‘Una scelta crudele’: perché Israele prende di mira le scuole palestinesi

Ramzy Baroud

23 ottobre 2018,Ma’an News

Il 15 ottobre diversi studenti palestinesi, insieme a insegnanti e dirigenti, sono stati feriti nell’attacco dell’esercito israeliano ad una scuola a sud di Nablus in Cisgiordania. Gli studenti della scuola mista al-Sawiya al-Lubban stavano sfidando un ordine militare israeliano di chiudere la loro scuola, sulla base dell’accusa onnipresente che la scuola fosse un “sito di terrorismo e rivolta popolare.”

Terrorismo popolare” è un’espressione in codice dell’esercito israeliano che sta per proteste. Ovviamente gli studenti hanno tutto il diritto di protestare, non solo contro l’occupazione militare israeliana, ma anche contro l’aggressiva colonizzazione degli insediamenti di Alje e Ma’ale Levona. Questi due insediamenti ebrei illegali hanno illecitamente confiscato migliaia di dunum [unità di misura terriera in Medio Oriente: 10 dumun corrispondono a 1 ettaro, ndtr.] di terra appartenente ai villaggi di al-Sawiya e al-Lubban.

I cittadini israeliani” che l’esercito di occupazione intende proteggere attraverso la chiusura della scuola sono, di fatto, proprio i coloni ebrei armati che hanno terrorizzato per anni questa regione della Cisgiordania.

Secondo uno studio del 2016 commissionato dalle Nazioni Unite, ogni giorno almeno 2.500 studenti palestinesi di 35 comunità della Cisgiordania devono attraversare i checkpoint militari israeliani per raggiungere le loro scuole. Circa la metà di questi studenti ha subito aggressioni e violenze da parte dell’esercito solo per aver cercato di arrivare a lezione o di tornare a casa.

Però questa è solo metà della storia, perché i violenti coloni ebrei sono sempre alla ricerca di bambini palestinesi. Anche questi coloni, che “creano anche loro checkpoint”, compiono regolarmente atti di violenza, “tirando pietre” contro i bambini (palestinesi) oppure “maltrattandoli fisicamente”.

ONU, “i gruppi di protezione dell’UNICEF hanno riferito che i propri volontari hanno subito attacchi fisici, aggressioni, arresti e detenzione e minacce di morte”.

In altri termini, addirittura i “protettori” stessi cadono spesso vittime delle tattiche terroristiche dell’esercito e dei coloni ebrei.

Aggiungete a questo il fatto che l’area C – la maggior parte della Cisgiordania, sotto pieno controllo militare israeliano – rappresenta l’apice della sofferenza palestinese. Qualcosa come 50.000 bambini affrontano moltissimi ostacoli, compresa la mancanza di servizi, aggressioni, violenza, chiusura e ingiustificati ordini di demolizione.

La scuola di al-Sawiya al-Lubban, situata in area C, è quindi alla totale mercé dell’esercito israeliano, che non tollera alcuna forma di resistenza, comprese le proteste non violente degli alunni della scuola.

Ciò che è davvero confortante però è che, nonostante l’occupazione militare israeliana e le continue restrizioni alla libertà dei palestinesi, la popolazione palestinese resta una delle più istruite in Medio Oriente.

Secondo il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), il tasso di alfabetizzazione in Palestina (stimato del 96,3%) è uno dei più alti in Medio Oriente ed il tasso di analfabetismo (3,7% tra le persone sopra i 15 anni), è uno dei più bassi al mondo.

Se queste statistiche non sono abbastanza incoraggianti, tenendo conto della costante guerra di Israele contro la scuola e i programmi scolastici, considerate questo: la Striscia di Gaza, assediata e devastata dalla guerra, ha un tasso di alfabetizzazione persino più alto della Cisgiordania, in quanto [queste zone] registrano rispettivamente il 96,6% e il 96%.

In realtà questo non dovrebbe stupire del tutto. I rifugiati palestinesi della prima ondata che subì la pulizia etnica dalla Palestina storica erano talmente desiderosi di assicurare che i loro figli fossero in condizioni di proseguire la loro educazione che già nel 1948 crearono delle tende adibite a scuola, gestite da insegnanti volontari.

I palestinesi sanno bene che l’educazione è l’arma più forte per ottenere la libertà a lungo negata. Anche Israele è consapevole di questa dicotomia, sapendo che una popolazione palestinese competente è in grado di sfidare il dominio israeliano molto più di una con scarsi mezzi culturali, di qui il fatto che Israele prenda di mira incessantemente e sistematicamente il sistema educativo palestinese.

La strategia israeliana nel distruggere l’infrastruttura del sistema scolastico palestinese si incentra sull’accusa di “terrorismo”: cioè, i palestinesi insegnano “terrorismo” nelle scuole; i libri scolastici palestinesi celebrano i “terroristi”; le scuole sono covi del “terrorismo popolare”, e varie altre accuse, che, nella logica israeliana, costringono l’esercito a chiudere scuole, distruggere servizi, arrestare gli studenti e sparargli.

Prendiamo ad esempio i recenti commenti fatti dal sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barkat, che ora sta conducendo una campagna governativa con lo scopo di chiudere le attività dell’organizzazione dell’ONU che si occupa dei rifugiati palestinesi, l’UNRWA.

È tempo di rimuovere l’UNRWA da Gerusalemme”, ha annunciato Barkat all’inizio di ottobre.

Senza alcuna prova, Barkat ha denunciato che “l’UNRWA sta rafforzando il terrorismo” e che “ai bambini di Gerusalemme viene insegnato, sotto la sua egida, il terrorismo, e ciò deve essere fermato.”

Ovviamente Barkat è disonesto. L’attacco all’UNRWA a Gerusalemme fa parte di una più vasta campagna israelo-americana finalizzata a chiudere un’organizzazione che si è dimostrata fondamentale per lo status e il benessere dei rifugiati palestinesi.

Secondo questo pensiero distorto, senza l’UNRWA I rifugiati palestinesi non avrebbero un riconoscimento giuridico, quindi chiudere l’UNRWA significa chiudere una volta per tutte il capitolo dei rifugiati palestinesi e del loro diritto al ritorno.

La chiusura della scuola al-Sawiya al-Lubban, l’attacco all’UNRWA da parte di Israele e Stati Uniti, i tanti checkpoint che separano gli studenti dalle loro scuole in Cisgiordania ed altro ancora, sono molto più in rapporto tra loro della falsa accusa israeliana di “terrorismo”.

La scrittrice israeliana Orly Noy ha sintetizzato la logica israeliana in una frase: “Distruggendo le scuole nei villaggi palestinesi dell’area C e altrove, Israele costringe i palestinesi a fare una scelta crudele – tra la loro terra e il futuro dei propri figli”, ha scritto all’inizio di quest’anno.

E’ questa logica brutale che ha guidato la strategia del governo israeliano riguardo all’educazione dei palestinesi per 70 anni. È una guerra di cui non si può discutere o che non può essere compresa al di fuori della più complessiva guerra all’identità e alla libertà dei palestinesi e, di fatto, alla stessa esistenza del popolo palestinese.

La lotta degli studenti per il proprio diritto all’educazione alla scuola mista al-Sawiya al-Lubban non è assolutamente una scaramuccia isolata che riguarda alunni palestinesi e soldati israeliani dal grilletto facile. È invece al centro della lotta del popolo palestinese per la sua libertà.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale dell’Agenzia Ma’an News.

Ramzy Baroud è giornalista, scrittore e redattore di Palestine Chronicle. Il suo ultimo libro è “The last earth: a palestinian story” [L’ultima terra: una storia palestinese].

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 9- 22 ottobre 2018

Nella Striscia di Gaza, venerdì 12 ottobre, durante le manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” e gli scontri presso la recinzione israeliana attorno a Gaza, sette palestinesi, tra cui un giovane di 17 anni, sono stati uccisi dalle forze israeliane.

