Come la cima di una collina è diventata l’incubatrice della violenza dei coloni israeliani

Natasha Roth-Rowland

2 gennaio 2020 – +972

Il governo israeliano ha fatto poco per bloccare i coloni religiosi di Yitzhar, la cui ideologia estremista sta promuovendo ondate di violenza contro i palestinesi in Cisgiordania

Il 16 ottobre 2019 coloni mascherati di Yitzhar e degli avamposti circostanti hanno aggredito attivisti israeliani ed ebrei americani, tra cui un rabbino ottantenne, che stavano aiutando i palestinesi nella raccolta delle olive. Tre giorni dopo nella stessa zona coloni hanno attaccato palestinesi che stavano coltivando la propria terra. Nei due giorni seguenti abitanti di Yitzhar hanno aggredito anche reparti della polizia di frontiera israeliana durante una serie di scontri dopo che l’esercito ha arrestato un colono sospettato di aver dato fuoco a un appezzamento di terreno di proprietà palestinese.

Questo scoppio di violenza – avvenuto durante la festa ebraica di Sukkot – è stato uno dei molti avvenuti nella Cisgiordania occupata negli ultimi mesi del 2019. Attacchi contro le forze di sicurezza palestinesi ed israeliane e atti di vandalismo contro proprietà palestinesi, compresi incendi, sono stati segnalati a Gush Etzion [colonia israeliana nella zona centrale della Cisgiordania, ndtr.], Hebron [Al-Khalil, città palestinese nella Cisgiordania meridionale, ndtr.], Bat Ayin [colonia nei pressi di Gush Etzion, ndtr.], Hizma [cittadina palestinese nei pressi di Gerusalemme, ndtr.] e altrove. Benché secondo il ministero della Difesa israeliano quest’anno ci sia stata una riduzione complessiva del numero di crimini di odio da parte di coloni rispetto al 2018, la loro ampiezza e il loro livello di violenza sta aumentando.

Yitzhar si trova nella parte settentrionale della Cisgiordania (in genere denominata “Samaria” in Israele), dove i coloni tendono a raggrupparsi in avamposti sulla cima delle colline sparsi attorno ai centri abitati palestinesi. Questa parte dei territori occupati è particolarmente soggetta alla violenza dei coloni, quindi non è un caso che Ytzhar sia stata al centro del più recente picco di aggressioni dei coloni.

Yitzhar è stata fondata nel 1983 come avamposto militare sulla cima di una collina nei pressi della città palestinese di Nablus e trasformata l’anno seguente in un insediamento civile in base a una direttiva del governo. La colonia originaria era stata fondata su terreni agricoli di proprietà di una serie di villaggi palestinesi, compresi Burin e Huwara, che nel corso degli anni hanno sofferto il peso della violenza dei coloni nella zona. A iniziare dalla fine degli anni ’90 sulla cima delle colline circostanti sono spuntati numerosi avamposti illegali [in base alla legge israeliana, ndtr.].

Dal 2000 Yitzhar è stata sede della yeshiva [scuola religiosa ebraica, ndtr.] “Od Yosef Chai” (Giuseppe vive ancora), nota a lungo per aver insegnato ai propri studenti la liceità – e persino la necessità – della violenza contro i non ebrei. Fondata nel 1982 sotto l’egida di un’organizzazione benefica che vi è stata inclusa nel 1983, per circa 20 anni la yeshiva si è stabilita sul luogo della Tomba di Giuseppe a Nablus, finché è stata trasferita a Yitzhar quando l’esercito israeliano ha smantellato il proprio avamposto militare presso la tomba durante la Seconda Intifada. Durante la sua esistenza la yeshiva e l’accampamento presso la Tomba di Giuseppe sono stati un frequente punto critico e la tomba continua ad essere un luogo di pellegrinaggio per coloni radicali, le cui spedizioni notturne mensili spesso provocano violenze.

Il capo spirituale della yeshiva e delle colonie è il preside della “Od Yosef Chai” Yitzchak Ginsburgh, un rabbino ultraortodosso nato nel Missouri che nel corso della sua carriera ha riunito un seguito numeroso e fedele. I suoi studenti ed accoliti sono stati all’avanguardia nel promuovere e mettere in atto violenze contro palestinesi nel corso degli ultimi dieci anni. E nonostante le condanne espresse dai vertici del governo quando un ulteriore attacco o una pubblicazione che incita all’odio riconduce alla yeshiva di Ginsburgh, essa continua ad essere attiva – tutto ciò mentre continua a ricevere una modesta somma annuale da parte del locale consiglio regionale.

È in buona misura grazie all’insegnamento di Ginsburgh e dei suoi rappresentanti e della violenza che hanno incoraggiato che Yitzhar è diventata famosa come una delle colonie radicali più estremiste. Ma mentre le informazioni sulle aggressioni fisiche da parte dei suoi abitanti spesso fanno notizia, l’ideologia sottesa – e la mancanza di volontà da parte dello Stato di occuparsene seriamente – riceve un’attenzione molto minore.

I non ebrei come “subumani”

Chiunque abbia conosciuto Baruch (Goldstein) ritiene che egli abbia agito in base alla sua personalità ebraica… Non si è trattato della reazione di un ebreo ignorante – che dovrebbe anch’esso essere benedetto – ma di un uomo colto ed esemplare.”

Questa è stata la reazione di Ginsburgh al massacro presso la moschea di Ibrahim/Tomba dei Patriarchi di Hebron nel febbraio 1994, in cui Baruch Goldstein, nato a Brooklyn, ha ucciso a fucilate 29 fedeli musulmani prima di essere picchiato a morte quando il suo fucile si è inceppato. Ginsburgh scrisse la sua dichiarazione in “Baruch HaGever” (Baruch l’uomo/l’uomo è benedetto”), una raccolta di saggi e di elogi funebri pubblicata l’anno dopo l’attacco.

Come molti dei collaboratori al libro, Ginsburgh presenta il terrorismo di Goldstein come una testimonianza del suo valore come essere umano, inseparabile dalla sua carriera come dottore e come esempio di violenza giusta con una profonda ragione e giustificazione teologica. Avvalendosi di una serie di scritture ebraiche, Ginsburgh ha inquadrato la strage al contempo come un atto di protezione degli ebrei, un attacco contro il “male” (in cui i palestinesi sono descritti come l’incarnazione attuale di Amalek, i nemici biblici degli israeliti) e un tentativo di salvaguardare la Terra di Israele per il popolo ebraico.

Al centro dell’ideologia di Ginsburgh ci sono l’accettabilità e la moralità della violenza ebraica contro i non ebrei. Come ha scritto il docente di religione israeliano Motti Inbari, sottesa a ciò c’è la sua concezione dei non ebrei come di fatto “subumani” – implicando che il comandamento “non uccidere”, che riguarda gli esseri umani, si applichi solo agli ebrei.

Questa interpretazione dei Dieci Comandamenti caratterizza un’altra nota pubblicazione uscita da Yitzhar, questa volta ad opera dei seguaci di Ginsburgh, Yosef Elitzur e Yitzhak Shapira – quest’ultimo dirige la yeshiva “Od Yosef Chai”. Il loro libro del 2009, “Torat Hamelech” (“La Torah del Re), allo stesso modo sostiene che il peccato di omicidio riguardi la violenza tra ebrei e ammette esplicitamente l’uccisione di minori e bambini non ebrei se, scrivono, “è chiaro che quando saranno cresciuti ci faranno del male.” Questo libro, come “Baruch HaGever,” ha comportato per i suoi autori accuse di incitamento al razzismo e alla violenza, ma non ne è derivata nessuna azione penale.

Parecchi anni dopo, in un altro incidente Elitzur, dopo aver pubblicato un articolo sul sito di notizie di estrema destra “HaKol HaYehudi” [La Voce Ebraica, ndtr.] gestito da Yitzahr, si è guadagnato un’ulteriore accusa per incitamento alla violenza. L’articolo definiva linee guida che si sarebbero sviluppate in quelli che sono noti come attacchi “prezzo da pagare”, un termine dato a crimini d’odio e violenza commessi da estremisti israeliani contro chiunque osi mettere a repentaglio il progetto di colonizzazione, compresi attivisti palestinesi e della sinistra israeliana. Anche i redattori di “HaKol HaYehudi” sono stati messi sotto accusa con imputazioni simili.

Forse il più noto dei pupilli di Ginsburgh dell’ultima generazione è Meir Ettinger, un dirigente della gioventù della cima delle colline [gruppo di giovani coloni particolarmente violenti, ndtr.] sospettato di coinvolgimento in numerosi reati violenti contro i palestinesi. Ettinger, un ex-studente di Ginsburgh, è un blogger fisso di “HaKol HaYehudi”. Recentemente ha definito Ginsgurgh “il più autentico ebreo al mondo,” e ha affermato: “Quando immagino un leader ebreo, quando immagino il re David, egli assomiglia a Ginsburgh.”

Focolaio di violenza dei coloni

La fede nella violenza moralmente sostenibile e al contempo necessaria non è affatto rara nell’estrema destra israeliana. Il rabbino Meir Kahane, nato a Brooklyn e che ha avuto una storica carriera di violenza spettacolare sia nel suo Paese natale che in quello di adozione [Israele, ndtr.] una volta disse all’intervistatore di una televisione americana che, quando viene condotta per proteggere ebrei, “la violenza è una mitzvah (comandamento spirituale ebraico)”. Il manifesto elettorale del partito Otzma Yehudit (Potere Ebraico), formato dai discepoli del defunto Kahane, mette esplicitamente in rapporto le leggi religiose ebraiche e la “guerra totale” contro i “nemici di Israele”.

Baruch Goldstein, seguace di Kahane e che era stato anche consigliere di un consiglio comunale a Kiryat Arba [colonia di estremisti religiosi nei pressi di Hebron, ndtr.] per il partito Kach [fondato da Kahane, ndtr.], può aver portato all’estremo quell’ideologia, ma essa caratterizza ancora larghi strati della destra religiosa – compresi quanti hanno difeso, e continuano a difendere, la strage di Goldstein a Hebron. Il rabbino Dov Lior, ex-rabbino capo di Hebron e di Kiryat Arba, ha esplicitamente appoggiato il libro “Torat Hamelech.”

Inoltre Ginsburgh non è affatto l’unico rabbino influente ad indottrinare generazioni di studenti delle scuole religiose con motivazioni a favore della violenza interetnica e interreligiosa derivate dalle Sacre Scritture. In effetti in tutta Israele il sistema delle accademie religiose di preparazione al servizio militare – la prima delle quali è nata nella colonia di Eli nel 1988 – probabilmente segue una logica simile, anche se meno esplicita nei programmi di yeshiva come la “Od Yosef Chai”.

Per esempio il rabbino Eli Sadan, capo dell’accademia di Eli, ha paragonato la guerra contro Gaza del 2014 alla narrazione biblica delle battaglie di Sansone contro i filistei, che terminarono con Sansone che a Gaza fece crollare un tempio sulla sua testa e su quella degli oppressori filistei, uccidendoli tutti. Anche innumerevoli rabbini sionisti religiosi hanno citato i palestinesi come nemici biblici dei nostri giorni, con la conseguenza che il loro destino finale dovrebbe essere, e sarà, l’annichilimento.

