Nella giornata internazionale della donna 43 donne palestinesi languono nelle carceri israeliane

8 marzo 2020 Palestine Chronicle

Secondo una dichiarazione rilasciata dall’Associazione per i Prigionieri Palestinesi (PPC) per rimarcare la Giornata Internazionale della Donna, attualmente 43 donne palestinesi languono nelle carceri israeliane.

Shorouq Dwayyat, di Gerusalemme est, e Shatila Abu Ayyad, del villaggio arabo di Kafr Qassim, che si trova all’interno di Israele, sono state condannate alla pena più lunga tra le donne prigioniere: entrambe scontano 16 anni di carcere.

Tra le prigioniere ci sono 16 madri. Una di loro è Israa Jaabis, di 34 anni, arrestata ad ottobre 2015 dopo che una bombola di gas difettosa all’interno della sua macchina è scoppiata a 500 metri da un checkpoint israeliano nella Cisgiordania occupata.

Jaabis è rimasta gravemente ferita nello scoppio, con il 65% del corpo ustionato. Le forze di occupazione israeliane accusano la donna, che ha un figlio di dieci anni, di attentato ai danni di soldati israeliani ad un checkpoint vicino al luogo dell’esplosione.

Quattro donne prigioniere sono in detenzione amministrativa [detenzione senza capi d’accusa e senza processo, di sei mesi rinnovabili indefinitamente, illegale per il diritto internazionale, ndtr.], compresa la femminista, avvocata e deputata palestinese Khalida Jarrar, che è stata riarrestata lo scorso ottobre, solo pochi mesi dopo il suo rilascio.

La donna prigioniera da più tempo in carcere è Amal Taqatqa di Betlemme. È stata arrestata il 1 dicembre 2014 e sta scontando una pena di 7 anni.

Nella sua dichiarazione, il PCC ha affermato che dal 1967 Israele ha arrestato 16.000 donne palestinesi, aggiungendo che spesso esse sono sottoposte a torture.

“La lotta dei prigionieri palestinesi simbolizza la lotta di tutti i palestinesi”, ha scritto il giornalista e redattore di ‘Palestine Chronicle’ Ramzy Baroud.

“La loro carcerazione è una cruda rappresentazione della reclusione collettiva del popolo palestinese – di coloro che vivono sotto occupazione e apartheid in Cisgiordania e di coloro che si trovano sotto occupazione e assedio a Gaza”, ha aggiunto Baroud.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA del periodo 18 febbraio – 2 marzo 2020

A Gaza, il 23 e 24 febbraio, si è verificato uno scambio di azioni ostili tra Israele e un gruppo armato palestinese, con conseguente ferimento di 12 civili palestinesi e 16 civili israeliani.

Le ostilità sono iniziate con l’uccisione, da parte delle forze israeliane, di un membro del gruppo armato della Jihad Islamica Palestinese (PIJ) e il ferimento di un altro membro; a quanto riferito, i due stavano collocando un ordigno esplosivo nei pressi della recinzione perimetrale, ad est di Khan Younis. Nel corso dello stesso episodio le forze israeliane hanno colpito e ferito due civili che cercavano di recuperare i due membri del PIJ. Immagini video di un bulldozer israeliano che, all’interno della recinzione che circonda Gaza, sta recuperando il corpo dell’uomo ucciso, hanno innescato una diffusa indignazione in tutta la Striscia. Nelle successive 30 ore, [il gruppo armato] PIJ ha lanciato oltre 100 razzi e sparato colpi di mortaio verso il sud di Israele: alcuni di essi hanno colpito aree edificate israeliane. Sedici israeliani sono rimasti leggermente feriti, mentre alcuni edifici, tra cui un asilo nella città di Sderot, hanno subito danni. Uno dei razzi lanciati dai palestinesi è caduto all’interno della città di Gaza, colpendo una casa e ferendo dieci civili palestinesi, tra cui due minori. L’esercito israeliano ha effettuato una serie di raid aerei sulla Striscia, provocando il ferimento di cinque membri del PIJ e danni a varie strutture militari dello stesso gruppo armato. Le ostilità sono cessate nel corso della notte del 24 febbraio.

Durante le ostilità di cui sopra, Israele ha sospeso i movimenti delle persone e delle merci da e verso Gaza ed ha interdetto l’accesso al mare ai pescatori palestinesi. Il valico pedonale di Erez ed il valico commerciale di Kerem Shalom sono stati chiusi, fatta eccezione per l’uscita di casi sanitari urgenti e per l’ingresso di carburante destinato alla Centrale Elettrica di Gaza. Il 26 febbraio sono state ripristinate le precedenti condizioni di accesso.

Nei giorni in cui sono state in vigore le restrizioni di accesso [imposte da Israele] alle aree [della Striscia di Gaza] prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, in almeno 37 casi le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento; non sono stati registrati ferimenti. In un caso, le forze israeliane sono entrate in Gaza (ad est di Khan Younis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale. Inoltre, le forze israeliane hanno arrestato un palestinese che stava tentando di infiltrarsi in Israele; un altro è stato arrestato a Erez, mentre stava uscendo da Gaza.

A Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese e ferendo una passante palestinese; secondo quanto riferito, l’uomo ucciso aveva tentato di accoltellare un poliziotto. L’episodio è avvenuto il 22 febbraio, presso una delle porte che introducono alla Città Vecchia di Gerusalemme. Le forze israeliane hanno effettuato un’operazione di ricerca nel quartiere di Jabal al Mukkabir a Gerusalemme Est, dove viveva il presunto aggressore, ed hanno arrestato il padre ed i fratelli.

In scontri, scoppiati durante due proteste contro l’espansione degli insediamenti [colonici] a sud di Nablus, oltre 250 palestinesi, tra cui circa 60 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Le proteste, organizzate dal Consiglio del villaggio di Beita (Nablus) con il sostegno dell’Autorità palestinese, si sono svolte il 28 febbraio ed il 2 marzo contro i tentativi (quelli già avvenuti e quelli previsti) di coloni israeliani intenzionati ad impossessarsi di una collina prossima al villaggio (in Area B). Durante successivi scontri, palestinesi hanno lanciato pietre contro i soldati israeliani; questi hanno risposto sparando vari tipi di munizioni. Dei palestinesi feriti, 152 sono stati colpiti da proiettili di gomma, 86 sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni e 7 sono stati colpiti da armi da fuoco. Non sono stati riportati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, in diversi altri scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 168 palestinesi. Gli scontri più rilevanti sono scoppiati durante varie proteste, quali: contro il piano americano per il Medio Oriente (tali proteste sono in corso dal 28 gennaio, data dell’annuncio del piano); nel villaggio di Asira al Qibliya (Nablus), durante una protesta contro le restrizioni di accesso alle terre agricole in Area B; nel Campo profughi di Al Fawwar (Hebron), con specifiche motivazioni; nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante le manifestazioni settimanali contro le restrizioni di accesso e l’espansione degli insediamenti; nella città di Nablus, in seguito all’ingresso nel sito religioso “Tomba di Giuseppe” di un gruppo di israeliani scortati da soldati.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno effettuato 147 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 188 palestinesi, tra cui 17 minori. La maggior parte delle operazioni sono state svolte nei governatorati di Ramallah (33), Gerusalemme (30, in prevalenza a Gerusalemme Est) ed Hebron (27).

In Area C e Gerusalemme Est, a motivo della mancanza di permessi di costruzione israeliani, sono state demolite o sequestrate 15 strutture di proprietà palestinese, causando lo sfollamento di 33 persone e ripercussioni su altre 100. Sei di queste strutture (cinque delle quali fornite come aiuto umanitario) erano situate in cinque Comunità nel sud di Hebron; in un caso si trattava di una roulotte adibita a magazzino presso una scuola di Susiya (una Comunità di pastori a rischio di trasferimento forzato). Quattro delle sei strutture sono state demolite in base a un “Ordine militare 1797”, che consente la demolizione o il sequestro di strutture non corredate di licenza di costruzione e, pertanto, classificate come “nuove”. Le rimanenti nove strutture erano situate a Gerusalemme Est; cinque di esse sono state demolite dai proprietari che avevano ricevuto ordini di demolizione. Dall’inizio dell’anno, sono state demolite, o sequestrate, 89 strutture: una leggera riduzione, rispetto alle 95 registrate nello stesso periodo del 2019.

In aggressioni attribuite a coloni israeliani, due palestinesi sono rimasti feriti e oltre 850 alberi sono stati vandalizzati [segue dettaglio]. Il 21 febbraio, un gruppo di coloni israeliani accompagnati da cani, è entrato nella Comunità beduina di Ras al Auja, nel governatorato di Gerico, ed ha aggredito e ferito fisicamente due persone. In tre distinti episodi, verificatisi nel villaggio di Al Khader (Betlemme) il 27 e 28 febbraio, assalitori (ritenuti coloni israeliani) hanno tagliato circa 100 alberi di ulivo e 450 viti. Nel villaggio di Al Mughayyir, a Ramallah, coloni hanno abbattuto 200 ulivi con l’uso di bulldozer. Infine, sono stati vandalizzati 100 ulivi e viti appartenenti a contadini del villaggio di Husan, situato nell’area recintata dell’insediamento di Betar Illit (Betlemme). Dall’inizio dell’anno, oltre 1.000 alberi appartenenti a palestinesi sono stati danneggiati da persone che si ritiene siano coloni. In due episodi separati, accaduti nel villaggio di Yasuf (Salfit) e all’incrocio di Huwwara (Nablus), coloni hanno danneggiato 18 veicoli ed hanno imbrattato con scritte i muri di due case.

Due donne israeliane sono rimaste ferite e almeno cinque veicoli israeliani sono stati danneggiati da pietre e, in un caso, da una bottiglia lanciata da palestinesi. I due ferimenti si sono verificati in due episodi separati, accaduti su strade vicine ai villaggi di Abud (Ramallah) e di Halhul (Hebron).

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Abbas dichiara lo stato di emergenza per il diffondersi del coronavirus in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

6 marzo 2020 Electronic Intifada

Giovedì, dopo che nell’area di Betlemme sono stati diagnosticati sette casi di coronavirus, il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha dichiarato lo stato di emergenza per un mese in Cisgiordania.