Secondo fonti israeliane, durante le dimostrazioni c’è stato un significativo incremento sia nel lancio di bottiglie incendiarie, granate rudimentali e palloncini incendiari contro le forze israeliane, sia nel danneggiamento della recinzione. Quattro delle vittime sono state colpite mortalmente dopo aver aperto una breccia nella recinzione ed essersi avvicinate ad una postazione militare israeliana. Durante le manifestazioni tenutesi il venerdì successivo, 19 ottobre, l’ampiezza degli scontri è diminuita, concludendosi senza morti. Secondo il Ministero della Sanità palestinese, in entrambi i venerdì, sono rimaste ferite complessivamente 831 persone; 590 hanno dovuto essere assistite in ospedale, tra queste 271 erano state colpite con armi da fuoco.

Nel contesto di altre iniziative riconducibili alla “Grande Marcia del Ritorno”, un palestinese è stato ucciso e 181 sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane. Il 15 ottobre, durante un raduno in mare per protestare contro il blocco navale, un palestinese è stato ferito con arma da fuoco: è morto il giorno seguente per le ferite riportate. Sono continuati i raduni notturni [di palestinesi] con uso di fuochi d’artificio, bombe assordanti e combustione di pneumatici.

Nella Striscia di Gaza, in conseguenza degli avvenimenti del 12 ottobre (di cui sopra), le autorità israeliane hanno vietato l’ingresso di carburante e gas da cucina. Il divieto è stato esteso anche al combustibile distribuito dall’ONU per i generatori elettrici di emergenza e per i veicoli necessari al funzionamento di servizi sanitari, acqua potabile e trattamento reflui. La restrizione è stata revocata il 21 ottobre.

Il 17 ottobre un razzo lanciato dalla Striscia di Gaza ha colpito una casa nella città israeliana di Beer Sheva. Successivamente, l’esercito israeliano ha effettuato diversi attacchi aerei su Gaza; ha chiuso quasi completamente i valichi controllati da Israele (Erez e Kerem Shalom) ed ha ridotto, da sei a tre miglia nautiche, la zona di pesca consentita [ai palestinesi]. La casa israeliana colpita è stata gravemente danneggiata, ma non sono stati segnalati feriti; nessun gruppo armato ne ha rivendicato la responsabilità. Nel corso dei raid aerei israeliani su Gaza, un componente di un gruppo armato è stato ucciso e altri tre sono rimasti feriti. La restrizione alla zona di pesca è stata revocata il 23 ottobre e i valichi di Erez e Kerem Shalom sono stati riaperti il 21 ottobre.

A Gaza, nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare, in almeno dieci occasioni al di fuori degli eventi della “Grande Marcia del Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento causando un ferito. In un caso quattro pescatori sono stati arrestati. In tre occasioni, nelle vicinanze della recinzione perimetrale, ad est della città di Gaza e in aree settentrionali, le forze israeliane sono entrate nella Striscia ed hanno effettuato operazioni di livellamento del terreno e di scavo.

In Cisgiordania, due sospetti attentatori palestinesi sono stati uccisi e due soldati israeliani sono rimasti feriti durante tre attacchi con il coltello diretti contro soldati israeliani. I morti sono un 22enne, ucciso il 15 ottobre vicino all’insediamento colonico di Barqan, in Salfit, ed un 42enne, padre di sette figli, ucciso, il 22 ottobre dopo aver ferito un soldato israeliano ad un posto di blocco nella Città Vecchia di Hebron. Fonti palestinesi hanno segnalato che, nel secondo caso, ai paramedici è stato impedito di avvicinarsi all’uomo ferito e sanguinante a terra; il suo corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. L’11 ottobre, vicino al posto di blocco di Huwwara (Nablus), un palestinese ha ferito con coltello un soldato israeliano; l’aggressore è stato arrestato.

Sempre in Cisgiordania, in numerosi scontri, sono stati feriti dalle forze israeliane 162 palestinesi, tra cui sei minori. Quasi la metà delle lesioni (causate in grande maggioranza da inalazione di gas lacrimogeno) si sono avute in scontri verificatisi nel villaggio di Al Lubban Asharqiya (Nablus) in seguito alla chiusura della scuola secondaria del villaggio da parte dell’esercito israeliano; chiusura avvenuta il 15 ottobre, a quanto riferito in seguito al ripetuto lancio di pietre da parte di studenti contro veicoli israeliani. La scuola è stata riaperta il giorno seguente. Altri 24 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri scoppiati a Khan al Ahmar-Abu al-Helu (Gerusalemme), una Comunità a rischio di demolizione e trasferimento forzato. Altri 20 feriti si sono avuti nei villaggi di Kafr Qaddum (Qalqiliya) e Bil’in (Ramallah), nel corso di dimostrazioni settimanali contro le restrizioni all’accesso e l’espansione degli insediamenti colonici. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 206 operazioni di ricerca-arresto; la maggior parte nei governatorati di Gerusalemme e Tulkarm, circa 60 di tali operazioni hanno provocato scontri con i residenti.

In Area C e a Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 38 strutture di proprietà palestinese, sfollando 35 palestinesi e colpendo i mezzi di sostentamento di altri 120. Si tratta di due abitazioni a Gerusalemme Est e 36 strutture (tra cui 14 case) in zona C, presso nove Comunità beduine e pastorali. In tre di queste Comunità, sei tra le strutture prese di mira erano state precedentemente fornite come aiuti umanitari.

Il 13 ottobre, una donna palestinese, madre di sette figli, è morta dopo essere stata colpita alla testa da una pietra, a quanto riferito lanciata da coloni israeliani contro il suo veicolo. L’episodio si è verificato vicino al checkpoint di Za’atra / Tappuah (Salfit). Il marito della donna e uno dei figli sono rimasti leggermente feriti. Sul caso la polizia israeliana ha avviato un’indagine.

Nel contesto della stagione della raccolta delle olive, è proseguita la violenza ed il vandalismo di coloni israeliani, insieme ad altri attacchi e incursioni [dei medesimi]. Gli episodi correlati alla raccolta delle olive comprendono l’aggressione fisica ed il ferimento di due contadini palestinesi a Deir al-Hatab (Nablus), danni a circa 700 ulivi e cinque casi di furto di raccolto verificatisi nei villaggi di Al Mughayyer (Ramallah), Burqa e Tell ( Nablus), Al Khader (Betlemme) e Far’ata (Qalqiliya). Finora, quest’anno, oltre 7.000 alberi sono stati danneggiati da coloni israeliani. In altri tre episodi, coloni hanno aggredito e ferito tre palestinesi nella Città Vecchia di Hebron e uno studente presso una scuola del villaggio di ‘Urif (Nablus). Nei villaggi di Al Mazra’a al Qibliye (Ramallah), Marda (Salfit) e Qaryut (Nablus), coloni hanno bucato le gomme di 40 veicoli ed hanno spruzzato scritte offensive su alcuni veicoli e, nel villaggio di Qaryut, sui muri di una moschea. Ancora in Al Mazra’a al Qibliye, palestinesi si sono scontrati con soldati israeliani che erano intervenuti dopo un tentativo, da parte di coloni israeliani, di entrare in un parco di nuova costruzione vicino al villaggio; cinque palestinesi sono rimasti feriti (inclusi nel totale sopraccitato).

Secondo fonti israeliane, in Cisgiordania, nelle vicinanze di Hebron, Betlemme, Ramallah e Gerusalemme, in almeno 17 occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre o bottiglie incendiarie contro veicoli israeliani, causando danni a tre veicoli privati. Non sono stati segnalati feriti.

Per tutto il periodo di riferimento, il valico di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, è stato aperto in entrambe le direzioni, ad eccezione di quattro giorni. Un totale di 1.524 persone sono entrate a Gaza e 3.064 ne sono uscite. Dal 12 maggio 2018, il valico è rimasto aperto quasi continuativamente per cinque giorni a settimana.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

Il 24 ottobre, nel villaggio di Tammun (Tubas), durante un’operazione di ricerca-arresto, forze israeliane hanno sparato, uccidendo un palestinese di 22 anni. Il giorno prima, nei pressi della Comunità pastorale di Ibziq, forze israeliane avevano confiscato due strutture di una scuola.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Nonostante il rinvio, Israele ha deciso di distruggere Khan al-Ahmar

Tamara Nassar

23 ottobre 2018,Electronic Intifada

Sabato Israele ha rimandato la demolizione e deportazione del villaggio palestinese di Khan al-Ahmar.