Eppure Yitzhar e la sua yeshiva sono un caso a parte, non solo per la frequenza con cui i suoi abitanti sono coinvolti o legati alla violenza dei coloni, ma anche per le loro caratteristiche ideologiche. Gli abitanti sono prevalentemente nazionalisti ultraortodossi – noti in ebraico come hardalim (un nome composto tra haredi, ultraortodossi, e leumi, nazionalisti). In questo senso Yitzhar rappresenta una sorta di passaggio generazionale del focolaio di azioni dei coloni estremisti sia contro i palestinesi che contro lo Stato.Tra gli anni ’70 e ’90 il terrorismo ebraico ha avuto origine da gruppi del sionismo religioso e da movimenti come Gush Emunim e il partito Kach, ed ha avuto la propria roccaforte a Kyriat Arba. Lo stesso Kahane è ricordato a Kyriat Arba da un parco con il suo nome, che è anche il luogo della tomba di Baruch Goldstein. Tuttavia gli anni 2000 e 2010 hanno visto emergere un movimento ancora più radicale, che rifiuta quasi integralmente l’autorità dello Stato e che nello scorso decennio è stato dietro ad alcuni degli attacchi più brutali contro i palestinesi. Il volto di questa nuova estrema destra è la gioventù della cima delle colline, per la quale Ginsburgh è la guida spirituale.

Lo stesso Ettinger è emblematico di questo passaggio generazionale, ideologico e geografico dell’avanguardia dell’estremismo di destra israeliano. Proprio come Ginsburgh è stato propagandato come il successore spirituale di Kahane, così Ettinger, nipote di Kahane, ha seguito l’insegnamento del suo mentore ultra-ortodosso più che del suo familiare (nel 2016, durante la detenzione amministrativa di Ettinger in seguito all’attacco incendiario di Duma che ha ucciso tre membri di una famiglia palestinese, Libby Kahane, la vedova di Kahane, ha manifestato il proprio rammarico per il fatto che a suo parere il nipote non abbia seguito le orme del suo defunto marito).

Non un’anomalia

Il governo israeliano ha fatto sporadici tentativi di contrastare il ruolo di Yitzhar nel fomentare la violenza in Cisgiordania. Ma, al di là di qualche azione penale senza seguito contro i leader della colonia, le autorità israeliane non hanno fatto seri sforzi per arginare questa violenza. I soldati israeliani, benché siano stati ripetutamente bersaglio dei coloni, sono stati persino filmati accanto ad abitanti di Yitzhar senza che intervenissero mentre questi aggredivano palestinesi che vivono nei villaggi che si trovano sotto la colonia.

Di tanto in tanto lo Stato ha chiuso temporaneamente le istituzioni della colonia. Ad esempio, alla fine del 2011, dopo che un certo numero dei suoi studenti sono stati collegati ad attacchi contro palestinesi in Cisgiordania, è stata disposta la chiusura della scuola superiore “Dorshei Yehudcha” di Yitzhar. Tuttavia la scuola — il cui responsabile per la formazione è Yosef Elitzur e il cui preside è Yitzchak Ginsburgh — ha tranquillamente riaperto e continua ad essere in funzione fino ad oggi. Nel 2014 le forze di sicurezza israeliane hanno occupato la “Od Yosef Chai”, piazzandosi nella yeshiva per un anno ed obbligandola a interrompere le attività. Tuttavia dopo che l’esercito se n’è andato la yeshiva ha ancora una volta riaperto.

In seguito a ripetuti episodi di violenza guidati dai coloni di Yitzhar, nel 2013 il governo ha tagliato centinaia di migliaia di shekel che versava ogni anno alla yeshiva attraverso il ministero dell’Educazione. Eppure la “Od Yosef Chai” continua a ricevere decine di migliaia di shekel all’anno dal Consiglio regionale della Samaria ed è stata in grado di conservare il suo status di associazione no-profit, consentendole così di ricevere donazioni esenti da tassazione in Israele. Ha ricevuto donazioni esentasse anche dagli Stati Uniti, benché il sito ufficiale della yeshiva (come quello di molte istituzioni di destra delle colonie) sia evasivo riguardo alla provenienza di questi fondi.

Tuttavia la vera questione non riguarda solo una singola colonia nella parte settentrionale della Cisgiordania. La crescente emarginazione sociale della gioventù della cima delle colline ha reso facile per il mondo politico israeliano puntare l’indice contro l’attuale violenza dei coloni – compresa quella di Yitzhar – come un’anomalia, guidata da un’ideologia che i dirigenti politici insistono nell’affermare non abbia posto nel Paese. Ma la farsa delle ormai usurate condanne che vengono esternate in seguito alle azioni più gravi del terrorismo dei coloni nasconde fino a che punto lo Stato consenta tale violenza.

Che si tratti della gioventù della cima delle colline condannata socialmente o dell’élite dei coloni con ottimi rapporti, l’ideologia sottesa della conquista della terra, della purezza etnica e delle leggi teocratiche imposte dalla Bibbia è passata da una generazione all’altra e attraverso le istituzioni dello Stato. La gioventù della cima delle colline sicuramente ha una dimensione più esplicitamente antigovernativa per la sua visione del mondo. Ma rimane il fatto che la sua ideologia è profondamente radicata in una società che dopo più di 70 anni è ancora incapace di affrontare, per non parlare di accogliere e sancire per legge, il concetto di uguaglianza, o di riconoscere i palestinesi come popolo nativo con diritti umani. Finché sarà così, il governo israeliano sarà incapace, e presumibilmente non disposto, a fare più di qualche gesto di facciata per bloccare l’estremismo dei coloni.

Informazioni sull’ideologia del rabbino Yitzchak Ginsburgh e dei suoi seguaci e sulla storia di Yitzhar sono state ricavate dai seguenti libri: Religious Zionism and the Settlement Project: Ideology, Politics, and Civil Disobedience [Sionismo religioso e progetto coloniale: ideologia, politica e disobbedienza civile] di Moshe Hellinger, Isaac Hershkowitz e Bernard Susser (2018); Jewish Fundamentalism and the Temple Mount: Who Will Build the Third Temple? [Fondamentalismo ebraico e il Monte del Tempio: chi costruirà il Terzo Tempio?] di Motti Inbari (2009); Baruch Hagever: Memorial Book for the Holy Dr. Baruch Goldstein, [Baruch Hagever: libro in memoria del santo dottor Baruch Goldstein] a cura di Michael Ben Horin e altri (1995); How Long Will Israel Survive? The Threat From Within, [Per quanto ancora sopravviverà Israele? La minaccia dall’interno] di Gregg Carlstrom (2017).

Natasha Roth-Rowland è dottoranda in storia presso l’università della Virginia, dove fa ricerche e scrive sull’estrema destra ebraica in Israele/Palestina e negli USA. In precedenza ha passato parecchi anni come scrittrice, redattrice e traduttrice in Israele/Palestina e il suo lavoro è stato pubblicato su The Daily Beast, the London Review of Books Blog, Haaretz, The Forward e Protocols. Scrive con il suo vero cognome di famiglia in memoria del nonno, Kurt, che durante la Seconda Guerra Mondiale venne obbligato a cambiare il cognome in ‘Rowland’ per cercare rifugio in Gran Bretagna.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’israeliana Fauda: un’immorale e strumentale rappresentazione trasforma la sofferenza dei palestinesi in spettacolo

Orly Noy

7 gennaio 2020 Middle East Eye

La terza stagione di una popolare serie TV tratta delle operazioni nell’assediata Striscia di Gaza

La serie TV Fauda (in arabo ‘caos’) tratta la storia di un’unità israeliana segreta, la mistaravim, i cui commandos svolgono missioni nei territori palestinesi occupati facendosi passare per arabi.

Tra le serie israeliane più di successo mai trasmesse, lo show ha vinto numerosi premi, sia in patria che all’estero. Ha debuttato nel 2015 e l’anno seguente Netflix lo ha acquistato, dopodiché Fauda è diventata un enorme successo internazionale.

Il giornalista Avi Issacharoff e l’attore Lior Raz hanno creato la serie, basata in parte sulle loro esperienze nell’unità d’assalto Duvdevan dell’esercito israeliano. Tra i consulenti dello show figuravano Gonen Ben-Yitzhak, ex coordinatore della sicurezza israeliana e commando scelto, e Aviram Elad, un altro graduato della Duvdevan.

Impudente arroganza

Le prime due stagioni erano incentrate sulle operazioni segrete dell’unità nella Cisgiordania occupata. La terza stagione, che è appena iniziata, si occupa delle operazioni a Gaza. Prima che l’attuale stagione andasse in onda, i produttori hanno lanciato un’aggressiva campagna pubblicitaria che ha riempito le strade di Israele di enormi manifesti.

Ogni volta che passo in macchina accanto a uno di questi cartelloni pubblicitari o mi fermo ad un semaforo vicino ad uno di essi, tremo di vergogna.

L’immagine pubblicitaria della nuova stagione raffigura il volto dagli occhi di ghiaccio, contuso e insanguinato di un attore accanto al messaggio “Benvenuti a Gaza”, scritto in inglese ma in lettere ebraiche. Lo guardo e penso all’incredibile cinismo, all’impudente arroganza di questo scherno.

Benvenuti a Gaza. Benvenuti nel ghetto i cui accessi Israele ha bloccato per più di un decennio, infliggendo a oltre due milioni di persone una morte lenta. Questo evidentemente è il nuovo gioco virtuale per soddisfare il bisogno di emozioni degli spettatori israeliani, realizzato in inglese per enfatizzare lo spirito americano di questo devastante spettacolo.

Un sito di informazioni ebreo di destra ha descritto la nuova stagione in questo modo: “Fauda ed i suoi agenti segreti mistaravim guidati da Doron (Lior Raz) ritornano per un’altra stagione tesa ed emozionante. La loro principale missione questa volta è di danneggiare l’infrastruttura di Hamas che opera da Gaza e far fuori il locale comandante dell’ala militare di Hamas.”

Gaza: un mito per gli israeliani

Nuove sfide da brivido piene di suspense e nuove audaci missioni. Come in un raffinato gioco al computer, lo spettatore può mettersi comodo ed essere trascinato dallo spettacolo, protetto attraverso lo schermo dalle scene drammatiche che si svolgono a Gaza. La brutale situazione di due milioni di persone sotto assedio diventa semplicemente il set della vicenda.

Di per sé proprio l’assedio di Gaza diventa la migliore pubblicità per la serie TV. Grazie ad un altro lungo anno di blocco, Gaza è diventata una sorta di mito per gli israeliani: non del tutto reale, nel senso che ci vivono vere persone, eppure è contemporaneamente molto spaventoso e minaccioso.

L’ignoranza dei comuni israeliani fiorente dietro lo schermo oscuro imposto da Israele su Cisgiordania e Gaza e il terrore primordiale che genera sono i principali elementi del segreto del successo di questa serie.

Ancora più grottesco è come il seguire intensamente le storie dei “nostri meravigliosi ragazzi” a Gaza non impedisca alla maggior parte degli spettatori di Fauda di sostenere, nelle discussioni politiche, “Ma noi abbiamo lasciato Gaza! Là non c’è più occupazione!”. Al tempo stesso applaudono ogni esecuzione, arresto o subdola imboscata che vedono sui loro schermi televisivi. Ci siamo ritirati da Gaza, ma che grande lavoro stiamo facendo là!

Questa alienazione include anche una sorta di esotizzazione dei palestinesi sotto occupazione. Per la stragrande maggioranza del pubblico ebreo israeliano non solo l’azione che si svolge nella Gaza assediata, ma anche le parti della serie che si svolgono in Cisgiordania descrivono luoghi al di là di montagne di oscurità. Nablus, Ramallah, Jenin – tutte sono diventate simboli del regno del male in cui i nostri ragazzi coraggiosamente entrano ed escono, piuttosto che vitali città ad un passo da dove viviamo.

Ricordo molto bene la prima volta che ho fatto visita ad un amico a Jenin. All’inizio non riuscivo a capire le istruzioni che mi dava. Non mi sembrava logico di dover solo prendere l’ auto e guidare dritto fino da lui. Ero stupefatto nello scoprire quanto breve e facile fosse la strada.