Fino a venerdì in Cisgiordania sono stati diagnosticati 19 casi.

L’agenzia di stampa Reuters ha riferito che Il Ministro della Difesa israeliano Naftali Bennett ha ordinato la chiusura di Betlemme, secondo quanto riportato, in coordinamento con l’autorità palestinese, “con il divieto di trasferimenti di israeliani e palestinesi a partire dalla serata di giovedì”.

Il Ministro della Salute Mai Alkaila ha riferito che sette dipendenti palestinesi dell’Angel Hotel di Beit Jala, vicino a Betlemme, sono risultati positivi al virus. Si ritiene, ha aggiunto la Reuters, che lo abbiano contratto da turisti che hanno soggiornato di recente nell’hotel.

Più di una dozzina di turisti americani e 25 palestinesi, tra il personale e i clienti, sono stati messi in quarantena presso l’hotel.

Venerdì la direttrice dell’albergo Mariana Al-Ajra ha riferito ai media che gli ospiti non erano ancora stati sottoposti al test per il virus.

“Comprendiamo che è una situazione pesante per le autorità locali, ma non otteniamo da loro alcuna informazione”, ha detto alla CNN Chris Bell, un pastore dell’Alabama del gruppo di americani in quarantena.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il Ministero della Salute dell’Autorità Nazionale Palestinese ha implementato, in conformità con le sue linee guida, la prevenzione e il controllo delle infezioni.”

“Rischio molto elevato”

Con circa 3.750 casi di coronavirus, dei quali più di 100 mortali, segnalati fino a giovedì nell’area mediterranea, l’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che la Cisgiordania e la Striscia di Gaza si trovano ad un livello di “rischio molto elevato”.

Fino a venerdì ci sono stati quasi 100.000 casi confermati di contagio in tutto il mondo, con 3.400 decessi.

L’organismo sanitario internazionale ha affermato che l’epidemia di Betlemme è dovuta a un gruppo di pellegrini greci presenti nell’area la settimana precedente, molti dei quali sono risultati positivi al virus al loro ritorno a casa.

Il gruppo di greci ha visitato Israele e la Cisgiordania in autobus.

Israele ha segnalato 21 casi di coronavirus, tra cui il palestinese di Gerusalemme est che guidava l’autobus turistico dei pellegrini greci. Le sue condizioni, è stato riferito, sono in “grave peggioramento” ed è sottoposto a ventilazione artificiale.

La dichiarazione senza precedenti da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese di uno stato di emergenza in Cisgiordania ha comportato la chiusura delle scuole per 30 giorni, il blocco per due settimane degli hotel agli ospiti stranieri e le restrizioni riguardanti grandi raduni pubblici.

Tuttavia, secondo quanto riferito venerdì dai media palestinesi, circa 3.000 turisti stranieri rimarranno a Betlemme nel periodo della chiusura dell’area e sono stati invitati a non lasciare i loro alberghi.

La Chiesa della Natività di Betlemme è stata chiusa, così come altre sedi di culto in città e altrove in Cisgiordania.

Il blocco di due settimane è un duro colpo per il settore del turismo di Betlemme, già notevolmente ridotto a causa dell’inasprimento delle restrizioni israeliane riguardanti gli spostamenti dallo scoppio della seconda Intifada nel settembre 2000.

Nessun caso segnalato a Gaza

Nessun caso di coronavirus è stato rilevato a Gaza. In collaborazione con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le autorità del territorio assediato hanno allestito un’area chiusa dalla parte di Gaza del valico di Rafah con l’Egitto per mettere in quarantena i viaggiatori di ritorno da paesi in cui è presente il virus.

Una comparsa del coronavirus nella fascia costiera sarebbe solo l’ultimo di una serie di colpi al sistema sanitario di Gaza. Le infrastrutture sanitarie nel territorio sono state minate dal blocco israeliano imposto nel 2007 e dalle successive offensive militari.

Gli ospedali di Gaza hanno combattuto per far fronte al numero sbalorditivo di morti e di feriti, molti dei quali di lunga degenza e bisognosi di complessi interventi chirurgici, dovuti all’uso israeliano di armi da fuoco contro le proteste collettive lungo il confine tra Gaza e Israele.

A dicembre a Gaza si segnalava che quasi metà delle medicine essenziali erano sufficienti per un mese,e il 43% del tutto esaurito.

Per quanto finora sia stata risparmiata dal coronavirus, giovedì la tragedia ha colpito Gaza quando una sospetta fuga di gas ha causato un’esplosione e l’incendio di una panetteria in un affollato mercato nel campo profughi di Nuseirat.

Dieci persone, tra cui sei bambini, sono morte nel fuoco. Altre sessanta sono rimaste ferite, 14 delle quali gravemente.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)

 




Sì, i mizrahi appoggiano la destra. Ma non per le ragioni che pensate.

Tom Mehager

27 febbraio 2020 – +972

Sostenendo i partiti di destra, i mizrahi hanno trovato soluzioni alle difficoltà che sono derivate da decenni di ashkenaziti.

Ogni elezioni politica israeliana è accompagnata dal solito dibattito pubblico sulle comunità mizrahi [lett.: orientali, ndtr.] e sul loro presunto appoggio alla destra, e più precisamente al partito di governo Likud. In Israele a sinistra molti ipotizzano regolarmente le ragioni per cui così tanti mizrahi – ebrei originari di Paesi arabi o musulmani – votano per partiti di destra, ma spesso finiscono per mancare completamente il bersaglio oppure per riciclare stereotipi razzisti.

Quindi, come possiamo capire questa scelta? Il principale contesto del problema è il conflitto israelo-palestinese. Non pretendo di fornire una risposta esaustiva e completa alla questione, ma darò invece esempi che dimostrano come le pluridecennali politiche di Israele di discriminazione e marginalizzazione dell’opinione pubblica mizrahi da parte dell’establishment ashkenazita [lett. tedeschi, ebrei originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.] abbia determinato il fatto che molti abbiano trovato nel campo nazionalista una risposta alle difficoltà economiche.

Se comprendiamo la storia della lotta dei mizrahi – e la sua repressione da parte del campo più strettamente legato oggi al movimento pacifista israeliano – da una prospettiva politica ed economica, comprenderemo meglio come i mizrahi si siano trovati in un campo molto spesso associato alla destra nazionalista. Cosa ancora più importante, una simile analisi ci consente di comprendere precisamente perché la destra abbia dato una risposta alle ristrettezze economiche dei mizrahi derivate dalla supremazia degli ashkenaziti nel contesto politico ed economico israeliano.

Terra, casa e insediamenti

In Israele la storica lotta del movimento sionista sulla terra ha posto fin dai suoi inizi le fondamenta della gerarchia basata sull’etnia e sulla classe. La guerra del 1948 è stata il culmine di questa lotta. Dopo l’espulsione e la fuga dei palestinesi – e il fatto di averne impedito il ritorno – il governo di Israele e le sue istituzioni sioniste si impossessarono delle notevoli risorse che erano state lasciate dietro di loro dai rifugiati. Alla fine della guerra solo il 13,5% della terra del Paese era di proprietà dello Stato, ma, grazie ad una rapida campagna di espropri, le istituzioni israeliane presero il controllo della maggior parte delle terre. L’effetto immediato di questa politica fu, ovviamente, la spoliazione del popolo palestinese dei propri averi e della propria patria.

La distribuzione delle terre palestinesi tra gli ebrei israeliani rifletteva una gerarchia su linee etniche tra “veterani” ashkenaziti e immigrati mizrahi appena arrivati, che giunsero in Israele dopo la guerra. È proprio in questo modo che le differenze di classe vennero inserite all’interno della costruzione della società israeliana: un’élite ashkenazita privilegiata nell’accesso alla casa ed alla terra opposta a una popolazione mizrahi deprivata. La maggior parte delle comunità arrivate dal Nord Africa, in particolare dal Marocco, vennero insediate fuori dai centri urbani del Paese, dove Israele indediò la maggior parte degli immigrati ashkenaziti.

Verbali degli incontri del ministero degli Interni e dell’Agenzia Ebraica dell’epoca rivelano il modo in cui i funzionari del governo vedevano i mizrahi. I nordafricani, dicevano i dirigenti, potrebbero essere mandati nelle regioni di frontiera, mentre agli immigrati polacchi – tra cui, affermavano, c’erano dei professionisti – dovevano essere ospitati nelle zone centrali del Paese, lungo la costa. Raramente il governo diede riserve di terreni alle misere città di sviluppo, che vennero costruite in regioni remote del Paese per gli immigrati nordafricani, spesso su terre palestinesi, così come alle comunità arabe rimaste dopo il 1948. I consigli regionali, tuttavia erano le sedi degli abitanti dei kibbutz [comunità agricole sioniste collettivizzate, ndtr.], dei moshav [comunità sioniste di tipo cooperativo, ndtr.] e di altre forme di insediamento associate con l’élite ashkenazita che aveva fondato il Paese.

Inoltre la distinzione tra zone in cui la proprietà della terra degli ebrei nei territori palestinesi venne “formalizzata” in città come Gerusalemme e Tel Aviv e luoghi in cui gli abitanti erano definiti “invasori” corrispondeva allo stesso modo con la distinzione tra ashkenaziti e mizrahi. Mentre gli abitanti dei kibbutz, in cui la maggior parte discendeva da ashkenaziti, facevano ricorso a commissioni di ammissione per garantire la separazione abitativa, i mizrahi delle classi basse vennero relegati in case popolari fatiscenti.

Dagli anni ’50 la lotta dei mizrahi mise al centro dell’attenzione il razzismo istituzionalizzato del Mapai, il partito dominante e precursore dell’attuale partito Laburista, chiedendo una soluzione immediata alla difficile situazione dei mizrahi in Israele. Un documento pubblicato dall’“Unione dei Nordafricani” – che guidò la rivolta da parte degli abitanti mizrahi del quartiere di Wadi Salib ad Haifa nel 1959 contro le condizioni abitative degradate che erano obbligati a sopportare – chiedeva, tra le varie cose, al governo di fornire “abitazioni umane per ogni famiglia, l’immediata abolizione di ogni Ma’abarot (campi di transito gestiti dal governo per i nuovi immigrati), l’eliminazione delle baraccopoli e case per i celibi. Chiedevano anche al governo di fornire un’istruzione adeguata a tutti, la fine di ogni discriminazione, della segregazione etnica in materia religiosa, del governo militare che controllava le vite dei cittadini palestinesi di Israele, la garanzia della libertà di parola ed altre rivendicazioni.

