Appena comincia la raccolta delle olive, i coloni attaccano

Yumna Patel

11 ottobre 2018, MONDOWEISS

Il tempo è finalmente arrivato: gli abitanti di Turmusayya, un rigoglioso villaggio palestinese incastonato in una valle tra Ramallah e Nablus, nella parte centrale della Cisgiordania occupata, hanno avuto il permesso delle autorità israeliane per andare a raccogliere le olive dei loro alberi.

Questa possibilità viene concessa solo due volte all’anno: due giorni in primavera per coltivare la loro terra e due giorni in autunno per raccogliere le olive.

Pieni di eccitazione e della sensazione di urgenza, i contadini sono arrivati ai loro campi coltivati, che sono circondati da una colonia e da un avamposto israeliani. Quando sono arrivati, sono rimasti sconvolti nel vedere decine di alberi abbattuti, sradicati e marciti.

I 40 ulivi erano di proprietà del settantottenne palestinese Mahmoud al-Araj, che aveva curato gli alberi da quando era un ragazzino.

Alcuni di quegli alberi hanno 40, 50, 60, 70 anni”, dice a Mondoweiss al-Araj, seduto all’ombra di un grande ulivo con il tronco che è stato squarciato.

Ho coltivato queste piante, questa terra, da quando ero ragazzo. Aiutavamo le nostre famiglie e abbiamo faticato su questa terra per poter mantenere i nostri figli e le future generazioni,” dice.

Additando l’avamposto israeliano illegale di Adei Ad, costruito su terreni di Turmusayya, a poche centinaia di metri di distanza, l’angoscia nella voce di al-Araj si accentua.

Abbiamo dato tutto quello che abbiamo per la nostra terra e per questi alberi, e ora i coloni arrivano e distruggono tutto.”

Gli attacchi dei coloni sono una parte ‘inevitabile’ del raccolto

Quando abbiamo visto gli alberi in queste condizioni, non abbiamo chiamato Mahmoud perché avevamo paura che gli venisse un infarto,” dice a Mondoweiss Said Hussein, un parente di Al-Araj, mentre lo aiuta su per l’accidentato sentiero verso il suo uliveto. Hussein, che gestisce una serie di attività commerciali in America, passa il suo tempo tra Chicago e il suo luogo di nascita, Turmusayya. È proprietario di vari acri di terreno nel villaggio, a molti dei quali non può assolutamente accedere.

Sono proprietario di 114 dunum (11,4 ettari) di terra all’interno e attorno a Turmusayya,” dice Hussein a Mondoweiss, indicando le colline ondulate in lontananza, “ma ho accesso solo a circa 30 dunum. E anche per questi 30 dunum devo avere il permesso degli israeliani per accedervi.”

Hussein dice che la sua famiglia era proprietaria di circa 1.000 ulivi sulla terra del villaggio. Ora questo numero di aggira tra i 150 e i 200 alberi. “Prima che arrivassero i coloni, ci divertivamo a venire qui al terreno non solo per lavorarci, ma per starci in famiglia e persino per fare un picnic,” dice Hussein, sorridendo mentre rammenta bei ricordi della sua giovinezza.

Ogni venerdì venivamo qui a sederci sotto gli alberi a mangiare e a divertirci insieme,” dice. “Ora possiamo solo venire qui quattro giorni all’anno, e non possiamo neanche godercelo perché cerchiamo di fare il lavoro in tempo.”

Secondo Hussein, le restrizioni israeliane sui contadini di Turmusayya sono iniziate nel 1998, lo stesso anno in cui è stato costruito l’avamposto di Adei Ad.

Ci hanno reso sempre più difficile l’accesso alla terra, finché, intorno al 2002, è stato ufficializzato che dovevamo avere l’autorizzazione israeliana per accedere ai terreni,” dice.

Hussein sostiene che quattro giorni all’anno non sono praticamente sufficienti per occuparsi degli ulivi e della terra.

Questi alberi li devi amare e te ne devi prendere cura come se fossero figli tuoi. La terra ha bisogno di lavoro continuo per togliere le erbacce, potare i rami degli alberi, e via di seguito,” dice. “Come potremmo fare tutto questo solo in pochi giorni?”

E poi, quando abbiamo la fortuna di venirci, non possiamo neanche goderci pienamente la terra perché dobbiamo continuamente guardarci le spalle per via dei coloni che arrivano a tormentarci e ad attaccarci mentre stiamo lavorando,” continua.

Hussein raccontato a Mondoweiss di essere stato vittima di diversi attacchi da parte dei coloni nel corso degli anni.

Hanno cosparso i miei alberi con veleno e li hanno uccisi, hanno abbattuto e sradicato alberi e hanno incendiato la mia macchina e rotto le mie finestre mentre stavo lavorando sul terreno,” ha affermato.

L’attacco dei coloni è diventato parte inevitabile della raccolta delle olive,” dice scuotendo la testa. “È stabilito che accada ogni anno.”

Gli ulivi sono nemici dei coloni”

I casi di Hussein e al-Araj non sono gli unici. A Turmusayya circa il 60% dei [circa] 1.760 ettari di terra del villaggio si trovano nell’Area C – la zona della Cisgiordania sotto totale controllo israeliano per la sicurezza e amministrativo in cui sono vietati l’edificazione o i lavori agricoli da parte dei palestinesi.

La maggior parte della terra nell’Area C è agricola, per lo più coltivata a ulivi, così come a vigna, grano e altre colture.

Secondo il funzionario del comune Wadi Abu Awwad, 65 anni, direttore dei servizi topografici a Turmusayya, tutti gli 11.000 abitanti di Turmusayya sono proprietari di qualche appezzamento di terra agricola nella zona, rendendo l’agricoltura uno degli aspetti più significativi della vita del villaggio.

Turmusayya è circondato da cinque colonie e avamposti israeliani a nord e a est del villaggio, esponendolo a frequenti attacchi dei coloni.

