Impunità e annessioni: “Israele vuole far man bassa”

Mersiha Gadzo,

3 giugno 2020 Al Jazeera

Secondo gli analisti, Israele gode di impunità per la mancanza di volontà della politica internazionale ad oobbligarlo ad assumersi le sue responsabilità

Il governo israeliano ha dichiarato che l’annessione degli insediamenti illegali ebraici nella Cisgiordania occupata, così come quelli nella fertile Valle del Giordano, potrebbe iniziare già a partire dal 1 luglio.

Mentre i dettagli del piano di annessione rimangono vaghi, il primo ministro Benjamin Netanyahu recentemente confermato aveva dichiarato l’intenzione di annettere la Valle del Giordano durante la campagna elettorale dello scorso anno.

Da allora, gli Stati Uniti han proposto il loro piano per la pace in Medio Oriente che prevede la sovranità israeliana sugli insediamenti nei Territori Occupati, illegali secondo il diritto internazionale, e Netanyahu ha da allora ribadito le sue promesse.

Molte nazioni, tra cui gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno sconsigliato tale mossa, facendo notare come un’annessione unilaterale violerebbe il diritto internazionale e sarebbe un colpo devastante per la prospettiva di una soluzione a due Stati al conflitto Israelo-Palestinese.

A maggio il responsabile della politica estera dell’Unione Europea ha detto che l’Unione userà “tutte le proprie facoltà diplomatiche” per cercare di dissuadere il governo Israeliano a procedere col suo piano.

L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha rifiutato il progetto statunitense e ha recentemente dichiarato che considera nulli e privi di valore qualunque accordo precedentemente sottoscritto con Stati Uniti e Israele.

L’annessione unilaterale di un territorio è tassativamente vietata dal diritto internazionale, senza alcuna eccezione. Ma se l’Unione Europea è compatta nella sua opposizione all’annessione, rimane divisa su quali passi intraprendere, facendo sì che la sua risposta rimanga limitata alla retorica e alle condanne verbali.

Lezioni dalla storia

Uno scenario simile si verificò già nel 1980, quando Israele annetté Gerusalemme Est e poi nel 1981 le alture del Golan siriane.

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU asserì che avrebbe implementato sanzioni economiche e politiche contro Israele, ma alle parole non seguirono i fatti.

Quattro decenni più tardi, la comunità internazionale continua a dibattere su come rispondere al piano israeliano di annettere circa un terzo dei Territori Occupati.

Non saremmo qui nel 2020 a discutere di questo se nel 1980 e nel 1981 si fossero tracciati dei confini certi” dichiara ad Al Jazeera Michael Lynk, inviato speciale dell’ONU per la situazione dei diritti umani nei Territori Occupati palestinesi.

Israele ha imparato una lezione irrefutabile per quanto concerne l’impunità – che la comunità internazionale farà passare risoluzioni contro l’annessione, adotterà risoluzioni sull’illegalità di costruire imprese coloniali, ma nonostante ciò la comunità internazionale non imporrà praticamente nessuna conseguenza ad Israele che quindi potrà, nei fatti, far man bassa” ha detto Lynk.

Israele è in violazione di più di 40 risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e di circa 100 risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Nel 2018 Lynk ha esortato la comunità internazionale ad agire per impedire l’imminente annessione della Cisgiordania occupata.

Nel rapporto annuale del 2019, Lynk ha ribadito che l’Assemblea Generale e la comunità internazionale hanno l’obbligo legale di assicurare che il diritto internazionale venga rispettato dai propri membri.

Ciononostante, Israele ha goduto di un regime di impunità per decenni, nonostante gravi violazioni del diritto internazionale, a causa di un’assenza di volontà politica ad addossargli “una qualunque forma significativa di responsabilità”, scrive Lynk.

Il Caso della Crimea

La comunità internazionale in passato ha dimostrato di essere capace di rispondere alle annessioni illegali, come quando ha rapidamente imposto sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia quando ha occupato e annesso la Crimea dall’Ucraina nel 2014.

La Russia è stata espulsa dal G8, la sua domanda di partecipazione all’OECD [Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ndtr.] bloccata, sono stati posti blocchi all’importazione e esportazione dei beni da e per la Crimea, e le persone coinvolte nell’annessione sono state oggetto di sanzioni diplomatiche e blocco dei beni.

Tali misure sono ancora in corso, e sono state estese fino a giugno 2020, pur essendo la Russia un importante partner commerciale e un attore chiave della politica internazionale.

Lynk fa notare come Israele abbia un impatto molto meno significativo sulle economie globale ed europea.

[L’UE] potrebbe effettivamente imporre misure diplomatiche di responsabilizzazione ad Israele per assicurarsi che receda dalla decisione di annessione o per far si che si renda conto che ci sarà un prezzo da pagare se proseguisse sul percorso dell’annessione”, ha dichiarato Lynk

Ciononostante, l’UE appare alquanto divisa al suo interno sui passi da intraprendere.”

Non ci sono differenze politiche o legali significative tra l’annessione della Crimea nel 2014 e quella progettata per il 2020 di considerevole parte della Cisgiordania.”, dice Lynk

Al contrario, le relazioni tra l’UE e Israele si sono solo rafforzate.

Il commercio tra i due ha raggiunto cifre record negli ultimi anni. Nel 2017, l’export israeliano di beni verso l’UE ha raggiunto il 34% dell’export totale di Israele.

Quasi il 40% degli import israeliani arriva dall’UE, suo principale partner commerciale.

Gli Stati Uniti hanno addirittura ampliato i loro aiuti a livelli record. Nel 2016, verso la fine del mandato presidenziale di Barack Obama, gli Stati Uniti hanno accordato a Israele 38 miliardi di dollari di aiuti militari per la decade successiva, somma che Netanyahu ha definito “storica”.

Diana Buttu, un’analista di Haifa, ha detto ad Al Jazeera che il piano di Israele per l’annessione viene visto come “la ciliegina sulla torta” visto che non ci sono state conseguenze per i comportamenti illegali degli ultimi 53 anni di occupazione, che includono l’espansione degli insediamenti israeliani illegali, l’implementazione di un doppio sistema legale, l’impedimento ai palestinesi dell’accesso alle risorse naturali e i bombardamenti sulla Striscia di Gaza.

Abbiamo visto negli anni come Israele acquisti sempre più supporto internazionale da paesi in tutte le parti del mondo.”, dice Buttu.

La risposta [internazionale] è stata nulla, e questo è esattamente quello su cui scommettono i coloni. È esattamente ciò che hanno previsto.”

Buttu dice che la ragione per cui la comunità internazionale ha deciso di ignorare quelle azioni è per via “del fatto che Israele è un progetto coloniale”.

Il mondo arabo non ha mai avuto l’autodeterminazione. Non è mai stata un’area dove non ci fosse un qualche tipo di potere coloniale”, prosegue Buttu.

È possibile imporre cambiamenti. La Russia è molto più potente di Israele. Ma non c’è la volontà politica di farlo, è questa la vera differenza.”

Perdere l’opportunità per l’annessione

La comunità internazionale ha fatto poco riguardo alla proposta d’annessione di Israele poiché Israele ha gestito “una campagnia internazionale estremamente scaltra” e ha un servzio diplomatico “solido”, secondo Lynk.

Ha, ovviamente, il supporto di importanti gruppi pro-Israele negli Stati Uniti, che hanno una significativa influenza a Washington e altrove”, dice Lynk.

È noto che l’amministrazione Trump ha forti legami col partito Likud di Netanyahu.

A maggio 2018 gli Stati Uniti han spostato la loro ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, ribaltando una linea politica vecchia di decenni. A marzo 2019 hanno riconosciuto l’annessione israeliana delle alture del Golan siriane.

