Le demolizioni di case raggiungono un picco prima dell’annessione

Maureen Clare Murphy

7 luglio 2020 – Electronic Intifada

L’annessione formale di territori occupati da parte di Israele potrebbe essere stata accantonata, ma prosegue l’espulsione forzata di palestinesi in Cisgiordania.

Secondo l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem, il mese scorso le demolizioni israeliane di case palestinesi nei territori sono aumentate.

In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est – che Israele ha già annesso in violazione delle leggi internazionali – sono state distrutte circa 45 case.

B’Tselem afferma che otto delle case distrutte a Gerusalemme “sono state demolite dai loro proprietari, dopo che essi hanno ricevuto un ordine di demolizione dalla Municipalità e desideravano evitare di pagare il costo della demolizione e le multe del Comune.”

A Gerusalemme est più di 50 persone, tra cui circa 30 minorenni, sono state cacciate in seguito alle demolizioni. Nel resto della Cisgiordania 100 persone, metà delle quali minorenni, sono state lasciate senza casa. Oltre alla distruzione delle case, il mese scorso le forze di occupazione israeliane hanno raso al suolo più di 35 strutture non abitative.

B’Tselem ha pubblicato il video dell’Amministrazione Civile israeliana – in realtà un’unità del suo esercito – che il 3 giugno ha demolito cinque stalle di proprietà della famiglia Abu Dahuk nei pressi di Gerico nella Valle del Giordano.

Le forze di occupazione hanno anche confiscato pannelli solari, frigoriferi e contenitori per l’acqua. In gennaio, con il pretesto della vicinanza di una zona militare israeliana, la famiglia Abu Dahuk è stata espulsa da un’area attigua in cui aveva vissuto per 30 anni.

Israele ha dichiarato zona militare chiusa più di metà della Valle del Giordano della Cisgiordania. Ai palestinesi che vivono in queste zone, molti dei quali in comunità di pastori, è stato ordinato di evacuare le loro case quando Israele compie esercitazioni militari di combattimento.

Ma il vero scopo della dichiarazione di zone militari chiuse è l’espropriazione delle terre palestinesi per poi annetterle ad Israele.

L’utilizzo di macchinari edili delle ditte Caterpillar e JCB

All’inizio di giugno l’Amministrazione Civile israeliana si è occupata della distruzione di sei case nelle colline meridionali di Hebron, in Cisgiordania.

Per mettere in atto questi crimini ha utilizzato macchinari della Caterpillar e della JCB.

Entrambe le imprese, rispettivamente americana e britannica, sono state contestate per il loro perdurante coinvolgimento nella distruzione delle case palestinesi.

In seguito, nello stesso mese l’amministrazione civile ha smantellato e confiscato un recinto per allevamento del bestiame in un’altra zona delle colline meridionali di Hebron.

Le forze di occupazione hanno sparato granate stordenti contro abitanti e attivisti che protestavano contro la confisca.>

Così, anche se l’annessione di Israele non è stata formalizzata, i palestinesi continuano ad essere espulsi per farvi posto.

Come ha detto recentemente Hagai El-Ad, direttore di B’Tselem, la mancanza di iniziative internazionali riguardo all’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania invia ad Israele un messaggio di accondiscendenza:

“Fai quello che vuoi con milioni di palestinesi per tutto il tempo che vuoi. È permesso quasi tutto finché non vengano ufficialmente formalizzati certi aspetti, in modo che noi tutti possiamo continuare a guardare da un’altra parte rispetto a questa ingiustizia e facciamo finta che sia temporanea.”

Finora nel corso di quest’anno in Cisgiordania sono state demolite circa 325 strutture di proprietà di palestinesi, con conseguente espulsione di circa 370 persone.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Per i giornalisti palestinesi, gli attacchi violenti delle forze israeliane fanno parte del lavoro

Juman Abu Arafeh 

4 luglio 2020 Middle East Eye

Gli abusi nei confronti dei giornalisti, che comprendono aggressioni e arresti, sono aumentati negli ultimi mesi specialmente nella Gerusalemme occupata.

Messa alle corde e impaurita, Sondus Ewies, giornalista palestinese di 23 anni, parlava nervosamente con un gruppo di agenti israeliani radunatisi intorno a lei mentre stava girando un film il mese scorso nella moschea di Al-Aqsa.

“Non ho fatto nulla. Stavo solo filmando e facendo il mio lavoro”, ricorda di avergli detto.

Ewies ha poi tirato fuori il suo tesserino internazionale di giornalista, sperando di evitare la detenzione, ma è accolta con una scrollata di spalle da un agente che le ha risposto: “Questa è una carta fasulla che non riconosciamo.”

Gli agenti israeliani hanno arrestato Ewies e sequestrato il suo telefonino. È stata quindi sottoposta a interrogatorio e le è stato imposto il divieto di visitare il complesso della moschea, situato nella Gerusalemme est occupata, per tre mesi.

Non era il suo primo incontro con le autorità israeliane. Ewies è stata interrotta più volte mentre era in onda ed è stata anche picchiata mentre copriva varie proteste.

A Middle East Eye ha detto di temere più il temporaneo divieto che l’effettiva detenzione.

Ewies vive nel quartiere palestinese di Ras al-Amoud, appena a sud del complesso della moschea Al-Aqsa, avendo fatto di quest’ultima una parte centrale del suo lavoro giornalistico. Dice di aver contato le ore per entrare nel complesso della moschea dopo che era stato chiuso per due mesi a causa della pandemia di coronavirus.

Molti giornalisti palestinesi affrontano arresti e divieti temporanei di accesso al complesso per avervi filmato incursioni dei coloni o forze israeliane che aggredivano i fedeli.

Nel 2016, le autorità israeliane hanno redatto liste nere con i nomi dei palestinesi, giornalisti compresi, a cui è vietato entrare nel complesso.

Dall’inizio di giugno, le autorità israeliane hanno emanato circa 10 mandati di comparizione a giornalisti e fotografi per interrogarli su come informano riguardo ad eventi politici.

Divieti alle agenzie stampa palestinesi

Ewies è una delle tante giornaliste che hanno subìto molestie da parte delle forze israeliane mentre erano in servizio.

La nota giornalista locale Christine Rinawi, di 31 anni, lavorava da 10 anni per Palestine TV, una stazione che opera nell’ambito dell’emittente palestinese pubblica dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), quando è stata incarcerata nel dicembre 2019.

Il mese prima l’allora Ministro della Pubblica Sicurezza israeliano Gilad Erdan aveva emanato un decreto per chiudere gli uffici della TV palestinese per sei mesi, sostenendo che la sua attività costituiva una violazione agli accordi di Oslo che vietano la presenza dell’ANP nella Gerusalemme est occupata da Israele. L’ordine è stato rinnovato nel maggio 2020.

Subito dopo la chiusura, il personale dell’emittente di Gerusalemme ha deciso di contestare la decisione e di proseguire il proprio lavoro.

A dicembre, durante la trasmissione del terzo episodio di un programma in diretta, le forze israeliane hanno arrestato la presentatrice Dana Abu Shamsia e il cameraman Amir Abed Rabbo. Rinawi e un altro cameraman, Ali Yassin, furono anch’essi poco dopo arrestati e portati in un centro di interrogatori.

Per Rinawi, la chiusura della Palestine TV fa parte delle restrizioni imposte da Israele sulla documentazione degli abusi israeliani da parte dei media palestinesi.

“Hanno cercato di aggredirci e ci hanno trattati come criminali”, dice a MEE.

L’ufficiale mi ha detto: ‘Vai a lavorare a Betlemme o Ramallah. Ti è proibito lavorare a Gerusalemme, sia in strada che sottoterra o vicino al bagno o in salotto’ “.

Durante l’iniziale chiusura di sei mesi della Palestine TV, i servizi segreti israeliani hanno convocato Rinawi cinque volte per interrogarlo.

La Palestine TV non è il solo centro di informazione palestinese ad essere bandito da Gerusalemme dalle autorità israeliane. Negli ultimi anni, Al Quds, Palestine Today, Qpress e l’Elia Youth Media Foundation [associazione giovanile non profit, ndtr.] sono stati tutti sottoposti a divieti.

Nel corso degli anni, Rinawi ha subito diverse aggressioni mentre svolgeva il suo lavoro. Nel 2019, è stata spinta e strattonata dai soldati israeliani durante una trasmissione in diretta, che è stata interrotta quattro volte.

Nel 2015, schegge di una granata stordente l’hanno colpita agli occhi mentre copriva la situazione nella moschea di Al-Aqsa.

Un anno prima, lei e il suo cameraman erano stati colpiti con proiettili di gomma mentre riferivano degli eventi verificatisi dopo il rapimento e l’uccisione dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir.

Più pericolosa delle armi

Ata Owaisat, di 50 anni, del quartiere di Jabal al-Mukaber a Gerusalemme, ha iniziato la sua carriera come fotoreporter 19 anni fa. Ha lavorato con l’agenzia di stampa Associated Press e l’organizzazione di notizie israeliana Yedioth Ahronot.

Ha detto di aver perso il conto del numero di volte in cui i soldati israeliani hanno rotto la sua attrezzatura fotografica.

“Uno di loro mi ha detto letteralmente ” la tua macchina fotografica è più pericolosa delle armi “, dice a MEE.