Dal 1990, o persino prima, Turmusayya e i villaggi attorno a noi hanno sofferto molto,” dice a Mondoweiss Abu Awwad nel suo ufficio del Comune. “Nel corso degli anni i coloni hanno tagliato migliaia di ulivi, hanno danneggiato e bruciato le auto della gente e i loro attacchi hanno causato la morte di quattro persone.”

Abu Awwad dice che nel 2014 i coloni hanno abbattuto circa 2.000 alberi. “Fanno tutto il possibile per farci lasciare la terra, fanno buchi negli alberi, li avvelenano e li cospargono con pesticidi.”

Durante il suo incarico presso il Comune, Abu Awwad ha presentato più di 93 ricorsi alle autorità israeliane contro i coloni. Dice che neanche uno ha portato neppure a un arresto.

I soldati dicono sempre che non abbiamo prove e cercano di sostenere che forse abbiamo ‘nemici’ nel villaggio che tagliano gli alberi.”

Pochi anni fa, secondo Abu Awwad, un colono perse la sua carta d’identità sulla scena di un attacco contro gli ulivi. “Abbiamo mostrato il documento ai soldati e abbiamo detto: ‘Guardate, abbiamo una prova”, ma hanno detto che non era sufficiente, e che al colono era semplicemente successo di perdere la sua carta d’identità nella zona.”

Ma siamo certi che ogni volta che c’è un attacco contro gli alberi o una proprietà del villaggio sono stati i coloni,” dice.

Come mai perdiamo alberi solo nelle zone vicino alle colonie? La valle di Turmusayya è vasta, e ci sono molti alberi nel villaggio che non sono mai stati toccati. È perché i coloni non vi hanno accesso.”

Abu Awwad, come molte altre vittime palestinesi degli attacchi dei coloni, crede che i coloni prendano di mira l’agricoltura come parte di una strategia a lungo termine per cacciare i palestinesi dalle loro terre.

Gli ulivi sono un nemico dei coloni. Perché, se sulla tua terra sono piantati gli alberi, significa che continuerai a starci,” dice. “Loro vogliono che la terra non sia coltivata in modo che possano averla in base alla legge ottomana che dice che se non coltivi la terra per 5 anni il governo ha il diritto di appropriarsene.”

Nonostante decenni di attacchi da parte dei coloni, Abu Awwad sostiene di aver fiducia che il popolo di Turmusayya non se ne andrà mai dalla sua terra.

Pensano che tagliando gli alberi loro possono fare in modo che i contadini si arrendano, ma ciò non è mai successo e non succederà mai,” dice.

Ogni volta che li tagliano, noi torniamo sempre e li ripiantiamo.”

Yumna Patel è una giornalista multimediale che vive a Betlemme, Palestina.

(traduzione di Amedeo Rossi)




La stretta mortale di Israele sull’area C: lo sviluppo come resistenza

Ahmad El-Atrash

27 Settembre 2018, al-shabaka

Gli sforzi di Israele di stringere la sua presa sulla Cisgiordania sono senza precedenti da quando il governo israeliano attuale è stato formato nel 2015. L’anno scorso, per esempio, si è visto il numero più alto di bandi per la costruzione di colonie israeliane, con più di 3100 proposte governative rilasciate per la costruzione di unità abitative. Eppure tale situazione non è per niente nuova. Cinque decenni di occupazione israeliana – in particolare a partire dagli Accordi di Oslo firmati nel 1993 – hanno permesso a Israele di continuare la sua colonizzazione della terra palestinese stroncando, al contempo, lo sviluppo palestinese, distorcendolo, e rendendolo, addirittura, mitologico.

Tutto questo è particolarmente evidente nell’area C. Quest’area controllata da Israele, secondo l’impianto degli Accordi di Oslo, costituisce più del 60% della Cisgiordania. Israele l’ha sviluppata, in particolare, in funzione dei suoi interessi, cioè costruendoci colonie e infrastrutture militari.

Di fronte alle politiche israeliane in Cisgiordania i palestinesi considerano il loro proprio sviluppo come un mezzo di resistenza. Tuttavia, essi non sono stati in grado finora di realizzare un programma di sviluppo efficace che riesca ad opporsi a Israele. E questo non è una sorpresa: lo sviluppo sotto occupazione è tutto fuorché possibile. Tuttavia, i palestinesi possono lavorare collettivamente per realizzare le loro necessità attuali senza pregiudicare i loro diritti, incluso il diritto allo sviluppo di un futuro stato palestinese.

Questo articolo esamina come i palestinesi possono investire su, e promuovere ulteriore resistenza alla geopolitica attuale dello sviluppo, attraverso un focus sull’area C. Esso delinea la storia dell’area, analizza i modi in cui lo sviluppo palestinese è negato a beneficio dei coloni israeliani, e offre modi ai palestinesi per rivendicare progetti di sviluppo che servano loro per le future generazioni.

La Storia dell’area C

Come è ben noto, gli Accordi di Oslo, che cominciarono ad essere firmati nel 1993, crearono le aree A, B e C nel 1995, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che controllava l’area A, mentre Israele e l’ANP condividevano il controllo dell’area B. Nonostante l’ANP sia responsabile, nella teoria, della vita civile nell’area C, inclusa l’educazione e la sanità, le autorità israeliane hanno totale controllo sulla sicurezza e sull’amministrazione [del territorio, ndt], inclusa la pianificazione e lo sviluppo.

La situazione doveva essere temporanea. In base a Oslo, tutte le aree dovevano essere assegnate ai palestinesi entro il 1998, ma l’accordo non si realizzò mai e l’intera Cisgiordania rimase sotto occupazione israeliana.

Il diritto umanitario internazionale definisce i palestinesi come “popolazione protetta” e Israele come “potenza occupante”, alla quale è proibito apportare cambiamenti permanenti [al territorio, ndt] e che è obbligata a proteggere lo status quo ante. Eppure, oggi i blocchi di colonie in costante crescita sono tutt’altro che temporanei. L’area C è attualmente abitata da solo il 6% dei palestinesi della Cisgiordania, cioè da circa 300.000 palestinesi e più di 340.000 coloni israeliani. Più di 20.000 dei palestinesi che vivono in area C sono beduini e comunità di pastori che vivono prevalentemente in tende, baracche di stoffa e metallo e caverne.

