rapporto OCHA del periodo 18 giugno-1 luglio (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante il periodo di riferimento, 494 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane nel corso delle manifestazioni tenute nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno” che, dal 30 marzo 2018, si svolgono vicino alla recinzione perimetrale con Israele.

Oltre il 45% dei feriti è stato ricoverato in ospedale.

Sempre nella Striscia di Gaza, in almeno 12 occasioni non riconducibili alle manifestazioni della”Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso palestinesi per far loro rispettare le restrizioni di accesso alle aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa; agricoltori e pescatori sono stati costretti a lasciare tali aree. Tre pescatori sono stati arrestati e un altro è rimasto ferito, oltre a danni causati a tre barche da pesca e alla confisca di reti da pesca. In due occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza (ad est di Beit Hanoun e di Khan Yunis) ed hanno effettuato operazioni di spianatura e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Il 24 giugno, Israele, in risposta al lancio di palloncini incendiari da Gaza verso i propri territori, ha sospeso le consegne di carburante, costringendo la Centrale Elettrica di Gaza ad operare a potenza circa dimezzata, riducendo di conseguenza l’erogazione di energia elettrica nei giorni dal 25 al 28 giugno.

In Cisgiordania, il 27 giugno, durante scontri nel quartiere di Al Isawiya a Gerusalemme Est, un 21enne palestinese è stato ucciso con arma da fuoco, da un poliziotto israeliano. Secondo fonti della Comunità locale, l’uomo è stato colpito al petto da distanza ravvicinata ed è deceduto poco dopo il ricovero presso un ospedale israeliano. Il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane fino al 1 luglio. Secondo fonti israeliane, quando gli hanno sparato, l’uomo era rivolto nella direzione di poliziotti israeliani e stava accendendo un petardo. Fonti palestinesi affermano che si trattava di un astante non coinvolto negli scontri. Dopo l’omicidio, nella zona di Al Isawiya, gli scontri tra palestinesi e forze israeliane sono proseguiti per diversi giorni, provocando decine di feriti palestinesi (vedi sotto).

Ancora in Cisgiordania, durante proteste e diversi scontri, le forze israeliane hanno ferito 168 palestinesi, tra cui almeno sei minori [di seguito il dettaglio]. 134 di questi 168, (tra cui almeno tre minori) sono stati feriti durante scontri con forze israeliane avvenuti a seguito dell’uccisione del 21enne palestinese il 27 giugno (vedi sopra): 124 [dei 134] in quattro diverse occasioni verificatesi ad Al Isawiya (Gerusalemme Est) e altri 10 [dei 134] vicino a Bab Az Zawiya (Hebron). Altri 22 feriti sono stati registrati in scontri scoppiati in due operazioni di ricerca-arresto nel villaggio di Kobar e nel Campo profughi di Al Am’ari (entrambi a Ramallah). I venerdì successivi (21 e 28 giugno) un totale di dodici persone, tra cui tre minori, sono stati feriti durante le manifestazioni settimanali, tenute nel villaggio di Kafr Qaddum (Qalqiliya), contro l’espansione degli insediamenti e la violenza dei coloni. Altre tre persone [non conteggiate nel totale], tra cui una donna, sono state ferite il 19 giugno, in una manifestazione svoltasi nella città di Al Isawiya a Gerusalemme Est, per protestare contro le ricorrenti operazioni di ricerca condotte [dalle forze israeliane] nella città. Nell’Area H2 della città di Hebron, due palestinesi, un uomo di 53 anni ed il figlio 14enne, mentre tentavano di accedere, tramite il checkpoint 56, alla loro casa nella via Ash Shuhada, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da soldati israeliani [non conteggiati nel totale].

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 155 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato almeno 168 palestinesi, tra cui 13 minori. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato la più alta quota di operazioni (41) e di arresti (56).

Il 29 giugno, poliziotti israeliani di confine hanno fatto irruzione nell’ospedale Al Maqased a Gerusalemme Est, interrompendo le prestazioni mediche di emergenza e arrestando due palestinesi. Secondo quanto riferito, stavano ricercando manifestanti feriti negli scontri avvenuti nelle aree di Al Isawiya e At Tur di Gerusalemme Est.

Nella zona C e a Gerusalemme Est, citando la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele (quasi impossibili da ottenere) le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 27 strutture di proprietà palestinese. Di conseguenza, 52 persone, tra cui 35 minori, sono state sfollate e altre 5.074 hanno subìto ripercussioni di entità diverse [di seguito il dettaglio]. Tre delle strutture demolite o sequestrate erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni nei villaggi di Qusra e Majdal Bani Fadil (entrambi a Nablus). Tra le strutture colpite, 24 si trovavano in nove Comunità dislocate in Area C. Tra queste, la Comunità di pastori di Zatara al Kurshan (Betlemme), dove, il 27 giugno, sei strutture sono state demolite, provocando lo sfollamento di 46 persone, tra cui 32 minori. Tale Comunità si trova all’interno di una zona designata da Israele come “area militare chiusa”. In un’altra “area militare chiusa”, nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito un’abitazione presso la Comunità di pastori di Umm Fagarah, sfollando cinque persone, tra cui tre minori. A Barta’a ash Sharqiya (Jenin), in Area C, per mancanza di un permesso di costruzione, è stata sequestrata una roulotte, parte di un progetto per la gestione dei rifiuti. Il provvedimento ha colpito l’attuazione del progetto pensato per servire l’intero villaggio dove vivono circa 4.950 persone. Le restanti 13 strutture dislocate in Area C comprendevano due strutture abitative, cinque di sostentamento e quattro strutture agricole, oltre a due serbatoi d’acqua. Inoltre, tre strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, inclusa una nell’area di Ras al ‘Amud, dove una famiglia palestinese di sei persone, tra cui quattro minori, è stata costretta ad auto-demolire un ampliamento della propria casa.

Diciotto episodi aggressivi, perpetrati da coloni israeliani, hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi [di seguito il dettaglio]. In tre episodi separati, avvenuti nella zona H2 della città di Hebron, tre palestinesi, tra cui un minore, sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni. In altri tre episodi distinti, in base a riprese video realizzate da una Organizzazione per i Diritti Umani e secondo testimoni oculari, coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dagli insediamenti di Homesh, Yitzhar e Beitar Illit, hanno incendiato decine di ettari di terreni appartenenti a contadini di Madama e Burin (entrambi a Nablus) e Wadi Fuqin (Betlemme), danneggiando almeno 287 ulivi. In un ulteriore episodio, riferito da fonti della Comunità locale palestinese, coloni hanno vandalizzato altri 37 ulivi e alberelli appartenenti al villaggio di Surif (Hebron). A Yasuf (Salfit), in un’area il cui accesso richiede un preliminare coordinamento con le autorità israeliane, risulta che coloni abbiano dato fuoco a circa 0,5 ettari di terra coltivata a grano e orzo. In due distinti casi, coloni hanno anche spianato circa 1,5 ettari di terra a Wadi Fukin (Betlemme) e Khirbet Samra (Tubas), danneggiando le colture. Dall’inizio del 2019, OCHA ha registrato le segnalazioni di azioni di sradicamento, di incendio o di vandalizzazione di oltre 4.100 alberi perpetrate da coloni israeliani. Sulla media mensile, ciò rappresenta un aumento del 126% rispetto al 2018 e del 37% rispetto al 2017. Gli episodi rimanenti includono la vandalizzazione di 35 veicoli e le scritte offensive spruzzate su muri di case di Deir Istiya (Salfit), Beitin e Sinjil (entrambi a Ramallah).

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani in tre occasioni: vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah. Risultano danneggiati almeno tre veicoli.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Il giorno dopo: che succede se Israele annette la Cisgiordania?

Ramzy Baroud

24 giugno, 2019 – Middle East Monitor

Gli inviti all’annessione della Cisgiordania occupata sono all’ordine del giorno sia a Tel Aviv che a Washington. Ma Israele e i suoi alleati americani dovrebbero stare attenti riguardo a ciò che auspicano. Annettere i Territori Palestinesi Occupati non farà che rafforzare l’attuale ripensamento della strategia palestinese, invece di risolvere i problemi che Israele stesso si provoca.

Incoraggiati dalla decisione dell’amministrazione di Donald Trump di spostare l’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, i dirigenti del governo israeliano ritengono che questo sia il momento giusto per annettere l’intera Cisgiordania.

Infatti, “non vi è momento migliore di questo” è stata la frase esatta usata dall’ex Ministra della Giustizia israeliana Ayelet Shaked, quando ha sostenuto l’annessione in una recente conferenza a New York.

Certo, in Israele è nuovamente una stagione elettorale, poiché il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu non è riuscito a formare un governo dopo le ultime elezioni di aprile. Durante queste campagne politiche si assiste a molte dimostrazioni di forza, dato che i candidati fanno la voce grossa in nome della ‘sicurezza’, della lotta al terrorismo, eccetera.

Ma i commenti di Shaked non possono essere liquidati come effimere scaramucce elettorali. Rappresentano molto di più, se considerati all’interno di un più ampio contesto politico.

Sicuramente, da quando Trump è arrivato alla Casa Bianca, per Israele le cose non sono mai – e ripeto, mai – andate così bene. È come se il programma più radicale del governo di destra fosse diventato una lista dei desideri per gli alleati di Israele a Washington. Questa lista include il riconoscimento USA dell’annessione illegale da parte di Israele della Gerusalemme est palestinese occupata, delle Alture del Golan siriane occupate e l’abbandono totale del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.

Ma non è tutto. Affermazioni fatte da influenti dirigenti USA indicano un iniziale interesse per la completa annessione della Cisgiordania occupata o almeno di larga parte di essa. L’ultimo di questi auspici è stato fatto dall’ambasciatore USA in Israele David Friedman.

Israele ha il diritto di annettere parte…della Cisgiordania”, ha detto Friedman in un’intervista, citata dal New York Times l’8 giugno.

Friedman è molto coinvolto nel cosiddetto accordo del secolo, uno stratagemma politico sostenuto soprattutto dal primo consigliere e genero di Trump, Jared Kushner. La palese idea che sorregge questo ‘accordo’ è cancellare le fondamentali richieste dei palestinesi, rassicurando al contempo Israele sulla sua ricerca di maggioranza demografica e sulle preoccupazioni riguardo alla ‘sicurezza’.

Altri dirigenti USA che spalleggiano gli sforzi di Washington a favore di Israele sono l’inviato speciale USA in Medio Oriente, Jason Greenblatt, e l’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Nicki Haley. In una recente intervista al giornale di destra israeliano ‘Israel Hayom’ Haley ha detto che il governo israeliano “non dovrebbe preoccuparsi” riguardo ai dettagli dell’accordo del secolo, che devono essere ancora del tutto svelati.

Conoscendo l’amore di Haley – e la sua sfrontata difesa – per Israele presso le Nazioni Unite, non dovrebbe essere troppo difficile capire il sottile ed ovvio significato delle sue parole.

Ecco perché il richiamo di Shaked all’annessione della Cisgiordania non può essere liquidato come un banale discorso da periodo elettorale.