A giugno 2019, gli Stati Uniti hanno azzerato i loro contributi all’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi e a febbraio hanno rifiutato di fornire finanziamenti all’Autorità Nazionale Palestinese, a quanto è stato detto in un tentativo di forzare Ramallah a modificare la sua posizione sul piano di annessione.

Uno stato internazionale, come gli Stati Uniti, ha il dovere di isolare coloro che violano i diritti umani, non di finire per favorirli” dice Lynk.

Quello che vediamo sono il governo israeliano e il Partito Repubblicano [americano ndtr.] farsi scaltri e realizzare che l’attuale amministrazione potrebbe non essere rieletta a novembre, e che quindi potrebbe andare persa l’opportunità di realizzare probabilmente il più grande regalo americano a Israele di sempre, cioè il sostegno all’annessione di parti della Cisgiordania e la protezione per Israele da qualsiasi ricaduta diplomatica.”

I critici han paragonato l’idea di Stato palestinese di Stati Uniti e Israele al Bantustan sudafricano durante il regime dell’apartheid.

Lynk descrive il piano come “una serie sconnessa di circa 165 isolette di territorio separate le une dalle altre” e la soluzione dei due Stati come “un cadavere che sta semplicemente aspettando il proprio funerale”.

Se Israele dovesse andare avanti con l’annessione, creerà uno stato con due livelli distinti di diritti economici, politici, sociali,e di proprietà, ovvero un regime di apartheid, dice Lynk.

Quando il polverone si sarà posato…il mondo realizzerà che c’è un solo Stato in funzione tra il Mediterraneo il fiume Giordano, e che quello Stato è Israele.”

[traduzione dall’Inglese di Giacomo Ortona]




Che cosa c’è dietro l’entusiastico appoggio alla soluzione dello Stato unico?

Saleh Al-Naami

2 giugno 2020 – Middle East Monitor

Parecchi organi di informazione, alcuni dei quali collegati all’Autorità Nazionale Palestinese, hanno deliberatamente minimizzato la decisione di Israele di annettere parti della Cisgiordania, ed hanno addirittura salutato con favore la proposta. Sostengono che la sua attuazione porterà ad una soluzione “di Stato unico”, che alla fine consentirà ai palestinesi di comandare in Israele, data la loro superiorità demografica. È una teoria piuttosto fantasiosa.

Le persone che sostengono ciò ritengono che Israele concederà la cittadinanza ai palestinesi dei territori annessi, in modo che essi potranno automaticamente godere degli stessi diritti politici dei sionisti. È una follia pensarla così, e coloro che hanno plaudito all’idea sono individui malvagi che lo fanno per scoraggiare i palestinesi dal contrastare i piani di annessione israeliani.

Inoltre queste dichiarazioni creano una situazione che consente alla leadership dell’ANP di non essere incisiva nel contrastare Israele sull’annessione e nel proseguire o meno il coordinamento per la sicurezza con l’entità sionista. Tel Aviv ha confermato che non è stato attuato alcun significativo cambiamento riguardo a tale coordinamento, nonostante che il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas abbia annunciato che il suo governo ha annullato tutti gli accordi con Israele.

È chiaro che le voci palestinesi che si appigliano a questa fuorviante strategia riguardo alla questione dell’annessione sviliscono la consapevolezza collettiva del popolo, presentando una visione molto semplicistica che ignora del tutto la realtà.

Benché il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu abbia dichiarato a Israel Hayom che Israele non concederà la cittadinanza israeliana ai palestinesi delle aree annesse, coloro che sostengono che la forza potenziale dell’annessione possa essere utilizzata in positivo, nonostante la sua debolezza, perseverano ancora nella loro illusione. Pur se la leadership dell’ANP non ha adottato questa posizione pubblicamente, neppure la contrasta, né smaschera i suoi obbiettivi. “Lo Stato unico” non sarà condannato dall’ANP, in modo da evitare di dover prendere le misure necessarie per combattere l’annessione.

Le voci palestinesi che invocano l’utilizzo dell’annessione come una spinta verso una soluzione dello “Stato unico” insultano il popolo palestinese e la sua consapevolezza. La gente è perfettamente cosciente che il governo di estrema destra di Netanyahu andrà avanti con l’annessione per giudaizzare la terra palestinese e creare ulteriori situazioni di fatto. Non permetterà nulla che possa minacciare il carattere “ebreo” di Israele concedendo la cittadinanza israeliana ad altri palestinesi; ricordiamoci che gli arabo-palestinesi sono già il 20% degli israeliani.

Netanyahu ha reso il compito di queste posizioni molto difficile. Il suo rifiuto di concedere la cittadinanza israeliana ai palestinesi delle aree che saranno annesse significa che tale processo fornirà una cornice politica al regime di apartheid in Cisgiordania.

Ciò che solleva dei dubbi circa le ragioni che spingono le persone a fare appelli per lo “Stato unico”, in particolare coloro che sono legati all’ANP e ai suoi servizi di sicurezza, è il fatto che il lancio di tali idee avviene in un contesto in cui l’autorità di Ramallah manda messaggi rassicuranti allo Stato occupante riguardo alle sue reali motivazioni. Per esempio, i media sionisti hanno riferito che gli incontri per la cooperazione sulla sicurezza tra i leader dell’ANP e Israele sono tuttora in corso. Inoltre l’ANP sottolinea che non permetterà nessuno scoppio di “violenze”, intendendo le azioni di resistenza contro l’occupazione militare israeliana. È ovvio che contrastare azioni di resistenza richiede un qualche coordinamento di sicurezza con Israele.

Quindi questi messaggi ambigui stanno fondamentalmente invitando i palestinesi ad arrendersi e ad accettare l’annessione israeliana per consentire all’ANP di evitare un confronto che potrebbe costarle un prezzo molto alto. Devono essere fermati.

Questo articolo è stato pubblicato in arabo su ‘the New Khaleej’ il 1 giugno 2020

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un cameraman palestinese è stato licenziato dall’Associated Press in seguito a un diverbio con l’Autorità Nazionale Palestinese

YUMNA PATEL  

29 maggio 2020 Mondoweiss

Il licenziamento di un cameraman da tempo in servizio alla AP (Associated Press) sta suscitando scalpore in Palestina per via delle accuse secondo cui l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) vi avrebbe avuto una parte.

Eyad Hamad, un giornalista di Betlemme che lavora con Associated Press da 20 anni, è stato licenziato dal suo incarico questa settimana dopo che la polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese avrebbe presentato una denuncia all’Associated Press accusando Hamad di “istigazione, maltrattamenti e minacce di violenza”.

Sebbene l’Autorità Nazionale Palestinese abbia negato pubblicamente qualsiasi coinvolgimento, l’agenzia ha addotto il reclamo dell’Autorità Nazionale Palestinese come la goccia che ha portato al licenziamento di Hamad.

Nella lettera inviata ad Hamad dall’agenzia di stampa, che Mondoweiss ha potuto vedere, Josef Federman, capo dell’ufficio di Associated Press per Israele e i territori palestinesi, elenca una serie di “violazioni” della politica aziendale commesse da Hamad nell’ultimo anno.

La maggior parte delle violazioni elencate da Federman riguardano post “inappropriati” di Hamad che commentano i leader politici palestinesi sui social media, e il suo coinvolgimento nelle proteste contro Israele e contro le violazioni dell’Autorità Nazionale Palestinese nei riguardi dei giornalisti palestinesi, tra cui la sua partecipazione a una manifestazione per il giornalista palestinese Muath Amarneth accecato all’occhio destro da una pallottola israeliana.

“Come sa, la Associated Press richiede ai suoi dipendenti di mostrare una rigorosa neutralità nel loro lavoro professionale e nell’attività pubblica”, recita la lettera.

“Tuttavia, nonostante i numerosi avvertimenti degli anni passati, lei ha continuato a violare questo principio di base del nostro lavoro”, scrive Federman.