Le autorità israeliane hanno ostacolato lo sviluppo palestinese dell’area C e in molte altre parti della Cisgiordania attraverso ordini militari. Questi ordini impediscono ai palestinesi di registrare terre e di costruire, e vietano ai comitati locali e distrettuali la pianificazione. Come risultato, i palestinesi sono esclusi dalla partecipazione ai processi che guidano lo sviluppo territoriale, mentre Israele confisca terreni per presunti servizi pubblici quali le strade costruite per l’utilizzo esclusivo degli israeliani ebrei.
Il progetto israeliano non è temporaneo o casuale, ma è un sistema etno-nazionale e coloniale di insediamento.

Come tale, solo il 30% dei territori dell’area C sono designati per lo sviluppo a guida palestinese. Il restante 70% è classificato come zone militari chiuse che sono interdetti ai palestinesi, a meno che essi ottengano dei permessi dalle autorità israeliane. Queste gravi restrizioni sullo sviluppo territoriale dei palestinesi continuano ad intensificarsi nonostante il fatto che lo stato palestinese sarebbe impensabile senza l’area C. Infatti, l’area C contiene risorse naturali di grande valore e una ricca eredità culturale, e rappresenta la gran parte dell’area disponibile per lo sviluppo territoriale del futuro stato palestinese.

Coloro che si aggrappano al “processo di pace”, che ha prodotto la designazione dell’area C, continuano a nascondere ciò che sta avvenendo di fatto: politiche e pratiche israeliane che creano condizioni equivalenti ad un sistema di apartheid. Uno sguardo critico sull’area C conferma che il progetto israeliano non è semplicemente temporaneo e casuale – cioè un’occupazione militare – ma un sistema etno-nazionale e coloniale d’insediamento permanente. È il risultato dell’ideologia sionista e una pratica che aspira a stabilire uno Stato esclusivamente ebraico dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo.

Questo è evidente nello schema di controllo israeliano, che include il sistema di identificazione, le strade di circonvallazione israeliane, i checkpoint militari, l’implementazione di un sistema giuridico separato per palestinesi e coloni israeliani nei Territori Palestinesi Occupati (TPO), il monopolio israeliano sulle risorse naturali palestinesi, e il muro di separazione – tutti elementi che continuano a violare il diritto internazionale.

Chiaramente, come risultato, lo sviluppo palestinese è soffocato dalle demolizioni israeliane, dal divieto delle costruzioni palestinesi e dalla “cooperazione” idrica tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese. Inoltre, per alcuni, anche i progetti di sviluppo e gli aiuti internazionali minano, invece di portare avanti, gli interessi palestinesi.

Sviluppo Represso

Distruzioni e restrizioni israeliane
Al momento sono imminenti più di 12.500 ordini di demolizione israeliani contro approssimativamente 13.000 strutture palestinesi nell’area C. Come risposta a queste demolizioni i palestinesi hanno preparato 116 piani generali che dovrebbero accomodare 132.000 palestinesi in 128 comunità. Questi piani delineano la costruzione di case e dei servizi sociali necessari, incluse le scuole e le cliniche. Nonostante il fatto che questi piani rispettino gli standard internazionali, l’Amministrazione Civile Israeliana (ICA), che amministra la pianificazione e l’urbanistica nell’area C in base all’impianto di Oslo, ha approvato solo 5 dei 102 [progetti] presentati, e 99 altri sono stati trattenuti per più di 18 mesi a causa di discussioni tecniche. Dal 2009 al 2013, sono stati approvati solo 34 permessi di costruzione su 2000 richieste per i palestinesi nell’area C.

Questo impedisce, chiaramente, lo sviluppo di infrastrutture essenziali per la comunità palestinese. Per esempio, l’area C ha una grave carenza di aule e di scuole primarie situate nelle comunità per i palestinesi, e questo influisce sull’accesso dei bambini all’educazione, in particolare quello delle bambine. Le restrizioni nell’area C impediscono anche la naturale espansione delle città urbane, dei centri e dei villaggi rurali. La comunità internazionale ha supportato l’agenda dello sviluppo compresa nei piani generali, e nonostante alcune infrastrutture sociali di vitale importanza siano state realizzate, il gap nello sviluppo rimane enorme.

In relazione a ciò, la densità della popolazione palestinese nelle zone costruite dell’area C è di 250 volte più alta di quella dei coloni israeliani. Questo contrasto, che rivela l’ampia differenza nell’accesso allo spazio vitale e alle risorse, è ancora più grande quando si comparano le densità di popolazione all’interno delle aree destinate allo sviluppo – cioè, come delineate nei piani generali presentati dai palestinesi alla luce delle attuali restrizioni israeliane. La densità della popolazione palestinese all’interno di questi piani proposti è quasi del 600% più alta della densità per i coloni israeliani nei piani per le colonie.

Inoltre, questa densità di popolazione palestinese è molto più alta della densità approvata nei piani generali delle aree A e B. Quest’alta densità pianificata per l’area C significa che c’è poco spazio per la crescita della popolazione, la fornitura dei servizi basilari, e l’agricoltura o qualsiasi altro mezzo di sviluppo economico. Limitare lo sviluppo delle comunità palestinesi nell’area C costringe i palestinesi a migrare verso i centri urbani e le comunità dell’area A e B, come parte dell’obiettivo israeliano di ridurre la popolazione palestinese nell’area C.

La “cooperazione” israelo-palestinese
La cooperazione israelo-palestinese nell’area C è tutto fuorché innocua. Nel gennaio del 2017, per esempio, l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele hanno dichiarato che il conflitto che durava da 6 anni sulla cooperazione idrica tra di loro era finito. Il comitato congiunto israelo-palestinese per l’acqua di Oslo non si era incontrato dal 2010 quando l’Autorità Idrica Palestinese rifiutò di continuare a rilasciare permessi per progetti di infrastrutture idriche nelle colonie israeliane sparse nell’area C.