Ma Israele può annettere la Cisgiordania?

In pratica sì, lo può fare. È vero che sarebbe una flagrante violazione del diritto internazionale, ma questo concetto non ha mai disturbato Israele, né gli ha impedito di annettere territori arabi o palestinesi. Per esempio, ha occupato Gerusalemme est e le Alture del Golan rispettivamente nel 1980 e 1981.

Inoltre in Israele il clima politico è sempre più disponibile a compiere un simile passo. Un sondaggio condotto dal quotidiano israeliano Haaretz lo scorso marzo ha rivelato che il 42% degli israeliani è favorevole all’annessione della Cisgiordania. Questa percentuale è destinata a crescere nei prossimi mesi, dato che Israele continua a spostarsi a destra.

È anche importante notare che diversi passi sono già stati compiuti in questa direzione, compresa la decisione della Knesset [parlamento israeliano, ndtr.] di applicare ai coloni ebrei illegali in Cisgiordania le stesse leggi civili applicate a chi vive in Israele.

Ma è qui che Israele si trova di fronte al suo più grande dilemma.

Secondo un sondaggio condotto congiuntamente dall’università di Tel Aviv e dal Centro palestinese per la Politica e la Ricerca nell’agosto 2018, più del 50% dei palestinesi si rende conto che la cosiddetta soluzione dei due Stati non può più reggere.

Inoltre un crescente numero di palestinesi ritiene anche che la coesistenza in un unico Stato, in cui ebrei israeliani e arabi palestinesi (sia musulmani che cristiani) vivano fianco a fianco, sia la sola formula possibile per un futuro migliore.

La dicotomia per i dirigenti israeliani che cercano di mantenere una maggioranza demografica ebraica e la marginalizzazione dei diritti dei palestinesi, è che non hanno più alternative valide.

Anzitutto comprendono che l’occupazione senza fine dei territori palestinesi non può essere sostenibile. La perdurante resistenza palestinese all’interno e la nascita del movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) all’estero stanno minacciando la stessa legittimità politica di Israele in tutto il mondo.

In secondo luogo, devono anche tenere conto del fatto che, dal punto di vista dei dirigenti ebrei israeliani, l’annessione della Cisgiordania con milioni di palestinesi moltiplicherà proprio la “minaccia demografica” che hanno temuto per molti anni.

Terzo, la pulizia etnica di intere comunità palestinesi – la cosiddetta opzione “trasferimento” – come quella che fece Israele alla sua fondazione nel 1948, e nuovamente nel 1967, non è più possibile. Né i Paesi arabi apriranno le loro frontiere per i genocidi utili a Israele, né i palestinesi se ne andranno, per quanto il prezzo sia alto. Il fatto che gli abitanti di Gaza siano rimasti là, nonostante anni di assedio e di feroci guerre, ne è un esempio.

Al di là delle messinscene politiche, i dirigenti israeliani capiscono che non sono più al posto di comando e, nonostante la loro superiorità militare e politica rispetto ai palestinesi, sta diventando evidente che la potenza di fuoco ed il cieco sostegno di Washington non sono più sufficienti a determinare il futuro del popolo palestinese.

È altresì chiaro che il popolo palestinese non è, e non è mai stato, un soggetto passivo del proprio destino. Se Israele mantiene la sua occupazione da 52 anni, i palestinesi continueranno a resistere. Quella resistenza non verrà indebolita o domata da alcuna decisione di annettere la Cisgiordania, in parte o del tutto, esattamente come la resistenza palestinese a Gerusalemme non è cessata dopo la sua illegale annessione da parte di Tel Aviv quarant’anni fa.

Infine, l’annessione illegale della Cisgiordania può solo contribuire alla irreversibile consapevolezza tra i palestinesi che la loro lotta per la libertà, i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza può essere meglio sostenuta attraverso una battaglia per i diritti civili all’interno dei confini di un unico Stato democratico.

Nella sua cieca arroganza, Shaked e la sua genia di destra non fanno che accelerare la scomparsa di Israele come Stato etnico e razzista, mentre avviano una fase di possibilità migliori della continua violenza e apartheid.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Gli accademici israeliani e l’emigrazione

Edo Konrad

24 giugno 2019 972.com

da Nena News

Alcuni documenti appena scoperti rivelano che, nei giorni immediatamente successivi all’occupazione, Israele istituì una “Commissione dei Cattedratici” con il compito di elaborare politiche volte a tenere calmi i palestinesi e a indurli ad abbandonare definitivamente la Cisgiordania e Gaza

Poche settimane dopo aver quasi triplicato la dimensione del territorio sotto controllo israeliano, con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, Israele reclutò squadre di accademici perché individuassero un modo per  indurre i palestinesi ad emigrare dai territori appena occupati.

Secondo i documenti appena scoperti da Omru Shafer Raviv, dottorando del Dipartimento di Storia Ebraica dell’Università Ebraica, nel luglio del 1967 l’allora primo ministro Levi Eshkol riunì una commissione di accademici, tra cui l’illustre sociologo Shmuel Noah Eisenstadt, l’economista Michael Bruno, il demografo Roberto Bachi e il matematico Aryeh Dvoretzky – tutti  caratterizzati da legami con le alte sfere – e li spedì nei territori per analizzare la popolazione appena messa sotto occupazione.

In teoria, l’obiettivo della “Commissione per lo Sviluppo dei Territori Amministrati”, anche detta “Commissione dei Cattedratici”, era quello di creare un ente responsabile della “pianificazione a lungo termine” nei territori occupati. I professori, insieme alle loro squadre di ricercatori, vennero spediti nei villaggi, nelle città e nei campi profughi per intervistare i palestinesi sulle loro vite, bisogni e desideri.

Il secondo obiettivo, spiega Shafer Raviv, doveva essere una miglior comprensione dei palestinesi dei territori occupati, per poter capire come evitare che facessero resistenza al regime militare loro imposto da Israele – che ancora oggi li domina – mentre si cercava il modo di indurli ad andarsene. “Quei primi anni hanno dato forma alle odierne politiche israeliane”, sostiene Raviv.

La minaccia della modernità

Alla fine della guerra, il governo israeliano si era posto obiettivi di ogni sorta nei confronti della popolazione palestinese, primo fra tutti la riduzione del numero di coloro che vivevano nei territori occupati. “Lo si è visto soprattutto a Gaza, dove le autorità credevano di poter dimezzare la popolazione da 400mila a 200mila per far fronte al nuovo problema demografico”.

I palestinesi di Gaza erano per la maggior parte profughi: il governo voleva smantellare i campi profughi, inducendo (i profughi) a lasciare il Paese e a farsi “assorbire” – o a integrarsi – altrove, spiega Raviv. “Questo è il quadro in cui si inserisce la decisione di Eshkol di creare la Commissione dei Cattedratici”.

Nei primi anni dopo l’inizio dell’occupazione, ci fu un’ondata di resistenza popolare, per lo più nonviolenta, con diversi scioperi generali. Esisteva anche una resistenza armata, di gruppi come Fatah, che tentò di suscitare contro Israele una guerriglia in stile vietcong. Un altra missione che il governo israeliano affidò alla Commissione dei Cattedratici fu quella di capire come circoscrivere la resistenza popolare contro il dominio israeliano e scoprire in che misura idee rivoluzionarie come il comunismo o il nazionalismo palestinese  avrebbero potuto diffondersi nei territori occupati.

Per analizzare le loro scoperte empiriche e formulare linee guida politiche, gli accademici facevano riferimento a un quadro teorico chiamato “teoria della modernizzazione”. Tale teoria, secondo cui le società cambiano seguendo un andamento lineare, da “tradizionali” a “moderne”, divenne molto popolare tra gli scienziati sociali in Occidente, ma non ha superato adeguatamente la prova del tempo. I critici la accusano di essere troppo focalizzata sull’Occidente e fondamentalmente incapace di calcolare i complessi cambiamenti interni ed esterni che caratterizzano gruppi e società. Questi punti deboli teoretici avrebbero pregiudicato tutto il lavoro della Commissione.

“I ricercatori fecero una distinzione tra la popolazione giovanile urbana – più orientata al laicismo e all’istruzione e più incline a partecipare alle attività politiche – e la popolazione anziana, molto meno interessata alla politica, più tradizionalista, religiosa e rurale. La prima era considerata una minaccia, mentre lo stile di vita depoliticizzato di quest’ultima andava incoraggiato”, spiega Raviv.

Mentre gli scienziati sociali occidentali utilizzavano la teoria della modernizzazione nel tentativo di modernizzare le società come parte dello sforzo per evitare il comunismo, gli accademici e le autorità israeliane adottarono un approccio inverso.

“Quando si trattò di mettere una popolazione civile sotto controllo militare, la modernizzazione della società palestinese diventò un elemento avverso agli interessi israeliani”, aggiunge Raviv. “Il governo israeliano voleva mantenere tranquilla la popolazione occupata, e pensava che quanto più questa fosse stata modernizzata, tanto maggiore sarebbe stata la minaccia della resistenza”.

Tra i quesiti posti dai ricercatori israeliani ai palestinesi, c’erano anche domande su cosa mangiassero a cena, per capire se classificarli come “moderni” o “tradizionalisti”. Le cene di famiglia con molti commensali, per esempio, erano considerate tradizionali, mentre quelle più intime, con meno persone, erano considerate sintomo di modernità. Tutto ciò aveva delle conseguenze. Chi veniva considerato più “moderno” veniva più facilmente sospettato di essere laico, e quindi più incline a sostenere politiche nazionaliste o rivoluzionarie.

C’erano poi altre domande politiche, soprattutto nei campi profughi: “Vuoi trasferirti in un nuovo Paese? Perché no? Cosa ti convincerebbe a trasferirti? Quale potrebbe essere, secondo te, la soluzione alla questione profughi?”.

Nell’ottobre del 1967, un ricercatore, scienziato politico, si recò al confine di Allenby Bridge per intervistare i palestinesi diretti in Giordania. Molti palestinesi attraversavano sistematicamente il confine tra i territori palestinesi occupati e la Giordania, per lavoro o perché la loro famiglia viveva all’estero.

“Chiese a 500 persone per quale motivo avevano scelto di andarsene – spiega Raviv – e le risposte sarebbero poi state consegnate al governo, in modo da poter meglio comprendere le ragioni per cui la gente se ne andava”.

L’accademico israeliano, che lavorava con l’autorizzazione dell’esercito israeliano, concluse che i palestinesi se ne andavano in Giordania con l’obiettivo di trovare lavoro, o per motivi di ricongiungimento familiare.

”Sotto il dominio giordano c’erano stati pochissimi investimenti in Cisgiordania, così, quando gli israeliani la occuparono, semplicemente non c’era abbastanza lavoro” spiega Raviv. “Dopo la guerra, in Cisgiordania la situazione era ulteriormente peggiorata. Il governo israeliano preferì mantenere alta la disoccupazione, perché si rese conto che questo avrebbe spinto la gente ad emigrare verso posti come la Giordania o il Kuwait”.

