, costituisce un “regime di apartheid.”

Esaminandone lo sviluppo, dal dominio della minoranza bianca in Sudafrica alla sua definizione contenuta nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, si asserisce che Israele sta commettendo il crimine internazionale di apartheid tramite “oppressione e dominazione sistematiche” di un gruppo su un altro nel territorio “con l’intenzione di mantenere quel regime.”

Yesh Din avrebbe detto fino ad ora che alcune politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma adesso stiamo dicendo che il regime è illegittimo,” ha detto Sfard in un’intervista esclusiva a +972. Egli sostiene che lo scopo del parere giuridico “è di cambiare il dibattito interno in Israele e di non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma come di un crimine illegale.”

Anche se l’analisi si concentra principalmente sulla Cisgiordania, Yesh Din sottolinea che con ciò non esclude affatto la tesi secondo cui “il crimine di apartheid sia commesso solo in Cisgiordania. Che il regime israeliano nel suo complesso sia un regime di apartheid. Che Israele sia uno Stato in cui vige l’apartheid.”

Questo cambiamento radicale è rappresentativo di un’opinione che sta crescendo fra gli ebrei-israeliani critici di quello che i palestinesi hanno da tempo diagnosticato a proposito della loro oppressione. Sebbene la recente spinta del governo israeliano verso un’annessione formale abbia consolidato la discussione internazionale circa l’apartheid israeliano, Sfard dice che il parere legale fa parte di un processo più lungo per riconoscere che “la bestia che stiamo affrontando deve essere descritta per quello che è,” a prescindere dall’annessione.

L’intervista è stata modificata e abbreviata per renderla più chiara.

Cominciamo con delle domande ovvie: Perché adesso? Qual è stato il processo mentale che ha portato al parere giuridico?

Le mie riflessioni personali sull’argomento sono cominciate alcuni anni fa quando sono andato a New York per scrivere il mio libro [The Wall and the Gate: Israel, Palestine and the Legal Battle for Human Rights,  Metropolitan Books, 2018, ndtr.]. Una delle cose con cui mi trovavo alle prese era la sensazione che il paradigma di “occupazione” non potesse sostenere tutto il peso della realtà sul terreno. Anche se ovviamente esiste un’occupazione, e il concetto legale di occupazione belligerante spiega alcune delle cose che vediamo, c’è molto di più che non spiega.

Yesh Din opera in Cisgiordania da 15 anni e ha imparato a conoscere molto profondamente le caratteristiche del governo in quella zona in tutte le sue sfaccettature — il quadro giuridico, le politiche, le pratiche, le cose fatte ma non dette.

La nostra sensazione era che ci fosse bisogno di dare un nome alla ‘bestia’ che ci troviamo di fronte, che deve essere descritta per quello che è. L’apartheid come concetto giuridico è, per ragioni ovvie, la prima scelta, sebbene ci sia voluto un po’ prima che avessimo tempo e risorse per condurre l’analisi. Questa è una discussione che noi non abbiamo né iniziato né finito, ma è una voce in più che si spera dica cose che arricchiranno la discussione.

Personalmente, io ho sentito per la prima volta il concetto di “apartheid” in riferimento alla presenza israeliana in Cisgiordania, e al conflitto in generale, nei primi anni del 2000 durante la Seconda Intifada e la costruzione del muro di separazione. Devo dire che la mia reazione iniziale è stata di totale opposizione all’uso della parola — non ogni omicidio è un genocidio e non ogni discriminazione istituzionale è apartheid.

Ma nel mio intimo non ero così sicuro di me: l’attrazione verso l’uso del concetto mi tormentava. Così ho iniziato a studiare l’apartheid nei suoi diversi aspetti, incluso quello legale, e a visitare il Sudafrica. 

Yesh Din sembra avere un approccio diverso da quello dell’ONG B’Tselem: nel 2016, B’Tselem ha dichiarato che avrebbe smesso di sporgere denunce alle autorità militari israeliane perché facesse delle indagini, il che sembra dare loro una parziale maggiore libertà nell’essere più espliciti circa la natura dell’occupazione.

Anche se Yesh Din accetta molte delle critiche di B’Tselem, voi avete ancora dei procedimenti pendenti in tribunali israeliani e non interromperete le vostre azioni legali. Che influsso ha la posizione di Yesh Din riguardo all’apartheid sul vostro lavoro legale? Vi aspettate delle conseguenze da parte delle autorità, inclusi i tribunali?