Il nuovo accordo approvato da entrambe le parti dà ai palestinesi il diritto di collegare le comunità palestinesi in area C alla rete idrica senza chiedere il permesso a Israele, ma non affronta i piani palestinesi per l’estrazione di ulteriore acqua dai pozzi, per l’aggiornamento dei pozzi o lo scavo di nuovi. Inoltre, permette anche agli israeliani di costruire infrastrutture idriche e tubature senza il permesso della parte palestinese – una pratica che essi avevano portato avanti nonostante lo scontro sulla questione della cooperazione idrica.

Fondamentalmente, l’accordo non riuscì ad affrontare le profonde diseguaglianze idriche evidenti sin dagli Accordi di Oslo. I coloni israeliani, per esempio, consumano più di 4 volte tanto quanto consumano i palestinesi in Cisgiordania, inclusa l’area C, e le famiglie palestinesi in difficoltà spendono un quinto del loro salario per l’acqua. Inoltre, le autorità israeliane non negano solo ai palestinesi l’accesso alle terre e alle risorse idriche, ma distruggono anche le strutture palestinesi, tra cui le infrastrutture idriche.

Lo sviluppo idrico nell’area C perciò si dimostra quasi impossibile per i palestinesi. Se vogliono costruire piccole tubature per l’acqua per una comunità palestinese remota e vulnerabile, devono farlo in mezzo alle grandi tubature delle colonie israeliane in costante crescita.

La complicità internazionale

Anche i piani ideati dalla comunità internazionale per e con le comunità palestinesi nell’area C e in partenariato con l’Autorità Nazionale Palestinese dimostrano come lo sviluppo territoriale sia limitato. Israele ha usato queste iniziative come strumento per controllare ulteriormente la Cisgiordania e Gerusalemme e i suoi dintorni.

Le autorità israeliane, per esempio, hanno approvato una rete di strade regionali che sono state riabilitate o costruite per i palestinesi con il supporto della comunità internazionale, dato che erano di beneficio anche per i coloni israeliani in Cisgiordania. Queste strade palestinesi sono di complemento per le strade designate per gli israeliani e che collegano le colonie israeliane in Cisgiordania con Israele stesso, aggirando le comunità palestinesi. Ciò comporta gravi ripercussioni sul diritto dei palestinesi alla libertà di movimento; questo tipo di infrastruttura pregiudica anche altri diritti palestinesi connessi, come il diritto al culto e all’educazione, in quanto li costringe a fare i pendolari utilizzando strade più lunghe e più costose.

I palestinesi devono affrontare la questione dello sviluppo nell’area C con strategie che vanno oltre il soccorso e i piccoli tentativi di sviluppo.

Inoltre, i programmi di emergenza, di soccorso e quelli umanitari hanno oscurato gli interventi in direzione dello sviluppo in Cisgiordania, in particolare nell’area C. Le necessità di sicurezza rivendicate da Israele hanno reso i palestinesi dipendenti dai donatori internazionali, e le decisioni chiave sono state spostate in modo crescente fuori dal controllo dei locali.

Queste politiche, sviluppate sulla base dello schema dei due Stati, permettono ai palestinesi nell’area C al massimo di sopravvivere. Sopravvivere – cioè semplicemente esistere – è essenziale per salvaguardare la soluzione dei due Stati. Ma sebbene i palestinesi trovino modi per rimanere resilienti sotto le immense pressioni e incertezze che caratterizzano il contesto di sviluppo nell’area C, sono sempre più insicuri.

Un esempio è il villaggio di Susiya, a sud di Hebron. I 340 abitanti di Susiya, che si procurano da vivere principalmente tramite la pastorizia, resistono alle pratiche israeliane sul terreno sin da quando i coloni israeliani hanno dichiarato che Susiya era stata costituita sulla loro terra, nel 1983. Nel 1986, l’ICA ha informato i residenti palestinesi di Susiya che il loro villaggio era stato appropriato “per scopi pubblici”, e l’esercito israeliano li ha espulsi dalle loro case. Le famiglie hanno spostato le loro dimore lì vicino. L’ ICA li ha spostati di nuovo nel 2001.

Oggi Susiya continua a sopravvivere, principalmente tramite interventi umanitari e misure di sostegno da parte di attori internazionali. I residenti del villaggio hanno pure sviluppato dei piani per il futuro, come il piano generale del 2013. L’ICA ha rifiutato di approvare il piano, il quale darebbe ai residenti la sicurezza e l’accesso alle tubature per la fornitura di acqua. In contrasto, ha emesso decine di ordini di demolizione. I coloni israeliani hanno limitato l’accesso degli abitanti del villaggio ad alcune delle loro terre agricole, e la loro violenza è spesso documentata.


Che cosa possono fare i palestinesi?

Se i palestinesi vogliono ottenere le loro terre e i loro diritti, devono affrontare lo sviluppo nell’area C con interventi che rispondono alle pratiche di occupazione israeliane. Queste strategie devono andare oltre gli sforzi di soccorso e di sviluppo di piccole dimensioni.

Preservazione
Innanzitutto i palestinesi devono preservare qualsiasi loro presenza [sul territorio, ndt] attuale. La società civile palestinese, l’Autorità Nazionale Palestinese e i donatori possono trovare modi in cui le comunità palestinesi nell’area C, inclusi i beduini e le comunità di pastori, continuino a crescere e a lavorare sulle loro terre. Questi gruppi hanno diritti codificati secondo il diritto umanitario internazionale ad utilizzare le risorse naturali della terra senza subire minaccia per la loro sicurezza, nonché a mantenere la loro proprietà e i loro legami storici con la terra così come i loro valori culturali.

La capacità di sostenere queste comunità può essere rafforzata attraverso il mantenimento dei legami di parentela e dei nessi economici tra palestinesi nelle aree A, B e C. Le autorità palestinesi competenti, per esempio, possono assicurare che le grandi municipalità nelle aree A e B forniscano i servizi basilari alle zone rurali dell’area C.

La società civile palestinese può anche supportare la preservazione della presenza palestinese in Cisgiordania creando e sostenendo la creazione di mappe di fonti disponibili che includano tutte le comunità palestinesi.