Un litigio personale finito male

La lettera di Associated Press sostiene che il licenziamento sarebbe dovuto a svariati casi, tra cui uno in cui Hamad avrebbe minacciato uno dei suoi colleghi, ma Hamad e suoi colleghi giornalisti affermano che il motivo del licenziamento sia stato un litigio personale tra Hamad e il portavoce della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese Luay Irzeiqat .

Secondo numerosi giornalisti del posto, i problemi per Hamad sono iniziati quando ha escluso Irzeiqat da un gruppo Whatsapp di giornalisti di zona, presumibilmente a causa del fatto che Hamad non voleva funzionari governativi nel gruppo.

“Dopo essere stato escluso dal gruppo, Irzeiqat ha iniziato a minacciare Hamad, dicendo che avrebbe chiamato l’Associated Press per farlo licenziare” ha detto a Mondoweiss Thaer Fakhouri, 31 anni, giornalista freelance di Hebron e membro del gruppo Whatsapp in questione.

Nella stessa settimana, le autorità palestinesi hanno arrestato Anas Hawari, un giovane giornalista che ha lavorato con la rete di notizie Quds, affiliata ad Hamas.

La brutale detenzione di Hawari, che a quanto si dice è stato picchiato e ha dovuto essere ricoverato in ospedale a seguito del suo arresto, ha causato tumulti all’interno della comunità dei giornalisti in Cisgiordania, spesso oggetto di censura da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese e di campagne di arresti se ritenuti critici nei confronti del governo di Mahmoud Abbas.

Alcune fonti sostengono che a seguito dell’arresto di Hawari, Hamad avrebbe inviato una serie di messaggi vocali ai funzionari della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, tra cui Irzeiqat, condannando le loro azioni e minacciando di bruciare pneumatici di fronte al tribunale locale per protestare contro la detenzione di Hawari.

Hamad ha poi partecipato a una manifestazione contro l’arresto di Hawari davanti ad un edificio governativo dell’Autorità Nazionale Palestinese, mostrando un poster con su scritto: “Presidente Mahmoud Abbas, chiedo protezione dalle agenzie di sicurezza [palestinesi]”.

Nella lettera di licenziamento inviata da Associated Press, Federman fa cenno al fatto che la denuncia dell’Autorità Nazionale Palestinese contro Hamad includesse la presunta minaccia di bruciare pneumatici. Federman rimprovera Hamad anche per il suo ruolo nella protesta e le sue accuse contro l’Autorità Nazionale Palestinese di corruzione “insinuando che siano dei collaborazionisti”.

“Eyad [Hamad] non stava cercando di porre in discussione solo l’arresto di Anas [Hawari], ma anche la violenza usata dalla polizia palestinese”, ha detto Fakhouri a Mondoweiss, aggiungendo che Hamad ha parlato a lungo delle violazioni dei diritti dei giornalisti palestinesi, sia da parte delle amministrazioni israeliane che di quelle palestinesi.

“La stessa cosa vale per Muath”, ha continuato Fakhouri, riferendosi al caso di Muath Amarneh. “Eyad non voleva difenderlo solo come giornalista, ma come un essere umano ingiustamente accecato”.

“Non credo che difendere i diritti umani, anche come giornalista, dovrebbe essere considerato un crimine. Soprattutto non tale da farti perdere il lavoro”, ha detto Fakhouri.

Due pesi e due misure

La risposta locale al licenziamento di Hamad è stata di rabbia e shock: sia nei confronti di Associated Press per aver licenziato Hamad in quelle che molti considerano circostanze ingiuste, sia per l’evidente coinvolgimento dei funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Per quanto riguarda il licenziamento di Hamad, l’Associated Press ha dichiarato ai media che non avrebbe rilasciato dichiarazioni su “fatti personali”. Nel frattempo, l’Autorità Nazionale Palestinese ha continuato a negare di essere a conoscenza di una qualche denuncia presentata all’agenzia contro Hamad.

I giornalisti e gli attivisti locali si sono rivolti ai social media per chiedere che Hamad riavesse il suo posto, mentre il Sindacato Palestinese dei Giornalisti (PJS) ha condannato il “licenziamento arbitrario” di Hamad e ha invitato Associated Press a tornare indietro rispetto alla sua “decisione faziosa e ingiusta”.

“Come giornalista palestinese, sono preoccupato per le ripercussioni”, ha detto Fakhouri a Mondoweiss, affermando che molti dei suoi colleghi hanno espresso il timore che l’Autorità Nazionale Palestinese possa esercitare il proprio potere per indurre le agenzie di stampa locali e internazionali a licenziare chiunque la critichi apertamente.

“Sono stato arrestato sette volte dal governo palestinese a causa del mio lavoro con agenzie legate a fazioni politiche rivali”, ha detto Fakhouri.

Tutto ciò che vogliamo come giornalisti è di poter di mostrare al mondo ciò che sta accadendo qui sul campo senza paura di essere imprigionati dall’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania o da Hamas a Gaza.”

Un tema ricorrente nelle molte critiche alla decisione di Associated Press è stata la sensazione che se nella posizione di Hamad ci fosse stato un giornalista israeliano, la situazione sarebbe potuta andare diversamente.

Quando gli è stato chiesto se concordasse con quella sensazione, Fakhouri ha detto “Sì, credo che sarebbe stato diverso se non fosse stato un palestinese”.

“Molti giornalisti israeliani erano in precedenza soldati israeliani, che tutti i giorni sparavano e uccidevano i palestinesi”, ha detto Fakhouri, aggiungendo che “alcuni di loro servono ancora nelle riserve militari”.

“Come può essere che si faccia parte di un apparato militare che commette crimini di guerra ed essere un giornalista ‘imparziale’ come si vanta di essere l’Associated Press?” si chiede Fakhouri.

“Perché difendere i diritti umani e la libertà di stampa è motivo di licenziamento e le violazioni israeliane dei diritti umani no?”

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli attivisti palestinesi hanno 2 miliardi di opportunità per insistere sul disinvestimento

Asa Winstansley

30 maggio 2020 – Middle East Monitor

La campagna di solidarietà con la Palestina (PSC) ha pubblicato venerdì una nuova banca dati che documenta i molti modi in cui i contributi pensionistici degli impiegati delle amministrazioni locali sono impropriamente utilizzati in investimenti a favore dell’occupazione israeliana.

Il nuovo studio elenca una lunga lista di società israeliane e internazionali coinvolte nell’occupazione israeliana in cui sistemi pensionistici investono i propri capitali.

Sono incluse HSBC, la banca Barclays, General Electric, Microsoft e Serco [azienda di trasporti, controllo traffico aereo, prigioni, armi ecc. ndtr].

Il coinvolgimento di queste aziende nell’occupazione della Cisgiordania è ben documentato. Si può controllare il proprio fondo per vedere quali di queste ditte complici abbiano degli investimenti.

Il database è semplice da usare e offre dettagli chiari e concisi su quanto il fondo e le società siano complici.

Molti di questi fondi hanno “politiche di investimento etico” ma, come avviene spesso, si tratta semplicemente di un’operazione pubblicitaria e di facciata.

Ora gli attivisti hanno un’occasione d’oro per far pressione sui loro fondi affinché disinvestano.

Campagne di successo potrebbero facilmente condurre a lungo termine queste società al disinvestimento di queste società dall’occupazione israeliana.

Il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) ha avuto, nel corso degli anni, molte vittorie simili, un fenomeno così preoccupante che negli ultimi cinque anni il governo israeliano ha destinato un intero ministero (quello degli “Affari Strategici”) a una guerra globale semi-clandestina contro il movimento.

Il nuovo database della PSC fa seguito alla sua più recente vittoria. La Corte Suprema [della Gran Bretagna, ndtr.] ha deliberato in aprile contro il regolamento del governo conservatore del 2016 che vieta alle autorità locali di disinvestire da Israele (tecnicamente contro ogni governo estero, ma, in realtà, il provvedimento mirava a proteggere solo Israele).