Più di un decennio dopo le Pantere Nere [gruppo politico mizrahi che lottava contro le discriminazioni, anche a danno dei palestinesi, e si richiamava all’omonimo gruppo afro-americano, ndtr.] israeliane, che nacquero nel 1971 nel quartiere di Musrara a Gerusalemme, parlavano di “baraccopoli” per descrivere la crisi abitativa che colpiva i mizrahi di Israele. Chiesero al governo di smantellare i “ghetti per neri” in città. Attivisti del quartiere Yemin Moshe di Gerusalemme si lamentarono che gli abitanti mizrahi dichiarati “intrusi” venissero cacciati dalle loro case e sostituiti da ricchi ashkenaziti. In questo modo i militanti mizrahi definirono attivamente le proprie politiche con concetti di sinistra, per l’uguaglianza e i diritti umani.

È per questo che il rapporto tra l’arrivo al potere del Likud nel 1977 e la resistenza dei mizrahi ai privilegi materiali degli ashkenaziti – che segnarono i primi 30 anni dello Stato – sono in genere, e in modo restrittivo, visti attraverso il prisma del risentimento storico nei confronti del Mapai. Si deve considerare il risentimento di larghe frange dei mizrahi nei confronti della sinistra israeliana in questo contesto di decenni di razzismo istituzionalizzato, il rapimento di bambini [figli di mizrahi, soprattutto yemeniti, vennero tolti ai genitori, sostenendo che erano morti, e affidati a famiglie facoltose, israeliane o statunitensi, ndtr.] e l’irrorazione dei nuovi immigrati mizrahi con il pesticida DDT [che risultò in seguito essere cancerogeno, ndtr.].

Benché questi aspetti siano importanti, non raccontano tutta la storia. È fondamentale ricordare che il Likud rafforzò la posizione socio-economica dei mizrahi. Lo storico israeliano Danny Gutwein sostiene che un numero relativamente ampio di mizrahi che votano per la destra è il prodotto, tra le altre cose, del modo in cui l’impresa di colonizzazione in Cisgiordania e a Gerusalemme ha compensato gli israeliani dello smantellamento dello Stato sociale negli anni ’80. In questo modo, secondo Gutwein, le politiche del Likud oltre la Linea Verde [che prima dell’occupazione separava Israele dalla Cisgiordania, ndtr.] contribuì a migliorare la posizione di classe dei mizrahi.

È vero che le case popolari nelle colonie fornirono ai mizrahi una soluzione per i loro problemi economici. Eppure, nonostante le affermazioni di Gutwein, la costituzione delle colonie con agevolazioni statali non è stato il risultato dell’incapacità di uno stato sociale israeliano che non esiste più, dato che in primo luogo in Israele uno stato sociale equo non è mai esistito. La forza principale che ha spinto alla costruzione di insediamenti sociali oltre la Linea Verde è la differenza socioeconomica tra gli ashkenaziti e i mizrahi, il prodotto di un regime di privilegi per i primi messo in atto prima dell’occupazione del 1967 e che diede vita a quella che noi chiamiamo la rivolta mizrahi. La ricchezza della terra e delle risorse palestinesi venne distribuita in modo diseguale all’interno dei confini del ’48, dove gli ashkenaziti godettero di privilegi riguardo alla terra e alle condizioni abitative, però oltre la Linea Verde si può trovare una nuova ricchezza, sostenuta da finanziamenti pubblici e sussidi per le abitazioni che, per la prima volta, hanno beneficiato le famiglie mizrahi. È così che una significativa parte dei mizrahi israeliani è stata in grado di conquistarsi una posizione. 

Sia ashkenaziti che mizrahi hanno beneficiato della spoliazione dei palestinesi in fasi diverse dell’ebraizzazione della Palestina. Mentre le “conquiste” del 1948 beneficiarono solo gli ashkenaziti, i mizrahi trovarono la soluzione della crisi abitativa nelle colonie di edilizia sociale al di là della Linea Verde, a Gerusalemme e in Cisgiordania. Ognuno di questi gruppi ha i propri interessi politici ed economici specifici. Quindi non c’è da stupirsi che un gruppo come Peace Now, che è legato all’élite ashkenazita, vigili sulla costruzione di colonie al di là della Linea Verde, ma non parli mai del rapporto tra la spoliazione dei palestinesi nel 1948 e il conflitto israelo-palestinese.

Educazione e lavoro

Riguardo a educazione e lavoro, il regime di discriminazione e segregazione etnica di Israele ha spinto i mizrahi nelle braccia del sistema di sicurezza. Nel 1945 Eliezer Riger, uno dei più importanti sostenitori della formazione professionale, che in seguito diventerà ispettore generale del sistema educativo israeliano, si espresse a favore della necessità della segregazione tra mizrahi ed ashkenaziti nel sistema educativo: “Dopotutto la preminenza nell’(educazione) pre-professionalizzante potrebbe essere di grande vantaggio per la popolazione orientale…I bambini orientali, almeno gran parte di essi, non possono che apprezzare l’insegnamento semplificato e non ricavavano una reale utilità dall’istruzione teorica.” Zalman Aren, ministro dell’Educazione dell’epoca, sostenne un’opinione simile: “Ho una grande opinione delle scuole superiori di livello accademico, ma non ho alcun dubbio che nella situazione dello Stato a questo livello ci sia ancora una predilezione per le scuole professionali. Non vorrei che le città di sviluppo si attenessero a questo tipo di snobismo e mandino un ragazzino in una scuola superiore che lo danneggerebbe.”

Fino ai nostri giorni il sistema educativo utilizza una politica di monitoraggio degli studenti che indirizza molti adolescenti mizrahi nella formazione professionale, mentre molto spesso gli studenti ashkenaziti sono inviati nelle scuole superiori normali. Questa politica ha chiaramente un impatto molto maggiore sulle prospettive educative dei mizrahi, impedendo a molti di loro di continuare gli studi all’università.

Secondo un rapporto del Centro Adva, un gruppo di studio progressista israeliano che monitora le dinamiche socio-economiche, le due principali reti di scuole professionali, ORT e Amal, si trovano per lo più nella periferia geografica ed economica di Israele. Delle 159 scuole delle due reti, 113 (il 71%) si trovano in zone della fascia più bassa dello spettro socio-economico, comprese 35 scuole in zone arabe, 43 in città di sviluppo e 35 in altre località. Inoltre un nuovo studio di Yanon Cohen, Noah Levin Epstein ed Amit Lazarus sull’istruzione tra gli israeliani di terza generazione ha scoperto che le percentuali di diplomati o laureati sono di circa il 20% più alte tra gli ashkenaziti rispetto ai mizrahi.

Gli ostacoli educativi hanno spinto molti mizrahi della classe lavoratrice a cercare opportunità lavorative nell’esercito israeliano e in altre forze di sicurezza. La sociologa Orna Sasson-Levy spiega come il servizio militare, anche a livello più basso, possa fornire opportunità economiche ai mizrahi: “In quanto studenti negli istituti professionali, molti dei quali senza un diploma di scuola superiore, la maggior parte dei soldati in questa situazione non si vede continuare a studiare nelle scuole superiori, laddove la loro forza lavoro manuale e la professionalità che hanno acquisito nella scuola superiore potrebbero essere le principali risorse che hanno come garanzia dal punto di vista economico, e per questo è importante per loro sviluppare le risorse a loro disposizione dalla prima infanzia (…). I soldati che continuano a fare il militare per un certo numero di anni su base professionale lo spiegano anche principalmente con considerazioni di carattere economico. Valutano l’esercito in base a standard in genere riservati a un posto di lavoro, come l’opportunità di ricevere un addestramento professionale, vantaggi sociali, cure mediche e dentistiche ed altre.”

Il professor Yagil Levy mostra come l’esercito possa potenzialmente contribuire a migliorare la classe socio-economica di un individuo. Il suo libro “Israel’s Materialist Militarism” [Il militarismo materialista di Israele] analizza come l’esercito abbia aiutato a legittimare le richieste sociali dei mizrahi attraverso il servizio militare. Mentre gli ashkenaziti laici hanno iniziato a essere protagonisti di un processo di smilitarizzazione e cercano altre prospettive socio-economiche, Levy ha scoperto che gruppi della periferia israeliana hanno iniziato ad utilizzare l’esercito per soddisfare le proprie necessità sociali ed economiche.

Oltre a questi studi, l’alta percentuale di mizrahi che lavorano nella polizia o nel servizio penitenziario israeliano può essere spiegata con il fatto che, in assenza di un impiego redditizio – che richiede un’educazione superiore –, il lavoro nelle forze di sicurezza offre condizioni economiche stabili. Questo tipo di lavoro può servire come rifugio rispetto ad una crisi educativa e lavorativa, proprio come le case popolari nelle colonie vengono usate da molti come un rifugio dalla crisi abitativa all’interno di Israele. Sia nell’ambito abitativo che educativo/occupazionale, i processi possono essere spiegati alla luce delle differenze di classe tra ashkenaziti e mizrahi. Quindi ambienti che sono in genere visti come di destra, nazionalisti o radicali nei confronti dei palestinesi – colonie oltre la Linea Verde o forze di sicurezza israeliane – nella società israeliana sono considerati dalle comunità mizrahi come un salvagente socio-economico.

Secondo uno studio condotto nel 1987 da Noah Levin-Epstein e Moshe Semyonov anche l’ingresso di lavoratori palestinesi a giornata dai territori occupati nel mercato del lavoro israeliano dopo l’occupazione del 1967 ha giocato un ruolo fondamentale nel miglioramento delle condizioni socio-economiche dei mizrahi. Essi hanno dimostrato che nel 1969 circa il 42% degli immigrati [ebrei] dall’Asia e dall’Africa erano impiegati in lavori non o semi qualificati; nel 1982 questo numero è sceso al 25%. Levin-Epstein e Semyonov evidenziano che “data la concentrazione di arabi dei territori occupati in un piccolo numero di impieghi al fondo della scala lavorativa, essi non solo non vengono percepiti da molti israeliani come una minaccia, ma in molti casi sono persino indicati come “liberatori” da ‘lavori disprezzati e pesanti,’” che molti israeliani non devono più fare.