Legislazione
L’Autorità Nazionale Palestinese deve sbarazzarsi delle leggi e dei sistemi di regole arcaici in modo da incentivare la crescita tra le comunità palestinesi. Le politiche datate devono essere sostituite da criteri che enfatizzino i diritti umani e la partecipazione inclusiva. Una nuova legge palestinese sulle costruzioni e sulla pianificazione, per esempio, potrebbe sostituire le leggi sulla costruzione e sulla pianificazione in atto sin dai tempi del mandato britannico (gli anni ’40) e sin dall’amministrazione giordana (anni ’60). Queste leggi non danno più risposte utili alle sfide affrontate dai palestinesi nella vita reale. Una nuova legge dovrebbe aspirare ad assicurare processi di partecipazione pubblica, e dunque la titolarità locale dei piani e dei progetti, specialmente nell’area C.

La società civile palestinese e i leader politici devono riappropriarsi dello sviluppo attraverso piani che rispondono alle necessità della popolazione.

L’Autorità Nazionale Palestinese deve anche incoraggiare il lavoro di cooperazione e sviluppo tra le comunità palestinesi nelle aree A, B e C in modo da incrementare la crescita economica territoriale. Potrebbe supportare e creare delle unità amministrative più ampie, che connettano diverse aree, per esempio, come dei consigli congiunti per i servizi e delle municipalità congiunte.

Decolonizzazione
I palestinesi devono anche ideare dei piani di decolonizzazione per l’area C. Il Piano Territoriale Nazionale per la Palestina, a supporto europeo, del 2009, include una visione di sviluppo per l’area C nota come “Previsioni per la Palestina, 2025, 2050”. Il documento rappresenta una cornice di ampia prospettiva per sette principali settori: economia, sviluppo urbano, infrastrutture, demografia, relazioni internazionali, servizi e risorse naturali. L’Autorità Nazionale Palestinese deve ultimare e adottare la prospettiva dello sviluppo territoriale come piano ufficiale che offra procedure specifiche in merito a come affrontare le colonie israeliane nell’area C. Un manuale su come comportarsi con le colonie israeliane, per esempio, potrebbe essere sviluppato in collaborazione tra tutte le parti interessate palestinesi, inclusi i profughi nella diaspora. Le linee guida detterebbero a quali settori verrebbero allocate le colonie quando si sviluppasse uno Stato palestinese, come l’agricoltura o l’industria. Questi settori determinerebbero il destino delle colonie – cioè la demolizione o la conversione.

I palestinesi e i loro alleati devono continuare a supportare il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) e lavorare con le organizzazioni internazionali per lottare per i diritti dei palestinesi allo sviluppo nell’area C. I partner di sviluppo e quelli multilateriali, incluse le Nazioni Unite, dovrebbero supportare tale sviluppo promuovendo costruzioni di grande scala nell’area C in accordo con i parametri della soluzione dei due Stati.

I passi proposti qui sopra non possono realizzare uno sviluppo palestinese sostenibile, ma possono aiutare a respingere l’occupazione militare israeliana nell’area C e oltre. Adottando queste e altre misure, la società civile palestinese e i leader politici devono prendere lo sviluppo nelle loro mani attraverso piani che rispondano alle necessità della popolazione e che la mantengano sulla sua terra, per contrapporsi ai piani coloniali di Israele.

Ahmad El-Atrash

Membro di Al-Shabaka, Ahmad El-Atrash è un pianificatore territoriale palestinese e uno specialista in sviluppo urbano. Ha avuto ampia esperienza nel lavoro con think-tank, istituzioni accademiche, ONG e agenzie ONU riguardo questioni relative alla pianificazione geopolitica e strategica, alla riforma della governance, la resilienza e lo sviluppo sostenibile nel contesto palestinese. Ahmad ha conseguito un dottorato in Pianificazione Territoriale all’Università TU-Dortmund in Germania.

Traduzione di Tamara Taher




Amnesty International: ‘La demolizione di Khan al-Ahmar è un crimine di guerra’

3 ottobre 2018, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) – Martedì Amnesty International ha dichiarato che la demolizione del villaggio beduino di Khan al-Ahmar, ad est di Gerusalemme occupata, ed il trasferimento dei suoi abitanti da parte delle forze israeliane come parte di un piano illegale israeliano di espansione delle colonie è un “crimine di guerra”. Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nordafrica, ha denunciato la programmata demolizione israeliana di Khan al-Ahmar ed ha sottolineato che “questa azione non solo è spietata e discriminatoria, ma è illegale.”

La demolizione del villaggio porterebbe al trasferimento di 181 abitanti, il 53% dei quali sono minori e il 95% rifugiati registrati presso l’UNRWA, Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi. A settembre l’Alta Corte israeliana ha respinto un appello contro la demolizione del villaggio ed ha sentenziato a favore della sua evacuazione e demolizione, concedendo ai residenti un periodo fino al 1 ottobre perché se ne vadano.

L’Alta Corte israeliana ha deciso la demolizione sulla base della mancanza dei permessi di costruzione israeliani, quasi impossibili da ottenere, cosa che le Nazioni Unite hanno detto essere la conseguenza del regime urbanistico e di pianificazione discriminatorio praticato nell’area C – l’oltre 60% della Cisgiordania occupata sotto completo controllo israeliano.

Gli accordi di Oslo del 1995 tra l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e le autorità israeliane hanno diviso la Cisgiordania in tre settori: le aree A, B e C. L’area A, comprensiva delle popolose città palestinesi e che rappresenta il 18% della Cisgiordania, sarebbe stata sotto il controllo dell’appena costituita Autorità Nazionale Palestinese (ANP), mentre l’area B sarebbe rimasta sotto il controllo dell’esercito israeliano, e all’ANP sarebbe spettato quello per l’amministrazione civile.

Invece l’area C, la maggior parte della Cisgiordania, è stata posta sotto il completo controllo militare israeliano e include la maggioranza delle risorse naturali e degli spazi liberi sul territorio palestinese. In base agli accordi di Oslo, era previsto che la terra sotto controllo israeliano sarebbe stata gradualmente trasferita all’ANP entro un periodo di 5 anni.