Il movimento PSC aveva pubblicato a novembre un database simile relativo agli investimenti di università inglesi in società complici con l’occupazione israeliana.

Si ricordi che in base al diritto internazionale le colonie israeliane in Cisgiordania costituiscono un crimine di guerra.

Eppure i manager di università e fondi pensionistici inglesi sono felici di investire in istituzioni israeliane e internazionali fortemente coinvolte nell’edificare, attrezzare e finanziare questi insediamenti illegali costruiti su terra sottratta ai palestinesi.

Dopo questa recente vittoria, sostenitori e attivisti hanno ora una grande opportunità di far pressione su queste istituzioni.

Società senza etica (e spesso immorali) come HSBC, Microsoft e simili, molto raramente sostengono il sionismo, l’ideologia ufficiale dello Stato di Israele. Guidate da capitalisti senza scrupoli si preoccupano solo dei propri bilanci.

Con pressioni sufficienti e costanti da parte di attivisti si potrebbe arrivare a una vittoria, perché spesso non vogliono la scocciatura della pubblicità dannosa derivante dall’essere associati in regimi coinvolti in abusi dei diritti umani, specie quando sono una piccola parte del totale dei loro investimenti.

Sebbene le somme coinvolte siano notevoli, per le società miliardarie si tratta di briciole.

È così che si è giunti alla vittoria all’Università di Leeds nel 2018 quando un piccolo gruppo di attivisti, sostenuto da una rete più ampia, è riuscito a fare sufficientemente pressione da far sì che l’università cedesse e disinvestisse da tre su quattro delle aziende prese di mira.

Dopo, naturalmente, i dirigenti dell’università hanno negato di aver accolto le richieste del BDS, ma è quasi sempre così. Corporazioni e grandi istituzioni non amano creare il precedente di aver ceduto ad alcuna forma di potere del popolo.

Nonostante ciò, i fatti sono i fatti e gli obiettivi sono stati in gran parte raggiunti.

Queste vittorie concrete, strategiche e tattiche sono l’essenza dei successi del movimento BDS.

La portata degli investimenti dei fondi delle amministrazioni locali in aziende complici che sono coinvolte nell’occupazione israeliana potrebbe far paura, ma si dovrebbe invece vedere come un’opportunità, anzi due miliardi di opportunità, per ottenere risultati concreti per i palestinesi, proprio qui, nel ventre del mostro, del Paese le cui macchinazioni coloniali hanno portato alla spogliazione e, in ultimo, alla pulizia etnica dei palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




In Palestina più di 100 violazioni da parte di Israele in una settimana

29 maggio 2020 – Middle East Monitor

Il Centro Palestinese per i Diritti Umani (PCHR) ha documentato più di 100 violazioni del diritto internazionale sui diritti umani perpetrate dalle forze di occupazione e dai coloni israeliani un una sola settimana nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).

Secondo un rapporto del PCHR pubblicato ieri, è stato registrato complessivamente un totale di 106 violazioni di diritti umani da parte di Israele; tuttavia le restrizioni imposte dallo stato di emergenza hanno limitato la capacità della ONG di monitorare tutti gli incidenti nei TPO.

“Questa settimana, segnata dalla festa musulmana di Eid al-Fitr, che celebra la fine del mese di Ramadan, non è stata diversa, essendo continuati gli attacchi delle forze israeliane; inoltre i coloni hanno sparato, ferendoli, ad agricoltori palestinesi, hanno incendiato terreni e attaccato case”, ha dichiarato la ONG per i diritti umani.

Come segnalato dal PCHR, le forze israeliane hanno ucciso illegalmente cinque civili palestinesi, compreso un bambino che non costituiva una minaccia imminente per la vita, usando proiettili veri durante le incursioni militari israeliane a Ramallah e Tuba.

Inoltre Israele ha continuato ad ampliare le colonie illegali e le relative infrastrutture nella Cisgiordania occupata, compreso lo smantellamento di una roulotte e la demolizione di una casa ancora in costruzione nella zona centrale della Valle del Giordano, in quanto non disponeva del permesso necessario da parte delle autorità di occupazione israeliane.

Questi permessi sono quasi impossibili da ottenere da parte dei palestinesi. Si dice che tre palestinesi siano stati costretti a demolire essi stessi le proprie case.

Il PCHR ha dichiarato che le estese demolizioni hanno comportato anche l’uso di bulldozer nel sito archeologico di Sebastia e il furto di pietre antiche nei dintorni.

Attualmente vi sono circa 650.000 coloni ebrei che vivono nel territorio palestinese occupato, compresa Gerusalemme est. Tutte le colonie israeliane sono illegali in base al diritto internazionale. La Quarta Convenzione di Ginevra proibisce ad una potenza occupante di trasferire la propria popolazione sulla terra occupata.

(Traduzione dallo spagnolo di Cristiana Cavagna)




Annettere gli acquiferi: Israele e la crisi idrica nella Palestina occupata

Fareed Taamallah

28 maggio 2020 – Palestine Chronicle

La scorsa settimana la Palestinian Water Authority [Autorità Palestinese per l’Acqua] ha duramente criticato Israele per aver ridotto in modo significativo la quantità di acqua destinata alla Cisgiordania. “Stiamo affrontando questa crisi mentre sta cominciando l’estate, un periodo dell’anno in cui la gente in genere ha bisogno di più acqua, non di meno,” secondo una citazione di quanto ha detto il capo della PWA Mazen Ghneim.

Nel mio quartiere a Ramallah ogni anno durante i mesi estivi non abbiamo quasi mai acqua nelle tubature. L’acqua scorre solo un giorno alla settimana. Quindi tutte le famiglie devono fare attenzione all’orario di distribuzione dell’acqua per pianificare le attività domestiche come fare il bucato e pulire la casa. Alcune comunità palestinesi in Cisgiordania sono collegale a reti idriche “allacciate” che riforniscono gli illegali coloni israeliani. Durante i mesi secchi estivi le valvole dell’acqua che portano alle vicine comunità palestinesi vengono normalmente chiuse dalle autorità israeliane in modo che i coloni non soffrano per la mancanza di acqua.

Nei territori palestinesi la carenza di acqua non è una crisi di carattere naturale, ma piuttosto il risultato dell’occupazione israeliana che sfrutta oltre l’85% delle risorse idriche.

Fatti e dati

Israele controlla i tre principali acquiferi transfrontalieri nei territori palestinesi occupati. Il primo e più grande è l’acquifero (montano) della Cisgiordania, che è alimentato dalle piogge e genera 679 milioni di m3 di acqua all’anno. Il secondo è il fiume Giordano, che fornisce a Israele circa 450 milioni di m3 all’anno. Ai palestinesi viene negato l’accesso e la fornitura delle loro acque. Il terzo è l’acquifero costiero, che produce 450 milioni di m3 d’acqua a Israele e 55 milioni di m3 a Gaza.

La Palestina ha un buon livello di precipitazioni. Ramallah, per esempio, ha un livello medio di piogge annuali di 615 millimetri, che è quasi tanto quanto i 620 mm di Londra.

Secondo il rapporto della Palestinian Water Authority del 2012, si stima che circa 784 milioni di m3 di piogge abbiano ricaricato le falde freatiche in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Tuttavia ai palestinesi vengono destinati solo 375 milioni di m3 di queste acque sotterranee, mentre Israele ne consuma annualmente 2.346 milioni di m3.

Gli accordi di Oslo

Il problema idrico è cominciato fin dall’inizio dell’occupazione israeliana della Palestina, ma è stato esacerbato nel 1995 dall’accordo provvisorio Oslo II tra l’OLP e il governo israeliano. Gli accordi di Oslo prevedevano “l’uso equo delle risorse idriche comuni da mettere in pratica durante e dopo il periodo transitorio.” Ma in realtà ciò non è mai avvenuto.