Nel suo libro “In the land of Israel” [Nella terra di Israele], lo scrittore israeliano Amos Oz è andato nella città di sviluppo di Beit Shemesh, dove ha parlato con un abitante del posto su quale significato avrebbe avuto la pace con i palestinesi per i mizrahi:

Se restituiscono i territori, gli arabi smetteranno di venire a lavorare e immediatamente ci rimetterete a fare i lavori senza futuro, come prima. Anche solo per questo motivo non vogliamo lasciare che restituiate quei territori. Per non parlare dei diritti che ci vengono dalla Bibbia, o della sicurezza. Guarda mia figlia: ora lavora in una banca, e ogni pomeriggio un arabo va a pulire l’edificio. Quello che volete è sbatterla da una banca a qualche fabbrica tessile, o farle lavare il pavimento al posto dell’arabo. Come mia madre faceva le pulizie per voi. Per questo qui vi odiamo. Finché Begin sarà al potere, mia figlia è sicura in banca. Se tornano i vostri ragazzi, come prima cosa la farete tornare in basso.”

Per gli abitanti delle città di sviluppo, il governo e il controllo del Likud sui territori occupati rappresenta una garanzia contro la minaccia che i mizrahi tornino a una condizione socio-economica inferiore e vengano obbligati a competere con i cittadini palestinesi di Israele per il lavoro e le risorse. Questo è un ulteriore esempio che dimostra come le condizioni materiali, nate dai rapporti di potere tra i differenti gruppi della società israeliana e dal conflitto israelo-palestinese portino a un’“alleanza” dei mizrahi con il Likud.

La concorrenza tra mizrahi e palestinesi sul mercato del lavoro non è un prodotto dell’immaginazione degli abitanti di Beit Shemesh, è il risultato di concrete condizioni politiche dei mizrahi in Israele. Il primo ministro israeliano David Ben-Gurion disse: “Abbiamo bisogno di persone che siano nate come lavoratori manuali. Dobbiamo prestare attenzione alla caratteristica locale tra le comunità orientali, gli yemeniti e i sefarditi, le cui qualità di vita e pretese sono più basse di quelle di un lavoratore europeo e possono competere con successo con gli arabi.”

I nostri ragazzi nel Likud

Un ulteriore esempio di come gli interessi di classe dei mizrahi siano stati realizzati attraverso il loro appoggio alla destra israeliana può essere visto nell’alta percentuale di membri mizrahi nel partito Likud. Un momento particolarmente significativo nel 2002 mostra esattamente perché. Durante un infuocato discorso di fronte a centinaia di membri del Comitato Centrale del Likud l’ex ministro dell’Educazione Limor Livant chiese in modo retorico alla folla se il gruppo dirigente del partito fosse stato “eletto per dare lavoro.”

Aspettandosi che la folla avrebbe risposto in modo massiccio di no, Livnat fu smentito quando i membri del Comitato gridarono sonoramente che sì, si aspettavano che il partito desse loro qualcosa in cambio del loro eterno appoggio.

Questo momento sintetizza come il sostegno dei mizrahi per il Likud sia parte di uno scambio: i mizrahi e i membri del Comitato Centrale appoggeranno lo Stato solo in cambio di uffici nei corridoi del potere del regime israeliano. Quindi gli interessi dei mizrahi si sono fusi con il dominio senza interruzione del Likud nella forma di nomine politiche, sindacati dei lavoratori e autorità locali.

Bisogna comprendere il contesto storico in cui il Comitato Centrale del Likud è diventato un polo dell’attivismo dei mizrahi. Quando il Mapai era al potere, il partito si impegnò in quella che è nota come protektzia, ossia la concessione di favori ai membri del partito. Questo significò che i migliori impieghi e abitazioni sarebbero rimasti nelle mani dei funzionari del partito. Ciò significò anche che molti mizrahi rimasero fuori da questo circolo nepotista. Il Comitato centrale del Likud può essere visto come una risposta dell’opinione pubblica mizrahi che la compensi dei privilegi degli ashkenaziti dovuti al controllo del Mapai sugli enti e le istituzioni dello Stato.

Contrastare i privilegi degli ashkenaziti

L’elezione di Menachem Begin nel 1977 creò un nuovo discorso etno-nazionale, che mobilitò a favore della destra gli israeliani emarginati dal punto di vista socio-economico dalla società. Nel 2003 la professoressa Sasson-Levy pubblicò uno studio sulla base di interviste con soldati israeliani di umili origini. Scoprì che i soldati che arrivavano da un contesto socio-economico modesto esprimevano in modo più veemente opinioni di destra. Dalla ricerca di Sasson-Levy:

Le (loro) opinioni di destra emergono da un discorso etno-culturale come forma di compensazione per la loro emarginazione di classe nella società israeliana, in quanto ciò permette loro di presentarsi come appartenenti al centro dell’opinione dominante in Israele per il solo fatto di essere ebrei.”

Questo discorso si può applicare all’opinione pubblica mizrahi in Israele nel suo complesso. A differenza degli storici leader del Mapai, che disprezzavano qualunque cosa assomigliasse anche lontanamente alla cultura mizrahi e araba, Menachem Begin fu abile nel portare i mizrahi nel grembo dell’identità israeliana allargando la sua definizione per includere tutti gli ebrei israeliani, invece che solo quelli che sembravano e parlavano come l’élite del partito. In un suo famoso “discorso alla plebaglia” del 1981 Begin rispose ai commenti razzisti e sprezzanti fatti da Dudu Topaz – una delle più famose personalità televisive e membro del campo progressista ashkenazita – sui soldati mizrahi [durante un comizio del Mapai disse che i mizrahi erano degli imboscati, ndtr.], promettendo di farla finita con le gerarchie tra ashkenaziti e mizrahi nell’esercito israeliano. È così che la dinamica tra ashkenaziti e mizrahi ha portato questi ultimi a cercare soluzioni alle loro difficoltà socio-economiche nelle politiche aggressive della destra israeliana. La visione di Begin, che accolse apertamente gli ebrei mizrahi, avrebbe semplicemente rafforzato la gerarchia razziale tra i cittadini ebrei e non ebrei del Paese.

Nonostante le affermazioni di esponenti di sinistra secondo cui l’opinione pubblica mizrahi vota contro i suoi stessi interessi, vale la pena di fare un bilancio dei modi in cui una serie di interessi cruciali dei mizrahi sono venuti alla luce sotto il governo della destra israeliana. Pare che quelli che credono che i mizrahi farebbero meglio a votare per la sinistra nella sua forma attuale – principalmente ashkenazita e di classe medio-alta – non siano consapevoli e non vogliano contrastare i privilegi di cui gli ashkenaziti hanno goduto fin dalla fondazione del Paese. Senza una vera discussione su questo aspetto del regime israeliano non saremo in grado di iniziare un processo di riconciliazione e compensazione, sia all’interno dell’opinione pubblica ebraica in Israele che nel contesto del conflitto israelo-palestinese.

Tom Mehager è direttore del programma del Gruppo di Globalizzazione e Sovranità all’Istituto Van Leer [centro di studi e discussioni interdisciplinari, ndtr.] di Gerusalemme, membro della Scuola di Teologia dell’università di Harvard e facilitatore del seminario “Nakba, ashkenaziti e mizrahi” di Zochrot [organizzazione israeliana che si occupa di promuovere la memoria della Nakba palestinese, ndtr.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una settimana prima delle elezioni Netanyahu autorizza nuove unità abitative delle colonie nella E1

Yumna Patel

26 febbraio 2020 – Mondoweiss

Solo una settimana prima delle elezioni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’autorizzazione a 3.500 nuove abitazioni illegali per i coloni nella contestatissima zona “E1”, nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

Ho dato istruzioni di rendere immediatamente pubblica la presentazione del piano per la costruzione di 3.500 unità abitative nella E-1,” ha detto martedì Netanyahu in un discorso, aggiungendo che i progetti “sono stati ritardati per sei o sette anni.”

I piani di Israele per il corridoio E1, a cui si sta lavorando dal 1995, sono stati considerevolmente ritardati a causa delle pressioni da parte della comunità internazionale, comprese l’UE e l’ex-amministrazione USA.

Il progetto per la E1 intende creare un blocco di colonie che unisca il grande insediamento di Ma’ale Adumim a Gerusalemme, tagliando di fatto la Cisgiordania in due, separando il nord dal sud.

Le conseguenze del piano sono apparse evidenti negli ultimi anni attraverso la lotta per salvare dall’espulsione forzata la comunità beduina di Khan al-Ahmar, che si trova proprio in mezzo al corridoio E1.

La comunità sarebbe una delle decine di enclave beduine del corridoio che, se i progetti venissero portati a termine, verrebbero espulse a forza dalle proprie case.

L’annuncio è arrivato appena una settimana prima che gli israeliani si rechino ai seggi per la terza volta in un anno per eleggere il primo ministro, dopo due falliti tentativi da parte di Netanyahu e del suo rivale Benny Gantz di formare una coalizione di governo.

Nelle ultime due elezioni il governo di destra di Netanyahu si è basato sull’appoggio dei coloni e ha utilizzato promesse politiche simili per garantirsi il loro sostegno.

Nel primo turno delle elezioni nell’aprile dello scorso anno egli si impegnò ad annettere centinaia di colonie nella Cisgiordania occupata e prima delle elezioni di settembre è andato oltre quella promessa giurando che avrebbe esteso la sovranità israeliana alla valle del Giordano, che comprende un terzo di tutta la Cisgiordania.

I leader palestinesi hanno duramente attaccato Netanyahu per il suo annuncio e hanno chiesto agli Stati membri dell’UE di intervenire e di impedire l’attività edilizia israeliana nella zona.

Criticando il piano come un “progetto colonialista”, il capo negoziatore dell’OLP Saeb Erekat ha emanato un comunicato di condanna degli USA per il loro consenso perché Israele vada avanti con tali piani.