“Sono stato picchiato e umiliato mentre svolgevo il mio lavoro, sono stato ostacolato, fermato, perquisito, interrogato e bandito da Al-Aqsa”.

La carriera giornalistica di Owaisat è stata bruscamente interrotta nel 2013, quando ha subito un grave infortunio e il conseguente trauma psicologico, compreso un disturbo post-traumatico da stress. Ha detto che gli è difficile parlare di quel giorno.

L’8 marzo 2013, Owaisat prese la sua macchina fotografica e andò a seguire gli scontri ad Al-Aqsa, dove le forze israeliane stavano sparando granate stordenti e proiettili di metallo rivestiti di gomma contro i palestinesi che protestavano nel complesso della moschea contro le violazioni israeliane.

Owaisat fu colpito alla bocca da un oggetto metallico che non è stato in grado di identificare, che gli causò una copiosa emorragia.

“Ho perso parte dei miei denti, del labbro superiore e il mio viso era sfigurato”, ha ricordato.

Dopo essere stato colpito, Owaisat ha momentaneamente perso conoscenza ma è stato presto risvegliato da calci e insulti prima di perdere di nuovo conoscenza.

L’equipaggio di un’ambulanza lo portò in ospedale.

“Ho visto la morte negli occhi”, ha detto.

In seguito Owaisat ha avuto difficoltà a mangiare, parlare e persino a sorridere. Ha subito diverse operazioni per ricostruire viso e denti.

Ha anche smesso di lavorare per un anno, dopo di che ha ricevuto un referto medico che specificava il trauma psicologico che gli impedisce di riprendere il suo lavoro.

Restrizioni generalizzate

Oltre ai giornalisti di Gerusalemme, anche i palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza assediata sono sottoposti a una pletora di violenze.

Il Centro Palestinese per lo Sviluppo e la Libertà dei Media (Mada) ha segnalato 18 di tali abusi durante il mese di maggio, inclusi attacchi fisici, arresti e la chiusura di uffici in tutti i territori palestinesi.

Anche un recente rapporto della Commissione per le Libertà del Sindacato Giornalisti Palestinesi ha riscontrato che le autorità israeliane hanno commesso 760 violazioni nel 2019.

Nasser Abu Bakr, il presidente del Sindacato, ha commentato la cosa dicendo che Israele concentra le sue restrizioni e l’ostruzionismo sui giornalisti a Gerusalemme, che considera la propria capitale.

Ha aggiunto che tali incidenti sono aumentati negli ultimi mesi, portando il Sindacato ad avvertire la Federazione internazionale dei Giornalisti (IFJ) dell’elevato numero di infrazioni contro i giornalisti a Gerusalemme e invitandola a intervenire.

Abu Bakr ha dichiarato a MEE che una delegazione della Federazione aveva richiesto al governo israeliano di porre fine alle violenze e di riconoscere la tessera stampa internazionale, senza risultato.

“Forniamo supporto più che possiamo. Abbiamo una riunione al sindacato la prossima settimana e la situazione dei giornalisti a Gerusalemme sarà il primo punto dell’ordine del giorno”, ha detto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Rapporto OCHA del periodo 16 – 29 giugno

Il 18 giugno è morto un bambino di otto mesi: necessitava di un intervento al cuore, da effettuare presso un ospedale israeliano, ma non è potuto uscire da Gaza.

Infatti, dal 21 maggio, l’Autorità Palestinese, in risposta al piano israeliano di annessione di parti della Cisgiordania [ha interrotto tutti gli accordi e la collaborazione con Israele e, pertanto], non accetta e/o non trasferisce alle Autorità israeliane le richieste di permesso di uscita da Gaza. Da quella data, solo pochi pazienti tra quelli rinviati in Cisgiordania o Israele per cure mediche, sono riusciti ad uscire da Gaza, e solo grazie all’aiuto di ONG o Agenzie internazionali.

Il 23 giugno, a un checkpoint, un palestinese ha lanciato la sua auto contro una ufficiale di polizia di frontiera israeliana, ferendola; successivamente è stato colpito e ucciso. Il checkpoint di Wadi an Nar (governatorato di Gerusalemme), dove si è verificato l’episodio, è utilizzato dalle Autorità israeliane per controllare il traffico palestinese tra la Cisgiordania meridionale e quella settentrionale. Una registrazione video dell’episodio suggerisce la volontarietà dell’attacco. Per i familiari del presunto aggressore, l’uomo potrebbe aver perso il controllo del veicolo; essi affermano anche che, dopo essere stato colpito, è stato lasciato a terra sanguinante.  [vedi in merito articolo su zeitun]

Finora quest’anno, durante attacchi o presunti attacchi contro israeliani, le forze israeliane hanno ucciso sette palestinesi.

In Cisgiordania, nel corso di molteplici scontri, le forze israeliane hanno ferito 121 palestinesi [segue dettaglio]. Settantatre di questi sono rimasti feriti ad Abu Dis (Gerusalemme) durante tre giorni di scontri seguiti all’uccisione di cui al paragrafo precedente. Altri venti palestinesi sono rimasti feriti nella Valle del Giordano, in tre distinte manifestazioni contro l’annunciata annessione di parti della Cisgiordania da parte di Israele. Altri sette sono rimasti feriti nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le manifestazioni settimanali. In Deir Abu Mash’al (Ramallah), un ragazzo di 15 anni è stato ferito con arma da fuoco, presumibilmente dopo aver lanciato una bottiglia contro veicoli israeliani. I rimanenti sono rimasti feriti durante vari episodi accaduti a Gerusalemme Est, nei Campi profughi di Qalandiya e Al Jalazun, oltre che nella città di Nablus. Quanto alle cause delle lesioni, 63 hanno respirato gas lacrimogeno e sono stati sottoposti a trattamento medico, 44 sono stati colpiti da proiettili di metallo rivestiti di gomma, otto sono stati aggrediti fisicamente e sei sono stati colpiti con proiettili di arma da fuoco.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 125 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 156 palestinesi; numeri leggermente superiori alla media, ad oggi, del 2020.

Il 26 giugno, un gruppo armato palestinese ha lanciato due missili verso il sud di Israele: uno è caduto all’interno di Gaza e l’altro ha colpito un’area israeliana non abitata. Successivamente, le forze israeliane hanno effettuato attacchi aerei, prendendo di mira, a quanto riferito, la postazione di un gruppo armato situato in un’area popolata. In nessuno degli attacchi sono stati registrati feriti; la postazione presa di mira, e quattro case vicine, hanno subito danni non gravi.

All’interno della Striscia di Gaza, sia in aree adiacenti alla recinzione israeliana che perimetra la Striscia, sia in mare, al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 26 occasioni, presumibilmente per imporre [ai palestinesi] le restrizioni di accesso; non sono stati segnalati feriti. In altre tre occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia (ad est di Gaza City, di Beit Hanoun e di Rafah) ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e scavi vicino alla recinzione.

Ventuno strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate per mancanza dei permessi di costruzione rilasciati da Israele; 30 persone, tra cui 13 minori, sono state sfollate ed i mezzi di sussistenza di oltre 90 altre sono stati colpiti [segue dettaglio]. Dieci delle 21 strutture citate sono state demolite a Gerusalemme Est (tre erano case abitate); quattro [delle dieci], inclusa una casa abitata, sono state demolite dai proprietari per evitare tasse e danni alle suppellettili. Undici strutture sono state demolite o sequestrate in otto Comunità dell’Area C; due di queste [11] demolizioni sono state effettuate ad Al Khadr (Betlemme), in base ad un “Ordine Militare 1797” che prevede la rimozione, in tempi stretti, di strutture senza licenza, considerate come “nuove”. Nel contesto della pandemia in corso, la demolizione di case e strutture di sostentamento desta grave preoccupazione.

Dieci palestinesi sono rimasti feriti, centinaia di ulivi sono stati incendiati e sei veicoli sono stati vandalizzati da aggressori ritenuti coloni israeliani [segue dettaglio]. Dei 10 feriti, sette sono stati spruzzati con liquido al peperoncino, in due episodi separati: vicino al villaggio di Beitillu (Ramallah) e nel quartiere Silwan di Gerusalemme Est. Due, tra cui una ragazza 14enne, sono stati colpiti con pietre nella città di Hebron (nell’area H2 controllata da Israele) e a sud di Nablus. Uno è stato aggredito fisicamente a Deir al Qilt (Gerico) mentre pascolava le pecore. A quanto riferito, centinaia di ulivi sono stati incendiati da coloni israeliani in quattro diversi episodi accaduti nei villaggi di Burin, Qaryut (entrambi a Nablus) e Wadi Fukin (Betlemme). A Burin, l’incendio si è esteso a terre vicine, appartenenti a palestinesi di Kafr Qalil e Huwwara, e diversi alberi hanno preso fuoco. Finora, nel 2020, nel corso di aggressioni compiute da coloni, sono stati danneggiati almeno 4.000 tra ulivi ed altri alberi.