L’accordo che avrebbe dovuto essere di un periodo temporaneo di cinque anni limitò lo sviluppo delle risorse idriche palestinesi, e venne inquadrato nell’assunto che le necessità idriche palestinesi fossero di 70-80 milioni di m3 all’anno e che lo sviluppo provvisorio delle risorse idriche dovesse essere gestito da un meccanismo palestinese-israeliano. Gli argomenti riguardo agli “interessi comuni” (uno dei quali era l’acqua) sarebbero stati ulteriormente definiti in base ai negoziati per lo status permanente.

Il fallimento nel raggiungere un accordo definitivo ha significato l’iniqua distribuzione degli acquiferi della Cisgiordania, con il 15% destinato ai palestinesi e l’85% a Israele.

Come specificato negli accordi di Oslo, venne creata un Joint Water Committee [Comitato Congiunto per l’Acqua] (JWC) per sovrintendere a tutti i progetti relativi all’acqua e alle acque reflue in Cisgiordania. Il JWC è composto da un pari numero di rappresentanti rispettivamente di Israele e dell’Autorità Nazionale Palestinese, e le decisioni vengono prese di comune accordo. Ciò ha concesso ad Israele il potere di veto su tutti i progetti riguardanti le risorse idriche palestinesi e bloccato ogni richiesta dei palestinesi di scavare nuovi pozzi.

Pozzi costruiti o risistemati senza permessi rilasciati da Israele sono sistematicamente distrutti dalle forze di occupazione israeliane.

Apartheid idrico

Mentre le comunità palestinesi stanno affrontando la siccità e la carenza di acqua, le colonie israeliane – situate nella stessa area geografica – godono di abbondanti forniture idriche, consentendo ai coloni di riempire le loro piscine e di irrigare i loro prati e giardini. Il mancato accesso ad adeguate quantità d’acqua necessarie per l’allevamento di bestiame e per la produzione di alimenti rende beduini, allevatori e contadini particolarmente vulnerabili.

Le colonie agricole israeliane in Cisgiordania, soprattutto quelle della valle del Giordano, godono di una quantità di acqua fino a 6 volte superiore rispetto alle comunità palestinesi vicine. Nella città palestinese di Tubas il consumo quotidiano di acqua è di 30 litri a persona. Tuttavia secondo B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] gli abitanti della vicina colonia illegale israeliana di Beda’ot consumano circa 401 litri al giorno.

Mentre la popolazione palestinese è raddoppiata, la disponibilità di acqua è diminuita. Secondo il rapporto 2018 della Banca Mondiale, “con una popolazione della Cisgiordania e di Gaza di circa 4,8 milioni, che aumenta a un tasso medio annuale del 2,8%, si prevede che la differenza di forniture per uso domestico sia rispettivamente circa di 152 e di 135 milioni di m3.”

L’egemonia idrica israeliana ha lasciato i palestinesi con un disavanzo nell’allocazione idrica. Per compensare questo deficit sono stati obbligati a procurarsi da Israele circa un quarto delle forniture di acqua per uso domestico.

Secondo l’Ufficio palestinese di statistica il consumo quotidiano di acqua pro capite è attorno agli 88 litri. In confronto il consumo quotidiano di acqua pro capite in Israele è di 257 litri. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda almeno 100 litri di acqua a persona al giorno. Il consumo palestinese è inferiore al minimo.

Nella Striscia di Gaza la situazione idrica è persino peggiore. La gravissima carenza di acqua provocata dal 2007 dal brutale blocco israeliano ha portato a un pesante ricorso alla parte dell’acquifero costiero sottostante come unica fonte di rifornimento idrico di Gaza.

I due milioni di abitanti hanno estratto circa 180 milioni di m3 nel 2017, ma questa quantità è ottenuta con il pompaggio non sicuro che danneggia l’eco-sostenibilità della falda acquifera, mentre il ricarico totale è solo di un terzo di quanto viene estratto. Le conseguenze dirette dell’eccessivo pompaggio sono l’infiltrazione di acqua di mare e l’affioramento dell’acqua salmastra profonda. Di conseguenza il 97% dell’acqua non è potabile e non risponde agli standard di qualità delle linee guida riconosciute dell’OMS per le sorgenti di acqua potabile.

Piano di annessione

Israele controlla le due principali fonti idriche palestinesi in Cisgiordania (il bacino del fiume Giordano a est e l’acquifero montano occidentale) che forniscono annualmente a Israele circa 900 milioni di m3 di acqua.

Attraverso l’annessione delle zone della Cisgiordania prevista quest’anno, Israele intende impossessarsi degli acquiferi della Cisgiordania al di là dei nuovi confini israeliani conservando il controllo dei blocchi di colonie adiacenti ai bacini, in particolare la valle del Giordano e l’area di Salfit, dove si trova la mia città di origine, Qira.

Questa annessione perpetuerà gli alti livelli di consumo dell’acqua da parte di Israele negando le necessità fondamentali dei palestinesi e obbligandoli a dipendere da Israele per l’acqua, preservando così lo status quo di una drammaticamente ingiusta divisione delle risorse idriche, spegnendo ogni speranza di uno Stato palestinese e di una pace sostenibili nella regione.

Fareed Taamallah è un giornalista, agricoltore e attivista politico palestinese che vive a Ramallah. Ha fornito questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La polizia israeliana uccide un palestinese disarmato nella Gerusalemme est occupata

30 maggio 2020 – Al Jazeera

Iyad el-Hallak, 32 anni, frequentava e lavorava in una scuola per disabili nella Città Vecchia, nei pressi della quale è stato colpito a morte.

La polizia israeliana ha colpito e ucciso un palestinese disarmato nei pressi della Città Vecchia nella Gerusalemme est occupata.Secondo l’agenzia di notizie palestinese Wafa l’uomo assassinato, il trentaduenne Iyad el-Hallak, frequentava e lavorava in una scuola per disabili nella Città Vecchia, vicino al luogo in cui è stato colpito sabato mattina.

Un parente, che ha parlato all’agenzia di notizie Associated Press in forma anonima, ha affermato che el-Hallak aveva problemi mentali e si stava dirigendo verso la scuola.

Il portavoce della polizia israeliana Micky Rosenfeld ha affermato che i poliziotti “hanno individuato un sospetto con un oggetto sospetto che sembrava una pistola. Gli hanno detto di fermarsi ed hanno iniziato ad inseguirlo a piedi, e durante l’inseguimento alcuni agenti hanno anche aperto il fuoco contro il sospettato.”

Rosenfeld ha aggiunto che nella zona non è stata trovata nessuna arma.

In seguito alla sparatoria la polizia israeliana ha chiuso la Città Vecchia e mezzi d’informazione locali hanno detto che ai medici è stato vietato di entrare nella zona.

Wafa afferma che “(alcuni palestinesi) hanno detto che è stato colpito da vari proiettili e che è stato lasciato a terra sanguinante per un po’ di tempo finché è morto.”

La polizia ha anche fatto irruzione nella casa di el-Hallak, nel quartiere di Wadi Joz, dove alcuni membri della sua famiglia sono stati interrogati.

Il quotidiano israeliano Haaretz ha affermato che membri della famiglia di el-Hallak negano affermazioni secondo cui egli fosse armato e ha citato le loro affermazioni secondo cui “era incapace di fare del male a una mosca.”

Essi hanno detto che il corpo di el-Hallak è stato trasportato all’istituto di medicina legale Abu Kabir a Tel Aviv, in cui si trovano corpi di palestinesi uccisi in presunti attacchi contro israeliani, aggiungendo che le autorità non hanno fornito loro ulteriori dettagli.