Spaventoso ed esotico

Fauda non solo si basa sulla paura dei luoghi palestinesi, ma la amplifica, la legittima e la normalizza. I palestinesi sono raffigurati come creature esotiche che abitano luoghi dove solo i commandos si arrischiano ad avventurarsi. Il sionismo è riuscito a trasformare i palestinesi in personaggi esotici nella loro stessa patria.

Un argomento chiave che emerge in molte discussioni su Fauda è che questa serie in realtà rappresenta un programma umano, persino di sinistra, perché “mette in scena la complessità” e mostra che anche le persone sull’altro lato sono esseri umani.

Questo punto vale la pena di essere preso in considerazione per un momento, per poter valutare ciò che dice di noi come israeliani, se dopo così tanti anni di violento dominio su milioni di palestinesi emarginati abbiamo bisogno che ci si rammenti che anche loro sono esseri umani. Ma la pecca morale più grave di questa argomentazione è la simmetria che dichiara: guarda, ci sono persone su entrambi i lati.

Data la realtà imperante a Gaza, che anni fa un rapporto dell’ONU ha previsto sarebbe stata inabitabile entro il 2020 – una previsione avveratasi in anticipo – non esiste simmetria.

Da un lato c’è un luogo la cui esistenza per decenni è stata schiacciata da un regime di violenza, povertà, distruzione e morte, condotto da uno dei più potenti eserciti del mondo; sul lato opposto, quell’esercito mantiene un controllo assoluto sul destino dell’altro, senza nessuna intenzione di smettere.

Indescrivibili sofferenze

Fauda è stata creata da persone che svolgono un ruolo attivo in questo regime di controllo ed abuso. Questa serie TV è il prodotto di quella collaborazione e in quanto tale è per definizione illegittima.

E’ immorale trasformare la sofferenza della vittima in spettacolo per il carnefice. E’ immorale cedere ad un’assuefazione all’adrenalina a spese di coloro che sono nel mirino delle nostre armi. Gaza non è il set di una serie televisiva; è un luogo reale con persone reali che vivono indescrivibili sofferenze che noi israeliani imponiamo loro ogni giorno.

Sì, è importante conoscere ciò che succede a Gaza mentre si disintegra sotto l’assedio, ma non attraverso uno spettacolo per le masse. Potremmo, per esempio, ascoltare le voci dei giovani gazawi stessi attraverso l’importante sito web “We are not numbers” (“Non siamo numeri”).

E’ facile dire “al diavolo la politica e la moralità”, oppure “non c’è altra scelta che seguire la corrente” – ma si può sempre scegliere. Possiamo, per esempio, rifiutare di collaborare nel trasformare le vittime in divertimento per gli occupanti o in spettacolo per la comunità internazionale – proprio la stessa comunità internazionale che ha permesso che l’occupazione perpetuasse queste violazioni per così tanti anni.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Orly Noy è una giornalista ed attivista politica che vive a Gerusalemme

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Le Nazioni Unite hanno previsto che Gaza sarebbe stata invivibile entro il 2020. Avevano ragione.

Tania Hary

31 dicembre 2019  + 972

Israele sta cercando di mantenere la “calma” a Gaza applicando nuove misure in modo da permettervi la sopravvivenza – senza consentire alle persone di vivere davvero.

Mentre i festaioli di tutto il mondo stanno facendo i nuovi propositi per il 2020, nella Striscia di Gaza è in corso un diverso tipo di valutazione, con i palestinesi che cercano di stabilire se o come sopravviveranno nei prossimi 10 anni. Nel 2012, le Nazioni Unite hanno pubblicato un rapporto il cui titolo poneva una domanda sconcertante: “Gaza nel 2020: un luogo vivibile?” Il rapporto ipotizzava che senza cambiamenti fondamentali e sforzi collettivi, la Striscia sarebbe diventata “invivibile” in soli otto anni.

Il rapporto è stato pubblicato pochi mesi prima della seconda delle tre operazioni militari israeliane che sarebbero state condotte a Gaza nel corso di sei anni. In seguito alla terza operazione, Protection Edge nel 2014, con il suo enorme tributo in vite umane e il vasto danno alle infrastrutture civili [Margine Protettivo è il nome della operazione militare effettuata dalle Forze Israeliane sulla Striscia di Gaza, iniziata l’8 luglio del 2014 e cessata il 26 agosto successivo che ebbe come esito la uccisione di migliaia di palestinesi tra cui moltissimi bambini e l’estesa devastazione di case e ospedali, ndtr.], i funzionari delle Nazioni Unite hanno successivamente avvertito che la Striscia sarebbe diventata davvero invivibile entro il 2018. Le previsioni del rapporto su Gaza 2020 non avevano preso in considerazione operazioni militari di tale portata.

Tuttavia, alla vigilia del 2020, le persone si chiedono che fine abbiano fatto le previsioni delle Nazioni Unite – come se allo scoccare della mezzanotte, lo spettro dell’invivibilità potesse o meno realizzarsi. Tuttavia, a detta di tutti, e secondo gli indicatori scelti dalle Nazioni Unite, la vita a Gaza è palesemente peggiore ora rispetto al 2012. Ad esempio, il tasso di disoccupazione è passato dal 29% di quando il rapporto è stato scritto al 45% di oggi, con un tasso di oltre il 60% tra i giovani palestinesi.

Purtroppo la capacità di produzione di energia elettrica nella Striscia è rimasta invariata negli ultimi otto anni, nonostante l’aumento della domanda essendo la popolazione cresciuta da 1,6 a quasi due milioni. La fornitura di energia elettrica è persino peggiorata, dal momento che le reti egiziane sono fuori servizio dall’inizio del 2018. L’energia è disponibile solo per mezza giornata – un miglioramento rispetto alcuni periodi, ma neanche minimamente concepibile per il 2020. L’acqua delle falde acquifere non è potabile al 96%, come previsto. Le famiglie spendono entrate preziose per l’acquisto di acqua potabile, che non sempre lo è. Dato che molte famiglie non possono permettersi di acquistare l’acqua, le malattie trasmesse attraverso l’acqua, specialmente tra i bambini, sono molto diffuse.

Israele, attraverso il controllo sui movimenti, ha svolto un ruolo centrale e intenzionale in questo declino. Ai cittadini israeliani viene detto che è “tutta colpa di Hamas”, il che può aiutarli a dormire meglio la notte, ma travisa la verità storica. Gaza è stata gradualmente tagliata fuori e isolata da parte di Israele nel corso dei decenni, e nel 2007, quando Hamas ha preso il potere nella Striscia, Israele ha sigillato il territorio in modo quasi ermetico.

I funzionari israeliani hanno fatto il calcolo – letteralmente – che esercitare pressioni avrebbe aiutato a raggiungere degli obiettivi politici a Gaza. Nei fatti, Israele ha limitato l’ingresso di cibo e, negli ultimi 12 anni, ha preso di mira settori dell’economia con politiche quali limiti arbitrari sulla pesca e sull’accesso ai terreni agricoli, sull’ingresso di energia per la produzione e sulla commercializzazione e l’esportazione di merci. Dopo diverse operazioni militari, tuttavia, alcuni funzionari israeliani hanno riconosciuto che il loro “obiettivo” era molto lontano. In particolare, successivamente a Margine Protettivo, molti hanno notato come il deterioramento della situazione umanitaria sul terreno fosse in realtà un ostacolo per Israele.

Il capo dell’intelligence dell’esercito ha persino citato il rapporto Gaza 2020 delle Nazioni Unite in un’audizione del Comitato della Knesset all’inizio del 2016, dicendo ai membri della Knesset che era necessario un intervento economico per contrastare la previsione delle Nazioni Unite che la Striscia sarebbe diventata invivibile entro il 2020. Egli definiva l’intervento economico come “il fattore di contenimento più importante”e affermava che senza un miglioramento delle condizioni sul terreno, Israele sarebbe stato il primo ad accusarne il contraccolpo. Questo tipo di logica fu condivisa tra i funzionari israeliani, dal ministero della difesa allo stesso primo ministro, anche se questi individui avevano attivamente sovrainteso a politiche progettate per fare esattamente il contrario.

Questa logica si è tradotta in modesti cambiamenti di politica. Nel 2012, il limite della pesca era di sole tre miglia nautiche dalla costa [cinque chilometri e mezzo], poi è salito a sei miglia nel 2015, e oggi a 15 miglia [circa 28 chilometri] in alcune zone. A differenza del 2012, quando nessuna merce era autorizzata ad uscire da Gaza per essere venduta nei mercati tradizionali in Cisgiordania e Israele, oggi una serie di merci può essere inviata in Cisgiordania e alcuni prodotti possono essere venduti anche in Israele. Nel 2012, una media di soli 22 camion di merci usciva da Gaza, mentre nel 2019 era più di 10 volte tanto, cioè 240 camion al mese. Nel 2012, l’ingresso dei materiali da costruzione era a malapena autorizzato alle organizzazioni internazionali, mentre oggi i materiali possono entrare per il settore privato nell’ambito del Meccanismo di Ricostruzione di Gaza [il GRM, Gaza Reconstruction Mechanism, è un temporaneo accordo tra Autorità Palestinese, Israele e le Nazioni Unite, stipulato nel 2014 al fine dichiarato di una ricostruzione della Striscia di Gaza dopo le distruzioni dovute all’operazione Margine Protettivo, ndtr.]

Tuttavia mentre questi micro cambiamenti hanno dato un po’ di sollievo ai palestinesi di Gaza, non hanno invertito il macro deterioramento della Striscia. Invece di tentare di trasformare la situazione, Israele e altri attori regionali sono semplicemente alla ricerca di nuove misure per raggiungere un “equilibrio” consentendo a Gaza di sopravvivere.

In linea con questo obiettivo, l’Egitto ha iniziato a gestire regolarmente l’attraversamento del valico di Rafah con Gaza nel 2018, dopo averlo tenuto per lo più chiuso per cinque anni. Il Qatar si è anche fatto avanti con un massiccio sostegno finanziario nel 2018 e nel 2019, pagando il carburante per la produzione di elettricità nell’unica centrale elettrica della Striscia, sostenendo progetti di costruzione e offrendo somme in contanti alle famiglie povere. Altri donatori – Paesi europei, Stati del Golfo e altri – hanno continuato a finanziare considerevolmente l’UNRWA e dozzine di altre organizzazioni internazionali e locali, fornendo aiuti essenziali e colmando le lacune causate dai tagli dei finanziamenti statunitensi.

È questo il grande sforzo previsto dalle Nazioni Unite per cambiare rotta e rendere vivibile Gaza? Lungi da ciò. È il minimo indispensabile per mantenere la testa delle persone appena a galla, senza un vero sviluppo economico, prospettive di crescita futura o un impegno sui diritti umani.

I cambiamenti della politica israeliana, l’aumento dei camion e gli aiuti in denaro sono andati tutti per mantenere le cose ad un livello sufficiente per evitare una forte diffusione di malattie e per calmare una potenziale rivolta da parte di coloro che hanno sete di acqua. Nessuno dovrebbe tirare un sospiro di sollievo, tuttavia, poiché una “quiete” non può cancellare la fame provata da migliaia di famiglie palestinesi che soffrono per l’insicurezza alimentare. E non maschera la disperazione dei giovani che fuggono dalla Striscia in cerca di una vita migliore.

È illusorio pensare che questa situazione sia gestibile. Nessuno dovrebbe dormire sonni tranquilli fino a quando non si verificherà un cambiamento significativo dell’approccio, tale che i civili non siano tenuti in ostaggio dalle azioni del loro governo di fatto e non siano trasformati in carne da macello per le campagne elettorali di politici israeliani sulla via del fallimento. Ci sono stati sforzi sostanziali da parte della comunità internazionale e persino alcuni cambiamenti politici da parte di Israele, ma non c’è mai stata una decisione di fondo da parte di Israele per consentire che a Gaza le persone vivano realmente, piuttosto che sopravvivere.