Secondo una ONG israeliana, quattro veicoli israeliani che viaggiavano sulle strade della Cisgiordania sono stati danneggiati dal lancio di pietre ad opera di palestinesi; non sono stati segnalati feriti.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

A causa del forte aumento del numero di persone colpite da COVID-19, l’Autorità Palestinese (PA) ha annunciato un blocco completo di cinque giorni della Cisgiordania, a partire dalle ore 08:00 del 3 luglio. Tutti i negozi resteranno chiusi, ad eccezione di supermercati, panetterie e farmacie; saranno consentiti solo spostamenti essenziali.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




“Gaza è un biglietto di sola andata”: come la politica israeliana di ricollocazione sta separando le comunità palestinesi

Henriette Chacar

30 giugno 2020 – +972

Israele sta sistematicamente indirizzando gli spostamenti dei palestinesi in una direzione: dalla Cisgiordania a Gaza. Le famiglie e i loro legali affermano che il trasferimento silenzioso sta frammentando la società palestinese.

Il 4 marzo Samar Saoud ha ricevuto finalmente la telefonata che stava aspettando. Le è stato detto di presentarsi la domenica seguente con i suoi tre figli al valico di Erez, e la famiglia avrebbe lasciato la Striscia di Gaza e sarebbe andata nella città cisgiordana di Nablus, dove vivono i genitori di Saoud.

Ma a Erez è stato detto a Saoud di tornarsene a casa. Implorare gli ufficiali dell’esercito israeliano non è servito a niente. Il valico, che separa Israele dalla Striscia di Gaza, era chiuso per tutto il giorno, probabilmente per la festa ebraica di Purim. Sarebbero state consentite solo le uscite per “casi umanitari” eccezionali, come ad esempio urgenti cure mediche.

Saoud era distrutta. Aveva già venduto la sua casa e i suoi beni. Non sapeva dove andare. Cresciuta in Cisgiordania, era andata a Gaza nel 2005 dopo essersi sposata con un palestinese della Striscia. Ma lo scorso dicembre suo marito se n’è andato in Turchia alla ricerca di opportunità di lavoro. Senza parenti stretti che le fornissero un aiuto, Saoud improvvisamente si è trovata senza casa.

Con il valico ancora chiuso, Saoud ha chiesto a suo cognato se lei e i suoi figli potessero stare con lui finché il suo caso fosse risolto. Suo cognato è disoccupato e, mentre era ospite nella sua casa, lei ha utilizzato il denaro ricavato dalla vendita della casa per provvedere alle due famiglie. “Negli ultimi quattro giorni ho mangiato solo un pasto. Sono sull’orlo di una crisi di nervi,” ha detto per telefono.

Il 12 marzo, dopo che Gisha, un’associazione israeliana per i diritti umani che si occupa della libertà di movimento dentro e fuori Gaza, ha presentato una richiesta urgente al tribunale distrettuale di Gerusalemme, Saoud ha avuto l’autorizzazione di attraversare il valico.

Quella stessa settimana, per contrastare la diffusione del nuovo coronavirus, Israele ha ulteriormente ridotto i viaggi dei palestinesi da Gaza. Poi alla fine di maggio, in risposta all’imminente piano di annessione di parti della Cisgiordania, l’Autorità Nazionale Palestinese ha annunciato che stava ponendo fine al coordinamento con Israele, compresi i permessi di viaggio. Le linee guida per presentare queste richieste rimangono vaghe.

Ma persino quando venivano consentiti gli spostamenti dei palestinesi le restrizioni erano così rigide che, dicono le critiche, di fatto hanno ridisegnato il tessuto della società palestinese nei territori occupati. Sono state impostate in modo da indirizzarli in una direzione – verso Gaza – il che, secondo un nuovo studio di Gisha, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, potrebbe rappresentare un crimine di trasferimento forzato di una popolazione sotto occupazione.

Comprendere questa politica, aggiungono questi analisti, mette in luce l’impatto potenzialmente devastante dell’annessione israeliana sui palestinesi.

Le ho detto che sarei tornato presto con dei dolci”

Come Saoud, Shada Shendaghli è nata in Cisgiordania ed ha sposato un uomo originario di Gaza. Il marito di Shendaghli, Issam, è tornato nella Striscia nell’ottobre 2016 e lei lo ha seguito due mesi dopo. Ora hanno due figlie, Masa e Rithal, entrambe registrate come residenti in Cisgiordania.

Ma per Shendaghli la vita nella Striscia era insopportabile, ammette Issam per telefono. Le interruzioni di corrente erano continue e avevano l’acqua solo due o tre giorni alla settimana. “Non abbiamo neppure le comodità basilari che ha la gente in Cisgiordania. Non ci si è abituata,” dice.

Shendaghli ha deciso di tornare a Ramallah. Ha fatto richiesta di un permesso, ma l’esercito israeliano ha respinto la domanda affermando che lei aveva accettato di lasciare la sua residenza in Cisgiordania e di spostarsi a Gaza. Quando Gisha ha presentato un ricorso a suo favore, il Coordinatore delle Attività di Governo nei Territori (COGAT), l’istituzione militare che amministra l’occupazione, ha sostenuto che ora lei è registrata come residente a Gaza e quindi non ha il diritto di tornare nella sua casa in Cisgiordania.

Il divieto imposto da Israele alla libertà di movimento delle persone viola le leggi internazionali, afferma la portavoce di Gisha Miriam Marmur: “Ciò significa che nei territori palestinesi occupati moltissimi palestinesi non possono scegliere dove vivere e farsi una famiglia.”

La battaglia legale di Shendaghli è finita nel giugno 2019, quando le è stato consentito di tornare in Cisgiordania con le figlie. Ma ciò è avvenuto al prezzo di doversi separare da suo marito.

Issam ricorda che il giorno in cui la sua famiglia se n’è andata si è sentito “distrutto”. Tutta la sua vita è cambiata, dice: “Ora quando torno a casa dal lavoro mi affretto a ricaricare il telefono, contando i secondi prima di poter parlare con loro.”

Mia figlia comincia a piangere, chiedendomi di andare a casa,” continua. “Le dico che sto arrivando, che sono andato a prenderle un’altra bambola, che tornerò presto con dei dolci.”

Tra il 2009 e il 2017 Israele ha esaminato e accolto solo 5 domande di trasferimento degli abitanti di Gaza, tutte in seguito all’intervento giudiziario a favore dei richiedenti. Di queste cinque, quattro riguardavano minorenni che non avevano parenti che si occupassero di loro a Gaza. Al contrario, tra il 2011 e il 2014 il COGAT ha approvato 58 richieste di trasferimento a Gaza di abitanti della Cisgiordania (51 delle quali presentate da donne).

Israele sta cercando di fare in modo che in Cisgiordania vivano quanti meno palestinesi possibile,” afferma Marmur. “Perché un abitante di Gaza si sposti in Cisgiordania, lui o lei deve rispondere a criteri eccessivamente limitanti, che sono fondamentalmente impossibili da rispettare. D’altra parte perché un residente in Cisgiordania si trasferisca a Gaza tutto quello che lui o lei deve fare è firmare la ‘procedura di insediamento’.”

Si tratta di un documento che gli abitanti palestinesi della Cisgiordania sono tenuti a sottoscrivere al loro ingresso a Gaza, in cui Israele condiziona il permesso di entrata a una dichiarazione secondo cui intendono trasferire in permanenza il loro “centro della loro vita” a Gaza. Gli verrà consentito di rientrare in Cisgiordania solo in “rari casi per ragioni umanitarie”, continua il documento. Firmando questo accordo, i palestinesi di fatto rinunciano alla loro residenza in Cisgiordania.

Questo procedimento è stato creato dall’esercito israeliano nel 2009, in seguito a un ordine della Corte Suprema, come un modo per controllare la ricollocazione di palestinesi da una parte dei territori occupati ad un’altra. Ma da quando esso è stato introdotto, gli spostamenti da Gaza alla Cisgiordania sono diventati “quasi impossibili”, afferma Dani Shenhar di HaMoked, un’organizzazione israeliana di assistenza legale. Non un solo caso a cui l’organizzazione ha lavorato nell’ultimo decennio e che abbia coinvolto un abitante di Gaza che ha fatto domanda di trasferimento ha avuto successo, aggiunge. “Gaza è un biglietto di sola andata. Se ti sposti lì, non tornerai indietro.”

In seguito a ciò, dice Shenhar, HaMoked ha smesso di accettare questi casi “perché rimaniamo bloccati. I tribunali accettano fondamentalmente la premessa israeliana ed è molto difficile mettere in discussione questa situazione.”

Il COGAT ha ignorato la richiesta di +972 Magazine di fornire dati sul numero di domande da parte di palestinesi per cambio di residenza da Gaza ricevute, approvate e rifiutate dal 1967, quando ha occupato e iniziato ad amministrare il territorio. Non ha neppure comunicato quanti palestinesi abbiano dovuto firmare la rinuncia alla residenza né ha risposto sul perché l’ingresso a Gaza richieda loro di rinunciare al loro status di residenti.

Invece il COGAT ha scritto in una mail che, da quando Hamas ha preso il potere a Gaza nel 2007, “lo Stato di Israele ha istituito una politica di differenziazione tra la Striscia di Gaza e l’area di Giudea e Samaria (la denominazione israeliana della Cisgiordania) – e, di conseguenza, si è deciso per un verso di limitare il passaggio tra la Striscia di Gaza da una parte e Giudea e Samaria, così come dall’altra in Israele, solo per quei casi umanitari ed eccezionali che rispondono alle procedure previste da Israele.”