Esperti colti alla sprovvista

Shafer Raviv fa parte di un gruppo di accademici israeliani che hanno deciso di focalizzare la loro ricerca sull’occupazione. Mentre i Nuovi Storici, come Benny Morris e Tom Segev, hanno scoperto dettagli della guerra del ’48 e degli anni successivi alla fondazione di Israele che contraddicevano direttamente la narrativa sionista, questo nuovo gruppo di ricercatori si è concentrato sul regime israeliano nei territori occupati.

Lo studio di Raviv è il primo di questo genere, dato che utilizza documenti governativi ufficiali risalenti alla guerra del 1967 e al periodo immediatamente successivo, che solo recentemente sono stati desecretati dall’Archivio Nazionale di Israele e dagli Archivi delle forze armate israeliane.

Fino alla guerra del 1967, la questione centrale del conflitto israelo-palestinese era quella dei profughi palestinesi, che erano stati deportati e fatti fuggire dal territorio poi divenuto Israele, e ai quali Israele impedì il ritorno alle proprie case dopo la guerra del 1948. Con la fine della guerra del 1967, Israele si ritrovò a spadroneggiare sulla maggior parte di quegli stessi profughi, che si erano rifugiati in Cisgiordania e Gaza da ormai quasi vent’anni.

Il governo israeliano, racconta Raviv, considerò l’occupazione del 1967 come un’opportunità per risolvere alle proprie condizioni il problema dei profughi, inducendoli ad andarsene di propria volontà o tramite un accordo con altri Stati arabi. Ma quando iniziarono la loro ricerca sui profughi, gli accademici scoprirono qualcosa che li colse alla sprovvista: ai profughi non interessavano soluzioni politiche che non comprendessero il loro ritorno alla terra d’origine.

“I ricercatori erano convinti che, se i profughi avessero potuto vivere tranquilli in qualche posto come il Kuwait, non avrebbero avuto alcun motivo per preferire una vita di patimenti in un campo profughi di Gaza”, spiega Raviv. “Ora, invece, la maggioranza dei profughi stava rispondendo che “No, noi vogliamo tornare in quella che è diventata Israele”. Il che, ovviamente, era fuori discussione per le autorità israeliane.

Gli accademici si stupirono ancor di più quando scoprirono che i profughi avevano più caratteristiche “moderne” rispetto alla maggior parte della restante società palestinese. “Quando erano stati costretti nei campi, i profughi avevano dovuto abbandonare le loro terre, il che significava che non c’era motivo che i loro figli imparassero a lavorare la terra”, spiega Raviv.

Costretti ad abbandonare lo stile di vita, i costumi e le economie agrarie della “vita rurale”, i profughi avevano iniziato ad investire nell’educazione dei figli, come fece l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata di gestire i campi profughi. “Tutto ciò – dice Raviv – ebbe conseguenze a lungo termine: la percentuale di analfabetismo, nei profughi di prima generazione, si aggirava intorno al 70%, ma scese a circa il 7% con la seconda generazione, cresciuta nei campi profughi”.

La Commissione dei Cattedratici si augurò un rafforzamento di questa “tendenza alla modernizzazione” tra i profughi. Credeva che indurre i profughi di seconda generazione a ricevere un’istruzione e a spostarsi in città, luogo in cui poter realizzare i propri sogni, avrebbe forse portato allo smantellamento dei campi. Avevano capito che, con il semplice smantellamento dei campi profughi e spingendo la gente andarsene, si sarebbe arrivati a quella che battezzarono ”resistenza collettiva”.

”Gli accademici compresero che, per risolvere il problema dei profughi, non si poteva dire apertamente ‘risolvere il problema dei profughi’ ”, spiega Raviv. “Bisognava farlo sottovoce, e cos’è di più discreto che la ricerca di opportunità di studio o lavoro all’estero?”.

Lo spirito della Commissione è ancora vivo

Tra le altre indicazioni della Commissione dei Cattedratici, alcune furono inizialmente contro-intuitive nel loro scopo di incoraggiare l’emigrazione e ridurre il numero di palestinesi che vivevano sotto il controllo israeliano.

”Uno dei suggerimenti, adottato dal governo israeliano nel dicembre del 1967, era di permettere che chiunque volesse lasciare i territori occupati potesse tornarci – racconta Raviv – Era qualcosa di rivoluzionario; andava contro la posizione generale israeliana adottata nel 1948, che proibiva il ritorno delle persone che avevano lasciato il Paese. Se gli si dice in anticipo che non possono tornare, non se ne andranno mai, perché farlo significherebbe perdere qualsiasi legame con la loro famiglia e la loro terra”.

La Commissione dei Cattedratici pubblicò le prime anticipazioni nel settembre del 1967, anche se la prima parte della ricerca fu completata in febbraio del 1968, quando le conclusioni vennero consegnate al primo ministro Eshkol e la Commissione tenne un certo numero di consultazioni con i funzionari del governo militare.

In un documento di parecchi anni dopo, sono elencate almeno 30 ricerche su una gamma di tematiche come ad esempio la popolazione cristiana nei territori occupati, l’economia di Nablus e l’ipotesi di esportazione di beni israeliani in Libano. Questi progetti di ricerca continuarono per un bel po’, fino alla metà degli anni ‘70: a quel punto, la traccia cartacea si perde.

Shafer Raviv sostiene che, anche se non possiamo avere la certezza che le raccomandazioni della Commissione dei Cattedratici siano mai state trasformate direttamente in politiche di governo – dal momento che le autorità tennero in considerazione anche altre osservazioni, come per esempio le opinioni dello Shin Bet e dell’esercito – lo spirito della loro ricerca ha sicuramente influenzato chi aveva il potere decisionale.

Secondo lui, “non c’è prova che le raccomandazioni siano state adottate unicamente sulla base di ciò che la Commissione aveva proposto. Ma è evidente il legame tra raccomandazioni e politiche di governo. Se ne può notare un primo esempio nella decisione del governo di incentivare l’emigrazione palestinese”.

(Traduzione di Elena Bellini)




Rifugiati: l’”accordo del secolo” di Trump è destinato al fallimento

Mustafa Abu SneinehChloé Benoist

19 giugno 2019 – Middle East Eye

La proposta segue lo stesso percorso di altri inutili negoziati del passato e minaccia lo status di milioni di palestinesi

In un conflitto centrato sulla relazione tra terra e popolo, la questione dei rifugiati palestinesi è stata il punto su cui sin dall’istituzione dello Stato di Israele si sono incagliati gli sforzi diplomatici – e sembra che il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente americano Donald Trump non faccia eccezione a questa regola.

Israeliani e palestinesi hanno sempre aspramente dissentito su chi sia un rifugiato, su quali diritti abbia e su quale dovrebbe essere il suo destino a lungo termine, visto che gli innumerevoli tentativi da parte della comunità internazionale di raggiungere un consenso sulla questione hanno sempre fallito.

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L’ultima proposta, questa volta da parte dell’amministrazione Trump, sembra non solo orientata al fallimento proprio come i negoziati precedenti, ma addirittura fondata sul tentativo di eliminare completamente il problema dei rifugiati.

A milioni in tutta la regione

Circa 750.000 palestinesi sono fuggiti o sono stati cacciati con la forza dalle loro case da gruppi paramilitari ebrei nel 1948 alla nascita dello Stato israeliano.

Secondo i dati delle Nazioni Unite all’epoca quel numero corrispondeva a più della metà della popolazione palestinese. A settant’anni da quel moderno esodo, quasi 5,5 milioni di quei palestinesi e dei loro discendenti sono registrati come rifugiati presso le Nazioni Unite.

Circa 2,2 milioni di rifugiati vivono in decine di campi profughi tra la Cisgiordania e Gaza occupate, mentre la maggioranza degli altri vive nei paesi confinanti di Giordania, Libano e Siria.

Il “diritto al ritorno” per i palestinesi sfollati a causa del conflitto è stato stabilito nella risoluzione 194 approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1949 e ribadito dalla stessa istituzione in un’altra risoluzione nel 1974, che ha definito la sua attuazione “indispensabile per la soluzione della questione palestinese”.

È sostenuto da altre risoluzioni e convenzioni internazionali, che affermano in modo più generale il diritto delle popolazioni al ritorno nella propria patria.

La lotta per il diritto al ritorno

Ma il diritto al ritorno è stato a lungo considerato da Israele come una minaccia demografica alla sua auto-identificazione come Stato ebraico. Secondo i dati della Banca Mondiale la popolazione di Israele nel 2017 era di 8,7 milioni, di cui circa il 20% cittadini palestinesi di Israele.

Di conseguenza, la posizione di Israele nei negoziati è improntata al rifiuto di accettare la potenziale prospettiva di milioni di palestinesi che ritornano alle proprie case.

Gli accordi di Oslo del 1993 istituirono l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) come organismo governativo ad interim, con l’obiettivo dichiarato di creare uno Stato palestinese indipendente entro la fine del secolo.

L’accordo prevedeva il raggiungimento di una soluzione permanente del conflitto entro cinque anni, dopo di che un accordo su questioni di “status finale” – come gli insediamenti israeliani, il destino di Gerusalemme e dei rifugiati – sarebbe stato presumibilmente concluso durante una seconda fase dei negoziati.

Ma quando nel 1999 si arrivò alla scadenza dei cinque anni, tutti i tentativi di raggiungere un accordo permanente erano falliti.

Tra il 2000 e il 2001, quando l’allora presidente americano Bill Clinton cercò di raggiungere un nuovo accordo durante i vertici di Camp David e Taba, la posizione israeliana oscillò.

A Camp David, il famoso ritiro presidenziale nel Maryland, l’allora capo dello staff israeliano, Gilead Sher, scrisse che i negoziatori israeliani avevano chiaro come qualsiasi accordo che consentisse ai rifugiati di ritornare avrebbe previsto nientemeno che 100.000 persone.

Fu anche discussa l’istituzione di un fondo internazionale tra i 10 e i 20 miliardi di dollari per aiutare i rimanenti rifugiati a reinsediarsi permanentemente nei Paesi di accoglienza – lo scenario preferito da Israele.

Ma quando le parti si incontrarono di nuovo sei mesi più tardi nella località egiziana di Taba, gli israeliani cercarono di far abbandonare del tutto l’ipotesi.

In una riunione di gabinetto in vista del vertice di Taba, il governo israeliano affermò che una delle sue posizioni imprescindibili nei colloqui era che “Israele non permetterà mai ai rifugiati palestinesi il diritto di tornare nello Stato di Israele”.

I negoziatori discussero dei risarcimenti ai rifugiati palestinesi, ma di nuovo non fu possibile raggiungere alcun accordo. I negoziatori palestinesi discutevano la restituzione e il risarcimento in base a valutazioni legate alle proprietà [perse dai profughi e che si trovavano nel territorio diventato israeliano, ndtr.], mentre gli israeliani discutevano del risarcimento solo nei termini di una somma fissa.

I summit di Camp David e Taba si svolsero in tempi molto vicini alle elezioni statunitensi e israeliane, ciò che condannò i colloqui a non raggiungere mai una conclusione positiva.