Gli esseri umani non sono macchine e molti degli indicatori che rendono la vita degna di essere vissuta non possono trovarsi in un rapporto delle Nazioni Unite. Sì, le persone hanno bisogno di acqua, elettricità, lavoro e assistenza sanitaria per cavarsela – ma che dire delle cose che sono più difficili da misurare? Il bisogno di libertà, la capacità di pianificare la propria vita, di essere fiduciosi sulle prospettive per i propri figli e di sentirsi al sicuro nella propria casa?

In tal senso il rapporto di Gaza 2020 e i funzionari israeliani che hanno cercato di seguirne le prescrizioni non sono stati all’altezza. Ma i funzionari delle Nazioni Unite che hanno avvertito che Gaza sarebbe diventata invivibile entro il 2018 avevano scoperto qualcosa. Nel 2018, i cancelli della disperazione a Gaza sono stati aperti mentre la gente si rendeva conto che il piano era quello di preservare il loro isolamento senza la prospettiva di una soluzione al conflitto. Attraverso le loro proteste nella Grande Marcia del Ritorno [i palestinesi della Striscia di Gaza hanno lanciato la Grande Marcia del Ritorno il 30 marzo 2018 per difendere il diritto dei rifugiati al ritorno e chiedere la fine del blocco di 13 anni sull’enclave costiera. Dall’inizio delle proteste le forze di occupazione israeliane hanno ucciso centinaia di palestinesi ferendone, anche in modo grave, migliaia, ndtr.], i giovani palestinesi di Gaza, la stragrande maggioranza della popolazione, hanno mostrato al mondo che non è solo di cibo e acqua che hanno necessità per sopravvivere. Hanno bisogno di libertà, dignità e speranza.

Tania Hary è il direttore esecutivo di Gisha, una ONG israeliana fondata nel 2005, il cui obiettivo è proteggere la libertà di movimento dei palestinesi, in particolare i residenti di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Recensione di Stone Men – the Palestinians who built Israel [Uomini di pietra: i palestinesi che hanno costruito Israele] di Andrew Ross (Verso, 2019)

Ben Ehrenreich

mercoledì 1 maggio 2019 – The Guardian

Un segreto di cui nessuno vuole parlare: come le colonie in Cisgiordania vengono costruite da palestinesi espulsi dalla loro terra.

Non lontano dall’orrendo posto di controllo di Qalandia – la principale porta d’entrata attraverso la quale l’esercito israeliano controlla il passaggio di esseri umani tra Ramallah e Gerusalemme – c’è un piccolo laboratorio all’aperto di tagliatori di pietre, uno delle centinaia sparsi in tutta la Cisgiordania. Qualunque cosa accada al checkpoint, in genere si può vedere almeno un lavoratore nel cortile dove vengono tagliate le pietre, con il volto, i capelli e i vestiti incrostati della stessa polvere bianca che copre l’alto muro di cemento e la torre di guardia, dove si mescola con il fumo e il carbone neri dei pneumatici bruciati e delle bottiglie molotov che i giovani del posto, in giornate particolarmente brutte, lanciano contro il posto di controllo e le barriere che li rinchiudono.

Quando chi va a visitare la regione scrive di pietre, tende a concentrarsi su quelle che i giovani palestinesi lanciano contro soldati armati e blindati. E sui molto più letali proiettili che i soldati gli sparano contro. È facile perdersi in quel parapiglia. Andrew Ross non è né distratto né affascinato da tali scene emblematiche. È più interessato al tagliatore di pietre che in genere rimane fuori dall’inquadratura. Attraverso lui ed altri come lui, Ross esamina le strutture non visibili dell’espropriazione e dello sfruttamento che stanno alla base dell’occupazione altrettanto concretamente quanto tutti quei muri e fucili.

Stone Men” può essere asciutto, persino aspro, ma fornisce in modo coerente la comprensione dei rapporti travagliati e inquietanti tra israeliani e palestinesi che è difficile trovare altrove. Questa è soprattutto una storia di lavoro. La Palestina si trova su riserve di pietra calcarea di alta qualità valutate 20 miliardi di dollari [18 miliardi di euro], e in Cisgiordania l’attività economica per estrarla, tagliarla e lavorarla fornisce più lavoro nel settore privato di qualunque altra industria. Dato che sia i palestinesi che gli israeliani attribuiscono un’importanza mitica alla terra, concentrarsi sulla pietra che da essa viene estratta – e sulle relazioni di potere in gioco quando viene trasformata in case da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania, ndtr.] – consente a Ross di demistificare il conflitto mettendo al contempo in evidenza le basi profondamente inique su cui è stato costruito Israele. Il fatto che la maggior parte di quel Paese, le colonie in Cisgiordania e persino la stessa barriera di sicurezza [il Muro di Separazione, ndtr.] è stato costruito da palestinesi, e con materiali estratti dalla stessa ossatura della terra che hanno perduto è un segreto di cui nessuno vuole parlare.

Ross inizia dai primi anni del Mandato britannico, con la spinta sionista – attraverso il boicottaggio, i soprusi e la violenza – per creare un’economia autosufficiente libera dal “lavoro arabo”. Questa strategia avrebbe modellato persino l’architettura. Le cave erano di proprietà di palestinesi, e gli immigrati ebrei appena arrivati dall’Europa non erano esperti nella lavorazione della pietra locale. La maggior parte di Tel Aviv venne costruita in cemento e blocchi di silicato, che permisero ai costruttori ebrei di evitare di dipendere dai lavoratori palestinesi. Questi materiali avrebbero anche consentito loro di costruire una città modernista nuova di zecca, diversa – e segregata – dalla sua antica vicina, la palestinese Jaffa, che era stata costruita con pietra erosa. Nel 1948 Jaffa sarebbe stata svuotata del 97% della sua popolazione araba. Interi quartieri vennero in seguito distrutti con i bolldozer.

Il famoso centro di Tel Aviv in stile Bauhaus sarebbe in seguito stato chiamato la “Città Bianca” – il nome si riferiva al colore dei mattoni di silicato e del cemento stuccato con cui era stata costruita. Nei decenni seguenti la fondazione di Israele il lavoro arabo avrebbe cessato di essere visto come una minaccia per l’autonomia ebraica. Molte migliaia di case dovevano essere costruite sul territorio appena conquistato. I suoi precedenti abitanti sarebbero stati impiegati, con salari a buon mercato, per costruire il nuovo Stato. Ingabbiati da restrizioni negli spostamenti ed esclusi dalla maggior parte delle altre occupazioni, avevano poche alternative:

I palestinesi in Israele vennero sottoposti alla legge marziale fino al 1966. Condizioni simili avrebbero creato una classe di lavoratori da sfruttare nelle terre occupate prima della guerra del 1967. Da allora il calcare – denominato “pietra di Gerusalemme”, benché la maggior parte di essa venga estratta dalle colline della Cisgiordania – sarebbe diventato il materiale predominante utilizzato per costruire le comunità israeliane, con una funzione sia ideologica che pratica, trasmettendo un’immagine di omogeneità e di antichi legami con la terra.”

Ross non risparmia l’élite palestinese. Include un capitolo tra i più completi e approfonditi che abbia letto sull’area residenziale di Rawabi, nella zona di Ramallah. Messa in vendita per i ricchi professionisti palestinesi, Rawabi è stata costruita in collaborazione con impresari israeliani su terreni confiscati a contadini del posto dall’Autorità Nazionale Palestinese. Il discorso di Ross gli consente di tracciare la rete di complicità che ha consentito a un piccolo gruppo di ricchi palestinesi di approfittare della spoliazione dei loro compatrioti.

Le parti più tristi di “Stone Men” – e quelle in cui avrei voluto che si fosse soffermato di più e avesse consentito ai suoi interlocutori di apparire con maggiori sfumature e dettagli – si basa sulle sue interviste a lavoratori palestinesi. Uno di loro costruisce case in una colonia edificata su terreni sottratti al villaggio in cui vive. È stato in grado di sopportare le provocazioni razziste dei coloni, dice a Ross, ma quando un colono ha cercato di assumerlo per costruire una casa su un terreno di proprietà della sua stessa famiglia per lui è stato troppo. “Non l’ho potuto fare,” dice. Un’altra delle fonti di Ross, che egli identifica solo come Samir, aveva lavorato per anni in cantieri in Israele, risparmiando per costruirsi una casa, solo per vederla demolire dai soldati israeliani che hanno spianato la strada per il percorso della barriera di sicurezza. In seguito, incapace di trovare un altro impiego, ha accettato un lavoro per la costruzione della barriera. Amici d’infanzia gli hanno tirato pietre mentre stava lavorando.

Storie come questa e gli altri racconti di umiliazione e resistenza che Ross narra valgono più di intere biblioteche di discussioni astratte. Eppure, egli propone ripetutamente la tesi secondo cui, in ogni futuro accordo per uno “status finale”, il lavoro che i palestinesi hanno fatto per costruire Israele debba essere preso in considerazione, “in quanto i palestinesi si sono meritati diritti civili e politici attraverso il loro lavoro complessivo.” È un’argomentazione infelice, che segue una logica che Ross riconosce essere stata utilizzata frequentemente da “colonialisti d’insediamento…per giustificare l’espropriazione di terre dei popoli indigeni,” secondo cui il diritto sulla terra si conquista solo con il suo “miglioramento”. Condizionato dalla negazione della validità di ogni presenza palestinese nella regione prima del sionismo, ciò ripete la cancellazione storica che Ross, in tutti tranne che in pochi punti del suo libro, documenta con notevole competenza ed impegno.

– The Way to the Spring: Life and Death in Palestine [La via verso la sorgente: vita e morte in Palestina] di Ben Ehrenreich è pubblicato da Granta.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Sulla via di Gaza: La Freedom Flotilla salperà ancora

Ramzy Baroud

23 dicembre 2019 – Middle East Monitor

Che cosa è Gaza per noi se non un missile israeliano, un razzo rudimentale, una casa demolita, un bambino ferito che viene portato via dai suoi coetanei sotto una grandinata di pallottole? Ogni giorno, Gaza ci viene presentata sotto forma di un’immagine di sangue o un video drammatico, nessuno dei quali può davvero cogliere la realtà quotidiana della Striscia – la sua formidabile risolutezza, gli atti quotidiani di resistenza e il genere di sofferenza che non potrebbe mai essere realmente compreso attraverso un’abituale occhiata ad un post dei social media.

Finalmente la procuratrice capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Fatou Bensouda, ha dichiarato la propria “convinzione” che “in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza sono stati commessi, o vengono commessi, crimini di guerra”. Appena è stata fatta la dichiarazione della CPI il 20 dicembre, le organizzazioni filo palestinesi hanno vissuto un raro momento di gioia. Alla fine Israele verrà messo sotto accusa, pagando potenzialmente per i continui bagni di sangue nella isolata ed assediata Striscia di Gaza, per l’occupazione militare e l’apartheid in Cisgiordania e per molto altro ancora.

Però potrebbero volerci anni perché la CPI inizi le sue procedure legali ed emetta la sentenza. Inoltre non ci sono garanzie politiche che una sentenza della CPI che incrimina Israele sarà mai rispettata, tanto meno applicata.

Nel frattempo l’assedio di Gaza continua, per essere interrotto solo da una guerra massiccia, come quella del 2014, o da una meno devastante, simile all’ultimo attacco di Israele in novembre. E ad ogni guerra vengono prodotte ulteriori terribili statistiche, altre vite vengono stroncate ed altre storie dolorose vengono nuovamente raccontate.