Ma, nonostante quello che sostiene, le ragioni di Israele per separare Gaza e Cisgiordania sono politiche, non riguardano la sicurezza, afferma Tareq Baconi, un analista dell’International Crisis Group [Ong con sede in Belgio, ndtr.]. Ciò è ancora più evidente, spiega, considerando che le restrizioni israeliane contro la Striscia iniziarono nel 1989, durante la Prima Intifada, anni prima che Hamas arrivasse al potere.

La frammentazione della società palestinese, aggiunge Baconi, è stata esacerbata dalla divisione politica tra Fatah e Hamas, che ha sia reso interna questa divisione che garantito che essa continui: “La situazione è talmente diversa tra i due luoghi che è cambiata persino la consapevolezza politica,” nota, così tanto che “per chi vive in Cisgiordania la Striscia di Gaza potrebbe benissimo essere un altro pianeta.”

Anche se là il livello di sofferenza è senza precedenti, Gaza non dovrebbe essere considerata un’eccezione, sostiene Baconi: “La Striscia di Gaza è semplicemente una versione estremizzata dell’Area A (le enclave della Cisgiordania sotto totale controllo palestinese). È una versione estremizzata di Kufr ‘Aqab (a Gerusalemme est). È una versione estremizzata di Umm al-Fahm (una città palestinese in Israele), nel senso che quello che abbiamo in tutta questa terra è un processo di controllo israeliano di territori che circondano le bolle palestinesi.

Baconi dice che, mentre l’obiettivo finale di questa politica può non essere noto, la strategia di confinamento dei palestinesi in contenitori urbani e di riduzione al minimo degli spostamenti tra di essi è “il classico divide et impera, è la regola numero 1 del colonialismo”.

Due diversi territori occupati

In assenza di un meccanismo per cambiare residenza i palestinesi hanno dovuto trovare altri modi per ricongiungersi con le loro famiglie in Cisgiordania. Nel giugno 2010, in una lettera ad HaMoked del colonnello Uri Mendes, comandante per il coordinamento e le operazioni del COGAT, Israele stimava che circa 35.000 palestinesi il cui indirizzo di residenza era Gaza potevano trovarsi in Cisgiordania. Israele li definisce criminali infiltrati, fatto che li intrappola ulteriormente in una costrizione burocratica.

Uno di questi abitanti è Rawan, che nel 2018 si è spostata a Ramallah per stare con suo marito, un palestinese di Gaza che stava già vivendo in Cisgiordania. Per iniziare una vita insieme è arrivata con un permesso medico di un giorno autorizzato dall’esercito israeliano e, nonostante le conseguenze, è rimasta dopo la scadenza del termine.

Per Rawan persino il semplice compito di uscire dalla sua casa di Ramallah per comprare il pane è diventato un’impresa rischiosa. Due anni fa, un pomeriggio, l’esercito israeliano ha posto Ramallah sotto blocco militare per impedire attacchi “per emulazione”, dopo che alcuni palestinesi avevano compiuto un attacco letale sparando da un’auto nelle vicine colonie. “In un primo momento ho pensato che fosse un’allucinazione,” dice Rawan. “Dopo questo sono dovuta rimanere a letto per una settimana.”

Benché Rawan si sia spostata in una zona che dovrebbe essere sotto il controllo palestinese, se scoperta l’esercito israeliano potrebbe arrestarla, incarcerarla e deportarla di nuovo a Gaza, ed è per questo che ha chiesto di essere citata solo per nome. Per vivere in Cisgiordania rispettando le leggi militari israeliane, Rawan dovrebbe cambiare il suo indirizzo all’anagrafe palestinese. Benché abbia presentato la richiesta all’ufficio per gli affari civili dell’ANP, la modifica [della residenza] risulta valida solo dopo che Israele l’ha approvata.

Dopo aver occupato nel 1967 Gerusalemme est, Gaza e la Cisgiordania, Israele ha fatto un censimento e ha rilasciato documenti di identità ai palestinesi registrati all’anagrafe. Con la firma del secondo accordo di Oslo (“l’accordo di Taba”) nel 1995, il controllo dell’anagrafe è stato trasferito all’Autorità Nazionale Palestinese appena costituita. Tuttavia in pratica l’esercito israeliano ha continuato ad operare in base alle proprie copie del registro anagrafico.

Nel settembre 2007, pochi mesi dopo che Hamas aveva preso il controllo di Gaza e due anni dopo il “disimpegno” israeliano dalla Striscia, l’esercito impose severe restrizioni agli spostamenti di persone e beni verso e dall’enclave costiera, che da allora Israele ha posto sotto assedio. Un anno dopo, in risposta a una richiesta di HaMoked, un portavoce del COGAT affermò che l’esercito ora considerava la Cisgiordania e Gaza come due territori distinti e separati. Pertanto le richieste di cambio di domicilio possono essere approvate solo da alti funzionari in circostanze eccezionali per ragioni umanitarie.

Nel 2011, come eccezionale gesto politico nei confronti di Tony Blair, rappresentante del Quartetto [composto da USA, UE, ONU e Russia) per il Medio Oriente, Israele accettò di autorizzare le domande di 5.000 abitanti di Gaza che intendevano cambiare residenza e spostarla in Cisgiordania. Secondo Gisha alla fine di quell’anno Israele vagliò circa 2.775 richieste su un totale delle 3.700 presentate dal governo palestinese.

La reale portata della politica di separazione da parte di Israele non è chiara, perché le autorità hanno costantemente rifiutato di rilasciare informazioni riguardo al numero di persone direttamente interessate da essa. Quando +972 Magazine ha chiesto perché continui a controllare l’anagrafe dei residenti a Gaza dato che Israele sostiene di non occupare più la Striscia, il COGAT ha risposto che il registro non è “sotto l’autorità dell’Amministrazione Civile.”

Non abbiamo più tempo”

Poco dopo che Rawan è arrivata in Cisgiordania nel gennaio 2018, ha iniziato a cercare lavoro. “Devo lavorare. Sono il tipo di persona che non riesce a stare ferma,” dice in un caffé di Ramallah.

Alla fine ha trovato un impiego con un gruppo che fornisce servizi alle donne a Gerico. Ma il lavoro prevedeva che viaggiasse nell’Area C della Cisgiordania, che è sotto totale controllo israeliano e in cui i soldati pattugliano liberamente le comunità palestinesi. Lavorare fuori da Ramallah significa per Rawan rischiare quotidianamente di essere presa e deportata. “Voglio vivere la mia vita. Voglio lavorare. Quindi ho confidato in Allah. Ma dentro di me ero terrorizzata,” afferma.

Ogni volta che Rawan attraversa un posto di controllo israeliano “sento come se la mia vita stesse per finire.” Scherza riguardo a come la paura e lo stress di cercare di cambiare domicilio siano così grandi che hanno influenzato la sua possibilità di rimanere incinta: può sentire il suo corpo irrigidirsi.

Rawan dice di aver fatto domanda di residenza presso l’ufficio palestinese per gli affari civili, ma non si sa cosa ne sarà ora che l’ANP ha posto fine al coordinamento con Israele. Quando è il momento di stare davanti a un soldato israeliano, scherza, vorrebbe scambiare la sua terra di famiglia nel villaggio palestinese distrutto di Isdud (oggi Ashdod), di cui è originaria la sua famiglia, con un permesso.

I miei genitori hanno lavorato perché potessimo tutti andarcene da Gaza. Tutti ce ne vogliamo andare. La situazione lì è insopportabile,” dice Rawan. “Per Israele chiunque sia di Gaza è un terrorista. Ma io voglio vivere la mia vita. Voglio godere della vita. Non abbiamo più tempo.”

Secondo Rawan un impiegato dell’ufficio per gli affari civili a Ramallah le ha detto che l’unico modo per ottenere la residenza è concedere favori sessuali a un leader locale palestinese. Un altro funzionario del ministero degli Interni palestinese le ha detto che la sua occasione migliore sarebbe di lavorare con un collaborazionista legato ai servizi di sicurezza israeliani.

In uno studio pubblicato da Gisha e HaMoked nel 2009 le associazioni hanno avvertito che la procedura per chiedere la residenza “stabilisce un metodo di esame delle domande che si basa su rapporti personali e decisioni arbitrarie non trasparenti.”

Secondo la dottoressa Yael Berda dell’università Ebraica di Gerusalemme, ora docente ospite al dipartimento di sociologia dell’università di Harvard, questa ambivalenza e la sensazione di corruzione sono intenzionali. “La chiamo ‘inefficienza efficace,” spiega. “Quel tipo di incertezza è particolarmente efficace se vuoi frenare i movimenti delle persone, controllarle e creare timore e sospetto.”

Berda nota che tale controllo della popolazione ha precedenti in Israele. Tra il 1948 e il 1966, pochi mesi prima che iniziasse l’occupazione del 1967, Israele utilizzò un governo militare per controllare decine di migliaia di palestinesi che erano rimasti all’interno dello Stato da poco formato. Nonostante gli fosse stata concessa la cittadinanza israeliana, queste comunità vennero sottoposte a coprifuoco e potevano viaggiare solo con un permesso.

Il sistema israeliano di permessi e la politica di separazione sono quindi tutt’altro che un’invenzione unica: “È un modo veramente colonialista e imperialista di sottomettere la popolazione,” spiega Berda. Comunque, aggiunge, Israele ha portato questo repertorio coloniale “a un estremo, perché attualmente è il sistema di controllo della popolazione più sofisticato al mondo.”