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Nel 2004, Tzipi Livni, all’epoca ministro israeliano per l’Integrazione degli Immigrati e politicamente di centro, aveva convinto il presidente degli Stati Uniti George W. Bush a far proprio il totale rifiuto di Israele del diritto al ritorno – una posizione intransigente, che in seguito il Segretario di Stato americano Condoleeza Rice disse come l’avesse colpita in quanto ” strenua difesa della purezza etnica dello Stato israeliano”.

Israeliani e palestinesi hanno continuato a dissentire sulla questione dei rifugiati nei successivi importanti colloqui di pace avviati dal 2013 al 2014 dal Segretario di Stato americano John Kerry.

Netanyahu ha respinto il diritto al ritorno dei palestinesi e ha posto come requisito per la pace il riconoscimento di Israele come Stato ebraico, ma il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha rifiutato, sostenendo che questo avrebbe compromesso le rivendicazioni dei profughi palestinesi di tornare alle loro case.

L’ UNRWA nel mirino

Adesso, il cosiddetto “accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, insieme alla sua decisione di porre fine ai finanziamenti statunitensi per l’UNRWA, l’UN Relief and Works Agency (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro) che sostiene i milioni di profughi palestinesi, sembra essere un tentativo di rimuovere completamente il problema dal tavolo dei negoziati.

Creato dalle Nazioni Unite nel dicembre 1949 come organizzazione temporanea, da allora l’UNRWA ha fornito istruzione, assistenza sanitaria, infrastrutture e servizi di soccorso di emergenza ai palestinesi sfollati, oltre a dare lavoro a migliaia di persone nei territori occupati.

Operando in Giordania, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza, l’UNRWA vede il suo mandato rinnovato ogni tre anni ed è finanziato quasi interamente da contributi volontari degli Stati membri delle Nazioni Unite, tra cui gli Stati Uniti, che sono stati per decenni il maggior donatore.

Lo scorso agosto si è saputo che Trump intendeva cambiare la politica degli Stati Uniti nei confronti dei rifugiati palestinesi in modo che i discendenti degli sfollati del 1948 e della guerra arabo-israeliana del 1967 non venissero calcolati.

Ciò ridurrebbe il numero a circa 500.000, ossia a circa un decimo del numero attualmente riconosciuto e supportato dall’UNRWA.

Ciò ha anche portato Washington ad allinearsi ad Israele, che sostiene che ereditare lo status di rifugiato, dalla prima generazione di palestinesi sfollati ai loro discendenti, vale solo per i palestinesi e di per sé “perpetua il conflitto”.

Accogliendo con favore la fine dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato che gli Stati Uniti “hanno fatto qualcosa di molto importante bloccando i finanziamenti per l’agenzia di perpetuazione dei rifugiati nota come UNRWA”.

“Sta finalmente iniziando a risolvere il problema. I fondi devono essere presi e utilizzati per aiutare veramente a reinserire i rifugiati, il cui numero reale è una frazione del numero indicato dall’UNRWA “, ha detto. “Questo è un cambiamento molto positivo e importante, e lo sosteniamo.”

Netanyahu ha anche sottolineato le differenze tra le definizioni di rifugiato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e dell’UNRWA, e ha chiesto all’UNHCR di assumere gradualmente il mandato dell’UNRWA.

La definizione dell’UNHCR esclude dallo status di rifugiato chiunque abbia successivamente acquisito la cittadinanza di un altro Paese, mentre l’UNRWA conta come rifugiati anche quanti abbiano un’altra cittadinanza e i discendenti della prima generazione sfollata dalla propria terra.

L’UNRWA ha ripetutamente smentito le accuse di trattamento speciale per i rifugiati palestinesi e ha addossato direttamente la responsabilità della continua crisi dei rifugiati all’inconcludente processo di pace.

Perché Trump perseguita i rifugiati?

Nel frattempo, l’interruzione dei finanziamenti statunitensi all’UNRWA ha proiettato ulteriore incertezza e scompiglio nel futuro di milioni di palestinesi in tutta la regione.

Trump ha sostenuto che gli Stati Uniti hanno elargito grandi contributi finanziari ai palestinesi senza ottenerne abbastanza “apprezzamento o rispetto” – sottintendendo che i tagli agli aiuti siano un mezzo per esercitare pressioni sui leader palestinesi nei negoziati del piano di pace detto “accordo del secolo”.

Nonostante le risoluzioni e le convenzioni internazionali che hanno posto la questione dei rifugiati, per lo più i passati colloqui di pace non hanno affrontato in modo concreto il destino dei palestinesi in esilio.

Alcuni vedono quindi lo smantellamento dell’UNRWA da parte di Trump e le sue pressioni per rimuovere la maggioranza dei palestinesi dalla lista dei rifugiati come parte di un piano per portare a termine un accordo in cui uno dei principali punti controversi nella precedente serie di colloqui sia semplicemente rimosso dalla discussione.

Tuttavia, alcuni osservatori hanno sottolineato che la lunga storia statunitense di finanziamento dei palestinesi è perfettamente in linea con il suo sostegno a Israele.

Sostengono che l’esternalizzazione degli aiuti umanitari, ad organizzazioni internazionali e a potenze mondiali, ha permesso a Israele di sganciarsi dalla sua stessa responsabilità come potere occupante di provvedere alle popolazioni civili sotto il suo controllo, come definito dal diritto internazionale.

Queste preoccupazioni sembrano essere condivise da alcuni dirigenti israeliani. A settembre, è stato riferito che i responsabili della sicurezza israeliana hanno sollecitato il loro governo a trovare una fonte alternativa per gli aiuti a Gaza nel timore che la fine dei finanziamenti dell’UNRWA potesse portare a un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria nell’enclave e ad un’eventuale guerra.

Il precipitoso calo degli aiuti, quindi, potrebbe ritorcerglisi contro – poiché i profughi palestinesi, la maggior parte dei quali continua a resistere con fermezza nella speranza di tornare in patria, potrebbero avere ora ancora meno da perdere.

(traduzione di Luciana Galliano)




Un ospedale di Gerusalemme in cui i bambini palestinesi muoiono da soli

Oliver Holmes a Gerusalemme e Hazem Balousha a Gaza

Giovedì 20 giugno 2019 – The Guardian

Il blocco israeliano di Gaza implica che i genitori siano separati dai figli con gravi malattie

A prima vista niente sembra fuori posto nell’unità pediatrica di terapia intensiva. Nove letti ospitano nove piccoli bambini appena nati, tutti con tubi collegati ai corpicini. Monitor emettono suoni di continui segnali elettronici. Infermieri passano da un letto all’altro. Un pediatra dall’aspetto stanco compila scartoffie.

Eppure manca qualcosa: non ci sono genitori.

Alcuni sono stati mandati a casa a riposare, o potrebbero stare a bere ansiosamente caffè nel bar al piano inferiore. Ma in questo ospedale palestinese di Gerusalemme le madri di due bambini sono rimaste intrappolate a un’ora e mezza di distanza al di là del blocco imposto da Israele contro Gaza. Entrambi i bambini sono in seguito morti senza aver rivisto la propria madre.

Bambini palestinesi gravemente malati portati da Gaza, impoverita e sconvolta dalla guerra, all’ospedale Makassed, meglio equipaggiato, soffrono e muoiono da soli.

In qualche caso Israele consente l’uscita temporanea da Gaza per ragioni di salute, ma non a tutti. Al contempo impedisce o ritarda in modo grave l’uscita di molti genitori, e altri non fanno neppure richiesta, temendo che gli approfonditi controlli di sicurezza per gli adulti blocchino l’uscita dei loro figli e facciano perdere tempo prezioso.

Secondo l’ospedale, dall’inizio dello scorso anno 56 bambini di Gaza, sei dei quali sono morti in loro assenza, sono stati separati dai loro padri e madri. In un caso a una madre di 24 anni di Gaza è stato permesso di viaggiare due mesi prima fino a Gerusalemme per dare alla luce tre gemelli gravemente malati. Due pesavano meno di un sacchetto di zucchero.

Ma il permesso di Hiba Swailam è scaduto e lei ha dovuto tornare a Gaza. Non era lì quando il suo primo figlio è morto, a nove giorni [dalla nascita], o due settimane dopo, quando è deceduto anche il suo secondo bambino. È stata informata per telefono. La figlia sopravvissuta, Shahad, ha passato i primi mesi della sua vita accudita da infermieri, e Hiba ha potuto vederla solo con videochiamate. Benché la bambina fosse pronta per essere dimessa da febbraio, nessun membro della famiglia è stato in grado di andarla a prendere.

Dopo essere state contattate per fare un commento, le autorità israeliane hanno concesso a Swailam di uscire da Gaza. Le è stato consentito di andare a Gerusalemme lo stesso giorno in cui Israele ha risposto alla richiesta del Guardian di fare un commento, il 29 maggio.

Medici per i diritti umani-Israele”, una Ong di medici israeliani, ha affermato che lo scorso anno più di 7.000 permessi sono stati rilasciati a minori di Gaza. Sono stati concessi meno di 2.000 permessi per genitori, il che lascia pensare che molti bambini abbiano viaggiato senza i propri genitori. Mor Efrat, il direttore del gruppo per i territori palestinesi occupati, ha affermato che “il governo israeliano dovrebbe essere chiamato a rispondere delle sofferenze umane.”

Separare bambini malati dai genitori può avere conseguenze devastanti. I medici credono che uno dei tre gemelli che è morto quando la madre era a Gaza si trovava in una condizione per cui una delle migliori misure di prevenzione sarebbe stato l’allattamento al seno. “Non potrei dire che se la madre fosse stata qui se la sarebbero cavata, ma ciò potrebbe aver ridotto le loro possibilità,” ha affermato Hatem Khammash, il capo dell’unità neonatale.

Ibtisam Risiq, la caposala del reparto dell’unità pediatrica di terapia intensiva, ha osservato un effetto psicologico nei neonati che sono affidati solo alle sue cure: “Hanno bisogno di amore. Il loro battito cardiaco aumenta. Sono depressi,” afferma.

Seduta alla sua scrivania, con pile di carta ovunque, controlla come le sue infermiere si affrettano per tenere in vita i bambini. Le rimprovera di aver lasciato le confezioni di prodotti medici sul pavimento. Un grande schermo di computer dietro di lei mostra il battito cardiaco dei pazienti. Mentre parla, uno sale a 200 battiti al minuto. “Dovrebbe essere a 130”, dice, e rapidamente manda un’infermiera.

Entrano ed escono medici. Risiq prende il telefono per discutere con un direttore amministrativo che l’ha chiamata perché un altro bambino ha bisogno di cure urgenti. Chiede invano se qualcuno dei pazienti di Risiq è sufficientemente stabile da essere spostato in un’unità a basso rischio. “Siamo al 100% della capienza,” dice Risiq. “Ciò succede tutti i giorni. Devo affrontare questa situazione tutti i giorni.”