In accordo con i progetti concordati tra le delegazioni di USA e Israele, – ha detto Erekat – Israele ora continua a imporre sul terreno nuovi fatti illegali che violano sistematicamente le leggi internazionali e i diritti umani, annullano i diritti inalienabili del popolo palestinese, e minacciano la stessa pace e sicurezza dell’intera regione”.

Ora è chiaro alla comunità internazionale che questo quadro di annessione intende solo seppellire le prospettive di una soluzione negoziata,” ha continuato, chiedendo che la comunità internazionale imponga sanzioni contro Israele per le sue violazioni delle leggi internazionali nei territori occupati.

L’associazione [israeliana] di monitoraggio delle colonie Peace Now ha criticato duramente la decisione, affermando che “costruire nella E1 interromperebbe questa continuità territoriale, silurando la possibilità di uno Stato palestinese praticabile nel caso in cui Israele continui a conservare per sé la terra.”

L’organizzazione ha affermato: “Israele sta ufficialmente scegliendo di rischiare un conflitto permanente invece di risolverlo. Non è niente di meno di un disastro nazionale che deve essere fermato prima che sia troppo tardi.”

Yumna Patel è la corrispondente dalla Palestina per Mondoweiss.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 febbraio 2020

Il 6 febbraio, in tre distinti attacchi e presunti attacchi palestinesi, due palestinesi sono stati uccisi e 14 soldati israeliani sono rimasti feriti

[segue dettaglio]. Nella Città Vecchia di Gerusalemme, un palestinese 45enne, cittadino israeliano, dopo aver aperto il fuoco ed aver ferito un agente di polizia di frontiera, è stato ucciso dalle forze di polizia israeliane. A Gerusalemme Ovest, un palestinese ha investito con la sua auto un gruppo di soldati israeliani, ferendone 12; l’uomo è stato successivamente arrestato al bivio di Gush Etzion (Hebron). Nello stesso giorno, il 6 febbraio, nei pressi del villaggio di Deir Ibzi (Ramallah), palestinesi, secondo quanto riferito, hanno sparato contro soldati israeliani, ferendone uno; il 17 febbraio, l’esercito israeliano ha comunicato di aver trovato il corpo di un presunto attentatore: l’uomo sarebbe morto per le ferite riportate durante lo scontro a fuoco con i soldati israeliani. In un ulteriore episodio, accaduto il 17 febbraio nella città di Hebron, ad un checkpoint nell’area controllata da Israele, un palestinese ha tentato di pugnalare dei soldati israeliani ed è stato arrestato; non sono stati segnalati feriti.

Il 6 febbraio, in scontri scoppiati durante una demolizione “punitiva” nella città di Jenin, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo due palestinesi e ferendone altri nove. Una delle vittime è un 19enne e l’altra un poliziotto palestinese che, secondo quanto riferito, al momento degli scontri si trovava all’interno della stazione di polizia. Secondo fonti israeliane, durante gli scontri in questione, palestinesi hanno sparato e lanciato due ordigni esplosivi contro i soldati; non sono stati segnalati ferimenti di israeliani.

In Cisgiordania, durante molteplici scontri scoppiati in risposta al piano americano per il Medio Oriente, annunciato il 28 gennaio, sono stati uccisi dalle forze israeliane altri due palestinesi e oltre 100 sono rimasti feriti. Le due vittime sono un minore di 17 anni, ucciso nella città di Hebron il 5 febbraio, e un 19enne, ucciso il 7 febbraio vicino a un cancello della Barriera, nei pressi del villaggio di Qaffin (Tulkarm). Altri scontri, con gran numero di feriti, sono stati registrati vicino al checkpoint di Beit El / DCO (Ramallah), all’ingresso della città di Gerico, nel villaggio di Beita (Nablus), e nelle città di Al ‘Eizariya e Abu Dis (governatorato di Gerusalemme). Tra i feriti ci sono 21 minori. Oltre il 70% dei feriti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno, il 24% è stato colpito da proiettili di gomma e il 2% da proiettili di arma da fuoco.

In altri scontri, registrati durante il periodo di riferimento, altri 138 palestinesi, tra cui sette minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Oltre il 60% di questi feriti (88) si sono avuti durante scontri scoppiati nel contesto di tre operazioni di ricerca-arresto condotte a Beit Jala (Betlemme) a seguito del presunto investimento volontario del 6 febbraio [vedi 1° paragrafo]. Il 24% [dei 138 feriti] sono stati registrati durante le proteste settimanali nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) ed i rimanenti in altri scontri; tra cui [quello avvenuto durante] il funerale del poliziotto ucciso nella città di Jenin [vedi 2° paragrafo]. Questi episodi portano a sei il numero di palestinesi uccisi da forze israeliane in Cisgiordania e Israele ed a 623 il numero di feriti dall’inizio del 2020.

Il 15 febbraio, nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, mentre stava tornando a casa da scuola, un ragazzo palestinese di 9 anni è stato colpito ad un occhio da un proiettile di gomma sparato da un poliziotto israeliano. Il ragazzo è rimasto ferito in modo grave ed ha perso l’uso dell’occhio. Al momento dell’accaduto non risulta fossero in corso scontri. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Dalla metà del 2019, ad Al Isawiya sono in corso consistenti operazioni di polizia che, per almeno 18.000 residenti, sono causa di tensioni e disagi quotidiani.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 135 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 132 palestinesi, tra cui otto minori. La maggior parte delle operazioni sono state effettuate nel Governatorato di Ramallah (34), seguito dai Governatorati di Hebron (30) e Gerusalemme (26).

È proseguito, da Gaza verso Israele, il lancio di proiettili, nonché di fasci di palloncini recanti esplosivo; sia i proiettili che i palloncini sono atterrati in aree aperte all’interno di Israele, o sono stati intercettati in aria. Nella città di Netivot, due israeliani sono rimasti feriti mentre correvano verso un rifugio. Questi episodi sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani contro strutture militari di Gaza; non sono state segnalate vittime, ma nel Campo Profughi Beach è stata danneggiata una conduttura per lo scarico in mare dell’acqua piovana.

In almeno 53 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi presenti in aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale israeliana ed al largo della costa di Gaza [cioé, in “Aree ad Accesso Riservato”, vietate ai palestinesi]; un pescatore palestinese è rimasto ferito e due barche sono state danneggiate dalle forze navali israeliane. In tre occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (a Beit Lahia, al Campo di Al Maghazi e Khan Younis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Area C e Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto i palestinesi a demolire 24 strutture, sfollando 23 persone e causando ripercussioni su altre altre 88 [segue dettaglio]. Tredici delle strutture demolite, di cui tre precedentemente fornite come aiuto umanitario, erano situate in Area C. Tra i casi più rilevanti, due si sono verificati vicino alla città di Hebron (Al Hijra) ed a Deir Qaddis (Ramallah), dove sono state demolite tre strutture di sostentamento, due locali ad uso agricolo e due latrine. Sempre in Area C, nella città di Hebron, le autorità israeliane hanno demolito una abitazione ed una latrina fornite come assistenza umanitaria, sfollando una famiglia di sette persone. Le restanti undici strutture colpite si trovavano a Gerusalemme Est; cinque di queste sono state demolite dai proprietari, a seguito degli ordini di demolizione.

Il 6 febbraio, nella città di Jenin, per la seconda volta le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi “punitivi”, sfollando sette persone, tra cui due minori. La casa apparteneva alla famiglia di un palestinese, attualmente in carcere, che, nel gennaio 2018, partecipò ad un attacco in cui fu ucciso un colono israeliano. Dopo la prima demolizione, avvenuta il 23 aprile 2018, la casa era stata ricostruita.

Cinque attacchi, attribuiti a coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [segue dettaglio]. Il 16 febbraio, coloni israeliani armati hanno fatto irruzione nel villaggio di Ein ar Rashash (Ramallah), dove hanno aggredito e ferito tre residenti palestinesi ed hanno danneggiato la loro casa. Secondo fonti locali palestinesi, in due episodi separati, coloni israeliani hanno vandalizzato almeno 5 ettari di coltivazioni nel villaggio di Iskaka (Salfit), colpendo i mezzi di sussistenza di sette famiglie, mentre, nel villaggio di Beitillu (Ramallah), hanno vandalizzato 30 ulivi. Nei villaggi di Deir Dibwan e Beitin (entrambi a Ramallah), coloni israeliani hanno vandalizzato 15 veicoli di proprietà palestinese e due case.

Secondo fonti israeliane, a seguito di lanci di pietre e bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro auto percorrenti strade della Cisgiordania, tre israeliane (una ragazza e due donne) sono rimaste ferite e almeno 12 veicoli israeliani sono stati danneggiati.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Secondo quanto riferito, in risposta alla recente diminuzione del lancio di razzi e palloni incendiari da Gaza, il 18 febbraio le autorità israeliane hanno ampliato da 10 a 15 miglia nautiche la zona di pesca consentita [ai pescatori palestinesi] al largo della costa meridionale; hanno inoltre riattivato 500 permessi di uscita per le persone classificate come “uomini d’affari”.

Il 19 febbraio, il Comune di Gerusalemme ha annunciato che fermerà per sei mesi la demolizione di case nel quartiere di Al Isawiya, nella parte orientale di Gerusalemme. Dall’agosto 2019, ad Al Isawiya sono state demolite tredici strutture, di cui sette abitative, e per decine di altre sono in corso ordini di demolizione.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Per Angela Merkel, «Israele uber alles !»

Iqbal Jassat

19 febbraio 2020Palestine Chronicle

Poco tempo dopo la sua visita in Sudafrica, il governo della Cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto un nuovo annuncio scioccante difendendo l’insieme delle azioni criminali di Israele e le sue gravi violazioni dei diritti umani.

La Germania ha preso la decisione vergognosa di minare il diritto internazionale contestando la competenza dell’Aja, affermando che la Corte Penale Internazionale (CPI) non ha il potere di indagare sui crimini di guerra di Israele contro i palestinesi.

In un’istanza depositata presso la CPI il governo Merkel ha chiesto di essere considerato « amicus curiae » (collaboratore non coinvolto nella causa giudiziaria) per impedire all’Aja di perseguire il regime di Netanyahu.