Per Baconi l’annessione non può essere compresa separatamente dal blocco di Gaza, che a sua volta non può essere slegato dalle pratiche che colpiscono i rifugiati e i cittadini palestinesi di Israele. “Sono tutte politiche che intendono garantire il minor numero possibile di palestinesi sul territorio, che la maggior parte del territorio sia controllata dagli israeliani e che ci sia un contesto messo a punto per garantire uno Stato suprematista ebraico,” afferma.

Henriette Chacar è una redattrice e inviata palestinese di +972 Magazine. Produce, ospita ed edita il podcast di +972. Laureata alla scuola di giornalismo della Columbia, Henriette in precedenza ha lavorato a un settimanale del Maine, a Rain Media per PBS Frontline e The Intercept.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Senza il via libera USA, Netanyahu rinvia l’annessione ma non rinuncia

Michele Giorgio

1 luglio 2020, Nena News  da Il Manifesto

Oggi avrebbe dovuto essere il giorno previsto dal governo israeliano per l’avvio della cosiddetta estensione di sovranità al 30% della Cisgiordania. Ma in assenza dell’ok definitivo da Washington, scrive la stampa locale, il premier congela il piano. Previste per oggi manifestazioni di protesta nei Territori Occupati, mentre cresce la contrarietà al piano dei democratici statunitensi

Non sarà il primo luglio la data di inizio dell’annessione unilaterale a Israele del 30% della Cisgiordania, ma nei Territori occupati si svolgeranno ugualmente le previste manifestazioni di protesta del «Giorno della rabbia» palestinese.

«Stiamo lavorando (all’annessione) e continueremo a lavorarci nei prossimi giorni», ha detto ieri il premier israeliano Netanyahu dopo aver incontrato l’ambasciatore Usa Friedman e l’inviato speciale americano Berkowitz. Oggi perciò non accadrà nulla. E sarà così per il resto della settimana, scriveva ieri il Jerusalem Post citando fonti americane.

In più di una occasione Netanyahu aveva indicato il primo giorno di luglio come quello dell’avvio dell’iter legislativo per «l’estensione della sovranità israeliana» su larghe porzioni di Cisgiordania, territorio palestinese che Israele ha occupato nel 1967 al termine della Guerra dei sei giorni. Ora frena ma non rinuncia. Non lo preoccupano più di tanto le critiche dell’Onu e gli ammonimenti dell’Ue. E neppure le esitazioni del suo principale partner di governo Gantz.

Gli occorre però il via libera definitivo degli Usa all’annessione che con ogni probabilità sarà limitata nella sua prima fase – quindi senza la Valle del Giordano – e completata nei prossimi mesi, prima delle presidenziali Usa di novembre quando il suo alleato Trump rischierà di lasciare la Casa Bianca al suo rivale democratico Biden. Il premier israeliano vede crescere nel Partito democratico il dissenso verso le politiche di Israele.

Ieri anche il senatore democratico Sanders, il rappresentante più noto e autorevole della corrente socialista nel suo partito, ha aggiunto il suo nome a una lettera, «Apartheid», contro il piano di Israele di annettere parti della Cisgiordania. Fatta circolare dalla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, la lettera chiede di bloccare gli aiuti militari statunitensi a Israele se Netanyahu attuerà il piano di annessione che, si legge, creerebbe una realtà di apartheid in Cisgiordania.

Il testo di Ocasio-Cortez è diverso per contenuto e tono da una lettera anti-annessione più moderata diffusa all’inizio di giugno e firmata da oltre 190 deputati democratici della Camera dei rappresentanti, tra i quali persino storici alleati di Israele come Ted Deutch e Steny Hoyer. L’iniziativa non pare destinata a raccogliere un alto numero di firme. Tuttavia, assieme alla lettera diffusa all’inizio del mese scorso, conferma che tra i democratici il dibattito su Israele e palestinesi è più vivo che mai e si sta intensificando. E Joe Biden, pur rappresentando l’establishment tradizionale del partito, non potrà non tenerne conto.




È ora di sciogliere l’Autorità Nazionale Palestinese

Asa Winstanley

27 giugno 2020 – Middle East Monitor

L’Autorità  Nazionale Palestinese (ANP) tiene sotto controllo i palestinesi in Cisgiordania dal 1993 e, nella Striscia di Gaza, fino al 2007. Sotto il regime israeliano dell’apartheid, l’ANP non ha l’autorità di fare altrettanto con i coloni israeliani che occupano illegalmente la Cisgiordania, tutto al contrario. Anzi, l’ANP li protegge.

Molti, persino nel movimento di solidarietà palestinese, ne fraintendono totalmente la natura.

L’ANP non ha una reale autorità e il nome è fondamentalmente sbagliato. Le forze di occupazione israeliane hanno un potere di veto totale su tutto quello che essa fa. Né appartiene veramente ai palestinesi, né agisce nell’interesse della loro liberazione.

Volendo essere sinceri, l’ANP agisce da sempre come un subappaltatore per l’occupazione israeliana. Non avrebbe potuto essere nient’altro.

Essa è strutturalmente concepita per servire gli interessi di Israele e della sua occupazione della Cisgiordania e di Gaza. Per quasi 30 anni è stata leale senza riserve nel ricoprire questo ruolo.

Hamas, il movimento islamico di liberazione palestinese, dopo la vittoria nelle elezioni libere ed eque del 2006, aveva tentato per un breve periodo di cambiare l’ANP dall’interno. Questo tentativo è subito fallito a causa di un colpo di stato. La CIA, Israele, la Giordania e altre potenze agirono insieme per eliminare Hamas, confinandolo con successo a Gaza.

Fin dall’inizio tutta la principale funzione dell’ANP è stata quella di reprimere i palestinesi e di sostenere l’occupazione israeliana. In questo modo svolge un utile servizio coloniale per Israele.

L’ANP è il subappaltatore autoctono per l’occupazione israeliana.

La condizione fondamentale delle forze armate dell’ANP, e che spesso non si vuole ammettere, risiede in quello che è eufemisticamente chiamato “coordinamento per la sicurezza”, cioè collaborare con Israele.

Secondo questo accordo, le forze armate dell’ANP arrestano i combattenti della resistenza palestinese e impediscono alla popolazione di fare dimostrazioni contro l’occupazione israeliana, distruggendo la libertà di espressione e altre forme di dissenso contro Israele e il suo subappaltatore, l’ANP.

Anni fa, Mahmoud Abbas, “presidente” a fine mandato dell’ANP, dichiarò in modo scellerato che per lui questa politica di collaborazione [con Israele] era “sacra”. Nessun segnale sarebbe potuto essere più chiaro: questa è l’unica vera funzione dell’ANP.

L’ANP è anche afflitta da corruzione, brutalità e gretta oppressione.

All’inizio del mese c’è stato un esempio particolarmente scioccante. Le forze dell’ANP hanno arrestato il giornalista palestinese Sami Al-Sai per un post su Facebook.

Qual era il suo reato? Forse aveva invocato il rovesciamento armato dell’ANP? Aveva forse incoraggiato le proteste contro di essa? Ne aveva forse svelato la corruzione? No: aveva postato un video totalmente apolitico in cui si vedono dei palestinesi che vendono delle angurie.

Ma, secondo Human Rights Watch, anche una community palestinese di una pagina locale di Facebook di Tulkarem, la città cisgiordana dove il video era stato girato, aveva postato lo stesso video. Gli abitanti del posto avevano pubblicato su quella stessa pagina Facebook delle lamentele relative a presunta corruzione e altri scandali in città, alcune critiche nei confronti di funzionari dell’ANP.

Secondo Human Rights Watch, Al-Sai è in carcere da giovedì.

L’intera faccenda sembra solo un pretesto per arrestare un giornalista e impedirgli di fare il proprio lavoro. Al-Sai è stato arrestato e perseguitato varie volte nel corso degli anni sia dall’ANP che dalle forze di occupazione israeliana.

L’ANP ha una lunga storia di detenzioni e soprusi nei confronti di giornalisti palestinesi i cui articoli non le sono piaciuti.

Nel 2012 ho scritto di parecchi giornalisti palestinesi incarcerati e interrogati dall’ANP in Cisgiordania semplicemente perché stavano svolgendo il proprio compito.

Yousef Al-Shayab ha denunciato un presunto scandalo relativo a un tentativo dell’ANP di controllare dei gruppi di studenti palestinesi in Francia. Anche Tariq Khamis è stato arrestato dopo aver scritto un pezzo su un gruppo di giovani palestinesi che avevano richiesto la fine dei negoziati con Israele.

Se l’ANP avesse fiducia in se stessa permetterebbe ai giornalisti di fare il proprio lavoro,” mi ha detto Khamis. “Ma a causa dei suoi errori e della sua corruzione ha paura di noi.”

A prescindere dalla protezione dei suoi piccoli feudi, la funzione primaria dell’ANP è la protezione di Israele.

È stata strutturata così. È scritto negli accordi di Oslo e nella serie di intese che ne sono seguite.

Intellettuali palestinesi di spicco come Joseph Massad e il compianto Edward Said l’avevano capito immediatamente. Said aveva definito Oslo in modo indimenticabile: “Uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese.” L’opinione di Said, allora controversa, era però obiettivamente corretta e ha resistito alla prova del tempo.