Sempre alle prese con problemi finanziari, il Makassed è in una situazione critica da quando l’anno scorso Donald Trump ha tagliato milioni di fondi per l’assistenza medica a questo come ad altri ospedali che si occupano di palestinesi a Gerusalemme est. Anche la feroce rivalità tra le fazioni politiche palestinesi in Cisgiordania e a Gaza ha aggravato la crisi sanitaria. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), con sede in Cisgiordania, l’unico gruppo con cui Israele collabora, è stata accusata di aver tagliato l’aiuto medico a Gaza per obbligare Hamas a cedere il controllo della Striscia – un’accusa che l’ANP smentisce.

Saleh al-Ziq, il capo dell’ufficio dell’ANP per Gaza che trasmette le richieste di permessi d’uscita per Israele, afferma che esso ha informato che i bambini malati siano accompagnati solo da persone con più di 45 anni, i cui permessi vengono di solito esaminati più rapidamente dalle autorità israeliane in quanto considerati meno rischiosi.

Il risultato è che, invece dei genitori, che di solito sono più giovani, il Makassed è pieno di nonni. L’ospedale deve farsi carico di vitto e alloggio, e ha sistemato roulotte per farceli dormire. Ma in qualche caso anche loro devono tornare a Gaza e i bambini vengono lasciati totalmente soli.

Nel reparto di terapia intensiva pediatrica Risiq prende un grande libro verde pieno delle sue annotazioni compilate a mano di ammissioni, molte delle quali di bambini prematuri.

Una neonata, Reema Abu Eita, è arrivata con la nonna da Gaza per un’operazione urgente al midollo spinale. Questa è stata rimandata perché aveva un’infezione, dice Risiq, guardando la bambina, con gli occhi chiusi e il petto ansimante. Il padre di Abu Eita, un guidatore di ambulanze, ha cercato di ottenere un permesso per visitare la figlia, ma la bambina è morta prima di tornare a Gaza. Un altro neonato di Gaza, Khalil Shurrab, è arrivato con il fegato ingrossato. Giallo per l’itterizia, soffriva di convulsioni.

Secondo suo padre, che parlava da Gaza, lo avrebbe accompagnato la nonna. “L’equipe ospedaliera le ha insegnato come mandare a me e a mia moglie foto del bambino con WhatsApp,” dice Jihad Shurrab, 29 anni.

Sua moglie, Amal, afferma di aver smesso di dormire dopo che suo figlio è partito: “Speravo di poter andare con lui a Gerusalemme. Ho implorato chiunque, ma mi hanno detto che sono giovane e che gli israeliani non avrebbero accettato.”

Con sollievo della famiglia, il Makassed alla fine ha dimesso Khalil dopo un mese, e il bambino ha potuto ritornare a Gaza. Ma quando lo ha fatto, hanno scoperto che lì i farmaci erano introvabili. “Il gonfiore stava aumentando,” dice suo padre. Ha deciso di cercare di andarsene da Gaza verso il sud passando dall’Egitto, che ha imposto anch’esso un blocco ma in alcuni casi consente di viaggiare. “Il giorno in cui avremmo dovuto partire è morto.”

Israele afferma che il blocco terrestre, aereo e marittimo contro Gaza intende impedire ad Hamas e ad altri gruppi di miliziani di lanciare attacchi. L’Onu lo definisce una “punizione collettiva” per 2 milioni di persone che vi sono intrappolate. Gli abitanti lo chiamano assedio.

Il COGAT, l’ente del ministero della Difesa [israeliano] responsabile del coordinamento delle attività governative israeliane nei territori palestinesi, afferma in una risposta scritta di non imporre limiti d’età per i permessi e che ogni richiesta viene esaminata in modo individuale.

Riguardo al caso dei tre gemelli, sostiene che “un errore umano nei moduli per la domanda”, intendendo una richiesta presentata dalla madre in aprile, ha fatto sì che fosse respinto.

Imputa la crisi sanitaria a Gaza ad Hamas e all’ANP, che afferma “riduce drasticamente il bilancio degli aiuti medici per gli abitanti della Striscia di Gaza.” Afferma che Hamas ha utilizzato pazienti come corrieri per far entrare clandestinamente in Israele esplosivi e “finanziamenti per i terroristi”.

Il COGAT è “attivo nel rilascio di decine di migliaia di permessi a pazienti, così come a medici palestinesi, che ricevono formazione negli ospedali in Israele,” aggiunge.

Mentre è più difficile per la gente di Gaza, uscire, il Makassed presta servizio anche per la Cisgiordania, e anche lì i genitori palestinesi trovano difficoltà, e a volte l’impossibilità, di andare all’ospedale.

Israele sostiene di avere la sovranità su tutta Gerusalemme ed ha persino isolato dal resto dei territori palestinesi i suoi quartieri a maggioranza araba. Alcuni pazienti, molti bambini più grandi malati di cancro, hanno famiglie che vivono a pochi minuti di distanza ma non possono andarli a trovare.

La separazione di bambini dalle loro famiglie è talmente comune che gli ospedali palestinesi a Gerusalemme forniscono loro tablet per fare chiamate con Skype.

Un’organizzazione per la salute con sede in Gran Bretagna, “Medical Aid for Palestinians” [Aiuto Medico per la Palestina], ha organizzato visite guidate per parlamentari britannici all’ospedale Makassed per mostrare loro i risultati del fatto di separare i bambini dalle proprie famiglie. Una parlamentare laburista che l’ha visitato ha affermato di aver sollecitato il governo britannico ad intervenire. Rosena Allin-Khan, che lavorava come medico al pronto soccorso, ha affermato: “Nessun bambino, in nessuna parte del mondo, dovrebbe stare da solo in un momento di grande necessità. Il governo britannico dovrebbe fare pressione sulle autorità israeliane perché rivedano questo sistema inumano.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 4 – 17 giugno 2019 ( due settimane)

Venerdì 14 giugno, nel corso di una protesta della “Grande Marcia di Ritorno” (GMR), sono stati feriti 238 palestinesi; 70 di essi sono stati ricoverati in ospedale.

Secondo i rapporti israeliani, sia durante manifestazione relative alla “GMR”, sia in altri giorni compresi nel periodo di riferimento [4-17 giugno], in diverse località nel sud di Israele sono scoppiati incendi innescati da palloncini incendiari lanciati da palestinesi.

Tra il 13 ed il 14 giugno si sono registrati lanci di razzi da parte di fazioni armate palestinesi e attacchi aerei da parte dell’aviazione israeliana. Secondo i media, un razzo ha colpito un edificio nella città di Sderot, nel sud di Israele. Non sono stati segnalati feriti.

Nella Striscia di Gaza, in aree adiacenti alla recinzione perimetrale e al largo della costa, allo scopo di far rispettare le restrizioni di accesso, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 16 occasioni, ferendo sei palestinesi. Nella zona di Rafah, le forze israeliane hanno anche effettuato un’incursione [all’interno della Striscia] e un’operazione di spianatura del terreno vicino alla recinzione perimetrale; non sono stati segnalati feriti.

In Cisgiordania, in scontri con le forze israeliane, quindici palestinesi hanno subìto lesioni da inalazione di gas lacrimogeno, proiettili di gomma e armi da fuoco. Dieci [dei 15] sono rimasti feriti durante scontri scoppiati in tre operazioni di ricerca-arresto, effettuate nel Campo profughi di Al Jalazoun (Ramallah), nella città di Ramallah e nel villaggio di Bani Na’im (Hebron). Complessivamente, nei villaggi e nelle città della Cisgiordania, le forze israeliane hanno effettuato 119 operazioni di ricerca-arresto, di cui 29 a Hebron e 24 a Gerusalemme. Altri tre feriti [dei 15] si sono avuti venerdì 14 giugno, durante la manifestazione settimanale tenuta nel villaggio di Kafr Qaddum (Qaqiliya), contro l’espansione degli insediamenti e la violenza dei coloni.

Durante il periodo di riferimento, 43 strutture di proprietà palestinese sono state demolite o confiscate a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele; sono state sfollate 54 persone e coinvolte molte altre. Del totale delle strutture colpite, 32 sono state registrate in 11 Comunità dell’Area C; tra queste è compresa la Comunità di pastori di Khirbet ar Ras al Ahmar (Tubas), dove, il 12 giugno, sono state demolite 11 strutture. Questa Comunità è penalizzata perché collocata all’interno dei confini di un’area designata da Israele “zona militare chiusa”. In un’altra “zona militare chiusa” nel sud di Hebron, le forze israeliane hanno demolito quattro abitazioni nelle Comunità di Halaweh e Khallet Athab’a. Inoltre, nel villaggio di Tammun (Tubas) sono state demolite due cisterne per l’acqua, in quanto erano ubicate all’interno di una “riserva naturale”: risulta così colpito l’accesso all’acqua per i circa 13.600 abitanti del villaggio. Nello stesso villaggio e per motivi simili [ubicazione entro “riserva naturale”], le forze israeliane hanno abbattuto 390 alberi. Una delle cisterne era di uso pubblico ed era stata fornita, insieme a 150 alberi, dall’Autorità palestinese. Le restanti 11 strutture [delle 43] sono state demolite a Gerusalemme Est, di cui 2 in Kafr ‘Aqab e 4 in Bir Onah; si tratta di due Comunità situate all’interno di aree municipali di Gerusalemme, sul lato cisgiordano della Barriera.

Sono stati registrati dodici episodi, perpetrati da coloni israeliani, che hanno provocato danni a centinaia di ulivi e ad altre proprietà palestinesi. In uno di questi episodi, avvenuto il 5 giugno, coloni, probabilmente provenienti dall’avamposto di Adei Ad, hanno appiccato il fuoco a circa 30 ettari di terra appartenenti ai contadini del villaggio di Jalud (Nablus), danneggiando 900 ulivi. La Comunità locale ha riferito che, nello stesso giorno, coloni hanno bruciato altri 233 ulivi e alberelli, oltre ad alcuni ettari coltivati a grano ed appartenenti al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah). In tre separati episodi [dei 12], nel villaggio di Ein Samiya (Ramallah), coloni hanno anche bruciato circa 0,4 ettari di coltivazioni di grano e orzo ed hanno spianato 1,5 ettari di terra appartenente ai villaggi di Yanun e Madama (entrambi a Nablus). Dall’inizio dell’anno, sono state danneggiate da coloni circa 4.000 piante di proprietà palestinese. I rimanenti episodi [dei 12] includono la vandalizzazione di sei veicoli, una scritta minatoria sui muri di una moschea nel villaggio di Kafr Malik (Ramallah) e la distruzione di una serra appartenente a un contadino di Wadi Fukin (Betlemme). Nell’area a controllo israeliano (H2) della città di Hebron, secondo testimoni oculari, coloni hanno danneggiato il muro di una casa di nuova costruzione e avviato attività di ristrutturazione in un negozio abbandonato di proprietà palestinese.

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, in quattro occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah, causando danni a quattro veicoli.