Le autorità israeliane non hanno bisogno che noi diciamo cose radicali per dare il via a delle ritorsioni contro di noi — è qualcosa che viene fatto anche quando noi abbassiamo i toni. Anzi io ho la sensazione che sia vero il contrario: noi stiamo dicendo quella che pensiamo sia la verità in modo ragionato con una relazione esauriente. Si può essere d’accordo o no, ma presenta le argomentazioni e costruisce il caso basandosi sui dati, i precedenti e l’analisi giuridica.

Se alcune parti del sistema giudiziario si offenderanno ci sarà almeno un po’ di rispetto per il modo professionale in cui conduciamo la nostra lotta. Io non penso che un singolo caso legale (presentato da Yesh Din) sarà danneggiato dal fatto che noi stiamo dicendo cose che sono sgradevoli da sentire. Se ci sono funzionari e giudici le cui decisioni ne saranno influenzate, si tratterà di critiche secondarie. Quindi ciò non ci preoccupa affatto.

Non dimentichiamo che questo non è un rapporto sulla magistratura o sui giudici, ma sul sistema che si è creato durante gli anni. La “musica” del rapporto è che noi [israeliani] siamo tutti responsabili dell’apartheid, che io sono responsabile. Questa è una sfumatura importante. Non lo sto guardando dal di fuori, e tutte le mie controparti nell’ufficio del Procuratore Generale, nel Ministero della Giustizia o fra i giudici sanno che questa è la mia identità e coloro che sono onesti la rispetteranno.

Detto ciò, stiamo discutendo di qualcosa che ha enormi implicazioni. Fino ad ora, Yesh Din ha detto che politiche specifiche sono illegali o persino che sono crimini di guerra, ma ora noi parliamo di un regime che è illegittimo.

E così la domanda che ci si ritorce contro è questa: cosa fare se è un regime di apartheid? Continuare a stare all’“opposizione” — qualcuno che si oppone alle politiche del regime — o diventare “dissidenti” — qualcuno che si oppone al regime stesso? E seguire il cammino della “giustizia” che il regime illegittimo ci offre?

Per rispondere devo ricorrere ai miei “antenati” in Sudafrica. Gli avvocati nel regime di apartheid in Sudafrica non smisero mai di andare in tribunale perché i neri chiedevano loro di andarci. La decisione di andare in tribunale o di boicottarlo non sta a me, ma ai palestinesi. Fino a quando i palestinesi vogliono che noi li rappresentiamo, noi non abbiamo il diritto di rifiutare basandoci sull’affermazione che “noi ne sappiamo di più.”

Va certamente bene ammettere che gli avvocati e le ONG non possono guidare la lotta. Detto ciò, c’è ancora un dilemma davanti a cui si trovano persino le organizzazioni palestinesi, cioè che talvolta possono sentirsi colpevoli per aver detto ai clienti palestinesi che hanno una possibilità, seppure piccola, di vincere.

Come trova il confine fra l’identificare l’occupazione come un regime di apartheid, e perciò senza aspettarsi di ottenere nulla di quello che spera, e tuttavia andare avanti?

Niente ha cambiato le prospettive di vittoria o successo (che sono due cose diverse) da quando ho scritto la relazione. Era lo stesso regime anche prima. Nei miei rapporti con i clienti, io cerco di essere chiaro suIla montagna che stiamo scalando e quello che ci si può, o non può, aspettare.

Allo stesso tempo, si deve riconoscere il fatto che i palestinesi non vanno via dal tribunale completamente a mani vuote. I tribunali sono un’istituzione in cui i palestinesi talvolta ottengono risarcimenti — di solito non con decisioni favolose, ma piuttosto nel processo che li trasforma da individui completamente trasparenti e senza importanza in soggetti di un contenzioso. Solo quando “si rivolgono a un avvocato” e vanno in tribunale diventano “qualcuno” (agli occhi delle autorità).

Ci sono anche delle vittorie, come nel recente caso sollevato a proposito della Legge per la Regolarizzazione (che cerca di legalizzare tantissimi insediamenti israeliani e “avamposti” e annullata lo scorso mese dalla Corte Suprema).

Avevamo un grosso dilemma quando alcuni anni fa abbiamo presentato la denuncia. C’erano delle persone che ci hanno detto: “Non presentate alcuna petizione… lasciate che il governo ne paghi le conseguenze.” Ma secondo me c’erano decine di migliaia di persone che stavano per perdere le loro terre e volevano che noi li rappresentassimo. Così, avendo una possibilità di vincere per loro, non ho detto di no per ottenere un vantaggio ipotetico. E per come va il mondo oggi, mi chiedo quale contromossa avrebbe tirato fuori il governo per mettere in pratica la Legge per la Regolarizzazione.