L’istituto è noto come il luogo in cui sono stati asportati organi e parti del corpo di palestinesi.

La sparatoria è giunta il giorno dopo che soldati israeliani hanno ucciso un palestinese nei pressi della città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, che secondo loro cercava di investirli con il suo veicolo. In nessuno dei due episodi sono rimasti feriti israeliani.

Alcune associazioni locali e internazionali per i diritti umani hanno sollevato preoccupazioni per il fatto che le forze di sicurezza israeliane abbiano fatto un uso eccessivo della forza nell’affrontare palestinesi che stavano effettuando o erano sospettati di mettere in atto aggressioni.

Piani di annessione

Gli incidenti sono avvenuti mentre Israele sta portando avanti i suoi progetti di annessione di vaste aree della Cisgiordania, in linea con il cosiddetto piano per il Medio Oriente del presidente USA Donald Trump, che favorisce notevolmente Israele ed è stato rifiutato dai palestinesi.

Il piano consente a Israele di annettere le colonie israeliane, illegali dal punto di vista del diritto internazionale, e zone strategiche in Cisgiordania.

Per la maggior parte della comunità internazionale una simile iniziativa da parte di Israele sarebbe una gravissima violazione delle leggi internazionali e distruggerebbe le speranze di una soluzione a due Stati per il conflitto israelo-palestinese.

La scorsa settimana l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato di non essere più legata ai precedenti accordi con Israele e con gli USA e di aver interrotto tutti i rapporti [con Israele], compreso il pluriennale coordinamento per la sicurezza – una prassi molto discussa che è stata ripetutamente criticata dalle associazioni palestinesi per i diritti umani.

Israele occupò Gerusalemme est, la Cisgiordania e Gaza – assediata dal 2007 – durante la Guerra arabo-israeliana dei Sei Giorni nel 1967.

I dirigenti palestinesi vogliono che i territori facciano parte del loro futuro Stato, con Gerusalemme est come capitale, mentre Israele considera tutta la città di Gerusalemme come propria capitale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sono in isolamento, ma non a causa del coronavirus

Laith Abu Zeyad

27 Maggio 2020 – Al Jazeera

Israele mi ha vietato di uscire dalla Cisgiordania e ha rifiutato di dirmi perché.

Nei mesi scorsi, a causa della pandemia da coronavirus, milioni di persone nel mondo hanno sperimentato per la prima volta le difficoltà e la frustrazione di essere sottoposti a norme e regole imposte dallo Stato che limitano la loro libertà di movimento.

Tuttavia per me il blocco totale non è stata una novità. Sono abituato a vivere sotto una serie di norme mutevoli che stabiliscono dove posso andare e che cosa posso fare. Perché? Perché sono un palestinese che vive sotto occupazione israeliana.

Sono cresciuto nella Cisgiordania occupata, perciò i checkpoint e i coprifuoco hanno sempre fatto parte della mia vita quotidiana. L’anno scorso Israele ha reso ancora più stretta la mia prigione impedendomi di uscire dalla Cisgiordania per qualunque motivo.

Le autorità israeliane si sono rifiutate di darmi una giustificazione per il divieto al di là di un [generico] “ragioni di sicurezza”, e ha negato che questa misura abbia qualcosa a che vedere con il mio lavoro come attivista di Amnesty International Israele/Palestina.

Ho appreso del divieto nel modo peggiore possibile, quando lo scorso settembre mi è stato negato un permesso per accompagnare mia madre agli appuntamenti per la chemioterapia a Gerusalemme est occupata. Mentre inoltravo freneticamente altre richieste di permesso, mia madre peggiorava. Stavo a soli 15 minuti di macchina dall’ospedale, ma il mio disperato desiderio di essere vicino a mia madre collideva con la rigida applicazione israeliana del sistema dei permessi. Mia madre è morta alla vigilia di Natale senza che io abbia più potuto vederla.

Finora i “motivi di sicurezza” che mi hanno causato tanto strazio non mi sono stati rivelati. Tutto quel che so è che sono sottoposto a totale divieto di spostamenti, il che significa che non posso recarmi fuori dalla Cisgiordania, nemmeno per andare al mio ufficio, che si trova a Gerusalemme est. Perciò il blocco per il COVID-19, che è in vigore dal 22 marzo, non è altro che un’ ulteriore sbarra nella gabbia in cui vivo da tempo.

Non potrò mai riavere quella preziosa opportunità di essere accanto a mia madre nei suoi ultimi giorni, ma posso fare la cosa giusta per lei opponendomi a questa ingiustizia. Il 25 marzo 2020 Amnesty International ha inoltrato una petizione alla Corte Distrettuale di Gerusalemme cercando di farmi revocare il divieto di viaggio, e il 31 maggio vi sarà un’udienza. Ovviamente si terrà in mia assenza – e poiché non mi è permesso conoscere i contenuti delle accuse contro di me, il mio avvocato ed io non possiamo contrastarli efficacemente.

Eppure nel passato i divieti di viaggio nei confronti dei palestinesi sono si sono sgretolati quando sono stati oggetto di un controllo dal punto di vista giudiziario. Tra il 2015 e il 2019 l’organizzazione israeliana per i diritti HaMoked ha presentato 797 ricorsi contro divieti di viaggio ed è riuscita a farne revocare il 65%. Considerando questo risultato, è ragionevole ipotizzare che la maggior parte di quei divieti fossero in primo luogo del tutto ingiustificati.

Israele ha una comprovata esperienza nell’uso arbitrario dei divieti di viaggio contro difensori dei diritti umani, compreso Omar Barghouti, cofondatore del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), e Shawan Jabarin, direttore dell’organizzazione palestinese per i diritti al-Haq. Nel caso di Shawan Jabarin, come nel mio, non è stata fornita nessuna giustificazione al di là di “ragioni di sicurezza”.

Che cosa significa? Se io costituisco un così grave rischio per la sicurezza ci si aspetterebbe che le autorità israeliane mi facessero delle domande. Ma io non sono mai stato interrogato su nessuna questione di sicurezza, neppure ad un posto di confine, sono solo stato respinto. Non mi è mai stata data occasione di contestare la decisione o di difendermi. Come può essere giusto questo?

È difficile spiegare quanto stretti siano i controlli di Israele sui movimenti dei palestinesi.

Due milioni di palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza sono sottoposti ad un feroce blocco militare da oltre 12 anni, facendo di essa la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Noi della Cisgiordania non possiamo andare all’estero attraverso i porti israeliani o l’aeroporto internazionale Ben Gurion – la nostra unica possibilità è andare in Giordania passando per il confine del ponte di Allenby/Re Hussein. Molte persone non sanno di avere il divieto di viaggio finché non arrivano alla frontiera. Lo scorso ottobre, per esempio, volevo partecipare al funerale di mia zia in Giordania; quando sono arrivato al confine con mio padre e la mia valigia, mi è stato negato il passaggio.

Ci sono moltissime vicende come questa. Il COVID-19 ha dato al mondo un’idea dell’esperienza palestinese – la crudeltà di essere separati dai propri cari, il tedio della reclusione, la paura e il senso di isolamento. Mentre le misure di blocco per il coronavirus sono state messe in atto per proteggere la popolazione da un virus letale, il blocco israeliano priva i palestinesi della libertà di movimento come forma di punizione collettiva.

Come tante persone in tutto il mondo, io spero di essere presto in grado di ritornare nel mio ufficio, vedere i miei amici e la mia famiglia in altre città, e di provare l’ebbrezza di viaggiare in posti nuovi. Dopo 72 anni di deportazioni ed ingiustizie, i palestinesi vogliono e meritano gli stessi diritti e libertà di chiunque altro.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Laith Abu Zeyad è un attivista di Amnesty International Israele/Palestina.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il Palestine Chronicle esamina la risposta dei media israeliani alla decisione di Abbas di annullare tutti gli accordi

Redazione di Palestine Chronicle

22 maggio 2020 – Palestine Chronicle

I media israeliani hanno reagito alla decisione del 19 maggio di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, di annullare tutti gli accordi con Israele, incluso il cosiddetto coordinamento per la sicurezza, con uno “sbadiglio”, oltre alla solita retorica anti-palestinese.