Per anni le associazioni della società civile in tutto il mondo hanno faticosamente lavorato per destabilizzare questo orrendo status quo. Hanno organizzato e svolto veglie, scritto lettere ai propri rappresentanti politici e via dicendo. Non è servito a niente. Frustrato dall’inazione dei governi, nell’agosto 2008 un piccolo gruppo di attivisti è salpato per Gaza su una piccola imbarcazione, riuscendo in ciò che le Nazioni Unite non sono riuscite a fare: hanno spezzato, seppur fugacemente, l’assedio israeliano dell’impoverita Striscia.

Questa azione simbolica del movimento ‘Liberare Gaza’ ha avuto un enorme impatto. Ha inviato un chiaro messaggio ai palestinesi nella Palestina occupata: che il loro destino non è determinato solo dal governo israeliano e dalla macchina militare; che ci sono altri soggetti capaci di sfidare il tremendo silenzio della comunità internazionale; che non tutti gli occidentali sono complici come i propri governi delle interminabili sofferenze del popolo palestinese.

Da allora molte altre missioni di solidarietà hanno tentato di seguire questo esempio, giungendo attraverso il mare a bordo di flottiglie o attraverso il deserto del Sinai con grandi convogli. Alcune sono riuscite a raggiungere Gaza, distribuendo medicinali ed altri prodotti. Tuttavia in maggioranza sono state respinte o hanno avuto le loro navi sequestrate in acque internazionali da parte della marina israeliana.

Il risultato di tutto ciò è stato aver scritto un nuovo capitolo della solidarietà con il popolo palestinese che è andato oltre le occasionali manifestazioni e le classiche firme su una petizione.

La seconda Intifada palestinese, la rivolta del 2002, aveva già ridefinito il ruolo dell’“attivista” in Palestina. La creazione dell’“International Solidarity Movement” (ISM) ha permesso a migliaia di attivisti internazionali da tutto il mondo di partecipare all’“azione diretta” in Palestina – ricoprendo così, seppur simbolicamente, il ruolo tipicamente svolto da una forza di protezione delle Nazioni Unite.

Gli attivisti dell’ISM tuttavia usavano i mezzi non violenti di testimonianza del rifiuto della società civile dell’occupazione israeliana. Prevedibilmente, Israele non ha rispettato il fatto che molti di questi attivisti provenissero da Paesi considerati “amici” in base agli standard di Tel Aviv. Le uccisioni di cittadini come l’americana Rachel Corrie e il britannico Tom Hurndall a Gaza, rispettivamente nel 2003 e 2004, è stata solo un prodromo della violenza israeliana che sarebbe seguita.

Nel maggio 2010 la marina israeliana ha attaccato la Freedom Flotilla formata dalla nave di proprietà turca ‘MV Mavi Marmara’ ed altre, uccidendo dieci operatori umanitari disarmati e ferendone almeno altri 50. Come nei casi di Rachel e Tom, non vi è stata una vera attribuzione di responsabilità per l’attacco israeliano alle navi della solidarietà.

Occorre capire che la violenza israeliana non è casuale né è solo un riflesso del noto disprezzo israeliano per il diritto internazionale ed umanitario. Con ogni episodio di violenza Israele spera di dissuadere i soggetti esterni dall’occuparsi degli “affari israeliani”. Eppure, di volta in volta il movimento di solidarietà ritorna con un messaggio di sfida, ribadendo che nessun Paese, nemmeno Israele, ha il diritto di commettere impunemente crimini di guerra.

Dopo un recente incontro nella città olandese di Rotterdam, la coalizione internazionale della Freedom Flotilla, che consta di molti gruppi internazionali, ha deciso di salpare ancora una volta per Gaza. La missione di solidarietà è prevista per l’estate del 2020 e, come nella maggior parte dei 35 tentativi precedenti, è probabile che la Flotilla venga intercettata dalla marina israeliana. Ma probabilmente seguirà un altro tentativo, ed altri ancora, fino a quando l’assedio di Gaza sarà completamente tolto. È diventato chiaro che lo scopo di queste missioni umanitarie non è di consegnare un po’ di farmaci ai circa due milioni di gazawi sotto assedio, ma di sfidare la narrazione israeliana che ha riportato l’occupazione e l’isolamento dei palestinesi allo status quo precedente, cioè un “affare israeliano”.

Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite nella Palestina occupata, il tasso di povertà a Gaza sembra si stia incrementando alla velocità allarmante del 2% all’anno. Alla fine del 2017 il 53% della popolazione di Gaza viveva in stato di povertà, e due terzi di essa in “povertà assoluta”. Questo terribile dato include oltre 400.000 bambini.

Una fotografia, un video, un grafico o un post sui social media non potranno mai trasmettere la sofferenza di 400.000 bambini che soffrono la fame ogni giorno della loro vita, affinché il governo israeliano possa soddisfare i suoi scopi militari e politici a Gaza. Certo, Gaza non è soltanto un missile israeliano, una casa demolita ed un bimbo ferito. È una nazione intera che sta soffrendo e resistendo, nel quasi totale isolamento dal resto del mondo.

La vera solidarietà dovrebbe avere l’obbiettivo di costringere Israele a porre fine alla protratta occupazione e all’assedio del popolo palestinese, navigando in alto mare, se necessario. Per fortuna i bravi attivisti della Freedom Flotilla stanno facendo proprio questo.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 10 – 23 dicembre 2019

Durante le manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR), tenute nei pressi della recinzione perimetrale che separa la Striscia di Gaza da Israele, 129 palestinesi, tra cui 44 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane.

Secondo il Ministero palestinese della Salute di Gaza, 60 persone sono state ricoverate in ospedale per ferite, mentre le rimanenti sono state curate sul campo. Fonti israeliane hanno riferito che, in diverse occasioni, i manifestanti si sono avvicinati alla recinzione ed hanno lanciato ordigni esplosivi, senza provocare feriti israeliani. Le proteste del 13 e del 20 dicembre hanno fatto registrare il più basso numero di ferimenti dal marzo 2018, data di inizio della GMR.

In alcune occasioni, fazioni armate di Gaza hanno lanciato missili contro Israele che, a sua volta, ha effettuato attacchi aerei su Gaza, prendendo di mira, a quanto riferito, strutture militari. Nessuno degli attacchi ha provocato vittime. A Gaza, circa 10 edifici residenziali, prossimi agli obiettivi citati sopra, hanno subito lievi danni.

Il 19 dicembre, secondo quanto riferito in risposta al lancio di un razzo, Israele ha ridotto da 15 a 10 miglia nautiche (NM) la zona di pesca consentita [ai palestinesi] al largo della costa meridionale di Gaza; il limite di 15 miglia è stato poi ripristinato il 23 dicembre. Sulla costa settentrionale rimangono immutate le restrizioni di pesca imposte da Israele; qui la distanza massima consentita dalla costa è di sei miglia nautiche. Durante il periodo in esame, al largo della costa di Gaza le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso pescatori palestinesi in almeno sette occasioni; non risultano feriti, ma una barca è stata affondata.

L’esercito israeliano ha riferito che a Gaza, il 17 dicembre, ad est di Khan Younis, un palestinese 18enne armato è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane mentre si stava avvicinando alla recinzione. Il giovane non è stato riconosciuto da alcuna fazione armata e il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. In un altro caso, le forze israeliane hanno sparato e ferito, e successivamente arrestato, un palestinese che era entrato in Israele attraverso la recinzione; secondo quanto riferito era in possesso di un coltello.

In almeno altre 15 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco [di avvertimento] allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso [imposte da Israele ai palestinesi] sulle aree [di Gaza] adiacenti alla recinzione perimetrale; non sono stati segnalati feriti. Le forze israeliane hanno effettuato una incursione [nella Striscia] ed hanno svolto una operazione di spianatura del terreno vicino alla recinzione. In due episodi separati, vicino alla recinzione perimetrale tra Gaza e Israele, sono stati arrestati quattro palestinesi, tra cui tre minori.

Il 22 dicembre, le autorità israeliane hanno annunciato che, in occasione delle festività natalizie, avrebbero agevolato l’accesso dei residenti cristiani di Gaza e della Cisgiordania ai luoghi sacri di Gerusalemme Est e Betlemme. Secondo lo stesso annuncio, i permessi per uscire da Gaza ed entrare in Gerusalemme Est (destinati ai titolari di documento di identità della Cisgiordania) consentiranno agli interessati di dover sostenere unicamente il controllo di sicurezza individuale, indipendentemente dalla loro età. Secondo la consueta politica israeliana nei confronti di Gaza, avrebbero invece ottenuto permessi di uscita solo palestinesi appartenenti a determinate categorie ben definite, fermo restando il controllo di sicurezza individuale.

In Cisgiordania, in diverse circostanze, sono stati feriti dalle forze israeliane 14 palestinesi, tra cui almeno tre minori [segue dettaglio]. Nella zona di Tulkarm, in tre diverse occasioni, le forze israeliane hanno sparato con armi da fuoco ed hanno ferito sei palestinesi; ne hanno aggredito fisicamente altri due che, a quanto riferito, per motivi di lavoro avevano tentato di entrare in Israele valicando la Barriera, senza permesso e attraverso aperture non autorizzate. Altri quattro ferimenti sono stati segnalati durante scontri avvenuti nel corso di operazioni di ricerca-arresto. Un altro palestinese di 16 anni è stato colpito e ferito con arma da fuoco sulla strada 60, vicino a Betlemme; a quanto riferito, stava per lanciare una bottiglia incendiaria contro veicoli israeliani; il ragazzo è stato successivamente arrestato.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato un totale di 154 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 146 palestinesi, tra cui almeno 17 minori. Il maggior numero di operazioni è stato registrato nel governatorato di Gerusalemme (41) (principalmente nel quartiere di Al ‘Isawiya a Gerusalemme Est), seguito dai governatorati di Ramallah (34) e Hebron (27).

In Area C e Gerusalemme est, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o costretto le persone ad autodemolire 29 strutture, sfollando 45 persone e creando ripercussioni su altre 100. Dodici delle strutture prese di mira, di cui cinque precedentemente fornite come assistenza umanitaria, si trovavano nei governatorati di Tubas, Nablus e Gerico, presso tre Comunità di pastori situate in aree designate come “zone per esercitazioni a fuoco” e destinate [da Israele] all’addestramento militare. In Cisgiordania nel 2019, finora, sono state demolite o sequestrate 617 strutture, sfollando 898 palestinesi; queste cifre rappresentano rispettivamente un aumento del 35% (strutture) e del 92% (sfollati), rispetto al corrispondente periodo del 2018. Oltre il 20% di tutte le strutture prese di mira nel 2019 e circa il 40% di tutte le strutture di sostegno finanziate da donatori, si trovavano in “zone per esercitazioni a fuoco”; questa denominazione viene attribuita a circa il 30% dell’Area C.

Durante una delle demolizioni in una “zona per esercitazioni a fuoco” ad est di Nablus, le forze israeliane hanno sradicato o tagliato circa 2.500 alberi forestali e alberelli. Gli alberi facevano parte di un’area ricreativa (anche descritta dai palestinesi come una “riserva naturale”) fruibile da circa 14.000 residenti della vicina città di Beit Furik e della Comunità di pastori di Khirbet Tana. Quest’area era stata attivata con il sostegno del Ministero dell’Agricoltura palestinese e di una Organizzazione internazionale. In Area C, questa è la terza area ricreativa distrutta nel 2019.

Il 10 dicembre, circa 80 agricoltori palestinesi di tre villaggi del governatorato di Salfit hanno perso il diritto di accesso alla loro terra situata dietro la Barriera della Cisgiordania; infatti le autorità israeliane hanno confiscato i loro permessi di ingresso. L’episodio si è verificato al cancello della Barriera che porta ai terreni degli agricoltori, secondo i quali non è stata data loro alcuna motivazione. Il 5 dicembre, gli agricoltori di questi tre villaggi avevano presentato una petizione alla Corte Suprema di Israele contro la abituale trascuratezza delle autorità nell’apertura del cancello all’ora prevista.