Dopo la nostra conclusione che questo è un regime di apartheid non sarà più “tutto come prima”. L’analisi sull’apartheid finirà nelle nostre memorie giudiziarie e cause. È nostra intenzione cambiare il dibattito interno israeliano e non parlare più della nostra presenza in Cisgiordania come di un’occupazione temporanea, ma piuttosto di un crimine di illegittimità.

Questo rispecchia il dibattito sull’uso della “legge dell’oppressore,” un dibattito che anche i sudafricani hanno avuto. Quali altre lezioni ha ricavato dagli avvocati sudafricani su come sfidare l’apartheid?

Noi (in Israele-Palestina) siamo in una posizione peggiore rispetto al movimento anti-apartheid in Sudafrica.

Primo, noi qui abbiamo due movimenti separati per porre fine all’apartheid in Israele: uno israeliano, l’altro palestinese. In Sudafrica c’era un movimento ed era guidato dagli oppressi. Questo è un grosso problema, perché gli israeliani hanno più potere, più privilegi, più diritti e sono molto meno vulnerabili rispetto ai palestinesi.

Secondo, c’è la posizione internazionale israeliana rispetto a quella del Sudafrica. Ma negli ultimi dieci anni abbiamo visto quasi una rivoluzione nella società civile internazionale a proposito del conflitto. Persino negli Stati Uniti, persino nella comunità ebraica americana si può vedere questo cambiamento. La nostra relazione e la nostra campagna di sensibilizzazione mirano ad accelerare questo cambiamento, per contribuire a far capire alla comunità internazionale che deve far pressione su Israele per fermare l’apartheid.

Per anni molti avvocati, ONG e attivisti palestinesi hanno offerto un’ampia analisi, professionale e legale, accusando Israele del crimine di apartheid, inclusa la recente denuncia alla Corte Penale Internazionale.

Tuttavia è probabile che l’opinione di Yesh Din riceverà molta più attenzione perché questa è un’organizzazione israeliana e forse verrà presa più seriamente nei circoli che contano all’estero. Ai palestinesi potrebbe sembrare provocatorio perché, anche se noi siamo spesso felici che escano tali rapporti, c’è anche una strana sensazione quando si vede che il nostro lavoro è valutato in modo così diverso.

Lei prima ha parlato di un suo rifiuto iniziale per il termine apartheid: pensa che sia lo stesso per altri avvocati e organizzazioni ebraico-israeliane? Perché pensa che ci sia voluto così tanto ad essere d’accordo con quello che molti palestinesi hanno detto?

Si tratta di negazionismo. Ma è anche importante notare che noi israeliani viviamo in condizioni di totale lavaggio del cervello a causa del dibattito, dei leader e dei media. E mentre noi (israeliani di sinistra) mettiamo in discussione molte cose e abbiamo una nostra identità in quanto critici, siamo pur sempre nati in questo contesto.

Io stesso sono nato a Gerusalemme Ovest nel 1972 e l’ebraico è la mia lingua madre. Sono cresciuto con il sistema scolastico israeliano e sono andato sotto le armi fino a quando non sono diventato un refusenik [chi rifiuta di prestare servizio nei territori occupati, ndtr.]. Ho assorbito il punto di vista israeliano per tutta la mia vita e cosi hanno fatto i miei amici e colleghi.

Noi siamo stati accecati dalla narrazione israeliana e c’è voluto del tempo per renderci conto che gli argomenti che ogni israeliano ripete — come “noi non vogliamo controllare i palestinesi,” o “noi vogliamo che siano padroni del proprio destino,” o “noi faremo un accordo quando avremo una controparte nei negoziati” — sono tutte menzogne. Il mito particolarmente potente durante gli anni di Oslo era che gli israeliani volevano porre fine al “dominio non voluto” sui palestinesi. Ci vuole del tempo per rendersi conto che non è vero — che questo fa tutto parte di un’impresa di dominazione, e per interiorizzare la nostra supremazia.

Anche la sinistra israeliana, per quanto piccola, è cambiata, in parte perché oggi include molti palestinesi. Alle superiori io ero un attivista di sinistra, ma non ho mai lavorato al fianco dei palestinesi, neppure con i palestinesi (cittadini) israeliani.