Secondo il quotidiano israeliano “Haaretz” il ritardo intende “finalizzare una proposta per l’evacuazione volontaria”.

Gli abitanti del villaggio si sono sistematicamente ed energicamente opposti al trasferimento forzato dalla loro terra, che non può essere in nessun caso “volontario” se avviene sotto minaccia.

Khan al-Ahmar sarà evacuato, è un verdetto della corte, è la nostra politica e sarà fatto,” ha detto domenica il primo ministro Benjamin Netanyahu in una conferenza stampa con il ministro del Tesoro USA Steven Mnuchin.

Netanyahu ha aggiunto che il ritardo sarà breve, finché gli abitanti daranno il loro “assenso” a sgomberare e distruggere il loro villaggio.

Alcuni ministri israeliani di Destra, tra cui il ministro dell’Educazione Naftali Bennett, la ministra della Giustizia Ayelet Shaked e il deputato Bezalel Smotrich, si sono opposti alla decisione di Netanyahu.

Tutti e tre sono membri del partito nazionalista di estrema destra “Casa Ebraica”.

Khan al-Ahmar deve essere distrutto. Dobbiamo opporci al mondo,” ha detto Smotrich lunedì da una collina che sovrasta il villaggio, secondo il giornale israeliano “The Jerusalem Post” [giornale israeliano di destra in lingua inglese, ndtr.].

Dobbiamo togliere di mezzo questa comunità dopo aver dato loro un’alternativa,” ha detto la vice-ministra Tzipi Hotovely sulla collina di mattina presto.

Il governo israeliano ha investito milioni per creare questa alternativa e penso che la comunità internazionale sarebbe molto più d’aiuto se non utilizzasse i beduini come strumento politico,” ha detto Hotovely.

Yehuda Glick, parlamentare dello stesso partito di Netanyahu, il Likud, e uno dei dirigenti del movimento estremista ebreo che intende distruggere la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme, si è unito a Hotovely nella sua visita a Khan al-Ahmar.

La scelta tra spazzatura e liquami

Le alternative che Israele ha proposto non sono adeguate alla vita nomade dei beduini che vivono a Khan al-Ahmar.

Le alternative che Israele sta proponendo sono nei pressi di una discarica o dello scarico di una fogna,” ha detto all’israeliano “i24 News” [canale televisivo di informazioni in arabo, francese e inglese, ndtr.] Tawfique Jabareen, un avvocato che rappresenta gli abitanti di Khan al Ahmar.

Israele vuole obbligarli a spostarsi in una zona chiamata “al-Jabal ovest”, situata nei pressi della discarica del villaggio palestinese di Abu Dis. Israele ha anche proposto di spostare gli abitanti del villaggio in una zona vicina a un impianto di trattamento dei rifiuti nei pressi della colonia di Mitzpe, vicino alla città di Gerico, nella Cisgiordania occupata.

Jabareen ha aggiunto che gli abitanti hanno proposto all’Alta Corte israeliana di spostarsi di qualche centinaio di metri dalla loro attuale sistemazione, ma rimanendo ancora all’interno [della zona] di Khan al-Ahmar, un’idea che Israele ha rifiutato.

La Corte Penale Internazionale mette in guardia contro crimini di guerra

Il rinvio annunciato da Israele avviene dopo che la procuratrice generale della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda ha manifestato preoccupazione per la situazione a Khan al-Ahmar.

Una vasta distruzione di proprietà senza necessità di carattere militare e il trasferimento di popolazione in un territorio occupato costituiscono crimini di guerra,” ha affermato Bensouda il 17 ottobre.

Di conseguenza mi vedo obbligata a ricordare a tutte le parti che la situazione resta sotto esame preliminare da parte del mio ufficio.”

Secondo Haaretz alla polizia israeliana e all’amministrazione civile – la burocrazia militare che gestisce l’occupazione della Cisgiordania – non sia stato detto di lasciare la zona.

Nelle scorse settimane le autorità israeliane sono arrivate nel villaggio per preparare la demolizione, e talvolta hanno arrestato e ferito i manifestanti. Anche i coloni israeliani maltrattano regolarmente gli abitanti.

Durante la notte attivisti e giornalisti sono rimasti con loro nel villaggio per resistere all’invasione e all’imminente demolizione.

Khan al Ahmar si trova tra le colonie israeliane di Maaleh Adumim e Kfar Adumim.

Questa terra a est di Gerusalemme, la cosiddetta zona E1, si trova dove Israele pianifica di espandere la sua grande colonia di Maaleh Adumim, completando l’isolamento tra loro della parte nord da quella sud della Cisgiordania e circondando Gerusalemme di colonie.

In base alle leggi internazionali tutte le colonie israeliane nella Cisgiordania occupata sono illegali.

Lunedì la Francia – uno dei numerosi Stati europei che si sono opposti al progetto di Israele di distruggere Khan al-Ahmar sulla base del fatto che in questo modo verrebbe compromessa la soluzione dei due Stati – ha detto di “prendere nota” del rinvio.

Chiediamo alle autorità israeliane di abbandonare definitivamente i progetti di demolire Khan al-Ahmar e di far cessare l’incertezza che circonda il destino di questo villaggio.”

Tuttavia, a parte l’opposizione verbale, gli Stati dell’UE non hanno espresso chiaramente le conseguenze per Israele se dovesse sfidare questi appelli.

Prendere il controllo di Hebron

Nel contempo, all’inizio di questo mese Israele ha approvato un progetto per espandere la colonia esclusivamente ebraica nel cuore della città di Hebron, nella Cisgiordania occupata.

Secondo Haaretz questa sarà la prima costruzione di una colonia nel cuore di Hebron in oltre un decennio.

L’edificazione del progetto da 6 milioni, che è destinato a includere 31 unità abitative, potrebbe iniziare in qualunque momento.

Parte del progetto riguarda una ex-base militare israeliana che, secondo Haaretz, “è stata costruita su terreni che erano di proprietà di ebrei.”

Quando Israele costruisce colonie in Cisgiordania spesso vengono presentate fittizie rivendicazioni di proprietà sul terreno [da edificare].

Incendiare la regione”

Il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman ha festeggiato il nuovo insediamento.

Un nuovo quartiere ebraico a Hebron per la prima volta in 20 anni,” ha twittato.

Lieberman ha elogiato il governo per aver approvato il suo progetto per il quartiere, il cosiddetto quartiere “Hezekiah”, che ha definito “un’altra importante pietra miliare nell’estesa attività che stiamo conducendo per rafforzare l’insediamento in Giudea e Samaria.”

Ayman Odeh, capo della “Lista Araba Unita” [coalizione di tutti i partiti arabo-israeliani, ndtr.] nel parlamento israeliano, ha condannato l’iniziativa, accusando il governo di “infiammare continuamente la regione e poi gridare che non ci sono partner” per fare la pace, tutto a vantaggio di un “pugno di coloni estremisti.”

Più di 800 coloni vivono in un’area nel cuore di Hebron sotto totale controllo militare israeliano.

I coloni israeliani hanno preso il controllo della maggior parte della moschea di Abramo [o Tomba dei patriarchi, per gli ebrei, ndtr.] nella città, in seguito al massacro nel 1994 da parte di Baroch Goldstein, un colono americano, di 29 fedeli palestinesi nel sito.

A lungo i palestinesi hanno temuto che la divisione della moschea di Abramo potesse servire come modello per una presa di possesso totale o parziale da parte di Israele del complesso di al-Aqsa a Gerusalemme.

Coloni si aggirano liberamente nella zona di Hebron, sotto totale controllo militare israeliano, mentre i palestinesi sono sottoposti a severe restrizioni negli spostamenti, comprese strade segregate, e alle violenze e ai maltrattamenti dei soldati come dei coloni.

Demolizioni a Hebron

Nel frattempo le forze di occupazione israeliane hanno messo in atto demolizioni di case palestinesi nelle zone nei dintorni di Hebron e in altre parti della Cisgiordania occupata.

All’inizio di questo mese le forze israeliane hanno confiscato nel villaggio di Khirbet al-Halawa, sulle colline meridionali di Hebron, nella Cisgiordania occupata, una tenda di una famiglia composta da sei persone.