In otto attacchi di coloni israeliani, quattro palestinesi sono rimasti feriti e circa 330 alberi di ulivo e sette veicoli sono stati danneggiati [segue dettaglio]. Nella Zona (H2) della città di Hebron, controllata da Israele, tre donne palestinesi sono state aggredite con spray al peperoncino e ferite. Nei pressi dell’insediamento colonico avamposto [cioé, non autorizzato da Israele] di Ibei Hanahal (Betlemme), un pastore palestinese che stava pascolando le sue pecore è stato attaccato e ferito da un cane sguinzagliato da coloni. Presso i villaggi di Al Khadr (Betlemme) e Al Mughayyir (Ramallah), assalitori (ritenuti coloni) hanno vandalizzato circa 330 alberi di ulivo; questo episodio si è verificato in un’area in cui i palestinesi, per accedere alla loro terra, devono richiedere una autorizzazione alle autorità israeliane. In altri due episodi verificatisi nel villaggio di Far’ata (Qalqiliya) e nella Zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno dato fuoco a due veicoli palestinesi, hanno forato le gomme di altri due ed hanno spruzzato scritte tipo “Questo è il prezzo da pagare”. Altri tre veicoli palestinesi, in transito su strade principali, sono stati colpiti da pietre e danneggiati.

Secondo resoconti di media israeliani, nel corso di sette episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi, verificatisi su strade prossime a Betlemme, Hebron, Gerusalemme e Ramallah, un israeliano è stato ferito e almeno otto veicoli sono stati danneggiati.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali. Il neretto è di OCHAoPt.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

 




La Corte Penale internazionale (CPI) avvierà un’indagine approfondita sui crimini di guerra israeliani.

Redazione di MEE

20 dicembre Middle East Eye

Le associazioni palestinesi e israeliane per i diritti umani salutano la decisione della procuratrice della Corte Penale Internazionale di aprire un’indagine ufficiale

La procuratrice capo della Corte Penale Internazionale ha dichiarato che aprirà un’indagine approfondita su presunti crimini di guerra nella Cisgiordania occupata, compresa Gerusalemme est, e nella Striscia di Gaza, un annuncio che è stato accolto favorevolmente dai palestinesi ma che ha suscitato una forte critica da Israele.

“Sono persuasa che ci sia una base ragionevole per procedere a un’indagine sulla situazione in Palestina”, ha detto venerdì Fatou Bensouda in un comunicato.

“In breve, sono convinta del fatto che i crimini di guerra siano stati commessi o si stiano commettendo in Cisgiordania, tra cui Gerusalemme est e nella Striscia di Gaza”.

Bensouda ha aggiunto che prima di aprire l’ indagine avrebbe chiesto al tribunale dell’Aja di pronunciarsi sui territori sui quali è competente, poiché Israele non è membro della Corte.

La questione della giurisdizione del tribunale deve essere risolta prima che la CPI possa procedere alle indagini.

Un’indagine approfondita da parte della CPI può comportare accuse contro singoli. Gli Stati non possono essere processati.

Questa fondamentale questione dovrebbe essere decisa ora e il più rapidamente possibile nell’interesse delle vittime e delle comunità colpite “, ha detto Bensouda.

Ha aggiunto che “non ci sono ragioni sostanziali per credere che un’indagine non servirebbe a fare giustizia”.

Il 5 dicembre, dopo cinque anni di indagini preliminari ed esame di prove di violenti azioni israeliane contro i palestinesi, la CPI ha pubblicato un rapporto.

La CPI ha esaminato le prove relative al conflitto tra Israele e Gaza del 2014,in cui sono morti 2.251 palestinesi, di cui la maggior parte erano civili e 74 israeliani, la maggior parte dei quali soldati.

L’annuncio è stato accolto con favore dalla leadership palestinese come un “passo atteso da tempo”.

“La Palestina si compiace di questo … come passo atteso da tempo per far avanzare il processo verso un’indagine, dopo quasi cinque lunghi e difficili anni di esame preliminare”, si afferma in una dichiarazione del ministero degli Esteri

Anche Hanan Ashrawi funzionara palestinese di alto livello, ha accolto con favore l’annuncio, affermando che i palestinesi “hanno fatto affidamento sulla Corte Penale Internazionale”.

“Israele deve essere ritenuto responsabile”

Mohammed Bassem, un attivista della Cisgiordania occupata, ha dichiarato a Middle East Eye di sostenere la decisione della CPI.

“Penso che sarà una buona opportunità per discutere della colonizzazione della Palestina e di come Israele ha portato avanti la sua occupazione”, ha detto Bassem.

Tuttavia ha affermato che alcuni palestinesi sono scettici sul fatto che l’inchiesta porti a risultati concreti.

“Siamo anche preoccupati di cosa si occuperà effettivamente l’indagine “, ha detto Bassem. “Per esempio l’inchiesta non seguirà le questioni dei rifugiati e il loro diritto al ritorno e questo è preoccupante, perché è una delle maggiori questioni al centro di ciò che riguarda il conflitto, e sappiamo che, a tal proposito, la Corte non farà nulla “.

In seguito all’annuncio di Bensouda, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è scagliato contro quello che ha definito “un giorno oscuro per la verità e per la giustizia”.

“La Corte non ha giurisdizione in questo caso. La CPI ha giurisdizione solo sulle petizioni presentate da Stati sovrani. Ma non c’è mai stato uno Stato palestinese”, ha detto Netanyahu in un comunicato.

Nel contempo anche il procuratore generale israeliano Avichai Mandelblit si è opposto alla decisione della CPI, affermando che la Corte non ha la giurisdizione per processare [cittadini] israeliani per crimini di guerra.

“Solo gli Stati sovrani possono delegare alla Corte la giurisdizione penale. Ai sensi del diritto internazionale e dello statuto istitutivo della Corte l’Autorità Nazionale Palestinese chiaramente non soddisfa i criteri di statualità”, ha affermato Mandelblit.

L’Autorità Nazionale Palestinese è riconosciuta come uno Stato non membro dalle Nazioni Unite, il che le consente di firmare trattati e godere della maggior parte delle prerogative, in modo simile agli Stati membri a pieno titolo.

Nel 2015 l’ANP ha firmato lo Statuto di Roma che governa la CPI. Alcuni Paesi, tra cui gli Stati Uniti e Israele, non sono firmatari e pertanto sono protetti dall’accusa all’Aja per crimini di guerra.

Il centro legale per i diritti delle minoranze arabe [palestinesi ndt] in Israele “Adalah” ha accolto con favore la decisione della CPI, affermando di ritenere che la Corte “abbia la piena giurisdizione per decidere sui casi penali in questione”

“Sulla base dei numerosi rapporti delle organizzazioni per i diritti umani e delle commissioni d’inchiesta delle Nazioni Unite nel corso degli anni, il procuratore della CPI, alla luce dei fatti, ha preso la giusta decisione”, ha scritto Adalah in un comunicato venerdì. Ha aggiunto che “nessun’ altra decisione avrebbe potuto essere possibile”.

Anche B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, ha affermato che la decisione di aprire un’indagine “è stato l’unico possibile risultato derivante dai fatti”.

In una dichiarazione dell’associazione si afferma che “alle acrobazie legali di Israele nel tentativo di nascondere i propri crimini non deve essere consentito di bloccare i tentativi giudiziari internazionali, che finalmente se ne stanno occupando”.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)

 




Due donne palestinesi sottoposte da Israele alla detenzione amministrativa

17 dicembre 2019 – Al Jazeera

Due donne palestinesi arrestate la scorsa settimana dall’esercito israeliano sono state sottoposte a detenzione amministrativa, una forma di internamento in cui un prigioniero è detenuto indefinitamente senza accusa né processo.

Bushra al-Tawil, 26 anni, è stata arrestata nel corso di un’incursione israeliana nella sua casa di al-Bireh, città della Cisgiordania sotto occupazione, giorni dopo la scarcerazione di suo padre da una prigione israeliana.

La Palestinian Prisoner Society (PPS) [organizzazione umanitaria palestinese che si occupa del rispetto dei diritti umani dei detenuti palestinesi] ha affermato che al-Tawil è attualmente detenuta nella prigione di Hasharon, nel nord di Israele.

Impegnata nella difesa dei diritti dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, al-Tawil è stata arrestata più volte dalle forze israeliane. Secondo i media locali, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione.

Al-Tawil è stata arrestata per la prima volta a 18 anni. Ha scontato cinque mesi della sua condanna a 18 mesi prima di essere rilasciata nel 2011 nel quadro di un accordo di scambio di prigionieri.

Tuttavia, è stata nuovamente arrestata nel 2014 e ha trascorso in stato di detenzione i restanti 11 mesi della sua pena. Nel 2017, è stata ancora arrestata e ha trascorso otto mesi in prigione.

Suo padre, Jamal al-Tawil, è un ex leader della municipalità di al-Bireh. È stato rilasciato il 5 dicembre dopo due anni di detenzione amministrativa.

Gli studenti sono un bersaglio dell’esercito israeliano

Anche Shatha Hassan, una studentessa di 20 anni e coordinatrice del consiglio studentesco della Università di Birzeit, è stata arrestata la scorsa settimana a Ramallah nella sua casa di famiglia.

Il PPS ha riferito che martedì è stata sottoposta ad una detenzione amministrativa di tre mesi.

Il 12 dicembre, con un raid prima dell’alba, un grosso contingente di veicoli militari israeliani ha circondato la sua casa nel quartiere di Ain Misbah.

I video diffusi sui social media mostrano sua madre che grida: “Dio sia con te” a cui Shatha risponde: “Prega per me!” prima di essere spinta dai soldati su di una jeep israeliana.

I media locali hanno riferito che l’esercito israeliano ha improvvisato un checkpoint sulla strada che porta all’Università Birzeit nella Cisgiordania centrale per verificare l’identità degli studenti che transitavano in vista di una conferenza organizzata dal braccio studentesco del movimento di Hamas.

Prima dell’arresto della Hassan è stato diffuso dall’esercito israeliano un video in cui si afferma che l’Università Birzeit sia un “centro di reclutamento per terrorismo e di incitamento alla violenza”.

Ghassan Khatib, un docente universitario, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Dalla nostra lunga esperienza sull’occupazione israeliana, ogni volta che loro lanciano una campagna di disinformazione sull’università significa che si stanno preparando ad una campagna di oppressione e ad un’accentuazione della repressione sull’ organizzazione educativa nei territori palestinesi.”

L’ Università Birzeit è stata a lungo un bersaglio da parte dell’esercito israeliano. Nel marzo 2018 l’allora presidente del consiglio studentesco Omar Kiswani è stato arrestato durante un raid nell’università da parte di militari israeliani sotto copertura.

Secondo la campagna sul diritto all’istruzione, più di 80 studenti sono attualmente detenuti nelle carceri israeliane, dei quali 20 ancora senza processo.

La campagna spiega sul suo sito web: “Queste detenzioni e misure non sono altro che una spaventosa violazione della libertà di parola e di espressione”.

Il PPS ha riferito che il numero di donne detenute nelle carceri israeliane è arrivato a 42, di cui 38 nella prigione di Damoon, mentre le restanti quattro, inclusa Tawil, sono imprigionate nel centro di detenzione di Hasharon.

Secondo i dati ufficiali palestinesi, più di 5.500 palestinesi stanno attualmente languendo nelle carceri israeliane, con 450 [di loro] in [stato di] detenzione amministrativa.

52 anni di privazione delle libertà fondamentali

Indipendentemente da questo, martedì scorso Human Rights Watch (HRW), con sede a New York, ha pubblicato un rapporto in cui si chiede a Israele di concedere ai palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata, come minimo, le stesse garanzie di legge dei cittadini israeliani.