Oggi non è possibile lavorare su questo tema senza i palestinesi. La loro comprensione del conflitto ha arricchito noi attivisti ebrei, inclusi quelli di gruppi come Yesh Din e B’Tselem. Io non vedrò mai la realtà come la vedete voi, posso solo cercare di capire meglio cosa vedete voi, e viceversa.

La relazione non esclude la possibilità di identificare l’apartheid in altre parti della realtà dello Stato di Israele. Eppure, ciò afferma che i regimi in Cisgiordania e dentro Israele possono ancora essere visti come distinti, e forse in un “processo di unificazione.”

Comunque, le basi dell’occupazione non derivano solo dalle leggi principali di Israele, ma erano state presenti fin dall’inizio dentro lo Stato in quanto governo militare imposto ai cittadini palestinesi di Israele dal 1948 al 1966. Quindi il regime del ’67 può essere considerato separato da quello del ’48 o ne è piuttosto un’estensione o una continuazione?

Quando ho cominciato a studiare il crimine di apartheid a livello internazionale, mi ha immediatamente colpito che sia un crimine di regime. Ma il diritto internazionale non definisce cosa sia un regime, per cui ci si deve rivolgere ad altre discipline per scoprirlo.

Con mio grande stupore, “regime” è una nozione dotata di flessibilità. È la totalità delle autorità pubbliche che hanno poteri, leggi e regolamenti normativi, politiche, prassi, e così via. Guardando ad una certa area geografica con lenti diverse e usando decisioni diverse, si possono trovare regimi diversi.

Per esempio, possiamo guardare a tutta la zona fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo con una bassa risoluzione e vedere che c’è un potere politico che crea e porta avanti le proprie decisioni. Ma si può anche guardarlo con un’alta risoluzione, e scoprire che, all’interno di quel territorio, ci sono nuclei distinti di autorità, politiche e pratiche pubbliche nelle diverse zone.

Quando si guarda con una lente di ingrandimento l’occupazione militare in Cisgiordania è un regime distinto. Non esclude un’analisi diversa da un punto di osservazione posto più in alto, ma ci sono complessità (dentro Israele) che non si trovano in Cisgiordania.

Per esempio, il regime può essere classificato come di apartheid quando il gruppo inferiore ha il diritto politico di votare e di candidarsi al governo (come i cittadini palestinesi in Israele)? Io penso che si possa se quei diritti sono completamente diluiti e resi privi di significato. Non so se in Israele sono tali, ma in merito ci sono molte opinioni legittime.

Noi di Yesh Din abbiamo fatto la scelta di concentrarci sulla Cisgiordania come nostra area di competenza e di cui ci occupiamo. Ma per noi è importante dire che ciò non esclude altre analisi che possono essere condotte in parallelo. Noi ci rendiamo conto che c’è un costo o rischio guardando solo a un segmento della politica israeliana, quindi il nostro modo di affrontare quel rischio è di riconoscerlo e dirlo con chiarezza.

C’è una sezione del documento che dice: “sebbene l’origine [dell’apartheid] sia storicamente connessa al regime razzista in Sudafrica, ora è un concetto legale indipendente con una sua propria vita che può esistere senza essere basato su un’ideologia razzista.”

Devo confessare che, leggendolo, il mio primo pensiero è stato che, almeno non intenzionalmente, si dissociasse l’obiettivo politico della supremazia ebraica — o per essere franchi, del sionismo — dalle strutture istituzionali israeliane. Può chiarire la riflessione che sta dietro quella affermazione?

Uno dei problemi che ho incontrato quando ho sottoposto le mie idee a degli israeliani è che l’apartheid, per quelli che sanno cos’è, è visto come parte di un’ideologia razzista come quella dei nazisti: che alcuni hanno tratti biologici o genetici che scientificamente li rendono inferiori agli altri.

Dato che la Convenzione contro l‘apartheid e lo Statuto di Roma definiscono l’apartheid usando le parole “gruppi razziali,” l’interpretazione è controintuitiva. Non si tratta dell’assunzione biologica di razza, ma piutttosto di gruppi sociali e politici in cui membri di una certa Nazione hanno privilegi come gruppo.

Non stavo cercando di dire che non c’è un’ideologia di supremazia che mette il principio di preferenza ebraica al di sopra di quello dei palestinesi; naturalmente c’è una cosa simile (e il rapporto lo menziona ). Quello che volevo dire era che non si tratta della stessa argomentazione scientifica che una razza è migliore di un’altra.