Dopo lunghi periodi di rinvii, a dicembre la procuratrice della CPI Fatou Bensouda ha finalmente annunciato che sussistono ragionevoli presupposti per indagare sulle azioni di Israele.

Ha tuttavia lasciato aperta una voragine che viene sfruttata da Israele e dai suoi alleati come la Germania. Bensouda ha chiesto all’Aja di pronunciarsi sulla questione della sua competenza, cosa che potrebbe inficiare e compromettere ogni possibilità di perseguire e punire i criminali di guerra del regime colonialista.

E questo nonostante che l’Ufficio della Procura abbia insistito sul fatto che Israele ha distrutto proprietà palestinesi, espulso con la forza palestinesi dalla Cisgiordania occupata e da Gerusalemme est. Bensouda ha anche incluso nel suo atto d’accusa crimini di guerra commessi nella Striscia di Gaza occupata durante l’operazione ‘Margine protettivo’ del 2014, oltre all’operazione israeliana di espulsione degli abitanti palestinesi del villaggio beduino di Khan al-Ahmar e alla costruzione di colonie in Cisgiordania.

La decisione poco accorta di Merkel di prendere le parti di Israele rafforza l’attacco di Netanyahu contro la CPI. In una recente intervista rilasciata ad una catena televisiva cristiana, il dirigente israeliano, che è stato incriminato per frode e corruzione [in Israele], ha falsamente affermato che la CPI sta conducendo un “attacco frontale” contro gli ebrei ed ha sfacciatamente invocato sanzioni contro l’Aja.

L’argomentazione della Germania nella sua istanza sembra un «copia e incolla» delle dichiarazioni di Israele, che sostiene che la competenza della CPI non si estende ai territori palestinesi occupati perché la Palestina non è uno Stato. Incredibilmente, in questo modo la Germania ignora il fatto che la Palestina è firmataria dello Statuto di Roma della CPI.

Non solo è disonesto da parte tedesca non rispettare i diritti della Palestina, ma, tentando di indurre in errore la CPI, il governo Merkel legittima settant’anni di disumanizzazione dei palestinesi da parte di Israele.

Mentre la vergognosa collusione di Merkel con Netanyahu da alcuni può essere vista come un colpo di fortuna per lui in un momento in cui rischia il carcere, per i palestinesi è chiaro che la Germania ha tradito la loro giusta e legittima causa per la giustizia. Come possono le famiglie dei martiri interpretare in altro modo l’istanza scioccante e ingiusta di Merkel, che sostiene che la CPI non ha nemmeno il potere di discutere se Israele ha commesso dei crimini di guerra?

Essendo la Germania uno dei principali membri del Tribunale dell’Aja, ha l’ingiustificato vantaggio di poter influenzare un risultato che nuocerà alle rivendicazioni di giustizia dei palestinesi. La decisione così spudorata di Merkel di schierarsi al fianco di Netanyahu è quindi un abuso di potere a causa della sua posizione privilegiata al momento delle udienze.

Gli ultimi rapporti indicano che, oltre alla Germania, Israele è attivamente impegnato nel reclutamento di diversi Paesi che appoggino la sua causa in quanto “rappresentanti non ufficiali”, poiché esso stesso ha deciso di non partecipare in modo da “evitare di dare legittimità” alla CPI.

L’Ungheria e la Repubblica Ceca, come anche l’Austria, l’Australia e il Canada si sono uniti per sostenere l’impunità di Israele.

Benché la Procuratrice Bensouda ritenga che la Palestina sia «sufficientemente uno Stato » perché all’Aja venga trasferita la giurisdizione penale sul suo territorio, la sua richiesta di verifica di questo punto di vista può far fallire l’inchiesta, essendoci una battaglia giuridica riguardo alla definizione di ciò che costituisca uno “Stato”. 

L’attacco contro la CPI – con gli appelli di Netanyahu a sottoscriverlo – arriva proprio dopo la pubblicazione da parte dell’ONU di un elenco di 112 imprese legate alle colonie illegali di Israele. E, nello stesso spirito contrario all’etica, il regime di apartheid ha attaccato il commissario delle Nazioni Unite definendolo partigiano e strumento del movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

Schierarsi dalla parte di Netanyahu per mascherare i suoi terribili crimini contro i palestinesi può consentire alla Merkel di evitare la collera di Israele, ma questo pone la Germania dalla parte sbagliata della storia – ancora una volta !

Anche se appare incongruo che la Germania ed una manciata di Paesi vogliano impedire l’esercizio della giustizia da parte dell’Aja – cosa che peraltro si sforzano di fare – è vero che, per quanto riguarda i palestinesi, il fatto di schierarsi a fianco di Israele permette a questo Stato delinquente di continuare a commettere crimini di guerra e violazioni del diritto umanitario internazionale.

Alcuni commentatori hanno sostenuto a giusto titolo che questa assurda difesa della sistematica condotta criminale di Israele possa rappresentare un colpo mortale per la CPI.

Il timore che viene espresso è che l’azione della Cancelliera Merkel sia miope, creando un buco nero legale nei territori palestinesi occupati che potrebbe comportare la distruzione di una CPI già fortemente screditata.

Israele spera che, distorcendo i fatti e sviando gli obbiettivi della CPI, ne uscirà indenne. Le sue speranze poggiano sulla Cancelliera Merkel in quanto principale dirigente europeo che può distogliere l’Aja dalle sue responsabilità impegnandola in una battaglia giuridica semantica priva di senso, come è la questione della “giurisdizione”, e contestando la ratifica da parte della Palestina dello Statuto di Roma.

Mentre i giuristi internazionali saranno impegnati (si fa per dire) nella discussione sui concetti giuridici, spetta a Paesi come il Sudafrica alzare la voce contro i diversivi giuridici.

Il silenzio a fronte di questo ostacolo giuridico inventato di sana pianta sarà interpretato come una rinuncia a far rispettare e a difendere i diritti umani dei palestinesi.

Iqbal Jassat è membro esecutivo di Media Rewiew Network, con sede in Sudafrica.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Amazon costringe i palestinesi a registrarsi come israeliani per la spedizione gratuita

Middle East Monitor

14 febbraio 2020 Middle East Monitor

I clienti che inseriscono il proprio indirizzo come “Territori palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da [un ordine di] 24 dollari

L’azienda internazionale di commercio on line Amazon è stata accusata di discriminare i palestinesi in quanto offre spedizioni gratuite verso le colonie della Cisgiordania occupata ma non ai palestinesi che vivono nella stessa area.

Nei risultati pubblicati in un’indagine del Financial Times, il giornale ha scoperto che, prendendo tutti gli indirizzi corrispondenti alle colonie illegali e inserendoli nel portale di consegna di Amazon, l’azienda applica l’offerta di spedizione gratuita prevista nel proprio sito web “se il tuo indirizzo di spedizione è in Israele, gli articoli scelti sono ammessi e il tuo ordine totale soddisfa la soglia di spedizione gratuita minima di 49 dollari [45,36 euro, ndtr.]”.

Invece i clienti che inseriscono il proprio indirizzo come “Territori Palestinesi” sono costretti a pagare le spese di spedizione e gestione a partire da [un ordine di] 24 dollari [22,22 euro,ndtr.]. Il portavoce di Amazon Nick Caplin ha dichiarato al giornale che i palestinesi possono solo aggirare il problema: “Se un cliente all’interno dei territori palestinesi inserisce il proprio indirizzo e seleziona Israele come Paese, può ricevere la spedizione gratuita usufruendo della stessa promozione”.

Tutte le consegne dell’azienda devono passare attraverso Israele per raggiungere la Cisgiordania occupata e ciò determina lunghi ritardi.

L’avvocato internazionale per i diritti umani Michael Sfard, tuttavia, ha ritenuto tale motivazione non sufficiente e ha definito la politica di Amazon “una palese discriminazione tra potenziali clienti sulla base della loro nazionalità” all’interno della stessa area operativa. Anche l’organizzazione di attivisti Peace Now [O.N.G. pacifista israeliana, ndtr.] ha commentato la situazione, affermando che la politica discriminatoria di Amazon “si aggiunge al quadro generale di un gruppo di persone che godono dei privilegi di cittadinanza, al contrario di altre che vivono nello stesso territorio”.

Negli ultimi anni le colonie ebraiche nei territori palestinesi occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est sono notevolmente aumentate, con un numero di coloni di oltre 463.000 in Cisgiordania e altri 300.000 a Gerusalemme est alla fine del 2019.

Nonostante il fatto che le colonie siano illegali ai sensi del diritto internazionale, numerose grandi e fiorenti aziende hanno continuato a trattare con loro e ad operare nel territorio che questi hanno occupato illegalmente. Questa settimana le Nazioni Unite hanno pubblicato una lista nera di 112 aziende che continuano a operare nei territori occupati, tra cui i giganti mondiali Airbnb, Expedia, Opodo e Motorola.

Dopo la pubblicazione del documento gli Stati Uniti hanno bocciato l’iniziativa, mentre Israele ha sospeso i rapporti con il Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In che modo i coloni si prendono la terra palestinese? La risposta è: con una strada

Dror Etkes 

12 febbraio 2020 – + 972

Per collegare le enclavi che compongono Kedumim, i coloni hanno assunto il controllo di una importante strada che serviva ai palestinesi e gliene hanno bloccato l’accesso.

Il 28 gennaio, il giorno in cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha reso pubblico l’ “accordo del secolo”, nella colonia di Kedumim una donna seduta in un’auto a noleggio digitava sul cellulare mentre gli spari risuonavano dalla vicina Kufr Qaddum. Si potevano sentire rumori di veicoli militari arrivare dal villaggio palestinese a poche centinaia di metri a ovest della colonia.

La donna continuava a guidare verso sud, verso l’uscita principale di Kedumim, e io proseguivo verso ovest lungo Nahlah Street. Dall’altra parte della strada, ho visto un allievo della scuola elementare tornare a casa mentre passava l’auto di servizio del consiglio dei coloni. Routine quotidiana della colonia.

Dopo un po’ sono arrivata alla casa più a ovest di Kedumim, accanto agli uliveti di Kufr Qaddum. È probabile che questo punto diventerà presto un altro segnale dei confini internazionali di Israele, se il piano di Trump verrà attuato e Israele annetterà gli insediamenti.