Il rapporto di 92 pagine – intitolato Nato senza diritti civili: l’utilizzo israeliano delle draconiane direttive militari per la repressione dei palestinesi in Cisgiordania – evidenzia l’uso da parte di Israele di norme militari che criminalizzano l’attività politica non violenta.

“La legge militare israeliana in vigore da 52 anni – ha detto Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva degli uffici del HRW attivi nel Medio Oriente e nel Nord Africa – esclude i palestinesi in Cisgiordania da libertà fondamentali come [poter] sventolare bandiere, protestare pacificamente contro l’occupazione, aderire a tutti i principali movimenti politici e pubblicare materiale politico”.

“Questi direttive danno carta bianca all’esercito per perseguire chiunque organizzi politicamente, parli pubblicamente o addirittura riferisca le notizie con modalità non gradite all’esercito”.

Citando esempi di ordinanze militari israeliane definite in modo generico, secondo il rapporto tra il 1 luglio 2014 e il 30 giugno 2019 l’esercito israeliano ha perseguito 358 palestinesi per “istigazione”, 1.704 per “appartenenza e attività in un’associazione illegale” e 4.590 palestinesi per essere entrati in una “zona militare vietata” – un termine che l’esercito usa frequentemente per i luoghi in cui si svolgono le proteste.

Il rapporto fa anche cenno ad una condanna a 10 anni che può essere inflitta ai palestinesi che partecipino ad un raduno di oltre 10 persone senza un permesso militare per qualsiasi problema “che potrebbe essere interpretata come politico”, o nel caso in cui espongano “bandiere o simboli politici” senza l’approvazione dell’esercito.

Whitson ha affermato che, dato il controllo di lunga data di Israele sui palestinesi, il governo “dovrebbe almeno consentire loro di esercitare gli stessi diritti che garantisce ai propri cittadini, indipendentemente dagli accordi politici in vigore”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta




Le prospettive di un’indagine formale della CPI sulla situazione della Palestina sono nulle

John Dugard

9 dicembre 2019 – The Right Forum

C’è qualche possibilità di un’indagine sulla “situazione in Palestina” sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI, Fatou Bensouda? No, non ce n’è nessuna, spiega John Dugard, per ragioni che potrebbero essere considerate scioccanti.

Ho una breve e semplice risposta alla domanda posta. No, non c’è nessuna possibilità di una simile inchiesta sotto la supervisione dell’attuale procuratrice della CPI [Corte Penale Internazionale, ndtr.], Fatou Bensouda, il cui incarico scade nel 2021.

Perché lo dico?

È diventato assolutamente chiaro che l’ufficio della procuratrice è deciso a non aprire un’indagine sui crimini commessi da Israele in Palestina e contro il popolo palestinese. Il 16 gennaio 2015 la procura ha iniziato un esame preliminare sulla situazione in Palestina. Il 15 maggio 2018 la stessa Palestina ha deferito la questione alla CPI.

Tuttavia già nel 2009 la procuratrice aveva condotto un esame preliminare sulla situazione in Palestina, interrotto nell’aprile 2012, e dal 2013 sulla situazione della ‘Flotilla’ per Gaza. Ciò significa che per 10 anni la procura ha condotto un esame preliminare su una situazione sulla quale ci sono quattro rapporti della commissione d’inchiesta indipendente del Consiglio per i Diritti Umani [dell’ONU], un’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea Generale, rapporti di numerose Ong israeliane, palestinesi e internazionali, ampia copertura televisiva e video che descrivono e testimoniano di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.

E finora [la Procura] non ha trovato nessuna base per procedere alla fase successiva dell’inchiesta – cosa che è stata riconfermata dalla procuratrice nel suo ultimo rapporto sulle indagini preliminari. Un rapporto che, come al solito, non dà una onesta e ragionevole spiegazione del fatto che non abbia iniziato un’indagine.

A ciò si unisce il persistente rifiuto della procuratrice ad aprire un’inchiesta sul caso delle Comore (della Mavi Marmara, ndr.), nonostante gli inviti da parte dei giudici della Corte. Secondo me l’unica spiegazione di questo rifiuto a indagare sulla situazione in Palestina e su quella delle Comore è che la Procura è guidata nella sua presa di decisioni da considerazioni extragiudiziarie e politiche.

Sono convinto che ci siano prove più che sufficienti per sostenere che Israele ha commesso crimini di guerra usando una forza e una violenza eccessive e sproporzionate contro civili a Gaza e in Cisgiordania. Sono anche convinto che ci siano prove certe che l’impresa di colonizzazione israeliana costituisca apartheid e abbia dato come risultato l’espulsione forzata e il trasferimento di migliaia di palestinesi dalle loro case, il che significa che ha commesso crimini contro l’umanità.

Tuttavia sono poco propenso ad accettare che ci possa mai essere ragionevolmente una discussione sulla legge e le prove relative al fatto che siano stati commessi questi crimini. Quindi mi si lasci invece spiegare il fondamento della mia affermazione secondo cui fattori extragiudiziari guidano la procura riguardo al crimine di trasferimento da parte della potenza occupante – Israele – di settori della propria popolazione civile nei territori occupati della Cisgiordania e di Gerusalemme est.

Qui le leggi e i fatti sono chiari e non consentono alcuna possibile discussione o dibattito di sorta. La legge è chiara. L’articolo 8(2)(viii) dello Statuto di Roma definisce questo comportamento come un crimine di guerra. Così fanno gli articoli 49(6) della Quarta Convenzione di Ginevra e 85(4) del protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977. Così fa il diritto internazionale consuetudinario (1).

I fatti sono chiari. Circa 700.000 coloni ebrei israeliani vivono in circa 130 colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est. Questi insediamenti sono chiaramente all’interno del territorio palestinese occupato – come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia nel 2004 (2). Israele continua ad espandere il suo impero coloniale. Questi fatti sono stati ripetutamente portati all’attenzione della Procura della CPI dal governo della Palestina e da ong.

Le prove forniscono chiaramente una base ragionevole per credere che sia stato commesso un crimine che rientra nell’ambito di competenza della Corte, come richiesto dallo Statuto della CPI (3). Non agire in queste circostanze, quando le prove dei crimini di Israele riguardo all’espansione delle colonie aumentano, non solo elimina ogni pretesa di deterrenza, ma in più contribuisce alla commissione del reato. La colpevole mancanza di iniziative per interrompere il crimine quando si ha l’obbligo di farlo rende la procuratrice complice della perpetrazione del reato.

C’è uno schiacciante e autorevole sostegno per arrivare alla conclusione che le colonie siano illegali in base alle leggi internazionali. La Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto all’unanimità che le colonie sono state edificate in violazione del diritto internazionale (4). Il Consiglio di Sicurezza in molte occasioni ha condannato le colonie come illegali, di recente con la risoluzione 2334 del 2016. Ogni anno l’Assemblea Generale [dell’ONU] ha condannato le colonie come illegali. L’UE e quasi tutti gli Stati hanno condannato le colonie come illegali. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa è d’accordo. Persino lo stesso consulente legale di Israele: quando Israele iniziò questa impresa di colonizzazione Theodor Meron avvertì che erano illegali. (Ovviamente il presidente Trump ha un’opinione diversa, ma questa è solo una prova a favore della posizione contraria).

Tutto ciò mi porta a concludere che fattori politici e non giuridici guidino la presa di decisioni dalla procura. Ma come questi fattori hanno determinato le decisioni della procura? Per come la vedo io, ci sono due possibilità: una deliberata decisione collettiva della procuratrice, del suo vice e dei funzionari più importanti di non procedere, oppure fattori non esplicitati che hanno portato la procuratrice e la sua équipe ad essere prevenute a favore di Israele.

La prima spiegazione prospetta una deliberata decisione collettiva da parte della procuratrice e dei suoi principali collaboratori di non aprire un’inchiesta. La ragione più probabile per una simile decisione sarebbe il timore di ritorsioni da parte di Israele e degli Stati Uniti. O potrebbe essere la suscettibilità all’opinione diffusa, prevalente tra gli Stati europei, secondo cui la CPI è troppo fragile come istituzione da resistere alle reazioni che potrebbero seguire a una simile inchiesta. Benché una decisione collettiva di questo genere sia possibile, non penso che sia la spiegazione più probabile. La seconda, che fattori non esplicitati abbiano determinato la decisione, richiede qualche spiegazione.

I realisti giuridici americani, una rispettabile scuola di filosofia del diritto, sostengono che la decisione giudiziaria sia il risultato di tutta la storia personale del giudice: che le norme di legge e spinte nascoste, come i pregiudizi politici e morali del giudice, interagiscano nel produrre la decisione giudiziaria. Il giudice della Corte Suprema [USA] Benjamin Cardozo avvertiva che “molto al di sotto della coscienza ci sono…forze, le simpatie e antipatie, le predilezioni e i pregiudizi, il complesso degli istinti ed emozioni e abitudini e convinzioni” di un giudice che contribuiscono alla decisione giudiziaria.

Questi fattori inespressi contribuiscono ancor di più nel processo decisionale dei pubblici ministeri. Fattori non esplicitati sono molto significativi nel contesto della discrezionalità dell’azione penale – un’ampia concessione di autorità discrezionale con scarso controllo e poca trasparenza. È molto più facile per un procuratore soccombere a indebite influenze non formalizzate quando crede che non dovrà giustificare pubblicamente la propria posizione.

Benché la decisione di avviare un’inchiesta spetti principalmente alla procuratrice, è strano che nessun membro del suo staff abbia pubblicamente sollevato obiezioni contro la decisione di non indagare. Ci si sarebbe aspettato che qualcuno anonimamente denunciasse la decisione presa dalla procuratrice e dal suo gruppo di esperti. L’unica spiegazione di ciò è che anche loro abbiano ragioni non esplicitate per adeguarsi alla decisione.

Poiché la maggior parte dei membri della procura ha un mandato limitato e la necessità di tener conto del proprio futuro professionale, c’è inevitabilmente il timore che future possibilità di lavoro possano essere pregiudicate dalla decisione di avviare un’inchiesta su Israele, che sarebbe interpretata da potenziali datori di lavoro come un indicatore di antisemitismo. C’è anche la paura che ciò possa portare a un divieto d’ingresso negli Stati Uniti. La maggior parte degli Stati europei vede Israele come parte dell’alleanza europea (da qui la sua inclusione nel WEOG, il gruppo dei Paesi dell’Europa Occidentale ed Altri Paesi alle Nazioni Unite) e quindi come uno Stato esentato dalle indagini da parte della CPI. Il fatto di non rispettare questo “dato di fatto” può comprensibilmente essere visto come un ostacolo per un futuro impiego.

Il presupposto non esplicitato della procuratrice è di importanza fondamentale. Ci sono fattori nella sua storia personale, in particolare in Gambia, che potrebbero fornire qualche indicazione sulle ragioni inespresse della sua decisione di proteggere Israele dalle indagini?

Tra il 1987 e il 2000 Fatou Bensouda è stata consigliera principale dello Stato, vice direttrice dei pubblici ministeri, avvocatessa generale, ministra della Giustizia e capo dei consiglieri giuridici del presidente e del governo della repubblica del Gambia. Dal 1994 al 2016 il Gambia è stato sottomesso alla brutale dittatura di Yahya Jammeh. La repressione era all’ordine del giorno, mentre i diritti umani vennero duramente eliminati. La ministra della Giustizia non poteva rimanere indifferente a ciò. Che lei fosse coinvolta in questo processo di repressione è diventato chiaro dalle prove di fronte alla Commissione Gambiana per la Verità, la Riconciliazione e il Risarcimento (TRRC). Due uomini, Batch Samba Jallow e Sainey Faye, recentemente hanno testimoniato che fu complice della loro brutale tortura, lunga detenzione senza processo e negazione di una difesa legale (5). Ciò ha portato due avvocati venezuelani a presentare una denuncia al capo del Meccanismo Indipendente di Supervisione (IOM) della CPI in cui si afferma che lei è inadeguata a ricoprire l’incarico di procuratrice. Non risulta che Fatou Bensouda abbia criticato o preso le distanze da Yahya Jammeh.