In conclusione, si può commettere il crimine di apartheid indipendentemente da quale sia la motivazione. L’apartheid, per esempio, potrebbe essere economico — l’intero progetto potrebbe riguardare il profitto e continuerebbe ad essere apartheid. Nel nostro caso, noi abbiamo un conflitto nazionale. In altri posti potrebbe trattarsi di etnia, casta o altro; non deve essere per forza basato su un’ideologia razzista.

Sembra che lei stia cercando di universalizzare ulteriormente il quadro dell’apartheid.

Certamente. Ai sensi del diritto internazionale il divieto di apartheid costituisce il valore fondamentale che il mondo ha adottato dopo la seconda guerra mondiale: noi condividiamo un’umanità e un regime che viola in maniera diretta e sistematica quel principio affermando che ci sono alcuni che hanno più diritti di altri — questa è la cosa che si sta cercando prevenire.

Il diritto e le convenzioni internazionali che identificano il crimine di apartheid e le sue caratteristiche in Israele-Palestina esistono da decenni. Ma a differenza del Sudafrica, il mondo sembra fare un’eccezione con Israele sull’apartheid. Perché dovrebbe fare eccezione e dove pensate che il dibattito debba andare per porvi fine?

Primo, sono passati solo 70 anni dal più grande crimine mai commesso contro l’umanità. Io sono il nipote di sopravvissuti all’Olocausto. C’è una riluttanza, comprensibile, ma inaccettabile, a confrontarsi con questo crimine da parte delle “vittime per eccellenza.” 

Si può vedere come le potenze europee camminino sulle uova quando si tratta di Israele, e Israele è riuscito a mobilitare nel mondo occidentale questo senso di colpa collettivo e giustificato a proprio favore. Se c’è una lezione da imparare dalla storia del genocidio e dell’antisemitismo, è che non si dovrebbe restare in silenzio davanti al male e alla persecuzione di comunità.

Secondo, Israele è visto, tavolta correttamente, in pericolo esistenziale dato che i suoi vicini cercano di distruggerlo. Anche se queste dichiarazioni hanno pochissimo significato o sono solo propaganda, e anche se Israele è la maggiore potenza in Medio Oriente alleata con una superpotenza, queste affermazioni danno a Israele molto spazio di manovra. C’è anche la questione della posizione di Israele quale avamposto dell’America in Medio Oriente. Ma penso che tutto ciò stia cambiando.

Per il dopo, come ho già detto, io ci vado molto attento con le parole. “Apartheid” è una parola che ha molto peso e non la userei con leggerezza. Se questa accusa sarà qualcosa da discutere più seriamente — non come una parolaccia ma come qualcosa di valido — nel caso in cui ci si confronti con un regime di apartheid, l’obbligo in ogni Paese è di porvi fine.

Ciò è molto diverso dall’occupazione. Per esempio, l’Europa ha raggiunto la conclusione che si deve attenere a una politica di differenziazione per garantire che non un centesimo dei suoi soldi vada alle colonie. Se si arriva alla conclusione che Israele è un regime di apartheid, ciò avrà un enorme impatto su quello che è obbligata a fare per legge, non solo rifiutando di assistere quel regime, ma di fare pressioni affinché esso finisca.

In conclusione la gente dovrebbe chiedersi qual è lo scopo finale delle politiche di Israele. Vent’anni fa la maggior parte della gente avrebbe detto che era di avere due Stati — ma oggi non sono sicuro della loro risposta. E se neanche uno Stato democratico binationale è la risposta, allora non c’è via alternativa all’apartheid.

In pratica affermando che non ci sia una soluzione si accetta automaticamente l’apartheid.

Giusto. Quando ho cominciato a scrivere il documento, a prova delle sue intentioni di perpetuare la dominazione avevo solo le azioni di Israele sul terreno. Per 50 anni il governo di Israele ha detto la “cosa giusta” — che l’occupazione è temporanea fino a che gli accordi di pace non sostituiranno gli accordi di cessate il fuoco.

Ma poi il divario fra le dichiarazioni di Israele e le sue azioni è scomparso. Con le loro stesse parole i governanti israeliani hanno distrutto il proprio alibi — un pessimo alibi che comunque non riusciva a nascondere le loro azioni. Oggi il mio lavoro è molto più facile.

Amjad Iraqi è redattore e autore di +972 magazine. È anche analista politico di Al-Shabaka e in precedenza è stato un coordinatore della difesa di “Adalah” [Centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele, ndtr.]. È un cittadino palestinese di Israele, attualmente residente ad Haifa.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)