Il Palestine Chronicle ha esaminato le opinioni di quattro commentatori israeliani sulle decisioni di Abbas. Sono quelle di Israel Harel (Haaretz), Ruthie Blum (Jerusalem Post), Avi Issacharoff (The Times of Israel) e Elior Levy (YNet News).

Israel Harel (Haaretz) 

Harel sembra interpretare la decisione di Abbas esclusivamente dalla prospettiva di come ciò potrebbe impattare sulla “sicurezza di Israele”. Per Harel né la pace né la giustizia fanno parte delle sue opinioni politiche. È solo preoccupato che l’interruzione del ‘coordinamento per la sicurezza’ metta in pericolo la sicurezza degli israeliani, inclusi i coloni ebrei illegali. Ma Harel non ne è preoccupato. 

Harel scrive: 

Quello che spaventa gli israeliani più degli attacchi terroristici è che Israele dovrà di nuovo prendersi la responsabilità del benessere e dell’assistenza di 2,5 milioni di palestinesi. A cosa siamo arrivati?

Chi si occupa della situazione dei palestinesi sa che l’ANP non sarà smantellata, che il coordinamento per la sicurezza non cesserà e che i missili puntati da Nablus sull’aeroporto di Ben Gurion non saranno lanciati almeno nell’immediato futuro. Israele ha imparato un paio di cose dalla sua fuga da Gaza (ma non da quella dal Libano). Quando c’è una preoccupazione reale per una bomba che sta per esplodere nell’Area A in Cisgiordania, se ne occupano il servizio di sicurezza Shin Bet e l’esercito, non il ‘coordinamento per la sicurezza.’”

Ruthie Blum (The Jerusalem Post)

Come sempre nei commenti pubblicati dai giornali di destra israeliani, le opinioni di Blum sono sprezzanti verso i palestinesi, prevedibilmente interessate solo a mostrare il senso di autocommiserazione israeliano e vittimizzazione nei suoi riferimenti all’Olocausto e alla presunta cultura ‘anti-semita’ dei palestinesi.

Blum scrive:

Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha bisogno di materiale nuovo. Persino le mosche sul muro del suo compound a Ramallah devono aver sbadigliato martedì sera quando ha annunciato, per l’ennesima volta, che l’ANP non è più vincolata dagli accordi precedenti con Israele.

Anche se i grandi capi presenti devono aver dubitato che Abbas stia veramente per mantenere la minaccia di porre fine alla cooperazione economica e sulla sicurezza con lo Stato di Israele, non hanno potuto ammetterlo ad alta voce.

Il che ci porta alla vera ragione di questo suo ultimo concione: ricordare alla cosiddetta comunità internazionale il suo ‘dramma’ e costringere i leader arabi a simpatizzare, almeno formalmente, con le sue ultime rimostranze.

Non che sia roba nuova, naturalmente. No, Abbas ha poche carte da giocare e cerca di darsi importanza fingendo che lo scopo principale della sua vita sia di … ottenere l’indipendenza per il suo popolo e liberare dalla ‘occupazione illegale’ israeliana la Cisgiordania e Gaza.

Tramite mezzi di comunicazione e programmi scolastici rigidamente controllati, egli promuove l’idea che la ‘catastrofe’ della fondazione di Israele nel 1948 sia stata la vera ‘occupazione illegale della Palestina.’ Negazionista dell’Olocausto e allo stesso tempo uno che accusa Israele di crimini simili a quelli dei nazisti, egli incoraggia l’antisemitismo nella sua società.”

Avi Issacharoff (The Times of Israel) 

Anche se Issacharoff ha capito perché i politici israeliani non stiano prendendo sul serio le affermazioni di Abbas, egli avverte che questa volta potrebbe essere diverso. 

Issacharoff scrive:

Gli israeliani, specialmente i politici, tendono a sottovalutare le dichiarazioni altisonanti di Mahmoud Abbas, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. E forse hanno ragione.

Questa volta Abbas ha agito per essere coerente con le sue parole. Dopo aver annunciato all’inizio di questa settimana che l’ANP non era più vincolata agli accordi con Israele a causa dei piani di annettere parti della Cisgiordania, Abbas ha agito per interrompere nei fatti il coordinamento per la sicurezza con Gerusalemme. Nelle ultime 24 ore fonti israeliani hanno confermato che l’ANP ha bloccato tutto il coordinamento.

Questo è un colpo di scena. A molti ‘porre fine a coordinamento’ potrebbe sembrare uno slogan senza senso. Ma un passo simile può avere importanti conseguenze sia per gli israeliani che per i palestinesi.

Per i palestinesi le forze di sicurezza palestinesi per la prevenzione si basano in gran parte su questo coordinamento. Confusioni di questo tipo sono accadute nel passato, ma è solo nelle ultime 24 ore che la polizia palestinese è stata improvvisamente sorpresa da ordini concreti di interrompere certe attività israeliane nell’Area A [sotto totale controllo dell’ANP, ndtr.].

Ignorati e umiliati ripetutamente in anni recenti da Israele e USA, i leader dell’ANP stanno mostrando i muscoli per dimostrare che sono intenzionati a giocarsi tutto, persino a danneggiare concretamente se stessi per provare che non capitoleranno davanti alle pressioni americane e israeliane.”

Elior Levy (Ynet News

Levy, come Issacharoff, ha preso piuttosto seriamente le dichiarazioni del presidente dell’ANP, definendo la sua decisione ‘un’arma apocalittica’. Ha anche analizzato le parole che Abbas ha scelto così attentamente, suggerendo che il leader palestinese ha di proposito lasciato un margine che gli permetterebbe di mantenere il ‘coordinamento per la sicurezza’ anche dopo il suo drammatico annuncio. 

Levy scrive: 

Per quanto riguarda l’ANP, se Israele vuole procedere all’annessione e ritornare ai giorni in cui doveva occuparsi di 2,5 milioni di palestinesi, gestire scuole, sistema sanitario, raccolta rifiuti, economia e sistema fognario, sono i benvenuti. 

Le armi apocalittiche si chiamano così perché si è già visto in precedenza che sono ugualmente distruttive per entrambe le parti.

Lo scioglimento dell’ANP significa anche che centinaia di migliaia di impiegati e burocrati che si sono abituati a una vita piuttosto confortevole sono ora disoccupati e probabilmente non molto contenti di rinunciare al loro stile di vita. 

Inoltre, senza l’ANP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) perderebbe tutta la sua credibilità presso l’opinione pubblica palestinese, aprendo la porta ad Hamas, che potrebbe prendere il controllo totale della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. 

Comunque, Abbas ha scelto le sue parole molto attentamente … garantendosi uno spazio di manovra.

Noi non siamo più vincolati dagli accordi che abbiamo firmato in precedenza” ha detto Abbas. Preso letteralmente significa che i palestinesi sono ancora obbligati, ma non ne rispondono più.

Ciò significa che la collaborazione per quanto riguarda la sicurezza è ancora in piedi e che l’OLP sta ancora lavorando con l’intelligence israeliana e la CIA.

Martedì sera i palestinesi hanno lanciato un segnale di avvertimento a Israele … Concludendo, i palestinesi stanno aspettando per vedere come si metteranno le cose. Alcuni di loro credono che tutta la storia dell’annessione andrà ad esaurirsi a causa delle sue ripercussioni sulle relazioni israeliane con la comunità internazionale.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Israele/Cisgiordania. Yehoshua: “L’annessione è apartheid. È tempo di uno Stato unico”.