Queste denunce richiedono un’indagine seria e urgente sull’adeguatezza della procuratrice a ricoprire il suo incarico. E il timore che da parte di Israele possano essere rivelati ulteriori abusi se avviasse un’inchiesta potrebbe benissimo essere il fattore non esplicitato della sua decisione di non aprire un procedimento su Israele.

Durante il periodo dell’apartheid, in Sudafrica i giuristi invocavano i metodi dei realisti giuridici americani per denunciare le premesse sottaciute dei giudici bianchi che regolarmente emanavano sentenze razziste e a favore del governo (7). Ciò portò a un’accentuata consapevolezza da parte dei giudici sulla natura delle sentenze e diede come risultato decisioni più corrette e indipendenti. Il realismo giuridico americano è un potente antidoto in un sistema ingiusto e corrotto. Potrebbe essere proficuamente utilizzato nell’esame del lavoro dell’Ufficio della Procura della CPI.

L’intenzione del mio intervento di stanotte è di rendere consapevoli la procuratrice e la sua équipe dei pericoli di essere guidate dai loro presupposti non esplicitati, che hanno portato al fatto di non garantire giustizia per il popolo palestinese. Ho cercato di evidenziare il tipo di fattori extragiudiziari che probabilmente hanno portato la procuratrice e il suo staff a dimostrarsi di parte a favore di Israele. Spero che facciano un serio esame di coscienza e mettano in discussione i loro motivi nascosti per non aver fatto giustizia a favore del popolo palestinese.

Questo testo è stato presentato da John Dugard ad un evento parallelo dell’assemblea degli Stati membri dello Statuto di Roma, l’Aia, 5 dicembre 2019. Dugard è membro del consiglio consultivo di The Right Forum [una rete di ex- ministri e docenti di diritto internazionale che intendono promuovere una soluzione giusta e durevole al conflitto israelo-palestinese, ndtr.].

John Dugard è professore emerito di Diritto presso le università di Leida e Witwatersrand, relatore speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 2001 al 2008, ex giudice speciale della Corte Internazionale di Giustizia e membro del comitato consultivo di The Right Forum.

(1) J-M Henkaerts e L Doswald-Beck, Customary International Humanitarian Law [Diritto Internazionale Umanitario Consuetudinario], Vol I: Rules, ICRC, CUP, 2005, Rule 130, p. 462.

(2) Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory [Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati] , 2004 ICJ Reports 136, paras 78, 122.

(3) Articolo 53(1)(a) dello Statuto di Roma.

(4) Ibid, para 120. Il giudice statunitense Buergenthal ha contribuito a questi dati.

(5) Thierry Cruvellier e Mustapha K Darboe, ‘Will Fatou Bensouda Face the Truth Commission in Gambia?’ [Fatou Bensouda affronterà la commissione per la verità in Gambia?], JusticeInfo.Net, Fondation Hirondelle, https://www.justiceinfo.net/en/truth-commission/4/1906-will-fatou-bensouda-face-the-truth- commission-trrc-gambia.html

(6) Carlos Ramirez Lopez e Walter Marquez, ex deputato dell’Assemblea Nazionale del Venezuela e presidente della Fondazione Amparo IAP. Denuncia del 2 agosto 2019.

[7] Vedi J. Dugard, Human Rights and the South African Legal Order [Diritti umani e sistema giudiziario sudafricano], Princeton University Press, 1978, pp 366-388; J Dugard, ‘The Judicial Process, Positivism and Civil Liberty’ (1971) [Il processo giudiziario, positivismo e libertà civili], South African Law Journal 181; J Dugard, Confronting Apartheid. A Personal History of South Africa, Namibia and Palestine [Paragonare l’aprtheid. Una storia personale del Sudafrica, della Namibia e della Palestina], Jacana 2019, pp 52-53.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 26 novembre – 9 dicembre 2019

Nella Striscia di Gaza, ad est di Khan Yunis, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese 16enne e ferendo altri otto palestinesi, tra cui sei minori.

L’episodio è avvenuto venerdì 29 novembre, quando un gruppo di giovani si è avvicinato alla recinzione perimetrale israeliana che circonda Gaza, scontrandosi con le forze israeliane. Secondo fonti israeliane, i giovani avevano bruciato pneumatici e lanciato pietre ed ordigni esplosivi contro i soldati israeliani.

Sempre nei pressi della recinzione perimetrale che circonda Gaza, altri 90 palestinesi, tra cui 36 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante le dimostrazioni della “Grande Marcia del Ritorno” (GMR); queste sono riprese il 6 dicembre, dopo una pausa di tre settimane. Secondo il Ministero della Salute Palestinese di Gaza, quarantaquattro [dei 90] feriti sono stati ricoverati in ospedale. Fonti israeliane hanno riferito che, in diverse occasioni, i manifestanti si sono avvicinati alla recinzione ed hanno lanciato contro le forze israeliane ordigni esplosivi e bottiglie incendiarie; nessun israeliano è rimasto ferito. Dal 30 marzo 2018, data di inizio della GMR, durante le proteste le forze israeliane hanno ucciso 213 palestinesi (tra cui 47 minori).

Il cessate il fuoco, concordato a metà novembre, è stato generalmente rispettato ma, in alcune occasioni, le fazioni armate di Gaza hanno lanciato missili contro la regione meridionale di Israele che, a sua volta, ha effettuato attacchi aerei su Gaza, colpendo siti militari e aree aperte e provocando il ferimento di due palestinesi, tra cui una donna. Nelle città di Gaza e Rafah numerosi siti militari, case e strutture civili hanno subito danni. Il 29 novembre, un membro di un gruppo armato è deceduto in conseguenza delle ferite riportate durante l’ultimo confronto armato; sale quindi a 36 il numero di vittime palestinesi degli scontri del 12-14 novembre (nella cifra sono inclusi almeno 14 civili, di cui otto minori).

In almeno 13 occasioni, non riferibili a proteste e scontri, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento allo scopo di far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [imposte da Israele] sulle aree di Gaza adiacenti alla recinzione perimetrale ed al largo della costa. Non sono stati segnalati feriti. Vicino alla recinzione perimetrale le forze israeliane hanno arrestato due uomini; secondo quanto riferito, stavano tentando di entrare in Israele.

Il 30 novembre, nel villaggio di Beit ‘Awwa (Hebron), le forze israeliane hanno sparato e colpito mortalmente un giovane palestinese di 18 anni; secondo quanto riferito, aveva lanciato una bottiglia incendiaria contro una pattuglia militare israeliana; il cadavere è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Durante lo stesso episodio sono stati arrestati altri due palestinesi, tra cui un minore.

In Cisgiordania, durante molteplici proteste e scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane altri 181 palestinesi, tra cui almeno 18 minori. Oltre la metà dei [181] ferimenti è stata registrata il 26 novembre, durante le proteste contro una recente dichiarazione del Segretario di Stato americano, attestante la legalità degli insediamenti israeliani. Le proteste erano anche connesse alla morte di un prigioniero palestinese, malato di cancro e detenuto in un carcere israeliano, oltre che in solidarietà con i prigionieri palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Funzionari palestinesi hanno attribuito la morte del detenuto a negligenza medica. La maggior parte dei rimanenti ferimenti è stata registrata durante operazioni di ricerca-arresto, durante le ricorrenti dimostrazioni tenute nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya) contro le restrizioni di accesso, e nel corso di altri scontri scoppiati localmente. Di tutti i ferimenti, circa il 76% è da attribuire ad inalazione di gas lacrimogeni richiedenti cure mediche e il 19% a proiettili di gomma.

A Hebron City, le tensioni sono aumentate dopo che, il 1° dicembre, le autorità israeliane hanno annunciato la loro intenzione di abbattere un ex mercato palestinese, chiuso nel 1994 per ordine militare israeliano; l’area sarebbe destinata alla costruzione di un nuovo insediamento colonico israeliano. In risposta, il 9 dicembre, i palestinesi hanno messo in atto uno sciopero generale (negozi e scuole compresi) ed hanno effettuato una protesta cittadina che si è evoluta in scontri con le forze israeliane e conseguente ferimento di tre palestinesi. Per diverse ore l’accesso dei palestinesi all’area della città in cui si trovano gli insediamenti israeliani è stato soggetto a restrizioni. In tale area le politiche e le pratiche israeliane hanno comportato lo sfollamento forzato di palestinesi dalle loro case e un peggioramento delle condizioni di vita di coloro che vi rimangono.

Nel corso di 11 distinti episodi, oltre 800 alberi e 200 veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati; si ritiene ad opera di coloni israeliani. Non sono stati riportati ferimenti di palestinesi. In concomitanza con la fine della stagione dell’annuale raccolta delle olive, sono stati registrati danneggiamenti di alberi (soprattutto ulivi) nei villaggi di Sebastiya (Nablus), Al Khadr (Betlemme) e As Sawiya (Nablus). In quest’ultimo villaggio (attaccato due volte in tre giorni), coloni israeliani hanno installato una tenda vicino al terreno preso di mira. Dall’inizio del 2019, oltre 7.500 alberi di proprietà palestinese sono stati vandalizzati, secondo quanto riferito, da coloni israeliani. Il 9 dicembre, nel quartiere Shu’fat di Gerusalemme Est, aggressori hanno tagliato le gomme di 189 auto palestinesi ed hanno imbrattato i muri di diversi edifici con scritte, in ebraico, tipo “questo è il prezzo”. Altri veicoli sono stati vandalizzati o incendiati nei villaggi di Khallet Sakariya (Betlemme), Deir Ammar e At Tayba (entrambi a Ramallah).

Citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito 22 strutture di proprietà palestinese in Area C ed una in Gerusalemme Est, sfollando 49 persone e creando ripercussioni su altre 800. La metà delle strutture demolite in Area C era stata precedentemente fornita come assistenza umanitaria. Quattro delle località, colpite dalla demolizione di dieci strutture, sono Comunità beduine palestinesi situate all’interno, o nel circondario, di un’area destinata [da Israele] all’espansione degli insediamenti colonici (piano “E1”); sono pertanto a rischio di trasferimento forzato. Altre otto delle strutture demolite erano localizzate in aree [da Israele] dichiarate chiuse e destinate all’addestramento militare israeliano (“zone per esercitazioni a fuoco”); oltre il 20% di tutte le strutture prese di mira finora nel 2019 erano situate in zone “per esercitazioni a fuoco”; esse coprono circa il 30% dell’area C.

Il 28 novembre, nel villaggio di Beit Kahil (Hebron), in Area B, [amministrazione palestinese e controllo militare israeliano] le forze israeliane hanno demolito “per punizione” quattro case e tre cisterne d’acqua, sfollando 15 persone, tra cui sei minori. Le strutture appartengono alle famiglie di quattro palestinesi accusati del rapimento e uccisione, nell’agosto 2019, di un soldato israeliano non in servizio. L’episodio ha innescato scontri con le forze israeliane: sei palestinesi, tra cui due minori, sono stati feriti. Finora, quest’anno, questo è il settimo caso di demolizione “punitiva” giustificato da “necessità di deterrenza”. Le demolizioni punitive sono illegali ai sensi del Diritto internazionale.

Secondo media israeliani, almeno sei veicoli israeliani sono stati colpiti con pietre e danneggiati da palestinesi. Gli episodi sono avvenuti su strade vicino ai villaggi di Tuqu’, Al Khader (entrambi a Betlemme), Beit Ummar (Hebron) e Huwwara (Nablus) e al Campo [profughi] di Al Aroub (Hebron).