Come spiega Massad: “L’ANP aveva promesso di porre fine alla resistenza anti-coloniale e alla solidarietà internazionale a sostegno del popolo palestinese come parte della sua capitolazione al colonialismo degli occupanti israeliani, in cambio non di una diminuzione, ma di un aumento della colonizzazione israeliana, sommata a privilegi economici per i funzionari dell’ANP e per gli imprenditori palestinesi che sostengono che i loro profitti sono una specie di ‘vittoria’ sugli israeliani, invece che il prezzo per aver rinunciato ai diritti per il proprio popolo.”

L’ANP non può essere “riformata”, perché la sua sottomissione a Israele non è la conseguenza della sua corruzione, ma piuttosto il contrario. Fin dall’inizio è stata creata per servire Israele e ha svolto bene questa sua funzione.

È ora che l’ANP venga sciolta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Nessun permesso di uscita per i palestinesi senza documenti

Ola Mousa

26 giugno 2020 – The Electronic Intifada

Khadija al-Najjar rovistava tra le fotografie dei suoi figli e nipoti agitandosi sempre più.

Alcuni dei suoi figli adesso vivono in Europa o in Nord America. Ma Khadija, di 72 anni, non può andarli a trovare. Non possiede né può ottenere un documento di identità palestinese nemmeno per cercare di andare da loro. Senza quello non ha nessun documento che le consenta di partire.

Non è l’unica. Secondo il locale ufficio del Ministero per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, a Gaza ci sono circa 5.000 palestinesi che condividono la sua stessa situazione. Israele ha interrotto la consegna di carte di identità destinate ai residenti della striscia costiera dopo il 2007, quando Hamas ha preso il totale controllo di Gaza togliendolo a Fatah, avendo vinto le elezioni parlamentari dell’anno precedente.

Kadijja e suo marito, Muhammad Issa al- Najjar, vivono nel quartiere di al-Rimal di Gaza City. Muhammad è nato nel 1945 a Masmiya al-Kabira, un villaggio palestinese nell’allora distretto di Gaza (attualmente sul lato israeliano del confine) che è stato spopolato con la forza e in gran parte distrutto durante la Nakba del 1948.

Ha studiato in Egitto prima della guerra del 1967 ed è uno di quelli che non si sono registrati nel censimento israeliano del 1967 della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Per questo motivo lui e la sua famiglia non hanno potuto tornare a Gaza fino al 1999 quando, sulla spinta di un’ondata di ottimismo sul processo di pace e della promessa che Gaza sarebbe diventata una versione araba della ricca e dinamica Singapore, lo hanno appunto fatto.

Siamo entrati a Gaza con permessi temporanei, dato che i miei parenti vivono a Gaza”, ha detto Muhammad. Ma solo metà della famiglia è riuscita ad ottenere carte di identità permanenti. “Abbiamo fatto domanda di ricongiungimento familiare; (i miei figli) Nasser, Razan ed io le abbiamo ottenute. Purtroppo mia moglie, Ahmad e Lina non ci sono riuscite.”

Khadijja si arrabbia quando guarda la sua carta di identità temporanea. Non le serve a niente. Non vede sua figlia Lamis, di 41 anni, che vive nel Regno Unito, da 20 anni. Nasser, di 38 anni, ha vissuto in Canada negli ultimi 5 anni. Ha anche dei fratelli a Dubai che spera di andare a trovare.

La madre dei cinque figli spera ancora di ottenere una carta di identità, ma nonostante abbia fatto diverse richieste alle autorità competenti a Ramallah nella Cisgiordania occupata, le è stato sempre detto che la decisione spetta agli israeliani.

Mi sembra di essere in prigione; non posso vedere i miei figli e i miei nipoti né celebrare Hajjj o Umrah. Quando mio figlio Nasser era a Gaza, stava per ottenere un lavoro in una banca, ma è stato escluso quando hanno saputo che non aveva una carta di identità”, ha raccontato Khadijja a The Electronic Intifada.

In trappola

Almeno Mahmoud Mufid Abdel-Hadi, di 40 anni, ha un lavoro. Benché non possegga una carta di identità palestinese, ha trovato impiego come project manager nel settore delle ONG. I suoi genitori avevano lasciato Gaza prima del 1967 per andare a lavorare negli Emirati Arabi Uniti, dove Mahmoud è nato, e la famiglia non ha potuto tornare facilmente dopo il 1967 e l’occupazione.

Il processo di pace e la creazione dell’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) hanno cambiato tutto per Abdul-Hadis, i Najjars e decine di migliaia di altri che sono tornati nei territori occupati negli anni ’90, dopo la firma degli Accordi di Oslo.

Mahmoud è tornato a Gaza con la sua famiglia nel 1998. Erano otto, ma solo due hanno ottenuto le carte di identità. Lui, i suoi genitori ottantenni e tre dei suoi fratelli sono tra i 5.000 palestinesi che aspettano di ottenerle.

Siamo vittime delle attuali circostanze politiche. Per quel che so, la pratica per la carta di identità è chiusa. Israele, che non fa che discriminare i palestinesi, non ha interesse ad aiutarci a Gaza. Purtroppo l’ANP, che è parte del negoziato, si è mostrata debole di fronte agli israeliani”, ha detto.

Ma Mahmoud ritiene i leader politici palestinesi di tutte le fazioni responsabili della mancata soluzione di questa questione con Israele.

Queste pratiche dovrebbero essere tra i principali elementi dei negoziati, accanto a questioni come quella dei prigionieri”, ha detto a The Electronic Intifada. “A Gaza Hamas ne porta la responsabilità in quanto fazione dominante.”

Si è dichiarato frustrato dal fatto che la questione delle carte di identità non è più prioritaria.

Siamo in una prigione a cielo aperto, condannati a vita. Senza documenti di identità non abbiamo potuto uscire da Gaza da quando siamo arrivati”, ha detto.

L’ultima parola

Il blocco è interamente causato dagli israeliani, ha detto Saleh al-Ziq, del Ministero per gli Affari Civili di Gaza.

Migliaia di palestinesi vivono attualmente a Gaza senza documenti di identità. Il ministero non ha ricevuto l’autorizzazione israeliana per emettere le loro carte di identità”, ha detto al-Ziq a The Electronic Intifada.

Le 5.000 persone in questione erano l’ultimo gruppo il cui status dei documenti di identità era in corso di trattativa quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, ha detto al-Ziq. Per la maggior parte si sono trasformati in permessi temporanei a fronte della domanda di ricongiungimento familiare. Quando le trattative sono state interrotte lo status di queste persone non è mai stato risolto.

In base agli accordi tra Israele e l’OLP degli anni ’90, Israele ha l’ultima parola sui documenti di identità. Mentre è l’ANP ad emettere le carte di identità, Israele emette i loro numeri, senza i quali esse non sono valide. Le informazioni contenute nelle carte sono scritte sia in arabo che in ebraico.

Purtroppo alle persone senza carta di identità sono negati i fondamentali diritti sociali e politici. Israele rifiuta di concedere le carte con il pretesto del dominio di Hamas sulla Striscia di Gaza. Non so quale forma di minaccia le carte di identità costituiscano per Israele.”, ha detto al-Ziq, aggiungendo di sperare che la questione possa risolversi presto.

Iman al-Sir, di 30 anni, è originaria di Jaffa. Disponendo solamente di un documento temporaneo, non si è mai sentita stabilizzata in Palestina, ha detto a The Electronic Intifada.

Iman è cresciuta nel campo profughi di Yarmouk a Damasco, ma è tornata a Gaza con sua madre nel 2012 a causa del conflitto in Siria. Suo nonno era stato espulso in Egitto ed è andato in Siria dopo la guerra del 1967, durante la quale aveva combattuto con gli eserciti arabi.

Fin dalla mia infanzia mio padre ci ha sempre parlato della Palestina e della nostra terra a Jaffa, da cui siamo stati sradicati. La prima volta che io ho visto un soldato israeliano è stato in televisione nel 2000.”

Ha detto che per molti anni, prima di poterlo fare realmente, aveva desiderato tornare a vivere in Palestina.

Tuttavia quando sono arrivata a Gaza ho scoperto che è l’occupazione israeliana che controlla la mia identità. Che razza di pace è questa? Come si può promuovere la pace con uno Stato che non riconosce la tua esistenza?”

Ha detto a The Electronic Intifada che se avesse saputo che sarebbe finita in una “prigione a cielo aperto”, avrebbe affrontato il pericoloso viaggio verso l’Europa, intrapreso da tanti rifugiati siriani.

Almeno in Europa non avrei mai dovuto provare l’esperienza dell’occupazione israeliana che decide se io sono o non sono palestinese”.

Ola Mousa è un’artista e scrittrice di Gaza.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I pericoli della guida sotto l’apartheid israeliano

Izzy Mustafa

26 giugno 2020 – +972 Magazine

“Non mandare su di giri il motore. Tieni le mani sul volante. Non guardare bruscamente negli occhi i soldati di fronte a te. Abbassa la musica. Tieni pronto il tuo documento d’identità per il controllo. Tieni il piede sul pedale del freno. Assicurati, quando il soldato ti fa un cenno con le braccia, di non premere per sbaglio il pedale dell’acceleratore.”