 Michele Giorgio 

16 maggio 2020, Nena News da Il Manifesto

Dialogo con lo scrittore israeliano divenuto sostenitore di uno Stato per ebrei e palestinesi insieme. «In Cisgiordania – spiega – nello spazio di un chilometro trovi gli abitanti di una colonia israeliana con pieni diritti e quelli di un villaggio palestinese che invece diritti non ne hanno. Non è accettabile»

 Il Tunnel di A.B. Yehoshua non è un romanzo a sfondo politico, o almeno non lo è nella sua finalità originaria. Il protagonista, Zvi Luria, è un ingegnere che fa i conti con il declino delle sue facoltà mentali e che deve trovare un compromesso con la sua malattia.

Il racconto, con tratti autobiografici, di Yehoshua tuttavia include due episodi con un significato politico.

Nel primo Luria va al kibbutz Sde Boker a visitare la tomba di David Ben-Gurion, uno dei principali leader sionisti e padre fondatore di Israele.

Nel secondo, trovandosi di fronte a una famiglia palestinese che vive sul percorso della strada che sta costruendo nel deserto del Negev, pensa che non vada espulsa e di dover costruire un tunnel sotto quell’abitazione.

La visita di Zvi Luria alla tomba di Ben Gurion è un omaggio o un addio al Sionismo classico che l’83enne Yehoshua ha abbracciato per quasi tutta la sua vita? Il tunnel alternativo all’espulsione della famiglia palestinese è il segnale di strada diversa che lo scrittore propone per il rapporto con i palestinesi in Israele e nei Territori occupati?

Yehoshua non risponde direttamente questi interrogativi durante la conversazione telefonica che abbiamo avuto con lui sul tema dell’annessione unilaterale a Israele di una larga porzione di Cisgiordania palestinese al centro del programma del nuovo governo Netanyahu atteso oggi al giuramento.

«Spero che Netanyahu non muova questo passo (l’annessione), finirebbe per rafforzare l’apartheid che già esiste in Cisgiordania», ci dice lo scrittore, uno degli autori israeliani più conosciuti e tradotti all’estero.

«Ci sono Bantustan palestinesi» prosegue «non so come altro potrei definirli. In Cisgiordania nello spazio di un chilometro trovi gli abitanti di una colonia (israeliana) che godono di pieni diritti e quelli di un villaggio palestinese che diritti invece non ne hanno. E questo non è accettabile».

Apartheid, Bantustan, termini che Yehoshua usa sempre più spesso da qualche tempo a questa parte. Una netta frattura rispetto al passato recente in cui lo scrittore è stato un accanito sostenitore della «separazione» tra ebrei e arabi e che inizialmente vide nel Muro fatto costruire da Ariel Sharon in Cisgiordania parte della soluzione dei problemi.

Oggi pensa che la soluzione invece sia uno Stato unico, binazionale, per ebrei e palestinesi su tutta la Palestina storica, unica possibilità per evitare l’apartheid. «Israele di fatto è già uno Stato binazionale» spiega «due milioni di palestinesi sono cittadini di Israele, lavorano negli ospedali come medici e infermieri, svolgono tutte le attività professionali, sono ovunque pur soffrendo delle discriminazioni. E 72 anni dopo (dalla nascita di Israele, oggi è l’anniversario, ndr), sulla base di questa lunga esperienza, dico che come i palestinesi in Israele anche quelli della Cisgiordania possono e devono ottenere residenza e cittadinanza. Possiamo vivere insieme in un unico Stato, senza annullare le nostre rispettive identità».

Yehoshua peraltro non esclude che nello Stato unico che ha in mente un palestinese possa diventare premier di Israele: «Perché no?» ci dice.

Lo Stato per ebrei e arabi di Yehoshua non è uguale a quello che è oltre il Sionismo, il nazionalismo, il colonialismo che teorizzano l’accademico Ilan Pappè e altri intellettuali, studiosi e attivisti ebrei e palestinesi. Ma senza dubbio è una voce autorevole fuori dal coro del sostegno acritico a qualsiasi politica di Israele nei confronti del territorio e dei palestinesi. E contro il mantra della soluzione a Due Stati, Israele e Palestina.

«Quell’idea è morta – conclude lo scrittore – l’hanno uccisa le tante colonie (israeliane) che sono state costruite negli ultimi decenni con l’approvazione degli Stati uniti. L’Europa protesta eppure sino ad oggi non ha fatto nulla di concreto, proprio nulla, per fermare la colonizzazione israeliana».

Parole che avrebbero dovuto ascoltare i ministri degli esteri dell’Ue che ieri pomeriggio si sono riuniti per discutere delle intenzioni di Netanyahu.

Nei giorni scorsi giravano indiscrezioni su sanzioni richieste da alcuni paesi dell’Ue, tra cui la Francia, da esplicitare subito per scoraggiare il governo israeliano dal compiere passi unilaterali, non negoziati, nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione militare.

Tra queste il congelamento del programma Horizon Europe 2021-2027, che garantisce ingenti risorse a Israele, e la sospensione dell’accordo che dà a Tel Aviv accesso libero ai mercati europei.

L’Alto rappresentante dell’Ue, Josep Borrell, butta acqua sul fuoco: «Siamo molto lontani dal parlare di sanzioni, comunque è importante sapere quale sia la posizione degli Stati membri sul mancato rispetto della legge internazionale (da parte di Israele)».

Da Washington al contrario arrivano solo approvazioni e regali per il premier israeliano. L’idea dell’annessione è stata partorita proprio dall’Amministrazione Trump che l’ha poi confezionata nel piano conosciuto come “Accordo del Secolo”.

Qualche giorno fa Netanyahu ne ha discusso a Gerusalemme per tre ore con Mike Pompeo. Non è chiaro se abbia ottenuto dagli Usa luce verde all’annessione, come vorrebbe, già dal prossimo 1 luglio. Gli americani forse hanno meno fretta del primo ministro israeliano. Sembra suggerirlo il segretario di stato parlando della necessità di fare altri «progressi» sull’attuazione del piano di pace americano.

Contro i progetti di Trump e Netanyahu il presidente palestinese Abu Mazen ha formato una task force incaricata di mobilitare i governi, specie quelli europei, e l’opinione pubblica internazionale.  Sulle speranze palestinesi gravano però le posizioni morbide di Cina e Russia che mantengono ancora una posizione di basso profilo.

Invoca provocatoriamente l’annessione il noto giornalista israeliano Gideon Levi che da anni racconta al mondo le forme dell’oppressione dei palestinesi.

«Sarà la fine del mondo? No, perché i Territori palestinesi occupati sono già stati annessi a Israele più di 52 anni fa» spiega Levi in un podcast postato online dal suo giornale, Haaretz, «questo passo mette fine alla vecchia bugia che l’occupazione sarebbe stata temporanea. L’occupazione non è mai stata intesa come temporanea». Levi avverte che l’annessione sarà un altro passo verso «la costruzione dell’apartheid».

L’eco di questo dibattito arriva a stento nella Valle del Giordano, il primo territorio destinato ad essere incluso in quella che Netanyahu descrive come «l’estensione della sovranità israeliana» sulla biblica Eretz Israel.

«Ci aspettiamo un netto peggiomento della nostra condizione quando sarà realizzata l’annessione» ci dice Rashid Khudiri, attivista dei diritti della popolazione palestinese nella Valle del Giordano «Israele assorbirà il territorio senza garantirci diritti e accesso alle risorse naturali». Con ogni probabilità, prevede, «avremo maggiori difficoltà a spostarci e subiremo un incremento delle demolizioni di case, delle strutture per i nostri animali e delle misure repressive. Il mondo deve intervenire per fermare Trump, il piano americano è contro la legge internazionale».

Lo sceriffo che occupa la Casa Bianca conosce solo la legge del Far West. Nena News