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Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 18 giugno, le autorità israeliane hanno esteso a dieci miglia nautiche la zona di pesca consentita lungo la costa di Gaza. Il blocco navale totale era stato imposto il 13 giugno, secondo quanto riferito, in risposta al lancio di palloncini incendiari dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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L’inviato USA dice che Israele ha ‘il diritto’ di annettersi parte del territorio della Cisgiordania: intervista al NYT

MEE e Agenzie

8 giugno 2019 – Middle East Eye

L’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato le affermazioni di David Friedman in quanto ‘non hanno nulla a che vedere con la logica, la giustizia o la legge’

L’ambasciatore USA in Israele ha detto al New York Times che Israele ha il diritto di annettersi almeno “parte” della Cisgiordania occupata, facendo considerazioni che probabilmente accentueranno l’opposizione palestinese a un piano USA atteso da lungo tempo.

I dirigenti palestinesi hanno rigettato il piano prima ancora che sia totalmente reso noto, facendo riferimento a una serie di iniziative da parte dell’amministrazione del presidente USA Donald Trump che secondo loro mostra la sua irrimediabile parzialità a favore di Israele.

Nell’intervista pubblicata sabato dal New York Times l’ambasciatore USA in Israele David Friedman ha affermato che un certo livello di annessione della Cisgiordania sarebbe legittimo.

A determinate condizioni penso che Israele abbia il diritto di tenersi parte della Cisgiordania, ma difficilmente tutta,” ha detto.

Non è chiaro a quali territori della Cisgiordania si riferisca Friedman e se la presa di possesso da parte di Israele rientrerebbe in un accordo di pace che includa scambi di terre – un’idea ventilata in precedenti negoziati – piuttosto che un’iniziativa unilaterale come l’annessione, ha detto la Reuter [agenzia di notizie inglese, ndtr.].

Il segretario generale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) Saeb Erekat ha condannato sulle reti sociali le affermazioni di Friedman.

Nel contempo un portavoce dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ha affermato che Friedman è una delle molte figure di rilievo della politica USA che sul problema israelo-palestinese sono “estremiste” e mancano di “maturità politica”.

Il ministero degli Esteri dell’ANP ha affermato che sta pensando di presentare sulla questione una denuncia alla Corte Penale Internazionale (CPI).

In base a quale logica Friedman pensa che Israele abbia il diritto di annettersi parte della Cisgiordania?” ha chiesto domenica il ministero in un comunicato stampa. “Su quale realtà basa la sua convinzione? Sulla legge internazionale che vieta l’annessione di territori con la forza? O sulla realtà imposta dalle autorità dell’occupazione?”

Il ministero ha proseguito chiamando Friedman una “persona ignorante in politica, in storia e in geografia e che appartiene allo Stato delle colonie…(Egli) non ha niente a che vedere con la logica, la giustizia o la legge finché è al servizio dello Stato dell’occupazione, che egli è desideroso di difendere con ogni mezzo.”

Sabato il centro israeliano di monitoraggio delle colonie Peace Now ha chiesto a Trump di rimuovere Friedman dal suo incarico se vuole che i suoi tentativi di pace abbiano una qualche credibilità.

L’ambasciatore Friedman è un cavallo di Troia inviato dalla destra dei coloni, che sabota gli interessi di Israele e le possibilità di pace. Il prezzo sarà pagato dagli abitanti dell’area, non da Friedman o Trump. Se intende fungere da mediatore corretto, stasera il presidente USA dovrebbe mandare Friedman a fare i bagagli,” avrebbe detto Peace Now citato da Haaretz.

La fondazione di uno Stato palestinese nei territori, compresa la Cisgiordania, che Israele ha occupato nella guerra dei Sei Giorni del 1967, è stata al centro di ogni piano di pace in Medio Oriente del passato. Tuttavia i palestinesi hanno sempre più spesso affermato che la soluzione dei due Stati, come è nota, è da tempo diventata impraticabile a causa dei tentativi israeliani di consolidare il controllo sulle terre palestinesi e incrementare la costruzione di colonie illegali.

Alcuni sostengono che lo status quo rende una soluzione per uno Stato unico con uguali diritti per cittadini sia israeliani che palestinesi l’unica opzione equa per garantire l’autodeterminazione e i diritti umani per tutti. Non è stata fissata nessuna data certa per la presentazione del piano dell’amministrazione Trump, comunemente noto come l’accordo del secolo, anche se alla fine di questo mese si terrà in Bahrein una conferenza sui suoi aspetti economici.

Le affermazioni pubbliche rese da funzionari dell’amministrazione USA suggeriscono finora che il piano si baserà in modo consistente sull’appoggio finanziario all’economia palestinese, per la maggior parte con fondi degli Stati arabi del Golfo, in cambio di concessioni sul territorio e sulla fondazione di uno Stato.

Assolutamente l’ultima cosa di cui il mondo ha bisogno è uno Stato fallito palestinese tra Israele e la Giordania,” ha affermato Friedman nell’intervista al Times. “Forse non lo accetteranno, forse non risponde alle loro condizioni minime. Ci basiamo sul fatto che il giusto piano, nel momento giusto, col tempo riscuoterà la giusta reazione.”

Friedman, un fiero sostenitore delle colonie illegali israeliane, ha detto al Times che il piano di Trump mira a migliorare la qualità della vita dei palestinesi ma non è in grado di ottenere “una soluzione permanente del conflitto.”

Comunque ha detto che gli Stati Uniti intendono avere uno stretto coordinamento con la Giordania, alleato arabo, che potrebbe affrontare rivolte tra la vasta popolazione palestinese riguardo a un piano percepito come apertamente favorevole a Israele. I palestinesi rifiutano in modo massiccio un piano centrato sull’economia per risolvere un conflitto durato 71 anni che ha portato all’espulsione forzata e all’esilio di milioni di rifugiati e all’imposizione di un’occupazione militare brutale e discriminatoria su quelli che sono rimasti.

La pubblicazione dell’accordo del secolo si prevede sarà ulteriormente rimandata dopo che il parlamento israeliano ha convocato elezioni anticipate per settembre, le seconde di quest’anno.

Il piano potrebbe essere considerato troppo delicato da essere reso noto nel corso della campagna elettorale.

In aprile, durante la campagna per le prime elezioni generali [di quest’anno], il primo ministro Benjamin Netanyahu si è impegnato ad annettere colonie a Israele, un’iniziativa a lungo sostenuta da molti parlamentari della sua alleanza di destra e di partiti religiosi.

In seguito alla continua espansione delle colonie da parte dei successivi governi di Netanyahu, più di 600.000 coloni ebrei vivono ora in Cisgiordania e nella Gerusalemme est occupata, in violazione delle leggi internazionali.

Un funzionario USA, parlando in forma anonima, ha detto alla Reuter: “Nessun piano per l’annessione unilaterale da parte di Israele di qualunque parte della Cisgiordania è stato presentato da Israele agli USA, né è in discussione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Il rapper Talib Kweli respinge la richiesta della Germania di denunciare il boicottaggio di Israele

Tamara Nassar

7 giugno 2019 – Electronic Intifada

Il rapper americano Talib Kweli [noto cantante hip hop statunitense di origine ghanese, ndtr.] ha rifiutato di cedere alle richieste da parte di un festival tedesco di condannare il movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) per i diritti dei palestinesi.

Di conseguenza è stato tolto dal programma del festival che si tiene a luglio. Kweli afferma di rifiutare di “autocensurarsi e mentire sul BDS in cambio di un assegno.”

Recentemente la camera bassa del Parlamento tedesco, il Bundestag, ha approvato una risoluzione che equipara il BDS all’antisemitismo.

Le calunnie nei confronti di un movimento nonviolento che respinge ogni forma di razzismo hanno provocato proteste da parte dei palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza occupate e accuse da parte dell’intera società palestinese.

Impostato sul modello della campagna mondiale di solidarietà che ha favorito la fine dell’apartheid in Sudafrica, il movimento BDS si oppone ad ogni forma di intolleranza, compresi l’antisemitismo e l’islamofobia.

Richiesta

Questa settimana Kweli ha rivelato di aver ricevuto una email da Philipp Maiburg, direttore artistico dell’‘Open Source Festival’ della città occidentale di Dusseldorf, in cui si metteva in rilievo la decisione del Bundestag e si chiedeva quale fosse la posizione dell’artista riguardo al BDS.

Come lei sa, in Germania vi sono molte discussioni riguardo al BDS e agli artisti che vi hanno aderito. Vi è stata anche molta confusione persino per festival molto più importanti del nostro”, ha scritto Maiburg.

Adesso la nuova situazione è che dal 17 maggio 2019 esiste una posizione ufficiale del governo tedesco sottoscritta da tutti i partiti che in sostanza dichiara ufficialmente che le affermazioni ed i metodi del BDS sono antisemiti.”

Benché la risoluzione del Bundestag non sia vincolante, Maiburg ha affermato che “tutte le amministrazioni delle regioni o delle città, come anche i rappresentanti delle istituzioni pubbliche, sono sollecitati a non concedere al BDS alcuno spazio o tribuna.”

Poiché noi stiamo lavorando anche con finanziamenti pubblici, non abbiamo altra scelta che chiederle una dichiarazione ufficiale riguardo alla sua posizione verso il BDS”, ha aggiunto.

Clima da maccartismo

Anche se non possono essere accusati della violazione di alcuna legge, gli organizzatori del festival probabilmente temono le pressioni e la denigrazione che potrebbero subire per il fatto di ospitare Kweli nell’atmosfera maccartista antipalestinese assecondata dai media e dalle elite della Germania e ulteriormente alimentata dal voto del Bundestag.

La risoluzione del Bundestag invita a rifiutare finanziamenti pubblici alle organizzazioni che sostengono il movimento per il boicottaggio o mettono in discussione il preteso “diritto all’esistenza” di Israele.

Diverse amministrazioni pubbliche tedesche sono sponsor del festival.

Questo è fascismo”

Kweli ha detto che gli è stato chiesto di “condannare il BDS oppure di non esibirsi” ed ha postato sulla sua pagina Facebook una risposta pubblica alla lettera di Maiburg.

Mentendo e sostenendo che il BDS è un movimento antisemita, il governo tedesco si sta dimostrando fascista e non rende un buon servizio al popolo tedesco”, ha scritto Kweli.

Il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni sono soluzioni pacifiste alla crisi che distrugge le case e le vite dei palestinesi. È l’opposto del terrorismo.”

Ha funzionato nel fare del Sudafrica una Nazione più giusta ed equa e potrebbe funzionare in Israele se i suoi oppositori non fossero così ostili ai neri e ai musulmani.”

Kweli si rifiuta categoricamente di piegarsi alle richieste del festival.

Mi piacerebbe esibirmi in Germania, ma non ne ho bisogno. Preferisco comportarmi come un degno essere umano e sostenere ciò che è giusto piuttosto che autocensurarmi e mentire riguardo al BDS in cambio di un assegno.”

Ha anche utilizzato Twitter per affermare la sua posizione dopo che i sostenitori di Israele hanno iniziato ad attaccarlo.

Il governo tedesco sta chiedendo agli artisti che si esibiscono all’ ‘Open Source Festival’, un evento finanziato dallo Stato, di condannare il BDS come antisemita. Il BDS non è antisemita. Questo è fascismo. Io non accetterò censure”, ha twittato Kweli.