La famiglia include quattro bambini, che secondo B’Tselem [associazione israeliana per i diritti umani, ndtr.] sono rimasti senza casa.

Khirbet al-Halawa è una frazione dei villaggi chiamati Masafer Yatta.

Il 3 ottobre le forze israeliane sono arrivate a Khirbet al-Mufaqara, sempre a Masafer Yatta, ed hanno confiscato materiale edile per una casa prefabbricata.

Gli abitanti dei villaggi di Masafer Yatta hanno vissuto per vent’anni sotto minaccia di espulsione forzata.

B’Tselem ha affermato: “Dagli anni ’90 Israele ha sistematicamente tentato di cacciare gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta dalle loro case.”

Sia Masafer Yatta che Khan al.-Ahmar si trovano nell’area C, che rappresenta il 60% della Cisgiordania occupata.

In base ai termini degli accordi di Oslo, firmati tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina negli anni ’90, l’area C resta sotto il totale controllo militare israeliano.

Israele ha negato praticamente a ogni palestinese il permesso edilizio nell’area C, obbligando i palestinesi a costruire senza permessi e a vivere con la continua paura che le loro case o comunità vengano demolite.

Martedì mattina le forze di occupazione israeliane hanno smantellato e confiscato roulotte utilizzate come aule scolastiche a Ibziq, un villaggio nel nord della valle del Giordano, nella Cisgiordania occupata.

Un video postato da attivisti mostra le forze israeliane che portano via le strutture su camion.

Pare che le roulotte siano state finanziate dall’Unione Europea e dalla Finlandia, che non hanno fatto niente per chiedere conto ad Israele della distruzione delle decine di milioni di dollari dei progetti per i palestinesi pagate dai contribuenti europei.

(traduzione di Amedeo Rossi)




L’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas guidano Stati di polizia paralleli — Human Rights Watch

Annelies Verbeek

23 ottobre 2018, Electronic Intifada

Un nuovo rapporto di Human Rights Watch ritiene sia l’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania che Hamas a Gaza colpevoli di fare largo uso di arresti arbitrari e di tortura per reprimere le critiche e l’opposizione politica.

Il rapporto, intitolato “Due autorità, un sistema, zero dissenso”, è il risultato di due anni di ricerca. Si avvale di 86 casi di studio e 147 interviste, la maggior parte di ex detenuti.

Venticinque anni dopo Oslo, le autorità palestinesi hanno ottenuto un potere molto limitato in Cisgiordania e a Gaza, eppure, laddove hanno autonomia, hanno sviluppato stati di polizia paralleli”, ha detto Tom Porteous, un rappresentante di Human Rights Watch.

Gli appelli dei dirigenti palestinesi per salvaguardare i diritti dei palestinesi suonano vuoti dal momento che sopprimono il dissenso.”

Gli arresti arbitrari prendono di mira soprattutto coloro che criticano le autorità o esprimono sostegno per l’opposizione politica sui social media, sui giornali e nei campus universitari. Secondo Human Rights Watch le autorità spesso giustificano gli arresti sulla base di leggi generiche che criminalizzano attività che “provocano tensioni settarie” o “offendono le più alte autorità.”

Il rapporto riferisce numerosi esempi di casi individuali di abuso. Un uomo, precedentemente incarcerato da Israele, è stato in seguito arrestato 15 volte dalle forze di sicurezza dell’ANP per essersi affiliato al gruppo di Hamas quando era in prigione.

Un altro esempio è la detenzione per 15 giorni di un giornalista di Gaza che ha scritto su Facebook: “Mi chiedo se i figli dei nostri dirigenti dormono sul pavimento come i nostri figli”. È stato accusato di “uso scorretto della tecnologia” e definito “un istigatore alla sovversione”.

Tortura “abituale, deliberata e largamente utilizzata.”

Nel rapporto si afferma che la tortura e gli abusi durante la detenzione sono “abituali, deliberati e largamente impiegati”.

Entrambe le autorità utilizzano frequentemente un metodo di tortura chiamato ‘shabeh’, in cui i detenuti sono costretti in posizioni dolorose.

Human Rights Watch descrive i metodi usati come “analoghi alle annose prassi israeliane contro i palestinesi.”

Altri abusi documentati includono l’uso di scosse elettriche e colpi [inflitti] con cavi.

Human Rights Watch chiede agli USA e all’ Unione Europea, che sostengono finanziariamente l’Autorità Nazionale Palestinese, come anche al Qatar, all’Iran e alla Turchia, che sostengono Hamas, di sospendere l’assistenza alle forze di sicurezza coinvolte nei diffusi arresti arbitrari e torture. Inoltre raccomanda che gli arresti arbitrari e gli abusi da parte dell’ANP e di Hamas siano inclusi in ogni futura inchiesta della Corte Penale Internazionale sulla Palestina.

Sia Hamas che l’ANP negano che gli abusi siano sistematici e che vadano oltre casi limitati ed eccezionali. Inoltre entrambe le autorità affermano che tali casi vengono sottoposti ad indagine quando siano portati all’attenzione delle autorità.

Lo staff di Human Rights Watch non ha potuto recarsi a Gaza a parlare con le autorità di Hamas riguardo alle accuse, poiché Israele ha negato l’ingresso ai ricercatori.

Sia l’ANP che Hamas sono dotati di meccanismi interni idonei per presentare denunce contro gli abusi delle autorità. Centinaia di denunce sono state presentate da cittadini e organizzazioni per i diritti umani ma, secondo il rapporto di Human Rights Watch, solo “una esigua minoranza” ha avuto come esito un’azione disciplinare.

Associazioni per i diritti umani in Cisgiordania hanno posto l’Autorità Nazionale Palestinese – guidata da Mahmoud Abbas – sotto attenzione particolare a causa del suo coordinamento sulla sicurezza con Israele. L’ANP trasmette ad Israele le registrazioni dell’intelligence e degli interrogatori e vi sono stati casi documentati in cui gli israeliani che li interrogavano hanno detto ai prigionieri palestinesi di aver ricevuto le registrazioni dei loro interrogatori dall’ANP.

C’è la sensazione che non si possa criticare la leadership palestinese perché questo distoglierebbe l’attenzione dall’occupazione israeliana”, ha detto Yara Hawari del gruppo di esperti palestinese al-Shabaka.

Ma noi dobbiamo parlare degli abusi in modo da fornire il quadro completo. L’ANP e Hamas non stanno nel vuoto. Molte delle violazioni dei diritti umani che commettono avvengono sotto gli occhi di Israele e con l’avallo israeliano.”

Questo abuso di potere dimostra che le leadership palestinesi sono assolutamente deboli ed incapaci di guidare il loro popolo”, ha detto Hawari a ‘The Electronic Intifada’.

Ciò è triste. Ma io penso che questo tipo di rapporti sia importante perché dà ai palestinesi l’opportunità di ragionare su che genere di leadership in realtà vogliono e su che cosa, piuttosto che su chi, verrà dopo Abbas.”

Annelies Verbeek è una giornalista belga che vive a Ramallah.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Israele rimanda l’evacuazione del villaggio palestinese di Khan al Ahmar in Cisgiordania

MEE e agenzie

sabato 20 ottobre 2018,Middle East Eye

Il governo israeliano ha affermato di averlo sospeso per portare a termine trattative e proposte ricevute da varie fonti

Sabato Israele ha detto che l’evacuazione forzata del villaggio di Khan al-Ahmar nella Cisgiordania occupata sarà rimandata fino a data da destinarsi.

Personale dell’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu hanno detto ad Haaretz che il governo lo ha sospeso per portare a termine trattative e proposte ricevute da varie fonti

Haaretz sostiene che negli scorsi giorni le forze di sicurezza hanno detto di essere pronte ad evacuare il villaggio ed essere in attesa di istruzioni per farlo.

Regavim”, una Ong israeliana a favore dei coloni che dall’inizio ha spinto il progetto per l’espulsione dei beduini, ha emesso un comunicato in cui lamenta la decisione e la definisce una capitolazione di fronte all’Autorità Nazionale Palestinese.