Tuttavia, circa due decenni dopo, la terra continua ad essere sotto il controllo israeliano.

L’area C, insieme a Gerusalemme est – considerata la capitale di un futuro Stato palestinese come parte di una soluzione a due Stati – è stata terreno della rapida espansione degli insediamenti, mentre il muro israeliano di separazione ha ulteriormente diviso le comunità palestinesi ed ha posto restrizioni ai palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza anche rispetto alla possibilità di andare a visitare quella che doveva essere la loro capitale.

Lunedì Amnesty International, insieme a Jewish Voice for Peace (Voci Ebraiche per la Pace, organizzazione ebraica statunitense contraria all’occupazione, ndtr.), ha lanciato una campagna sui social media nei confronti del Coordinamento delle Attività Governative nei Territori [occupati], un’unità del ministero della Difesa israeliano che è responsabile di attuare la politica del governo nell’area C.

La campagna afferma che “le politiche di Israele di insediamento di civili israeliani nei Territori Palestinesi Occupati, di arbitrarie distruzioni delle proprietà e di trasferimenti forzati di palestinesi che vivono sotto occupazione, costituiscono violazioni della Quarta Convenzione di Ginevra e sono crimini di guerra previsti dallo Statuto della Corte Penale Internazionale.”

Aggiunge che dal 1967 Israele ha espulso e trasferito con la forza intere comunità e demolito più di 50.000 case e strutture palestinesi.

Amnesty International ha dichiarato: “Dopo circa un decennio di tentativi di combattere l’ingiustizia di questa demolizione, i residenti di Khan al-Ahmar vedono ora avvicinarsi il giorno terribile in cui vedranno le loro case, possedute da generazioni, crollare davanti ai loro occhi.”

Ha sottolineato che “il trasferimento forzato di Khan al-Ahmar si configura come un crimine di guerra”, specificando che “Israele deve porre termine alla sua politica di distruzione delle case e delle esistenze palestinesi per fare spazio alle colonie.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

Fine modulo




L’agonia di Khan al Ahmar

Patrizia Cecconi

30/ 09/ 2018, Pressenza

Una delle ultime illegali prepotenze israeliane sta per avere, quasi certamente, il suo epilogo. Si tratta del villaggio beduino di Khan Al Ahmar a est di Gerusalemme, esattamente tra le due colonie – illegali come tutte le altre – di Ma’ale Adumin e Kfar Adumin.

La storia del villaggio non differisce molto da quella di altri villaggi rasi al suolo, in piena illegalità, da Israele, ma qui c’è qualcosa di speciale. C’è una scuola di gomme, cioè un’idea fantastica avuta dall’Associazione Vento di Terra che l’ha costruita e che ha richiamato l’attenzione, finalmente, anche delle istituzioni internazionali. Ma Israele, convinto di essere al di sopra di ogni legge che non sia la propria, dopo l’ultima sentenza della “sua” Corte suprema, ha deciso che la scuola e il villaggio vanno demoliti. Il perché è gravissimo, ma ce lo faremo spiegare da uno dei rappresentanti  nonché fondatore dell’associazione che al momento si trova nel villaggio a rischio demolizione: Massimo Annibale Rossi al quale abbiamo chiesto un’intervista.

La prima cosa che sembra normale chiedere a Massimo A. Rossi è come nasce l’idea di costruire una scuola di gomme e perché proprio lì.  Questa storia è la storia di una lunga battaglia e Massimo ci sta mettendo l’anima per riuscire a vincerla, ma mentre inizia a raccontare lo interrompo per chiedergli qualcosa di sé.

Non intendo una biografia ma almeno qualche notizia che faccia capire ai nostri lettori cosa c’è dietro tanto impegno.

La richiesta è accolta e Massimo dice di potersi definire “un figlio della rivoluzione basagliana”. Basaglia, lo psichiatra capace di far aprire i manicomi negli anni ’70, “era un grande innovatore e un grande rivoluzionario” mi dice e aggiunge “l’abbattimento dei muri di segregazione è una vera rivoluzione e i muri non sono solo quelli manicomiali, ma quelli discriminatori del ‘diverso’ in genere” e questa consapevolezza sarà un po’ l’imprinting del suo impegno sul sociale. Anche la sua tesi di laurea in Letteratura moderna riguarderà una ricerca sull’alterità. Quindi a pieno titolo può definirsi un figlio della rivoluzione basagliana.

Prima di arrivare in Palestina Massimo ha lavorato nelle periferie milanesi, poi in America Latina. Ha sempre scelto di fare lavoro in rete e ricorda la prima Cooperazione allo sviluppo come un ottimo strumento per operare nelle situazioni di svantaggio sociale. Non sarà più così quando la Cooperazione italiana inizierà una diversa metodologia operativa rifacendosi al modello anglosassone e “a quel punto nasce l’idea di formare una piccola ong indipendente che sia assolutamente radicata nella realtà, senza avere l’imprinting aziendalistico delle ong anglosassoni”.

Insomma, abbiamo davanti, o meglio “in linea” un uomo che una dozzina di anni fa, con un piccolo gruppo di amici, tra cui la sua compagna di vita Barbara Archetti, attuale presidente di VdT, costituisce un’associazione che ha come filosofia di fondo l’abbattimento della discriminazione sociale.

Vento di Terra verrà costituita nel 2006, ma già nel 2002 era avvenuto l’incontro con la Palestina, dice Massimo, “Inizialmente si trattava di interesse giornalistico. Osservare, descrivere e comunicare” poi però avverrà il coinvolgimento con “il mondo palestinese vero e il passaggio dal descrivere all’intervenire.”  Lavorerà con i progetti educativi con i centri Rousseau nel campo profughi di Shuafat in Cisgiordania e porterà in Italia, in sei anni di summer camp, 150 bambini accolti da una ventina di Comuni del milanese. “Ormai eravamo considerati come parte della comunità e in quel periodo Barbara (n.d.r. l’attuale presidente dell’associazione) gestì anche un asilo nido nel campo. Ma i beduini erano degli ‘invisibili’. Fu la coordinatrice del campo di Shuafat a farci conoscere la comunità beduina di Khan Al Ahmar, una tribù cacciata dalla propria terra, nel deserto del Negev nel 1952 e sistematasi in questo pezzetto di terra a est di Gerusalemme”.