Kedumim fu fondata nel 1975 in seguito al famigerato “compromesso di Sebastia”, quando i coloni di Gush Emunim raggiunsero un accordo con l’allora Primo Ministro Yitzhak Rabin e il Ministro della Difesa Shimon Peres per fondare un nuovo insediamento come risarcimento dell’essere stati allontanati dalla terra che avevano occupato alla stazione ferroviaria di Sebastia, adiacente all’omonimo villaggio palestinese nella Cisgiordania settentrionale. Da molti anni, però, Nahlah Street era la strada utilizzata dagli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum per accedere a Nablus, la grande città a loro più vicina.

Ma un tratto di 2 chilometri di quella strada si snoda tra gli ulivi e i campi di Kufr Qaddum orientale, su cui Kedumim è stata fondata 45 anni fa. E negli ultimi vent’anni, quella strada è stata chiusa agli abitanti palestinesi di Kufr Qaddum. Mentre la lotta popolare si è in gran parte attenuata in tutta la Cisgiordania occupata, il villaggio è uno degli ultimi posti in cui è possibile assistere a manifestazioni quasi settimanali del venerdì che protestano contro la chiusura della strada.

Kufr Qaddum non è affatto l’unica comunità palestinese in Cisgiordania ad avere uno dei propri punti di accesso chiuso dall’espansione delle colonie. La colonia di Kiryat Sefer, per esempio, ha inglobato la strada Bil’in-Safa. La colonia di Maale Adumim controlla il tragitto Abu Dis-Old Jericho. E la colonia di Neve Daniel ha inglobato una strada locale che collegava diversi villaggi palestinesi a Maqam Nabi Daniel.

Per di più, la maggior parte delle aree che l’esercito ha assegnato alle colonie è composta da enclavi e territori non contigui, e comprende campi agricoli che le autorità israeliane riconoscono come terra privata palestinese. In quanto tali, fin dall’inizio queste aree non potevano essere ufficialmente sotto la giurisdizione delle colonie.

La cosa può suonare strana a chiunque pensi in modo tradizionale ai progetti di una comunità – dove le persone normali desiderano condurre una vita in base alle regole che non implichi il furto di proprietà. Ma la Cisgiordania non è un posto normale, e il sistema di assegnazione e pianificazione del territorio che Israele vi ha imposto obbedisce ad un principio organizzativo supremo: rubare e saccheggiare a piacimento e poi pensare a come fare col bottino.

Oltretutto, esiste solo una connessione statisticamente casuale tra le aree giurisdizionali ufficiali e quelle effettive delle colonie. Il motivo è che i coloni essenzialmente fanno ciò che vogliono e le autorità responsabili dell’applicazione della legge non la applicano. È ciò che è successo a Kedumim: l’area totale delle sette enclavi assegnate in aree non contigue è di 3.300 dunam [330 ettari], mentre i coloni sostengono che la comunità occupa circa 6.000 dunam [600 ettari]. Da dove vengono i 2.700 dunam [270 ettari] in più?

Oggi Kedumim occupa tutta la terra di Kufr Qaddum, che l’esercito ha “donato” ai coloni a spese degli abitanti palestinesi. Tra il 1970 e il 1978 l’esercito israeliano ha cominciato ad emanare una serie di “ordini di sequestro militare temporaneo per esigenze di sicurezza”, espropriando oltre 450 dunam [45 ettari] di terra, di cui oltre la metà è stata data ai coloni.

Le fotografie aeree scattate nel 1970 mostrano l’area acquisita quell’anno. Nella parte meridionale si trova la base militare di Kadum dell’esercito israeliano, nello stesso punto in cui prima del 1967 si trovava una base militare giordana. L’area settentrionale divenne, nel corso degli anni, il punto di partenza della colonia di Kedumim e della piccola zona industriale adiacente. A nord della colonia si vede chiaramente la strada che collega Kufr Qaddum a Nablus.

Nel 1979, con l’istanza Alon Moreh, l’Alta Corte di Israele decretò che era illegale assegnare per la costruzione di colonie i terreni palestinesi espropriati dall’esercito israeliano per un preteso scopo militare. Ma poco dopo, per espandere le colonie, Israele cominciò a dichiarare “terreni di stato” ampie fasce di terreno attorno a quello sotto ordine di sequestro, appartenenti agli abitanti di Kufr Qaddum,.

Le immagini aeree del 1983 mostrano chiaramente che i “terreni statali” consegnati ai coloni non erano adiacenti al nucleo della colonia, perché in quei luoghi c’erano – e ci sono ancora – uliveti di proprietà degli abitanti di Kufr Qaddum. I residenti palestinesi possono accedere ad alcuni dei loro uliveti solo un certo numero di giorni fissati ogni anno, e gran parte di quei terreni rimane loro del tutto inaccessibile. Già nei primi anni ’80, Kedumim si espanse al punto che i confini della colonia erano 2 chilometri più a nord del suo originale centro.

Le foto aeree del 2019 mostrano il punto più a nord a cui è arrivata Kedumim, a quarant’anni dalla sua fondazione. Gli edifici costruiti da allora si trovano prevalentemente all’interno dei confini meridionale e settentrionale della colonia.

Dunque, come hanno fatto queste zone separate a formare un unico, continuo insediamento in Cisgiordania? Secondo Daniella Weiss, leader dei coloni ed ex sindaco di Kedumim, basta costruire una strada che attraversa gli uliveti di Kufr Qaddum. Lo studio ravvicinato di una foto aerea del 1983 mostra che, nell’area sotto ordine di sequestro, una strada dalla zona meridionale sbuca nella parte settentrionale lungo la strada Kufr Qaddum-Nablus.

L’espansione della colonia verso nord è stata il colpo finale alla strada Kufr Qaddum-Nablus. Nel corso degli anni, mentre Kedumim si espandeva ed estendeva su più di 10 colline, la strada è diventata determinante per la crescita della colonia e tutto ciò che i coloni hanno dovuto fare è stato aspettare un’opportunità per bloccarvi il traffico palestinese.

L’opportunità è arrivata nei primi anni della Seconda Intifada, che vedevano i coloni di Kedumim nel pieno di una aggressiva campagna di occupazione iniziata alcuni anni prima. Questa campagna per il controllo su più terra intorno alla colonia includeva le solite mosse di questo tipo di colonie: creare nuove strade, bloccare violentemente l’accesso alle aree intorno alla colonia e costruire avamposti.

È così che, alla fine degli anni ’90, il monte Mohammad di Kufr Qaddum è diventato l’avamposto “Har Hemed”. Ed è così che nel 2004 è stato costruito il quartiere in cui vive attualmente il parlamentare di estrema destra e Ministro dei Trasporti Betzalel Smotrich.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Il “campo pacifista” di Israele rischia di scomparire

Jonathan Cook

7 Febbraio 2020 –The Electronic Intifada

Per il cosiddetto “campo pacifista” di Israele gli scorsi 12 mesi di elezioni generali – la terza è prevista il 2 marzo – sono stati vissuti come una continua roulette russa, con sempre minori opportunità di sopravvivenza.

Ogni volta che la canna della pistola elettorale è stata ruotata, i due partiti parlamentari collegati al sionismo liberale, Labour e Meretz, si sono preparati alla loro imminente scomparsa.

Ed ora che la destra israeliana ultranazionalista celebra la presentazione del cosiddetto “piano” per la pace di Donald Trump, sperando che porterà ancora più dalla sua parte l’opinione pubblica israeliana, la sinistra teme ancor di più l’estinzione elettorale.

Di fronte a questa minaccia Labour e Meretz – insieme ad una terza fazione di centro-destra ancor più minuscola, Gesher – a gennaio hanno annunciato l’unificazione in una lista unica in tempo per il voto di marzo.

Amir Peretz, capo del Labour, ha ammesso francamente che i partiti sono stati costretti ad un’alleanza.

“Non c’è scelta, anche se lo facciamo contro la nostra volontà”, ha detto ai dirigenti del partito.

Alle elezioni di settembre i partiti Labour e Meretz, presentatisi separatamente, hanno a malapena superato la soglia di sbarramento.

Il partito Labour, un tempo egemone, i cui leader hanno fondato Israele, ha ottenuto solo cinque dei 120 seggi in parlamento – il risultato più basso di sempre.

Il partito sionista più di sinistra, il Meretz,, ha ottenuto solo 3 seggi. È stato salvato solo dall’alleanza con due partiti minori, teoricamente di centro.

Sempre fragile

Anche al culmine del processo di Oslo alla fine degli anni ’90, il “campo pacifista” israeliano era una costruzione fragile, senza sostanza. Al tempo vi era un dibattito scarsamente rilevante tra gli ebrei israeliani riguardo a quali concessioni fossero necessarie per raggiungere la pace, e sicuramente riguardo a come potesse configurarsi uno Stato palestinese.

Le recenti elezioni, che hanno fatto del leader del Likud Benjamin Netanyahu il Primo Ministro israeliano più a lungo in carica, e la generale euforia riguardo al piano “di pace” di Trump, hanno indicato che l’elettorato ebraico israeliano favorevole ad un processo di pace – anche del tipo più blando – è del tutto scomparso.

Da quando Trump è diventato presidente, la principale opposizione a Netanyahu è passata dal Labour al partito Blu e Bianco, guidato da Benny Gantz, un ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano che è stato il responsabile della distruzione di Gaza nel 2014.

Il suo partito è nato un anno fa, in tempo per l’ultimo voto di aprile e nelle due elezioni generali dello scorso anno i partiti di Gantz e Netanyahu hanno praticamente pareggiato.

I commentatori, soprattutto in nord America e in Europa, hanno accomunato Blu e Bianco con Labour e Meretz come il “centro sinistra” israeliano. Ma il partito di Gantz non si è mai presentato come tale.

Si pone stabilmente a destra, attraendo gli elettori stanchi dei guai molto discussi sulla corruzione di Netanyahu –deve affrontare tre diverse imputazioni per frode e corruzione – o del suo continuo accondiscendere ai settori più religiosi della società israeliana, come i seguaci del rabbinato ortodosso e il movimento dei coloni.