Walid Assaf, capo del Comitato Nazionale di Resistenza al Muro e alle Colonie, parlando in una conferenza stampa nella tenda di protesta del villaggio ha detto: “Non ci fidiamo della decisione israeliana di congelare la demolizione di Khan al Ahmar e continueremo a protestare per proteggere la zona.”

Il 5 settembre l’Alta Corte di Giustizia israeliana ha respinto una petizione presentata dagli abitanti del villaggio, aprendo la strada all’espulsione della comunità e alla sua totale demolizione.

Khan al-Ahmar si trova nella Cisgiordania occupata nei pressi della Route 1, che collega Gerusalemme est occupata alla valle del Giordano. Il villaggio è situato vicino alla colonia israeliana illegale di Kfar Adumim.

Gli abitanti di Khan al-Ahmar sono della tribù Jahalin, una famiglia [allargata] beduina espulsa dal deserto del Naqab – detto anche Negev – durante la guerra arabo-israeliana del 1948. Allora i Jahalin si insediarono sul versante orientale di Gerusalemme.

La comunità di Khan al-Ahmar comprende circa 35 famiglie le cui case e scuole precarie, per lo più fatte di lamiera ondulata e legno, sono state demolite dall’esercito israeliano molte volte negli scorsi anni.

Haaretz dice che il villaggio è stato costruito su terreni dello Stato e le sue case sono state edificate senza permesso.

In un comunicato dopo la sentenza della corte il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem ha affermato che “i palestinesi non possono costruire legalmente e sono esclusi dai meccanismi decisionali che definiscono le loro vite. Il sistema di pianificazione è inteso esclusivamente a beneficio dei coloni (israeliani). Questa sentenza dimostra ancora una volta che chi si trova sotto occupazione non può ottenere giustizia nei tribunali dell’occupante.”

In luglio Israele ha affermato di prevedere di ricollocare i 180 residenti di Khan al-Ahmar in una zona a circa 12 km di distanza, nei pressi del villaggio palestinese di Abu Dis. Ma il nuovo luogo è vicino a una discarica e i difensori dei diritti umani sostengono che un trasferimento forzato degli abitanti violerebbe le leggi internazionali che riguardano territori occupati.

Haaretz ha rilevato che i giudici della Corte Hanan Melcer, Yitzhak Amit e Anat Baron hanno affermato che il maggior problema in questo caso non è se si possa effettuare l’espulsione, ma dove verrebbero trasferiti gli abitanti.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dare lavoro al nemico: la storia dei lavoratori palestinesi nelle colonie israeliane

Middle East Monitor

Editore: Zed Books

Data di pubblicazione: 15 July 2017

Autore: Matthew Vickery

Recensione di: Mustafa Fatih Yavuz

Chi fa ricerca e discute del conflitto tra Palestina e Israele scoprirà che persino l’argomento più specifico è stato ben indagato. Tuttavia temi quali la soluzione dei due Stati, le questioni riguardanti la sicurezza, lo status di Gerusalemme e persino i rifugiati palestinesi riflettono discussioni dell’élite che non fanno riferimento a quelli che rimangono ai margini del discorso – le vittime dell’occupazione. Questi sono i lavoratori palestinesi che non hanno altra alternativa che lavorare nelle colonie israeliane in Cisgiordania a causa degli alti tassi di disoccupazione e delle restrizioni israeliane.

Quando ero a Tel Aviv ho chiesto dei palestinesi a una delle mie amiche che si definisce sionista. Mi ha risposto in modo generico: “A me vanno bene, e costruiscono la mia strada, lavorano per me.” Anche se la risposta mi ha deluso per il suo tono altezzoso, c’era una realtà nascosta dietro di essa. L’espansione delle colonie israeliane e della popolazione ebraica ha raggiunto più di 600.00 [abitanti] dal 1967, ed anche la conseguente involuzione economica palestinese è cresciuta in questo periodo. Ci sono 37.000 palestinesi in Cisgiordania obbligati a guadagnarsi da vivere lavorando in quelle colonie a causa dello sviluppo agricolo ed economico degli insediamenti. Ma quelle storie di palestinesi sono state per lo più ignorate, e quel che è peggio i lavoratori sono stati etichettati dai loro connazionali come “traditori” o “parte del problema”.

Invece il libro di Matthew Vickery offre indicazioni in merito alla loro vita quotidiana, alle principali difficoltà che devono affrontare, a come i coloni li trattano e alle loro condizioni di vita. In quanto giornalista, Vickery sceglie una narrazione non accademica per far entrare il lettore nelle storie dei lavoratori palestinesi. Ha realizzato una serie di interviste con lavoratori palestinesi in Cisgiordania ed ha utilizzato queste interviste come base per il suo libro. Poiché credono che quello che fanno sia sbagliato, lavorare per la gente che sta rubando la loro terra è diventata una vergogna per loro e non ne parlano facilmente.

Il libro di Vickery è diviso in due parti principali, in cui intende mostrare come i coloni abbiano dato lavoro ai palestinesi e come il loro impiego diventi sfruttamento. Nella prima parte il lettore viene introdotto alle varie discussioni riguardo allo status giuridico ed ai sentimenti dei palestinesi che lavorano nelle colonie – vergogna, disperazione, umiliazione ed alienazione. Vickery evidenzia soprattutto le cattive condizioni di lavoro, come il fatto di essere pagati sotto il salario minimo e lo status giuridico dei palestinesi. In base alla legge israeliana, ogni lavoratore nelle colonie ha diritto a un minimo di 214,62 shekel (circa 50 €) al giorno. Ma i palestinesi che non possono avere dalla polizia israeliana un permesso di lavoro sono pagati 140 shekel (circa 33 €) e anche meno.

Lo status giuridico dei palestinesi che lavorano nelle colonie è in realtà incerto. Secondo Vickery la loro condizione dovrebbe essere equiparata a quella dei lavoratori all’interno di Israele nel 2007. Tuttavia ciò non è mai stato applicato. Egli fornisce un interessante aneddoto dall’interno di una commissione della Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] nel 2013: “Il ministero dell’Economia ha detto che, quando si tratta di salute e controlli sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, non svolge alcuna attività nelle colonie perché non sa quali leggi applicare.”

Vickery dedica un capitolo ai mediatori di queste questioni di lavoro. I palestinesi vengono assunti attraverso caporali che fanno da intermediari tra i coloni e la forza lavoro palestinese. L’autore non evita di descrivere questi caporali palestinesi come strumenti per sfruttare la manodopera palestinese facendo riferimento a un’altra fonte: “Gli intermediari sono aggressivi, motivati dal denaro e non hanno nessun problema nello sfruttare i loro stessi connazionali.”

Con i dati da fonti affidabili utilizzati nella seconda sezione è ben descritto come Israele sfrutta la manodopera palestinese controllando la popolazione, realizzando colonie ebraiche e limitando gli investimenti palestinesi in Cisgiordania. L’autore pone il lettore nella prospettiva economica dell’occupazione. La segregazione nel mercato del lavoro e lo strangolamento dell’economia palestinese diventano lo strumento principale per controllare i palestinesi e non lasciar loro altre possibilità se non lavorare nelle colonie come operai di serie B. Dato che l’argomento riguarda soprattutto i “lavoratori”, l’autore evidenzia l’impostazione marxista e ne mette alla prova l’ideologia. Utilizza il [concetto di] “esercito industriale di riserva” per confrontare questa nozione con la situazione dei lavoratori palestinesi e scopre che la definizione marxista non è sufficiente per descrivere il rapporto tra lavoratori palestinesi e coloni ebrei capitalisti.

È evidente che la classe operaia israeliana e quella palestinese non sono la stessa cosa, divise semplicemente dallo sfruttamento capitalista. L’importanza di comprenderlo è che risulta possibile ridefinire e utilizzare i concetti marxisti riguardo ad Israele e all’occupazione dei territori palestinesi.” Vickery sostiene anche che i palestinesi che vivono nell’Area C della Cisgiordania [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo temporaneo di Israele, ndtr.], sottoposti all’occupazione israeliana, sono in realtà lavoratori forzati. L’autore cita un certo numero di fonti che definiscono il lavoro forzato e sostiene che i palestinesi sono in realtà indirettamente lavoratori forzati a causa del fatto di non avere alternative.