Infatti, la comunità beduina degli Jahalin rappresenta uno dei casi di profughi nella loro stessa terra, ma Israele sta mettendo in pratica, totalmente fuori da tutte le leggi internazionali, il cosiddetto piano D già elaborato prima della sua autoproclamazione come stato nel maggio del “48 e cioè l’annessione di tutta la Palestina storica “rosicchiando” con le sue colonie illegali i territori palestinesi dell’area C, praticando quella che viene definita colonizzazione da insediamento e che va contro il Diritto internazionale.

Quindi la piccola comunità beduina deve sparire perché Israele deve unire le due colonie e tagliare in due la Palestina impedendo la nascita di uno Stato palestinese per mancanza, tra l’altro, di continuità territoriale.

Ma perché Khan al Ahmar ha pensato di fare una scuola proprio qui? Massimo A. Rossi risponde che “il lavoro di VdT in Palestina, compresa anche la Striscia di Gaza, riguarda sempre progetti educativi proprio per quell’esserci – alla base dell’associazione – del discorso di abbattimento muri discriminatori. Abbiamo deciso di fare qui la scuola perché la comunità infantile di Khan al Ahmar non aveva accesso ad altre scuole se non attraversando una pericolosissima autostrada scavalcando il guard rail. Quei bambini avevano il diritto di accedere all’istruzione, ma Israele non consentiva costruzioni che avessero delle fondamenta e così, con gli architetti dell’associazione Arcò di Milano, collegata con l’Università di Pavia si pensò di costruire una struttura già sperimentata in New Mexico. Le vecchie gomme di auto in Palestina non mancano, vengono usate come forma di riciclo un po’ ovunque. Venne preparato il progetto e la costruzione coinvolse tutta la comunità. Realizzammo la scuola, senza fondamenta in modo che Israele non potesse accampare giustificazioni per demolirla, in 14 giorni e 14 notti. Era il giugno del 2009”.

Ma conoscendo la storia di quella scuola sappiamo che Israele tentò da subito di abbatterla, dichiarandola illegale. Non potendo dire apertamente al mondo quale fosse il motivo dell’abbattimento e l’intenzione di demolire l’intero villaggio, la destra filoisraeliana in Italia mostrò la faccia buona di Israele e disse che la scuola era dannosa per la salute dei bambini. Chiedo se ricordo bene e Massimo mi conferma che sì, ricordo bene “in Italia i filoisraeliani  dissero che il ‘nero-fumo’ cioè una sostanza rilasciata dagli pneumatici, era dannosa per la salute dei bambini. Ma gli pneumatici erano coperti dalla malta e quindi la scusa venne abbandonata” poi continua dicendo che Israele non poteva neanche accampare il diritto di uso di suolo pubblico, comunque pretestuoso, perché il terreno era di proprietà privata della famiglia Anata e questa sembrava un’ottima forma cautelativa.

Dopo anni di dispute, di ricorsi al Tribunale e infine alla Corte suprema di Giustizia – l’organo giuridico israeliano che mette l’ultima parola alle sentenze dei precedenti tribunali – dopo l’intervento di parlamentari italiani ed europei, si sperava di potercela fare ma ormai la Corte Suprema – la cui composizione negli anni è cambiata seguendo l’andamento governativo sempre più a destra – ha dato il suo parere favorevole alla distruzione della scuola e del villaggio e il governo israeliano ha offerto uno spazio vicino a una discarica o un altro in prossimità di fognature per spostare tutta la comunità.

L’Alto rappresentante per gli affari esteri della UE, Federica Mogherini, su sollecitazione del direttore di B’Tselem, ha preso posizione dichiarando che abbattimento e deportazione potrebbero configurarsi come crimini di guerra e creare seri problemi ad Israele. B’Tselem è stata la prima  associazione israeliana democratica ad esprimersi in tal senso e seguita a dare il suo supporto sapendo che  domani, 1° ottobre, le ruspe dovrebbero entrare in azione.

Chiedo a Massimo A. Rossi cosa faranno loro di VdT e mi risponde “noi saremo accanto alla comunità comunque. A noi questo progetto ha cambiato la vita, non possiamo abbandonare bambini e famiglie  all’arbitrio israeliano. Peraltro, la sentenza della Corte Suprema parla di demolizione e non di deportazione degli abitanti.” In effetti il capo villaggio ha inviato una lettera aperta alle autorità israeliane ed all’esercito dicendo che da lì loro non si sposteranno e che chiunque agirà contro di loro, dall’ultimo conducente di ruspa al primo generale, sarà ritenuto responsabile di crimini contro l’umanità e si chiederà contro ognuno di loro l’intervento delle organizzazioni giuridiche internazionali.

Domani, 1° ottobre, sarà pure giorno di sciopero nazionale in tutta la Palestina, proclamato dall’Anp contro la legge che trasforma, anche giuridicamente, lo Stato israeliano in Stato ebraico rendendo di fatto e di diritto Israele uno Stato di apartheid. Cosa succederà domani al villaggio di Khan Al Akhmar? Si spera nel miracolo, visto che lo strapotere di Israele va al di sopra dell’Onu al punto di permettersi di non far entrare in Palestina parlamentari e rappresentanti Onu, in quanto, sia chiaro, tutta la Palestina è assediata, anche se Gaza lo è in modo più esasperato, tutta la Palestina è assediata e le chiavi d’entrata e d’uscita per il fondo chiuso e occupato chiamato Palestina le tiene l’assediante.

Si spera nel miracolo.

Intanto Vento di Terra non cede come non ha ceduto dopo che l’esercito israeliano ha demolito con precisione certosina quello che Massimo A. Rossi chiama il “nostro vero gioiello, la ‘Terra dei bambini’ di Um al Naser nella Striscia di Gaza, costruita in un posto in cui c’era solo liquame, un gioiello di architettura biodinamica. Il nostro materiale di base erano sacchi di sabbia. La costruimmo nel 2011, offriva educazione e gioia a 150 bambini. A inaugurarla fu Laura Bodrini. Quando l’esercito israeliano invase la Striscia di Gaza, nel 2014, La terra dei bambini fu il primo edificio ad essere demolito”.