Gantz e il suo partito si sono rivolti agli elettori che vogliono un ritorno ad un sionismo di destra più tradizionale e laico, che un tempo era rappresentato dal Likud – capeggiato da figure come Ariel Sharon, Yitzhak Shamir e Menachem Begin.

Non è stata quindi una sorpresa che Gantz abbia fatto a gara con Netanyahu nell’appoggiare il piano di Trump che sancisce l’annessione delle colonie illegali della Cisgiordania e della Valle del Giordano.

Ma le difficoltà della destra israeliana sono iniziate molto prima della nascita di Blu e Bianco. E per un po’ di tempo sia il Labour che il Meretz hanno cercato di reagire ostentando una linea più intransigente.

Abbandonare Oslo

Sotto la guida di diversi leader il Labour si è progressivamente allontanato dai principi degli accordi di Oslo che ha firmato nel 1993. Il discredito di quel processo è avvenuto in larga misura perché lo stesso Labour all’epoca ha rifiutato di impegnarsi in buona fede nei colloqui di pace con la leadership palestinese.

Nel 2011, dando un segnale generalmente interpretato come il riposizionamento del partito Laburista, la candidata alla sua guida ed ex capo del partito, Shelly Yachimovich, ha puntualizzato che le colonie, che violano il diritto internazionale, non erano un “peccato” o un “crimine”.

In un momento di sincerità ha attribuito direttamente al Labour la loro creazione: “È stato il partito Laburista che ha dato inizio all’impresa coloniale nei territori. Questo è un fatto. Un fatto storico.”

Questo graduale allontanamento dal sostegno anche solo a parole il processo di pace è culminato nell’elezione del ricco uomo d’affari Avi Gabbay come leader del partito Laburista nel 2017.

Nel 2014 Gabbay aveva contribuito a finanziare, insieme a Moshe Kahlon, un ex Ministro delle Finanze del Likud, il partito di destra Kulanu. Lo stesso Gabbay, benché non eletto, ha ricoperto brevemente un ruolo ministeriale nella coalizione di estrema destra di Netanyahu dopo le elezioni del 2015.

Una volta diventato leader del Labour, Gabbay ha fatto eco alla destra stralciando in gran parte il processo di pace dal programma del partito. Ha dichiarato che qualunque concessione ai palestinesi non doveva includere l’“evacuazione” delle colonie.

Ha anche suggerito che fosse più importante per Israele mantenere per sé l’intera Gerusalemme, compresa la parte est occupata, piuttosto che raggiungere un accordo di pace.

Il suo successore (e due volte predecessore) Amir Peretz potrebbe sembrare teoricamente più moderato. Ma ha mantenuto legami con il partito Gesher, fondato da Orly Levi-Abekasis alla fine del 2018.

Levi-Abekasis è un ex deputato di Yisrael Beitenu [Israele è casa nostra], il partito di estrema destra che è ripetutamente entrato nei governi di Netanyahu ed è guidato da Avigdor Lieberman, ex Ministro della Difesa e colono.

Abbandonare la minoranza palestinese di Israele.

Il Meretz ha intrapreso un percorso ancor più drastico di allontanamento dalle proprie origini di partito pacifista, lo scopo per il quale è stato espressamente creato nel 1992.

Fino a poco tempo fa il partito aveva l’unico gruppo parlamentare apertamente impegnato per la fine dell’occupazione e posto i colloqui di pace al centro del proprio programma. Tuttavia, a partire dall’indebolimento (degli accordi) di Oslo alla fine degli anni ’90, non ha mai conquistato più di una mezza dozzina di seggi.

Di fatto dal 2014 il Meretz si è pericolosamente avvicinato alla scomparsa elettorale. In quell’anno il governo Netanyahu ha alzato la soglia elettorale a quattro seggi per poter entrare in parlamento, nel tentativo di eliminare quattro partiti che rappresentavano l’ampia minoranza di 1,8 milioni di cittadini palestinesi di Israele.

I partiti palestinesi hanno reagito creando una Lista Unita per superare la soglia. Ed in un chiaro esempio di conseguenze impreviste, la Lista Unita è attualmente il terzo più grande partito della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.].

Da parte sua, il Meretz è stato lacerato dalle divisioni su come procedere.

Dopo le elezioni di aprile dello scorso anno, in cui a fatica ha superato la soglia, nel Meretz ci sono state voci che chiedevano di prendere una nuova direzione, promuovendo la partnership ebraico-araba. I suoi molto votati rappresentanti “arabi”, Issawi Freij e Ali Salalah, si dice abbiano salvato il partito raccogliendo in aprile un quarto dei voti dai cittadini palestinesi di Israele, quelli che rimasero di quanti vennero espulsi dalle proprie terre nel 1948 durante la Nakba.

La minoranza palestinese è diventata sempre più politicamente polarizzata, esasperata dall’incapacità dei partiti ebraici di affrontare le sue preoccupazioni riguardo alla sistematica discriminazione che subisce.

I più votano per la Lista Unita. Ma una piccola parte della minoranza palestinese sembra stanca di gettare via quello che finisce per essere un voto di protesta.

Di fronte ad una sempre più forte istigazione anti-araba da parte della destra, guidata dallo stesso Netanyahu, alcuni erano sembrati pronti ad andare verso la società ebraica israeliana attraverso il Merertz.

Alcuni dirigenti del Meretz, guidati da Freij, hanno anche proposto di scindere la Lista Unita e creare un’alleanza con alcuni dei suoi partiti, soprattutto Hadash-Jebha, un’alleanza socialista che già include un gruppo ebraico minoritario.

Ma nella corsa al voto di settembre i dirigenti del Meretz hanno di fatto cassato qualunque ulteriore intenzione di promuovere questi tentativi di collegamento con la minoranza palestinese. In luglio il partito ha istituito un nuovo gruppo, chiamato Unione Democratica, con due nuovi partiti guidati da ex politici del Labour – il Movimento Verde di Stav Shaffir e il partito Democratico di Ehud Barak.

Improbabili alleati

Shaffir si era inimicata molti cittadini palestinesi durante le brevi proteste per la giustizia sociale nel 2011 in cui si è messa in risalto. I leader della protesta hanno lavorato sodo per mantenere a distanza i cittadini palestinesi e hanno ignorato le questioni relative all’occupazione, in modo da creare un’ampia coalizione ebraica sionista.

I precedenti di Barak – l’ex Primo Ministro è stato colui che ha messo il campo pacifista sulla sua strada di autodistruzione dichiarando che i palestinesi non erano “partner per la pace” –erano ancor più problematici.

Ha descritto il suo partito Democratico come “a destra del partito Laburista”. Il suo programma non faceva menzione di una soluzione di due Stati e della necessità di porre fine all’occupazione.

Nitzan Horowitz, il leader del Meretz, in quel momento ha giustificato l’alleanza in base al fatto che “abbiamo bisogno di aumentare la nostra forza (elettorale)”.

E, a parte il ruolo di Barak nell’ostacolare il processo di Oslo, nel 2000 come Primo Ministro all’inizio della seconda intifada diresse anche una violenta repressione poliziesca delle proteste civili dei cittadini palestinesi, in cui furono uccise 13 persone.

L’anno seguente Barak perse le elezioni a Primo Ministro dopo che i cittadini palestinesi infuriati boicottarono in massa il voto, di fatto spianando la strada alla vittoria del suo sfidante del Likud, Ariel Sharon.

Solo l’anno scorso, vent’anni dopo, Barak ha espresso le scuse per il suo ruolo in quelle 13 morti, come verosimile prezzo per entrare nell’alleanza con Meretz.

Ora il Meretz ha rotto l’alleanza con Barak e Shaffir. Ma facendolo, si è spostato ancor più a destra. Il suo accordo elettorale di gennaio con Labour e Gesher per le elezioni del 2 marzo sembra chiudere la porta ad ogni futura alleanza arabo-ebraica.

Il Meretz ha relegato Freij, il suo candidato palestinese di punta, in una irrealistica undicesima posizione [nella lista dei candidati].

Recenti sondaggi indicano che la nuova coalizione si aggiudicherà solo nove seggi.

Un improbabile scenario

Né il Meretz né il Labour hanno mai veramente rappresentato un significativo campo pacifista. Entrambi hanno una storia precedente di entusiastico appoggio a ogni recente guerra che Israele ha lanciato, benché parti del Meretz abbiano avuto abitualmente dei ripensamenti quando le operazioni si prolungavano e aumentavano le vittime.

Pochi, anche nel Meretz, hanno chiarito che cosa significhi il campo pacifista o come considerino uno Stato palestinese.

La “prospettiva” di Trump ha risposto a queste domande in modo del tutto negativo per i palestinesi. Ma il suo piano si allinea ai sondaggi che indicano che molto meno della metà degli ebrei israeliani sostiene alcun tipo di Stato palestinese, praticabile o no.

Ugualmente problematico per i sionisti liberali del Meretz e del partito Laburista è come contrastare la sistematica discriminazione nei confronti dei cittadini palestinesi di Israele senza compromettere lo status ebraico dello Stato imposto per legge.

I fondamenti sionisti di Israele implicano privilegi per i cittadini ebrei rispetto a quelli palestinesi, dall’immigrazione ai diritti sulla terra e la separazione tra le due popolazioni negli ambiti sociali, dalla residenza all’istruzione.

Ma senza qualche forma di accordo con la minoranza palestinese è impossibile immaginare come il cosiddetto campo pacifista possa ottenere qualche successo elettorale, come previsto l’anno scorso dall’ex leader del Meretz Tamar Zandberg.

L’enigma è che sottrarre potere alla destra estremista e religiosa guidata da Netanyahu dipende da una quasi impossibile alleanza sia con la destra laica e militarista guidata da Gantz, sia con la Lista Unita.

Dato il razzismo anti-arabo dilagante nella società israeliana, nessuno crede davvero che una tale configurazione politica sia realizzabile. Questo è in parte il motivo per cui Netanyahu, gli estremisti religiosi e i coloni continuano a dettare l’agenda politica, mentre il “centro-sinistra” israeliano rimane a mani vuote.

Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’.

I suoi ultimi libri sono: ‘Israel and the clash of civilization: Iraq, Iran and the plan to remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per ridefinire il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s experiments in human despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana] (Zed Books).

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)