Questo fa parte della lista delle cose da fare che mi viene in mente ogni volta che attraverso un posto di blocco militare israeliano in Palestina. È la routine che mio padre mi ha insegnato a 17 anni, quando ho guidato per la prima volta con lui attraverso il famigerato checkpoint di Za’atara [teatro di numerose uccisioni e ferimenti di palestinesi, n.d.tr.], vicino al villaggio della mia famiglia di Jamma’in, nella Cisgiordania occupata.

Per più di 10 anni, da allora, ho familiarizzato con le strade che collegano tutte le principali città palestinesi in Cisgiordania, dalle dolci colline di Hebron a sud, al maestoso paesaggio agricolo della Valle del Giordano, agli infiniti uliveti di Jenin a nord. Ricordo di aver schivato le buche e la gente per le strade di Kufr Aqab nei miei viaggi avanti e indietro tra Ramallah e Gerusalemme. È durante i miei viaggi da un villaggio di famiglia a un altro che ho assistito alla vorace espansione degli insediamenti ebraici nel corso degli anni.

Tuttavia ogni chilometro di queste strade comporta per i palestinesi dei rischi eccezionali.

Dobbiamo condividere le nostre strade con soldati israeliani e coloni armati. Ogni volta che percorriamo la strada, non siamo solo preoccupati di incorrere in un incidente – le corsie sono strette e non ci sono barriere sparti-traffico – ma siamo anche profondamente consapevoli che la minima mossa sbagliata da parte nostra potrebbe farci uccidere dai nostri colonizzatori.

Il regime israeliano di apartheid impone ai palestinesi nei territori occupati di guidare auto con targhe bianche o verdi, in modo da consentire agli israeliani di monitorare e controllare il movimento dei palestinesi prima ancora di rilevarne l’identità.

I cittadini israeliani, al contrario, guidano auto con targa gialla, il che permette loro di vagare liberamente in Cisgiordania e all’interno di Israele, sulla terra che lo Stato ha rubato ai palestinesi nel 1948. Anche i cittadini palestinesi di Israele e quelli che risiedono a Gerusalemme guidano auto con la targa gialla, ma sono comunque schedati sul versante razziale e sottoposti a maltrattamenti ai posti di blocco.

In un’auto con targa bianca o verde devi prendere ulteriori precauzioni e rimanere vigile in questo ambiente sottoposto a controllo razziale. Non esiste una guida piacevole nella tua terra militarizzata e occupata. Non puoi lasciare che la tua mente vaghi nella leggerezza della vita quotidiana. Non puoi fare una svolta sbagliata o finirai all’ingresso pattugliato di un insediamento coloniale israeliano. Non puoi lasciare che la tua mente ceda al torpore o potresti accidentalmente premere l’acceleratore invece del pedale del freno mentre ti trovi ad un posto di blocco.

I ricordi dei miei viaggi in Palestina si sono riaccesi quando ho saputo che Ahmed Erakat, un palestinese di 27 anni, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco dai soldati israeliani dopo che la sua auto ha sterzato finendo contro una guardiola in un posto di blocco a Gerusalemme est.

Non è ancora chiaro cosa sia successo esattamente, ma sappiamo che Ahmed stava andando a prendere i suoi familiari presso il salone di un parrucchiere a Betlemme nel giorno del matrimonio di sua sorella.

Posso solo immaginare l’ansia e la tensione che Ahmed deve aver provato. Aveva il compito di assicurarsi che tutti arrivassero agli appuntamenti in tempo, e per di più nel giorno delle nozze, quando lo stress tra i familiari non può non essere particolarmente intenso. Questi compiti diventano ancora più stressanti quando si deve avere a che fare con i posti di controllo che è necessario attraversare prima di assicurarsi che tutto vada per il meglio.

So quanto può essere intensa questa esperienza, perché è successa a me.

Il giorno del matrimonio di mio fratello, due anni fa, io, come Ahmed, ero incaricato delle commissioni. Usando un’auto a noleggio con targa verde che mi aveva prestato mio padre, quel giorno dovevo guidare tra Nablus e Ramallah più volte – un tragitto per cui si impiegano almeno 40 minuti per ciascuna direzione – per trasportare i familiari nei luoghi dei loro vari impegni. Durante tutto quel tempo il mio telefono non smetteva di squillare: o venivo sgridato per essere in ritardo o incaricato di un altro compito. L’ ansia e lo stress avevano raggiunto il massimo, divorando la mia mente.

Giunto al posto di controllo di Za’atara, invece di rallentare, ho accidentalmente premuto l’acceleratore e ho quasi invaso la fermata dell’autobus dove si trovavano alcuni coloni israeliani. Fortunatamente, sono stato in grado di azionare rapidamente i freni prima che fosse troppo tardi. So che quell’errore avrebbe potuto costarmi la vita attraverso la canna di una pistola. Sarei potuto finire come un altro “terrorista”, accusato della mia morte, dipinto come un palestinese che avesse intenzionalmente spinto la sua auto contro degli ebrei israeliani.

Agli occhi dei nostri colonizzatori e dei loro sostenitori, ai palestinesi non è mai permesso compiere un errore umano. Non possiamo permetterci il lusso di sbagliare. Per loro, cerchiamo solo la morte e la distruzione; non siamo esseri umani che hanno la stessa gamma di emozioni, stress, ansie, preoccupazioni e difetti che potrebbero causare tali incidenti. In questo sistema di apartheid, i colonizzatori devono sempre giustificare la loro occupazione militare e il furto di terra demonizzando i colonizzati.

Ogni volta che sto per mettermi in viaggio dopo aver visitato mia nonna, lei mi chiede e supplica di guidare con attenzione. So che le sue parole sono più una preghiera che una raccomandazione. Una preghiera che io non finisca coll’essere un’altra vittima come Ahmed Erakat e innumerevoli altri condannati a morte per la guida in quanto palestinesi.

Izzy Mustafa è un organizzatore [di campagne a favore dei diritti umani in Palestina n.d.tr.] palestinese che vive a Brooklyn, New York.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese mentre va al matrimonio di sua sorella

Akram Al-Waara

Abu Dis, Cisgiordania occupata

23 giugno 2020 – Middle East Eye

Ahmad Erekat stava andando a prendere sua madre, sua sorella e dei fiori quando gli hanno sparato a morte, dice la famiglia.

Era appena prima del suo matrimonio, e Eman Erekat stava ricevendo gli ultimi ritocchi ai capelli e al trucco nel salone di bellezza di Betlemme, quando il telefono di sua madre è squillato.

Sua madre ha risposto pensando di sentire suo figlio che diceva di essere là fuori pronto a portarle a casa. Invece ha sentito una voce dall’altra parte che le comunicava la tremenda notizia: suo figlio era stato ucciso.

Mentre stava andando a prendere sua madre e sua sorella, Ahmad, di 27 anni, era stato colpito e ucciso dalle forze israeliane al checkpoint militare ‘Container’, tra Betlemme e la casa della famiglia Erekat nella città di Abu Dis, fuori Gerusalemme est.

In una dichiarazione la polizia israeliana ha sostenuto che, quando è stato colpito, Ahmad aveva tentato di investire dei poliziotti israeliani che presidiavano il checkpoint. Sembra che una soldatessa sia rimasta lievemente ferita e sia stata trasferita in un ospedale di Gerusalemme.

Ma la sua famiglia ha detto di non poter assolutamente immaginare che Ahmad possa aver compiuto un simile attacco, ancor meno nel giorno delle nozze di sua sorella.

Quando abbiamo saputo la notizia non ci potevamo credere. Siamo ancora sotto shock”, ha detto a Middle East Eye Emad Erekat, cugina di Ahmad. “Ahmad non avrebbe mai potuto progettare di attaccare i soldati, come loro sostengono.”

La spiegazione più logica dello sbandamento fuori strada dell’auto di Ahmad, ha detto la famiglia, è che Ahmad aveva sicuramente fretta, e potrebbe aver avuto un lieve guasto o aver perso il controllo dell’auto, cosa che i soldati hanno scambiato per un attacco.

Aveva tempi stretti per prendere sua sorella, i fiori e tante altre cose da Betlemme”, ha detto Emad, aggiungendo che Ahmad guidava un’auto a noleggio con targa palestinese, che ha affittato apposta per fare acquisti nel giorno del matrimonio.

Siamo certi al cento per cento che non avrebbe mai fatto ciò. Perché avrebbe dovuto farlo nel giorno delle nozze di sua sorella?”, si chiede Emad.

Gli hanno sparato senza nemmeno pensarci’

Ad Abu Dis centinaia di familiari ed amici si sono radunati presso la casa degli Erekat per piangere la morte di Ahmad che, secondo la sua famiglia, era fidanzato e aveva programmato di sposarsi proprio il mese prossimo.

Nessuno qui riesce a crederci, la gente è sconvolta”, dice Emad. “Sua sorella Eman è svenuta quando ha saputo la notizia. Non riesce nemmeno a parlare, è in totale stato di shock”.

Doveva essere il giorno più felice della sua vita, ma ora è diventato il giorno del funerale di suo fratello”, afferma.

La cugina di Ahmad Noura Erekat, avvocatessa per i diritti umani e docente associata presso la Rutgers University del New Jersey, nel tardo pomeriggio di martedì ha condiviso i suoi pensieri con una serie di commossi post su Twitter.

Mentite. Uccidete. Mentite. Questo è il mio cuginetto”, ha detto.

Gli unici terroristi sono i vigliacchi che hanno sparato per uccidere un bellissimo giovane e lo hanno accusato di questo”.