Nella grande maggioranza dei casi i lavoratori palestinesi delle colonie in Cisgiordania non sono liberi nella scelta dell’impiego. Sono stati di fatto integrati nel settore attraverso politiche del governo israeliano riguardo ai lavoratori palestinesi, al regime dei permessi, al controllo del mercato e dell’economia palestinesi e alle restrizioni nella libertà di movimento all’interno della Cisgiordania.” scrive Vickery.

Le storie dei lavoratori palestinesi nelle colonie sono veramente molto tristi e non rare per la società palestinese in generale. Le persone sono in realtà abbandonate dalla loro amministrazione, dal loro popolo, dall’attenzione internazionale e lasciate nelle mani del loro aguzzino. Sono davvero, come afferma uno dei titoli dei capitoli del libro, i “miserabili della Terra Santa.” Questo saggio sarà una buona lettura per quanti sono curiosi riguardo la situazione dei lavoratori in Cisgiordania e a come i coloni, in quanto datori di lavoro, trattano i loro dipendenti palestinesi. Forse i lettori possono trovare storie simili a quelle dei palestinesi nei lavoratori in altre parti del mondo. Forse questa occupazione non è stata architettata attraverso la potenza dell’esercito e dei rapporti diplomatici ma del capitale. Chi lo sa?

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dopo 122 giorni di minacce di demolizione, Israele blocca Khan al-Ahmar

19 ottobre 2018, Ma’an News

Gerusalemme (Ma’an) – Venerdì le forze israeliane hanno attaccato manifestanti nel villaggio beduino di Khan al-Ahmar, a est di Gerusalemme nella parte centrale della Cisgiordania occupata.

I soldati israeliani hanno sparato lacrimogeni e spruzzato liquido urticante contro dimostranti e attivisti palestinesi e internazionali mentre cercavano di protestare sulla strada principale che porta al villaggio, impedendogli di farlo.

Il ministro [dell’ANP, ndtr.] Walid Assaf, capo del Comitato Nazionale contro il Muro e le Colonie, è stato tra quanti sono rimasti intossicati dall’inalazione di gas lacrimogeni.

Le forze israeliane hanno arrestato una delle guardie del corpo di Assaf.

Un gran numero di forze israeliane ha circondato Khan al-Ahmar ed ha bloccato ermeticamente la via d’ingresso principale, dichiarandola zona militare chiusa.

Alcune fonti hanno aggiunto che le forze israeliane sono state schierate attorno al villaggio e lungo una serie di strade che lo raggiungono, impedendo agli abitanti ed agli attivisti di entrare ed uscire dalla zona.

Il blocco è stato realizzato per cercare di impedire a centinaia di manifestanti e giornalisti di raggiungere Khan al-Ahmar per dimostrare solidarietà agli abitanti del villaggio dopo 122 giorni di minacce di demolizione.

La distruzione lascerebbe senza casa più di 35 famiglie palestinesi, come parte di un piano israeliano di espansione della vicina colonia illegale israeliana di Kfar Adumim.

Amnesty International (AI), insieme a Jewish Voice for Peace [gruppo di ebrei statunitensi contrari all’occupazione dei territori palestinesi, ndtr.], ha lanciato una campagna sulle reti sociali, in cui si afferma che “le politiche israeliane di insediare civili israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, distruggendo arbitrariamente proprietà e deportando palestinesi che vivono sotto occupazione, violano la Quarta Convenzione di Ginevra e rappresentano un crimine di guerra che figura nello statuto della Corte Penale Internazionale.”

Aggiunge che dal 1967 Israele ha espulso con la forza e spostato intere comunità ed ha demolito più di 50.000 case e costruzioni palestinesi.

AI afferma che “dopo circa un decennio di tentativi di combattere l’ingiustizia di queste demolizioni, gli abitanti di Khan al-Ahmar ora affrontano il giorno devastante in cui vedranno le loro case da generazioni distrutte sotto i propri occhi.”

AI sottolinea che “il trasferimento forzato di Khan al-Ahmar rappresenta un crimine di guerra,” notando che “Israele deve porre termine alla sua politica di distruzione delle case e dei mezzi di sostentamento dei palestinesi per fare posto alle colonie.”

(traduzione di Amedeo Rossi)




Gaza, la guerra alle porte

Michele Giorgio

18 ottobre 2018, Il Manifesto

Gaza/Israele. Presieduto dal premier Netanyahu, il Consiglio di difesa israeliano si è riunito ieri per decidere come rispondere al lancio da Gaza di un razzo Katiusha contro Beersheba dove ha distrutto una abitazione civile.

Non ci sono altre interpretazioni possibili. Il rinvio del viaggio del capo dell’intelligence egiziana Abbas Kamel, atteso oggi a Gaza, indica che l’offensiva israeliana è lì, alle porte della Striscia. L’unica incertezza è quando. Qualcuno l’attendeva già la scorsa notte, quando l’oscurità è scesa carica di tensione e paura su Gaza e le aree circostanti. Gli oltre duemila morti del 2014 sono un ricordo sempre molto vivo. La risposta, una ventina di raid aerei che hanno fatto un morto e tre feriti tra i palestinesi, data ieri dal governo Netanyahu al lancio martedì notte di un razzo Katiusha a medio raggio che ha colpito e distrutto in buona parte una abitazione di Beersheba, con una madre e i suoi tre figli che si sono salvati per un soffio, è giudicata insufficiente dall’opinione pubblica. Gli israeliani chiedono un’azione di forza, un colpo devastante. Nemmeno considerano che la tensione e le manifestazioni lungo le linee di demarcazione con Gaza sono il risultato inevitabile di una situazione insostenibile, da un punto di vista umanitario e politico, per due milioni di palestinesi che vivono come prigionieri, sotto embargo da oltre dieci anni, in meno di 400 chilometri quadrati di terra.

Con le elezioni sempre più all’orizzonte, nessun esponente politico israeliano vuole apparire debole nei confronti dei palestinesi e sulle questioni di sicurezza. A maggior ragione quando c’è il ministro della difesa Lieberman, uno dei rivali più insidiosi del premier Netanyahu Netanyahu, ad invocare un “colpo duro” al movimento islamico Hamas che controlla Gaza, unica via, afferma, per riportare la calma. «Israele agirà con tutta la sua forza» ha perciò proclamato il primo ministro durante la visita ieri nelle aree a ridosso di Gaza. «Guardiamo con grande severità agli attacchi alla frontiera, a Beersheba, ovunque. Se gli attacchi non finiranno – ha avvertito – gli metteremo noi fine». Poi nel tardo pomeriggio Netanyahu ha presieduto una riunione del Consiglio di difesa mentre dall’Unione europea e dall’inviato dell’Onu Nikolay Mladenov giungevano messaggi di solidarietà a Israele e di condanna del lancio del razzo palestinese.

La guerra però a questo punto la vuole anche Hamas malgrado il comunicato emesso assieme al Jihad in cui indirettamente condanna il lancio del razzo contro Beersheba. Un giornalista di Gaza, ben introdotto ai vertici del movimento islamico, sostiene che non ci sarebbe alcun mistero intorno a chi ha sparato il Katiusha. «Occorre tenere conto dello stato dei leader di Hamas – ci ha spiegato il giornalista – hanno cercato un accordo di tregua a lungo termine con Israele, l’hanno fatto per tutta l’estate senza riuscirci. Hanno intensificato le proteste popolari al confine per fare pressione, ancora una volta senza risultato mentre tanti manifestanti venivano uccisi». Ora, ha aggiunto, i vertici di Hamas si sono convinti che solo una nuova escalation militare potrà indurre Netanyahu ad accettare un’intesa in più punti che metta fine o almeno allenti il blocco israeliano. Un grande conflitto può portare a novità positive nei periodi di tregua». Secondo il giornalista di Gaza «Hamas non ha rivendicato l’attacco a Beersheba ma quel razzo, più potente di quelli soliti, è negli arsenali della sua ala armata e non di organizzazioni minori. Colpire Beersheba è stata una una dimostrazione di forza, un messaggio chiaro per gli israeliani: se non volete la tregua allora si farà la guerra e anche voi soffrirete».