Sostenere la Palestina

Questa non è la prima volta che il rapper ha fatto dichiarazioni di principio a favore dei diritti dei palestinesi.

Nel 2014 Kweli ha cancellato i progetti per esibirsi in Israele in seguito agli appelli degli attivisti per i diritti dei palestinesi.

Ha anche espresso il suo appoggio ai diritti palestinesi attraverso la sua musica.

L’anno scorso il gruppo musicale scozzese ‘Young Fathers’si è visto annullare lo spettacolo da un altro festival tedesco perché aveva rifiutato di ritirare il sostegno ai diritti dei palestinesi.

Il gruppo ha definito “una decisione sbagliata e molto scorretta” la richiesta agli artisti di “ripudiare i nostri principi sui diritti umani perché l’esibizione potesse avere luogo.”

Di conseguenza i palestinesi hanno invitato al boicottaggio del festival triennale della Ruhr.

Diversi artisti hanno accettato l’invito e annullato le proprie esibizioni.

Di fronte alla grande manifestazione di solidarietà per i ‘Young Fathers’ il festival ha cambiato idea e ha nuovamente invitato la band.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




“Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”

Hind Khoudary

6 giugno 2019 – +972

Date le crescenti restrizioni sociali e politiche sotto il controllo di Hamas, i musicisti incontrano notevoli difficoltà se vogliono sviluppare la propria carriera musicale nella Striscia. Molti intendono andarsene per cercare opportunità altrove.

GAZA CITY – Abed Nasser, il proprietario del ristorante Ceda a Gaza City ha dato la notizia ai suoi clienti in un post su Facebook: lo spettacolo musicale tanto atteso in programma più tardi per la serata di Ramadan era stato annullato per le persecuzioni e l’intromissione dell’amministrazione di Hamas.

Secondo Nasser, la polizia aveva cercato di impedire l’accesso a un pubblico misto. Gli avevano ordinato di non permettere agli uomini di partecipare, a meno che non facessero parte di una famiglia che partecipava all’evento. A Nasser è stato chiesto di presentarsi alla sezione dell’intelligence della polizia di Gaza, ma lui ha rifiutato.

La musica sta diventando sempre di più un modo per i giovani di Gaza per sfogare stress e traumi – I palestinesi a Gaza hanno dovuto sopportare, per decenni, violenze e violazioni di diritti umani, in particolare da quando Israele ha imposto il blocco sulla Striscia nel 2007. Ma, con le crescenti restrizioni, sociali, politiche e religiose sotto il governo di Hamas, le opportunità per i musicisti sono ridotte, dato che il governo impedisce a gruppi e attività commerciali di offrire un palco per farlo.

Gli artisti che vogliono esibirsi o i locali che intendono ospitare eventi culturali devono prima procurarsi un permesso. Questo implica rivolgersi ad almeno quattro differenti autorità: il ministero del Turismo, il ministero della Pubblica Sicurezza, l’Unità Generale di Investigazioni che, fra le altre cose, agisce come una polizia della morale pubblica, e la stazione di polizia di Abbas. I permessi sono rilasciati in base a considerazioni di sicurezza e di carattere sociale. Parecchi titolari di esercizi che sono stati oggetto di tali restrizioni sono stati contattati per questo articolo, ma si sono rifiutati di rilasciare interviste per paura di intimidazioni governative.

Hamada Naserallah, un cantante professionista, laureato in legge, ha detto che Hamas gli ha impedito di esibirsi a Gaza almeno cinquanta volte. “Cantare non è un diritto nella Striscia di Gaza”, ha detto Naserallah, che canta con il gruppo Sol Band, una band musicale palestinese che ha preso il nome della quinta nota della scala musicale. Il gruppo di otto componenti suona sia musica moderna che araba tradizionale. “Reprimere, umiliare, vietare feste, controllare la libertà – non posso cantare liberamente come tutti gli altri cantanti su questo pianeta”, ha aggiunto Naserallah.

Ci ha detto che, dopo il concerto del 2016 nella sala della Mezzaluna rossa, la polizia ha proibito al gruppo Sol Band di esibirsi per due anni, perché le donne e le ragazze del pubblico applaudivano e cantavano con Naserallah. Ora un ufficiale di polizia è presente a tutti i suoi concerti, sorveglia la lista delle canzoni e le interazioni con il pubblico. “Ricordo che la polizia una volta ha minacciato di buttarmi giù dal palco se avessi cantato ‘canzoni d’amore’, ha commentato.

In aprile Sol Band ha avuto l’opportunità di esibirsi all’Expo musicale palestinese, a Ramallah. Per Naserallah il sogno di lasciare Gaza si è avverato. Andarsene da Gaza è costoso, e richiede un permesso difficile da ottenere e Israele proibisce ai palestinesi quasi tutti i viaggi tra la Cisgiordania e Gaza. Per Naserallah questa è stata anche l’occasione di esibirsi su un palcoscenico senza una supervisione o censura governative, dato che Ramallah è relativamente più liberale di Gaza.

Prima che Hamas prendesse il controllo nel giugno 2007, la comunità palestinese a Gaza era per la maggior parte tradizionalista e conservatrice”, scrisse nel 2010 Mkhaimer Abu Saada, docente di scienze politiche all’università Al Azhar di Gaza. Ma, da quando controlla la Striscia, Hamas ha intensificato gli sforzi per imporre un’interpretazione conservatrice delle regole della Sharia, anche sulla vita sociale della Striscia.

Ayman Al Batniji, un portavoce della polizia di Gaza a cui è stato chiesto un commento, ha detto che le autorità impediscono solo le feste che “incoraggiano le frequentazioni anormali” fra i sessi. La polizia vieta le riunioni che possono danneggiare i valori della comunità, ha aggiunto, sottolineando che Gaza è una società conservatrice. La gente o i locali a cui è stato impedito di fare una festa avevano avuto in precedenza problemi con il governo in relazione alla moralità, ha detto Batniji, ma per il resto le autorità non impediscono alla gente di esibirsi o di tenere eventi culturali.

Secondo uno studio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, che ha preso in esame l’amministrazione di Hamas nella Striscia dal 2011 al 2015, Hamas ha informalmente permesso un approccio più liberale di esistere parallelamente al suo governo conservatore. Per esempio, Hamas incoraggia la separazione dei sessi in scuole e università, ma non l’ha imposta ufficialmente. Basandosi sui dati del medesimo rapporto, Hamas ha comunque mostrato “poca tolleranza nei confronti di una presenza mista ad attività culturali, specialmente se implicano musica, danza e canto”.

Le restrizioni sociali stanno avendo un impatto, al punto che Sol Band ha rinunciato ad esibirsi a Gaza. Hanno invece deciso di crearsi un pubblico sui social media, postando video su Instagram e Facebook. Comunque anche questo sta diventando difficile, dice Naserallah, dato che Hamas non permette ai musicisti a Gaza di filmare video mentre cantano o suonano uno strumento in strada senza prima avere un permesso del Ministero degli Affari Interni, neppure per una storia su Istagram.

Tre dei componenti del gruppo hanno già lasciato Gaza per sempre a causa della mancanza di libertà e di opportunità di sviluppare la propria carriera. A uno dei più giovani, Rahaf Shamaly, 16 anni, è proibito cantare su un palcoscenico, in ristoranti e caffè a Gaza, semplicemente perché è una donna. L’anno scorso la polizia ha impedito a Shamaly di esibirsi al Jazz Journey in Palestine tenuto a Gaza dall’UNESCO.

Vivo in una comunità conservatrice, dove la cultura e le tradizioni controllano la gente. A Gaza non si è abituati a vedere una donna cantare con musicisti maschi” ci ha detto Shamaly. Lei non crede di avere un futuro da cantante a Gaza, date queste restrizioni. Come molti giovani palestinesi, frustrati dai vari livelli di oppressione, con una disoccupazione crescente e limitazioni alla libertà, sta progettando di lasciare la Striscia dopo il diploma di scuola superiore.

Hind Khoudary è un reporter che vive a Gaza.

(traduzione di Mirella Alessio)




Il Futuro della Palestina : il punto di vista dei giovani sulla soluzione dei due stati.

Hugh Lovat

ecfr, 28 maggio 2019

Un quarto di secolo dopo gli accordi di pace di Oslo, alcuni giovani scrittori palestinesi espongono il loro punto di vista sulla soluzione dei due stati.

Mai come oggi la validità del modello dei due stati è stata messa in dubbio. Una delle cause determinanti è senz’altro la comparsa sulla scena di una amministrazione americana che mostra un allineamento senza precedenti con l’ideologia della Grande Israele tipica dell’estrema destra israeliana. Tuttavia, già prima dell’elezione di Donald Trump, il modello dei due stati presentava segni di logoramento. A ciò hanno contribuito non poco lo stallo interminabile del processo di pace in Medio Oriente e l’impegno deliberato dei governi israeliani per ostacolare il processo di crescita dello stato palestinese, mentre consolidavano il loro controllo su Gerusalemme Est e sulla Cisgiordania. Un altro fattore determinante è stata senz’altro l’incapacità dell’Unione Europea di mettere in atto azioni conseguenti alla propria fervente presa di posizione in favore della soluzione dei due stati.

È difficile dire se la prospettiva dei due stati andrà avanti e la situazione attuale non depone certo a favore della sua futura realizzazione. Quello che tuttavia sembra più che certo oggi è che le misure politiche di USA e Israele stanno consolidando una realtà fatta di un solo stato senza uguali diritti per i Palestinesi. Il modo in cui il movimento di liberazione palestinese risponderà a questa sfida sarà cruciale. Se un cambio di strategia da parte dei leader palestinesi più anziani pare improbabile, i giovani attivisti della Cisgiordania, di Gaza, di Israele e della diaspora stanno già sviluppando un approccio diverso.

Questa serie di brevi saggi scritti da giovani intellettuali costituisce una rassegna parziale del dibattito sulla validità attuale del modello dei due stati e su cosa chiedere all’Unione Europea in questo momento critico.

Le opinioni espresse di seguito non rappresentano certo la totalità delle posizioni palestinesi e senz’altro mancano alcune voci, quali quelle degli Islamisti e dei rifugiati nei paesi limitrofi. Tuttavia questi brevi contributi riflettono le posizioni di molti giovani palestinesi sulla situazione attuale e danno un’indicazione sulla direzione in cui si svilupperà il futuro movimento nazionale palestinese. Per questo motivo dovrebbero essere presi in seria considerazione dai responsabili politici.

Yasmeen Al Khodary, scrittrice e ricercatrice. Londra/Gaza

La domanda se si debba o no lasciar cadere la soluzione dei due stati è obsoleta. È difficile pensare che la gente la creda ancora possibile: siamo nel 2019 e non nel 1995 e molte cose sono cambiate in peggio. E poi, come sarebbe una soluzione a due stati?