E’ stato riferito che testimoni oculari della scena hanno detto all’agenzia [palestinese] M’an News che “ciò che è accaduto al [posto di controllo] ‘Container’ non è stato un tentativo di investire (i soldati), bensì l’auto ha sbattuto sul bordo dello spartitraffico dove si trovavano i soldati, facendo sì che le forze d’occupazione israeliane sparassero all’automobile.

Noi non abbiamo visto l’accaduto, ma pensiamo che Ahmad abbia perso il controllo dell’auto per un secondo, e quindi i soldati gli hanno subito sparato senza pensarci due volte”, ha detto Emad.

Organi di informazione locali palestinesi hanno riferito che Ahmad è stato lasciato steso in terra per molto tempo e non ha ricevuto cure mediche dai soldati. Quando le ambulanze israeliane sono arrivate, riportano le notizie, Ahmad era già morto.

Lo hanno lasciato morire’

Un video diffuso sui social media, presumibilmente ripreso da un testimone oculare dell’incidente, mostra Ahmad ferito che giace a terra, curvo in posizione fetale, con una scia di sangue che gli esce dal corpo.

Si vede una soldatessa che cammina avanti e indietro dinanzi a Ahmad con il fucile puntato, mentre dietro la sua auto si forma una fila di auto palestinesi in attesa di attraversare il checkpoint.

Si sente l’uomo che sta filmando dire: “Sono le 15,50 al ‘Container’, un giovane uomo è stato appena fatto diventare un martire. Gli hanno sparato proprio qui davanti a noi. Che riposi in pace.”

L’uomo continua dicendo: “lo hanno lasciato steso in terra finché è morto”.

L’uccisione di Ahmad non è certo la prima di questo genere. Negli scorsi anni in tutta la Cisgiordania e a Gerusalemme est centinaia di palestinesi sono stati uccisi nel corso di presunti attacchi col coltello e con le auto ai checkpoint.

In parecchi casi le famiglie delle vittime palestinesi e i testimoni hanno sostenuto che i presunti “aggressori” sono stati colpiti dopo che incidenti stradali di poco conto sono stati scambiati per attacchi a soldati e coloni israeliani.

Tante persone sono state uccise a questo checkpoint”, dice a MEE Khuthifa Jamus, un’amica di Erekat. “Se sei palestinese, qualunque movimento sbagliato ad un checkpoint può farti uccidere”.

Ci ammazzano a sangue freddo e poi dicono che stavano solo difendendosi”, ha aggiunto Jamus.

Uccisi a sangue freddo’

Da molto tempo i soldati israeliani sono accusati da attivisti e associazioni per i diritti di uso eccessivo della forza contro palestinesi che nel momento in cui sono stati uccisi non costituivano un’immediata minaccia alla vita dei soldati.

Recentemente a Gerusalemme est la polizia israeliana ha sparato e ucciso Eyad al-Halak, un uomo palestinese autistico, mentre stava scappando dai poliziotti. Al-Halak era disarmato e la sua uccisione ha sollevato una diffusa indignazione in tutta la Palestina e all’estero, molti hanno paragonato la sua morte all’uccisione da parte della polizia di George Floyd negli Stati Uniti.

Quest’uomo è stato ucciso a sangue freddo. Stasera c’era il matrimonio di sua sorella”, ha detto martedì il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in una dichiarazione.

Quel che sostiene l’esercito di occupazione (l’esercito israeliano), cioè che tentava di investire qualcuno, è falso”, ha detto Erekat, un parente di Ahmad.

L’uccisione di Ahmad avviene in un contesto di accresciuta presenza dei soldati israeliani nei territori occupati in quanto Israele si prepara all’annessione [di parti della Cisgiordania, ndtr].

Mentre i generali dell’esercito israeliano prevedono una fiammata di violenza a causa delle politiche israeliane, molti soldati hanno elevato il livello di allerta per presunti attacchi da parte di palestinesi.

Anche se Ahmad avesse compiuto un attacco, cosa che non era, il problema è che i soldati e questi checkpoint prima di tutto non dovrebbero essere qui”, ha detto una commossa Jamus. “Questa è la colpa dell’occupazione, stare qui e ucciderci senza ragione, continuamente.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ammonisce Israele a rinunciare ai piani di annessione

23 giu 2020 – Al Jazeera

L’alto rappresentante dell’ONU afferma che una simile mossa sarebbe “devastante” per le speranze di nuovi colloqui e sull’eventuale soluzione dei due Stati.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha invitato Israele ad abbandonare il piano di annessione di parti della Cisgiordania occupata, affermando che tale mossa sarebbe una “grave violazione del diritto internazionale”.

L’alto rappresentante dell’ONU ha formulato queste affermazioni martedì nel corso di una relazione al Consiglio di sicurezza, un giorno prima che la commissione, composta da 15 membri, si riunisse per l’incontro semestrale sul conflitto israelo-palestinese.

Il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato che il processo di annessione potrebbe avere inizio dal 1° luglio.

Nel documento, Guterres ha affermato che un’annessione israeliana sarebbe “devastante” per le speranze di nuovi negoziati e sull’eventuale soluzione dei due stati.

“Ciò sarebbe disastroso per palestinesi, israeliani e per la regione”, ha detto, aggiungendo che il piano è una minaccia contro “i tentativi di far progredire la pace nella regione”.

Le affermazioni di Guterres sono giunte il giorno dopo la protesta di migliaia di palestinesi a Gerico contro il piano israeliano, con una manifestazione alla quale hanno partecipato anche decine di diplomatici stranieri.

La scorsa settimana la leadership palestinese ha proposto un piano che mira a creare uno “Stato palestinese sovrano, indipendente e smilitarizzato”, con Gerusalemme est come capitale. Lascia inoltre la porta aperta a modifiche dei confini tra lo Stato proposto e Israele, così come a scambi di territori di uguale “dimensione, volume e valore – alla pari”.

La proposta palestinese è arrivata in risposta al controverso piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump che ha dato il via libera a Israele sull’annessione di ampie zone della Cisgiordania occupata, comprese le colonie considerate illegali ai sensi del diritto internazionale, e della Valle del Giordano.

Presentato alla fine di gennaio, il piano di Trump propone l’istituzione, sul restante mosaico di parti frammentate dei territori palestinesi, di uno Stato palestinese smilitarizzato, con l’esclusione di Gerusalemme est occupata. Il piano è stato respinto nella sua interezza dai palestinesi.

La riunione del Consiglio di sicurezza, che si terrà in videoconferenza, sarà l’ultima grande riunione internazionale sulla questione prima della scadenza del 1 luglio.

“Qualsiasi decisione sulla sovranità sarà presa solo dal governo israeliano”, ha detto martedì nel corso di una dichiarazione l’inviato israeliano alle Nazioni Unite Danny Danon.

I diplomatici si aspettano che mercoledì la stragrande maggioranza dei membri delle Nazioni Unite si opponga nuovamente al piano israeliano.

“Dobbiamo inviare un messaggio chiaro”, ha detto un inviato all’agenzia di stampa AFP [l’agenzia di stampa France Presse, ndtr.], aggiungendo che “non è sufficiente” limitarsi a condannare la politica israeliana, e ha prospettato la possibilità di portare il caso dinanzi alla Corte internazionale di giustizia.

Per decenni Israele ha goduto del sostegno bipartisan [sia dei democratici che dei repubblicani, ndtr.] degli Stati Uniti che gli ha permesso di ignorare le critiche internazionali e le numerose risoluzioni delle Nazioni Unite sulla sua occupazione dei territori palestinesi.

Quando Trump alla fine del 2017 ha cambiato la politica degli Stati Uniti riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele, 14 dei 15 membri del Consiglio di sicurezza hanno adottato una risoluzione di condanna dell’iniziativa, ma gli Stati Uniti hanno posto il veto.

Una risoluzione simile è stata quindi presentata all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (UNGA), dove nessuna nazione ha il potere di veto: è stata approvata con 128 voti a favore, 9 contrari e 35 astensioni.

I diplomatici, tuttavia, sembrerebbero escludere la possibilità che per la prevista annessione Israele possa subire sanzioni, quali quelle imposte da alcuni Paesi dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia.

“Qualsiasi annessione avrebbe conseguenze piuttosto gravi per la soluzione dei due Stati contenuta nel processo di pace”, ha detto un altro ambasciatore in forma anonima all’AFP.

Ma l’inviato ha affermato che non è un'”operazione semplice” mettere a confronto la Cisgiordania con la Crimea.

All’inizio di questo mese, centinaia di docenti e studiosi di diritto internazionale hanno firmato una lettera aperta che condanna il piano israeliano di annessione dei territori della Cisgiordania, definendolo una “flagrante violazione delle regole fondamentali del diritto internazionale e costituirebbe anche una grave minaccia alla stabilità internazionale in una regione instabile”.

Kevin Jon Heller, docente di diritto internazionale, ha dichiarato ad Al Jazeera che l’annessione prevista da Israele è “una chiara e sostanziale violazione del diritto internazionale, che vieta l’annessione dei territori presi con la forza”.

“L’annessione da parte di Israele delle alture del Golan e di Gerusalemme,” ha affermato Heller, “e il contemporaneo silenzio internazionale e arabo, l’hanno incoraggiato a intraprendere ulteriori azioni in quella direzione, come sta ora pianificando”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)