Sullo sfondo ci sono anche le manovre dell’Autorità nazionale palestinese. Il presidente Abu Mazen è apertamente contrario ad una tregua separata tra Hamas e Israele. In questi mesi ha fatto di tutto per impedirla arrivando a dichiarare persona non grata Mladenov dell’Onu perché impegnato nelle attività di mediazione, assieme all’Egitto. La trattativa esclude totalmente l’Anp e il presidente la considera un tentativo mascherato di dividere per sempre Gaza dalla Cisgiordania, in linea con quello che prevederebbe il piano di pace Usa non ancora reso pubblico (il mediatore Usa Jason Greenblatt nega che l’iniziativa americana punti a separare i territori palestinesi). Per colpire Hamas, Abu Mazen non ha esitato nell’ultimo anno e mezzo a tagliare gli stipendi dei dipendenti pubblici, a varare sanzioni e ad attuare forme di boicottaggio economico che hanno soltanto reso più difficile la vita alla popolazione civile palestinese e scalfito appena la solidità del potere dei rivali islamisti.




Khan al-Ahmar: le forze israeliane arrestano attivisti mentre cresce il timore per la demolizione

Akram Al-Waara

15 ottobre 2018, Middle East Eye

Tre attivisti israeliani e stranieri sono stati arrestati per breve tempo, mentre un palestinese resta in custodia e gli abitanti del villaggio temono che la demolizione sia imminente.

KHAN AL-AHMAR, Cisgiordania occupata – Lunedì mattina sono scoppiati scontri tra forze israeliane, palestinesi ed attivisti nel villaggio beduino di Khan al-Ahmar, poiché gli abitanti temono l’imminente demolizione del villaggio. Almeno quattro persone sono state arrestate dalla polizia israeliana.

Si prevede che le forze israeliane radano al suolo Khan al-Ahmar e deportino circa 200 residenti palestinesi, dopo che l’approvazione del piano è ufficialmente entrata in vigore all’inizio di questo mese.

La Corte Suprema israeliana ha emesso due sentenze a favore della demolizione del villaggio, la prima il 24 maggio e la seconda il 5 settembre, dopo un disperato ricorso degli abitanti.

Lunedì gli abitanti di Khan al-Ahmar e gli attivisti, che si sono radunati nel villaggio da quando le autorità israeliane hanno ordinato la sua demolizione, si sono svegliati di fronte ad una grande pozza d’acqua formatasi nella valle nei pressi del villaggio– e nello stesso posto in cui la scorsa settimana è comparso un lago di liquame.

Mentre i rapporti segnalavano che una tubatura dell’acqua di proprietà della compagnia nazionale israeliana dell’acqua Mekorot si era rotta, alcune persone del luogo hanno insinuato che alcuni attivisti avessero rotto di proposito la tubatura per bloccare un sentiero verso il villaggio e fermare la demolizione, notando che pareva che fossero stati sistemati pezzi di legno, fogli di lamiera ed altri detriti per impedire che l’acqua scorresse verso il villaggio.

Questo sentiero si snoda tutto intorno al villaggio, per cui loro (gli israeliani) devono usarlo per circondare l’intera zona”, ha detto a Middle East Eye Yousuf Abu Dahouq, un abitante di Khan al-Ahmar. “La polizia israeliana è rimasta sorpresa nel vedere dell’acqua qui, che gli ha rovinato il programma della giornata.

Dato che questa è una delle strade principali che loro pensavano di utilizzare per portare le jeep e i bulldozer per distruggere il villaggio, hanno bisogno di ripulirla per procedere alla demolizione.”

Tra le 7 e le 8 del mattino sono arrivati a Khan al-Ahmar circa 50 ufficiali di polizia e di frontiera con almeno tre bulldozer ed hanno cercato di spazzare via l’acqua, inducendo gli abitanti del villaggio e gli attivisti a scendere nella zona.

Attivisti palestinesi ed israeliani sono saltati nella pozza per fermare uno dei bulldozer e a quel punto le forze israeliane hanno arrestato un attivista.

Intanto sono scoppiati scontri tra forze israeliane ed attivisti in altre zone del villaggio, quando gli attivisti hanno cercato di impedire ai poliziotti di entrare nel villaggio.

Secondo il ministero della Sanità palestinese, sono stati visti poliziotti israeliani buttare a terra diverse donne ed anziani palestinesi e stranieri ed almeno cinque persone sono state curate per le ferite riportate.

Le forze israeliane non hanno consentito alle ambulanze palestinesi di entrare a Khan al-Ahmar, costringendo i medici ad entrare a piedi nel villaggio per curare le persone.

Lunedì mattina le forze israeliane hanno arrestato almeno quattro persone, identificate come l’attivista palestinese Reyad Salahat, gli attivisti israeliani Jonathan Pollak e Kobi Snitz e l’attivista olandese Robin Licker. Lunedì pomeriggio Licker ha postato su Facebook la conferma che lui, Pollak e Snitz erano stati tutti rilasciati, ma che Salahat è rimasto sotto custodia israeliana.

Risulta che sia Pollak che Sajahat siano stati feriti dalle forze israeliane quando sono stati arrestati.

Abu Dahouq, un abitante di Khan al-Ahmar, ha detto a MEE di temere che la demolizione sia imminente.

Pensiamo che verranno a distruggere il villaggio da un momento all’altro, soprattutto perché il termine per andarcene è scaduto 10 giorni fa”, ha detto l’uomo di 43 anni.

Le forze israeliane il 23 settembre avevano consegnato ai residenti degli avvisi che intimavano di vuotare e demolire le loro case entro il primo ottobre, altrimenti sarebbero stati sgomberati con la forza.

Le 35 famiglie che vivono a Khan al-Ahmar fanno parte della tribù dei Jahalin, una comunità beduina espulsa dal deserto del Naqab – noto anche come Negev – dopo la guerra arabo-israeliana del 1948.

Khan al-Ahmar è situato sul pendio desertico a oriente di Gerusalemme, accanto ad un’autostrada israeliana che porta al Mar Morto, nella parte della Cisgiordania che Israele ha occupato illegalmente, secondo il diritto internazionale, per 50 anni.

Eliminando Khan al-Ahmar, le autorità potranno costruire unità (abitative) che colleghino le colonie illegali di Kfar Adumim e Maale Adumim con Gerusalemme est nell’area C sotto controllo israeliano, spezzando in due la Cisgiordania.

Amnesty International ha definito il piano israeliano un “trasferimento forzato” e un “crimine di guerra”.

Noi, abitanti di Khan al-Ahmar, subiamo molte pressioni e la popolazione del villaggio patisce molte sofferenze e privazioni”, ha aggiunto Abu Dahouq. “Gli israeliani impiegano ogni genere di attacchi militari e psicologici contro di noi per mandarci via. Viviamo in tempi di guerra e questo è diventato parte della nostra vita.

L’occupazione sta cercando di testare il popolo palestinese, per vedere se reagirà alla demolizione di Khan al-Ahmar…Se il popolo palestinese non insorgerà in difesa del villaggio, allora darà ad Israele il semaforo verde per sbarazzarsi di noi.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 25 settembre- 8 ottobre 2018 (due settimane)

Durante le manifestazioni e gli scontri del venerdì che hanno avuto luogo vicino alla recinzione israeliana [che circonda Gaza] nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno”, dieci palestinesi, tra cui tre minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane e altri 882 sono stati feriti.

Venerdì 28 settembre ha registrato, dal 14 maggio 2018, il più alto numero di morti in un solo giorno (sette). Tali fatti hanno indotto Jamie McGoldrick, Coordinatore Umanitario per i Territori palestinesi occupati (oPt), ad intervenire sollecitando “Israele, Hamas e tutti gli altri attori capaci di incidere sulla situazione ad agire ora per prevenire ulteriori deterioramenti e perdite di vite umane”. Due dei minori uccisi, di 11 e 15 anni, sono stati colpiti alla testa e al petto con armi da fuoco; sale così a 39 il numero di minori uccisi a Gaza dal 30 marzo, data di inizio delle proteste. Tra le persone ferite il 28 settembre e il 5 ottobre, 402 sono state ricoverate: tra essi 216 (53%) sono state colpite con armi da fuoco, mentre, secondo il Ministero della Sanità di Gaza, i rimanenti [480] sono stati curati sul campo. Secondo fonti israeliane, durante le proteste sono stati lanciati numerosi ordigni esplosivi contro le forze israeliane, nessuno dei quali ha provocato feriti tra gli israeliani.