La gente che quotidianamente subisce le conseguenze di questo progetto –i Palestinesi di Gaza e della Cisgiordania– hanno problemi ben più importanti, quali la sopravvivenza. Le conseguenze devastanti dell’occupazione israeliana hanno gradualmente trasformato i Palestinesi in popolazioni divise, che non godono dei diritti fondamentali e sono senza alcun sostegno, costrette ogni giorno a fronteggiare difficoltà sempre diverse: sono assediati, attaccati militarmente, circondati dagli insediamenti, bloccati da strade con divieto di transito, sottoposti a coprifuoco, arresti e prigione, per nominarne solo alcune. Provate a chiedere a un Palestinese che sta soffocando a Gaza a causa di un blocco che va avanti da 12 anni che cosa pensa della soluzione dei due stati. Molto probabilmente non otterrete risposta. La gente non ne po’ più di discorsi, non ne può più di ripetere sempre la stessa richiesta: ponete fine all’occupazione. Questo è il solo modello che possiamo portare avanti ora.

Yasmeen Al-Khoudary è una scrittrice e ricercatrice indipendente, è specializzata in archeologia e patrimonio e culturale palestinese dell’area di Gaza. Ha co-fondato Diwan Ghazza e scritto per numerose testate fra cui il Guardian, CNN, Al Jazeera English. Account twitter @yelkhoudary

Zaha Hassan, avvocata esperta in diritti umani e visiting fellow presso il Carnegie Endowment for International Peace di Washington.

Venticinque anni di trattato di pace di Oslo hanno confinato i Palestinesi in un buco nero politico e legale. Nella realtà attuale i Palestinesi sono privi del diritto all’autodeterminazione in quello che dovrebbe essere il loro stato sovrano e sono privi di uguali diritti di cittadinanza nello stato di Israele. Benjamin Netanyahu lo chiama lo ‘stato ridotto (state minus)’ palestinese.

Attualmente la scelta fra un unico stato binazionale e due stati è quindi illusoria. Entrambe queste soluzioni sono impraticabili in questo momento e lo saranno anche in futuro, per quanto è dato prevedere. La necessità più urgente è quella di definire con precisione la natura del conflitto attuale e quale dovrebbe essere la risposta a livello internazionale e dell’Europa in particolare.

I Palestinesi subiscono da oltre settant’anni un colonialismo insediativo che li costringe ad abbandonare i loro territori. Ridefinire il conflitto in questi termini non significa che il quadro del diritto internazionale, entro cui sono definiti gli obblighi di Israele quale forza occupante dal 1967, diventi inapplicabile o impraticabile. Il diritto umanitario internazionale non viene disatteso quando si chiede il rispetto delle norme internazionali sui diritti umani. I due quadri normativi si completano a vicenda e forniscono un orientamento per gli stati terzi su come inquadrare e che risposta dare alle azioni di Israele contro i Palestinesi.

Nel passato l’Europa è stata pioniera nel riconoscimento dell’OLP e del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. L’Unione Europea è particolarmente impegnata nel rispetto della legge e dei diritti umani; per questo l’Europa, in accordo con l’ONU, può agire come baluardo nella protezione dei diritti del popolo palestinese e condurre un dibattito che individui una soluzione durevole del conflitto, rispettosa delle richieste individuali e collettive dei Palestinesi.

Ma prima di tutto la UE e i suoi stati membri devono riconoscere la realtà attuale per quella che è, ossia che Israele impone oggi ai Palestinesi un solo stato con un’occupazione e un conflitto perenne che non prevedono uguali diritti.

Zaha Hassan è avvocata specializzata in diritti umani e visiting fellow alla Carnegie Endowment for International Peace. È stata coordinatrice e senior legal advisor del team palestinese di negoziazione durante la richiesta della Palestina di ammissione all’ONU come stato membro, ha fatto parte della delegazione palestinese nei colloqui esplorativi sponsorizzati dal ‘quartetto per la pace’ nel 2011/2012. Account twitter: @zahahassan

Yara Hawari, policy fellow di Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network, Ramallah

Molti stati dell’Unione Europea temono che l’annessione formale della Cisgiordania da parte di Israele sia imminente e metta così l’ultima pietra sulla tomba degli accordi di pace di Oslo e della soluzione dei due stati. Se questa preoccupazione include un interesse nella difesa dei diritti dei Palestinesi, essa però non riconosce che gli accordi di Oslo e il modello dei due stati hanno fornito, nei 26 anni trascorsi, una complice copertura all’imposizione di un regime di apartheid che si estende dalla valle del Giordano al Mediterraneo e istituisce un controllo assoluto di Israele sulla vita dei Palestinesi.

Israele accusa continuamente i Palestinesi di non volere la pace e allo stesso tempo colonizza le loro terre costringendoli in ‘bantustan’ sempre più ristretti. La leadership palestinese, ostaggio del dibattito sul processo di pace di Oslo, ha fallito nel proprio progetto democratico e rivoluzionario e di conseguenza il popolo palestinese, con i suoi diritti e le sue aspirazioni all’autodeterminazione, non è mai stato così vulnerabile come in questo momento.

È necessario che gli stati dell’Unione Europea compiano un atto di umiltà e di onestà e riconoscano che un progetto in cui essi avevano investito tempo, denaro e energie non ha avuto gli esiti sperati né ha ottenuto risultati concreti.

Anziché impegnarsi in negoziati che ormai avvengono in un contesto e all’interno di una cornice politica ormai impraticabili, l’UE dovrebbe impegnarsi a far rispettare i diritti internazionalmente riconosciuti ai Palestinesi, ovunque essi si trovino, e garantire l’applicazione del diritto umanitario internazionale. Usando i propri canali diplomatici e di scambio, l’UE dovrebbe chiedere conto a Israele delle violazioni compiute, creando così un ambito più equo di discussione.

Contestualmente, abbandonato il sostegno caparbio alla politica dei due stati, l’Unione Europea potrà contribuire a creare spazi e opportunità anche per i Palestinesi, perché essi possano elaborare altre soluzioni al di fuori dal contesto della divisione in due stati che li ha paralizzati per tutto questo tempo.

Yara Hawari è Palestine policy fellow per Al-Shabaka: The Palestinian Policy Network. Ha tenuto diversi corsi alla Università di Exeter; come giornalista free-lance collabora con diverse testate fra cui Al Jazeera English, Middle East Eye, e Independent. Account twitter:@yarahawari

Amjad Iraqi, scrittore, +972 Magazine, Haifa

Una regola elementare della politica ci insegna che se un piano non produce gli esiti desiderati, allora va rivisto. Purtroppo i governi europei, quando si tratta del processo di pace in Medio Oriente

prefigurato degli accordi Oslo, ignorano questo principio.

Per anni l’Europa ha creduto che l’occupazione fosse insostenibile e indesiderabile tanto per gli Israeliani quanto per i Palestinesi. Questa idea si è rivelata fatalmente sbagliata. Nella situazione attuale gli Israeliani possono permettersi di abitare in ‘Giudea e Samaria’, godersi le risorse naturali del territorio sentendosi sicuri perché sanno che i loro ‘nemici’ a Gaza sono tenuti a bada dall’occhio vigile dell’esercito. La maggioranza delle forze politiche di Israele non considera più l’occupazione una situazione transitoria, ma una soluzione permanente del ‘problema’ palestinese.

L’incapacità dell’Europa di comprendere questa situazione la colloca dieci passi indietro rispetto alla realtà odierna. Sebbene la Green Line compaia come una linea tratteggiata in Google Maps, nella realtà essa non esiste più e di certo non esiste nella mente della potenza occupante. Anche quando il governo israeliano palesa apertamente i propri obiettivi –incluse le leggi sull’annessione di terre e la legge sullo Stato Nazione– le autorità europee continuano a negare le intenzioni di Israele, si dicono preoccupate, ma non sanzionano questa deliberata cancellazione della soluzione dei due stati.

Perciò questo modello non solo è liquidato, ma risulta addirittura deleterio. L’Europa deve aggiornarsi su una situazione di cui i Palestinesi sono ormai consci da decenni: che la realtà in cui viviamo è quella di un solo stato, in cui siamo governati da un regime complesso, ma comunque gestito da uno stato unico, di apartheid. Finché l’Europa non giocherà le proprie carte contro questo sistema, Israele riterrà logico insistere nel mantenimento di questo stato di cose.

Amjad Iraqi è un palestinese con cittadinanza israeliana e attualmente risiede a Haifa. È advocacy coordinator al Centro Legale Hadala, scrive su + 972 Magazine ed è analista politico per Al-Shabaka. Account twitter: @aj_iraqi

Inès Abdel Razek, consulente free-lance, ha lavorato come consulente per l’Ufficio del Primo Ministro Palestinese, Ramallah.

Dobbiamo prendere le distanze dai fallimenti dal processo di pace in Medio Oriente (PPME) gestito dagli USA e dalla soluzione dei due stati, che sono diventati esercizi interconnessi di retorica politica e non tengono conto della realtà. Dobbiamo liberarcene sia perché Israele non ha mai riconosciuto i parametri internazionalmente fissati per la soluzione dei due stati, sia soprattutto se vediamo i passi compiuti dall’amministrazione Trump per porre fine all’autodeterminazione e al diritto al ritorno del popolo palestinese e la sua aperta adesione al punto di vista israeliano.

Bisogna articolare un nuovo modello politico basato sul diritto internazionale, che adotti una strategia imperniata sulle persone, tesa a promuovere uguali diritti e uguale libertà di autodeterminazione per Palestinesi e Israeliani. A prescindere dal fatto che ciò venga realizzato da un unico stato o da due stati, un nuovo modello deve prima di tutto sconfiggere la realtà di un unico stato che espande continuamente gli insediamenti coloniali, e deve contrastare ogni discriminazione su base etnica. La pace non può venire prima della libertà.

Questo nuovo modello politico dovrà quindi controllare che l’abbandono dei parametri tradizionali previsti ad Oslo per il Processo di Pace in Medio Oriente (PPME) non lasci spazio a interpretazioni ambigue e che il governo di Israele non sfrutti eventuali ambiguità per consolidare l’attuale situazione di un solo stato con un regime di apartheid.

Il movimento nazionale palestinese deve impegnarsi a questo cambio di metodo, abbandonare le tattiche usate da Oslo in poi e fare un uso strategico del diritto al ritorno e all’auto-determinazione come vengono riconosciuti a livello internazionale, senza cadere nella trappola della sovranità nazionale. Dal punto di vista della diplomazia, occorreranno una serie di sforzi multilaterali che facilitino questa nuova strategia, mentre gli attori geopolitici fondamentali del Sud globale e dell’Europa dovranno assumere un ruolo determinante e cambiare la deleteria agenda politica ora dominata dagli USA.

Inès Abdel Razek è consulente diplomatica e per la cooperazione internazionale in Palestina e nell’area del Mediterraneo. Attualmente collabora con il Palestinian Institute for Public Diplomacy e si occupa di advocacy internazionale. Account twitter: @InesAbdelrazek

https://www.ecfr.eu/article/commentary_the_future_of_palestine_youth_views_on_the_two_state_paradigm

Traduzione di Nara Ronchetti

A cura di AssopacePalestina