In aggiunta a quanto sopra, durante il periodo di riferimento, in altre azioni che si svolgono quasi quotidianamente nel contesto della “Grande Marcia di Ritorno”, un minore palestinese è stato ucciso e 189 sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane. Queste azioni contemplano l’uso di fuochi d’artificio, di altoparlanti, di bombe sonore e l’incendio di pneumatici durante i raduni notturni presso la recinzione; proteste vicino al valico di Erez; tentativi di rompere il blocco navale e, nel nord della Striscia, manifestazioni sulla spiaggia vicino al confine con Israele. Fonti israeliane hanno anche riportato un significativo aumento del lancio di aquiloni e palloncini incendiari verso Israele, che avrebbero provocato decine di incendi con limitati danni materiali e nessuna vittima israeliana. Le forze israeliane hanno condotto diversi attacchi aerei, alcuni dei quali avevano come obiettivo persone che, vicino alla recinzione perimetrale, lanciavano ordigni esplosivi o incendiari.

Il 2 ottobre, a Gaza, nel Campo Profughi di Al Maghazi, un palestinese di 74 anni è stato colpito e ferito dalle forze israeliane; poco dopo è morto. Le circostanze dell’episodio non sono chiare: secondo Organizzazioni palestinesi per i Diritti Umani, l’uomo è stato colpito mentre era in piedi vicino a casa sua, a circa 2.000 metri dalla recinzione perimetrale, in un momento in cui non erano in corso manifestazioni o scontri.

Il 7 ottobre le autorità israeliane hanno ridotto da 9 a 6 miglia nautiche [1 miglio nautico internazionale = 1.852 metri], la zona di pesca consentita lungo la costa meridionale di Gaza. Secondo fonti israeliane, le restrizioni sono state imposte in risposta a quanto avviene lungo la recinzione perimetrale. La misura ha un impatto diretto su circa 50.000 palestinesi che dalla pesca ricavano i loro mezzi di sostentamento.

Nelle Aree ad Accesso Riservato (ARA) sia di terra che di mare al largo della costa di Gaza, in almeno altre otto occasioni al di fuori del contesto della “Grande Marcia di Ritorno”, le forze israeliane hanno aperto il fuoco, ferendo un pescatore e arrestandone altri due. In sette occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo in prossimità della recinzione perimetrale.

Il 7 ottobre nella zona industriale dell’insediamento di Barkan (Salfit) nella Cisgiordania settentrionale, in una aggressione con arma da fuoco, un palestinese ha ucciso un uomo e una donna israeliani e ferito un’altra donna israeliana. L’uomo – che, a quanto riferito, proveniva dalla città di Tulkarm e lavorava nell’insediamento – è riuscito a fuggire incolume dal luogo dell’aggressione. Dall’inizio del 2018, in Cisgiordania, nove israeliani sono stati uccisi da palestinesi. In seguito all’aggressione, le forze israeliane hanno perquisito la casa di famiglia dell’attentatore ed eseguito rilevamenti, secondo quanto riferito, in previsione della sua demolizione punitiva; la madre e due sorelle dell’aggressore sono state arrestate. Le forze israeliane sono state dispiegate presso tutti gli ingressi della città di Tulkarm, interrompendo l’accesso e l’uscita dalla città.

Sempre in Cisgiordania, in numerosi scontri, 122 palestinesi, tra cui 36 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Trentasei dei ferimenti si sono verificati durante le numerose manifestazioni tenutesi il 1° ottobre in tutta la Cisgiordania nel contesto di uno sciopero di un giorno in segno di protesta contro l’approvazione, da parte del Parlamento israeliano, lo scorso luglio, della “Legge fondamentale” che elegge Israele quale “Nazione-Stato del Popolo Ebraico”. Lo sciopero intendeva anche manifestare la solidarietà con la Comunità palestinese beduina di Khan al Ahmar, che è a rischio imminente di demolizione di massa. Altre undici persone sono rimaste ferite durante le seguenti manifestazioni settimanali: a Ras Karkar (Ramallah), contro la costruzione, su terra privata palestinese, di una nuova strada per i coloni; in Kafr Qaddum (Qalqiliya) contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni all’accesso; in Bil’in e Ni’lin (entrambi a Ramallah) contro la Barriera e l’espansione degli insediamenti. Altri 26 feriti si sono avuti in scontri scoppiati in sei operazioni di ricerca-arresto. Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 131 di queste operazioni, arrestando oltre 132 palestinesi, tra cui 16 minori. Altri 15 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri con forze israeliane, seguiti all’ingresso di israeliani in un sito religioso nella città di Nablus.

In Area C e Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito o ordinato di autodemolire quattro strutture di proprietà palestinese colpendo i mezzi di sostentamento di 26 persone. Due delle strutture, inclusa una fornita da associazioni umanitarie in risposta a una precedente demolizione, erano situate nell’area di Massafer Yatta del Governatorato di Hebron, in un’area designata [da Israele] come “zona per esercitazioni militari a fuoco”; in quest’area 1.300 residenti rischiano il trasferimento forzato. Un’altra struttura era in un’area della città di Hizma, situata all’interno del confine municipale di Gerusalemme, ma separata dalla Barriera dal resto della città. Inoltre, nel quartiere di Beit Hanina a Gerusalemme Est, una famiglia palestinese è stata costretta ad autodistruggere un ampliamento della loro casa, colpendo il sostentamento di otto persone.

L’8 ottobre, a Khan al Ahmar – Abu al Helu, le autorità israeliane hanno rinnovato gli ordini di requisizione dei terreni che saranno utilizzati dalle forze israeliane durante la demolizione della Comunità. Lo stesso giorno, le autorità israeliane hanno completato il drenaggio di una pericolosa pozza di liquami che, dalla fine di settembre, si era accumulata nell’area della Comunità: era stata originata dalla fuoriuscita di liquami da una condotta fognaria dell’insediamento colonico di Kfar Adumim. Il 5 settembre l’Alta Corte di Giustizia Israeliana ha respinto tutte le petizioni relative alla sua sentenza del 24 maggio e, il 23 settembre, le autorità israeliane hanno consegnato alla Comunità una lettera in cui informavano i residenti che dovranno demolire tutti gli edifici entro il 1 ottobre; in caso contrario saranno le autorità ad effettuare le demolizioni, in linea con la decisione del tribunale. Nella lettera, Israele ha anche promesso di fornire assistenza, compreso il trasporto nel sito di trasferimento, a coloro che avranno rispettato l’ordine.

La stagione della raccolta delle olive, ufficialmente iniziata all’inizio di ottobre, in varie aree è stata resa problematica dalla violenza dei coloni; in particolare vi è stata l’aggressione fisica e il ferimento di due contadini, danni a 190 alberi, il furto di raccolti. Cinque casi sono stati registrati a Turmus’ayya (Ramallah), Burin, Haris e Al Lubban ash Sharqiya (tutti a Nablus); tutte aree vicine agli insediamenti colonici, per le quali l’accesso palestinese è soggetto all’approvazione dell’esercito israeliano. In un altro episodio, coloni israeliani hanno aggredito e ferito un palestinese nella città vecchia di Gerusalemme. Durante il periodo di riferimento, almeno due episodi di lancio di pietre da parte di coloni israeliani hanno causato danni a veicoli di proprietà palestinese. La violenza dei coloni è in aumento dall’inizio del 2018, con una media settimanale di cinque attacchi recanti lesioni fisiche o danni alle proprietà, rispetto a una media di tre nel 2017 e due nel 2016.

Secondo i media israeliani, a Ramallah, Betlemme, Hebron, Gerusalemme e Salfit, quattordici veicoli israeliani sono stati danneggiati dal lancio di pietre da parte di palestinesi.

Il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, ha aperto in entrambe le direzioni per nove giorni, e in una direzione (verso Gaza) per due giorni. Un totale di 1.178 persone sono state autorizzate ad entrare in Gaza ed altre 3.166 persone ne sono uscite.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it