Chi scrive lo sa bene e visitò quel che ne restava un anno dopo il massacro israeliano detto “margine protettivo”. Non c’era più niente se non qualche pezzo di tondino di ferro sfuggito ai bulldozer.  Massimo racconta della distruzione “del loro gioiello” con un tono profondamente amaro ma poco dopo aggiunge “Ora però la stiamo ricostruendo. Non è proprio la stessa cosa ma il nuovo asilo ha preso già a funzionare e poi abbiamo il progetto Zeina per le donne. No, ormai non ci fermiamo. Le nostre scuole, i nostri centri sono tutti costruiti con i parametri della bio-architettura, leghiamo insieme ambiente e istruzione in un progetto che vede la pace e il rispetto per la vita come percorso e come obiettivo”.

Chi ha visitato i centri di Umm Al Naser sa che non c’è una parola di troppo in queste affermazioni, e la ex-direttrice della Terra dei bambini che ora dirige il nuovo asilo e che è a sua volta membro di una famiglia beduina, è una delle giovani donne più determinate e intelligenti incontrate nella Striscia di Gaza.

Da questa conversazione con il co-fondatore di VdT emerge quanto affermato nelle prime battute : un figlio della rivoluzione basagliana che vede nell’abbattimento dei muri di segregazione la propria mission che VdT realizza come e dove può.

Israele probabilmente domani metterà in pratica quel che rappresenterà, per il momento, la sua ultima vergogna oltre che il suo ultimo crimine, ma Israele cammina esattamente come i suoi bulldozer: distrugge tutto ciò che confligge col suo piano di annessione illegale della Palestina, sapendo che finora ha potuto contare sulla tolleranza delle istituzioni internazionali ed ora può addirittura contare sul sostegno immediato, totale e dichiarato senza pudore del presidente degli USA, l’uomo che si pone come padrone del mondo e che, nella sua rozzezza politica oltre che umana, ha affermato la sua intenzione di sostenere Israele al di là di ogni legalità internazionale.

Sappiamo che Khan Al Ahmar non è che l’ennesimo passo di pulizia etnica, del resto il colonialismo da insediamento non può sopportare un’interruzione “araba” nella sua continuità etnicamente “ebraica” ma, come gli abitanti di altri villaggi, distrutti e immediatamente ricostruiti per tre, quattro, dieci  volte o addirittura, come Al Aragib per oltre 130 volte, anche Khan Al Ahmar verrà ricostruito una, due, dieci volte a meno che Israele non si macchi ancora una volta del crimine di deportazione caricando gli abitanti a forza sui  camion, come ci ricordano antiche e tristi immagini in cui i caricati erano ebrei, per allontanarli definitivamente dalla loro terra.

Il portavoce della comunità Jahalin ha detto chiaramente che accetteranno di essere spostati solo a patto che possano tornare nella loro terra, cioè solo a patto che venga data almeno parziale attuazione alla Risoluzione Onu 194. Cosa che Israele con farà.

Faccio un’ultima domanda a Massimo chiedendogli cosa faranno domani se il miracolo non si avvererà e arriveranno i bulldozer. Mi risponde che “faremo resistenza passiva, non offriremo la possibilità di sparare e, come ti ho già detto, noi non abbandoneremo la comunità e la sosterremo ovunque, ma soprattutto contiamo su quanto esposto dall’associazione B’Tselem e dall’Alto commissario Federica Mogherini sul piano giuridico: questa volta, forse per la prima volta, Israele avrà qualcosa da perdere. Se Israele seguiterà a non subire sanzioni, seguiterà ad applicare la legge della giungla. Contiamo su questo”.

Chiudiamo così l’intervista telefonica, noi, osservatori a distanza e con il compito di informare, e Massimo A. Rossi da Khan Al Ahmar, in mezzo a “tanta energia, tanta volontà …ma poco realismo” come mi dice con un po’ di amarezza salutandomi e aggiungendo di essere, ovviamente, molto preoccupato.

Chiudiamo augurandoci che avvenga “il miracolo” e che Israele per una volta capisca che deve arrendersi al Diritto e accantonare la legge del più forte.  Lo capirà solo se realmente scatteranno le sanzioni previste dal Diritto internazionale, quelle di cui, fino ad oggi, ha potuto farsi beffe sapendo che alle enunciazioni non seguiva altro che un inutile quanto ridicolo rimprovero.




Rapporto OCHA del periodo 11- 24 settembre (due settimane)

Nella Striscia di Gaza, durante gli eventi legati alla “Grande Marcia del Ritorno”, nove palestinesi, tra cui tre minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane e altri 829 sono rimasti feriti.

Quattro delle vittime, tre uomini e un ragazzo, sono stati uccisi durante le manifestazioni che si sono svolte venerdì 14 e venerdì 21 settembre, vicino alla recinzione; manifestazioni che hanno visto un aumento significativo del numero complessivo di partecipanti. Le altre vittime palestinesi sono state registrate durante eventi aggiuntivi che hanno iniziato a tenersi con regolarità: manifestazioni notturne vicino alla recinzione (un uomo e un ragazzo uccisi); tentativi di rompere il blocco navale [israeliano] (un uomo ucciso); dimostrazioni vicino al valico pedonale di Erez con Israele (un uomo ucciso). Un altro ragazzo di 16 anni è morto per le ferite riportate durante una precedente manifestazione svolta all’inizio di agosto (non incluso nel totale). Secondo il Ministero della Salute di Gaza, delle 829 persone ferite durante il periodo di riferimento, 629 sono state ricoverate in ospedale; fra queste, 261 (41%) sono state colpite da armi da fuoco, mentre le rimanenti sono state curate sul campo. Tra i feriti, 97 erano minori, 59 dei quali colpiti da armi da fuoco, e 6 donne, di cui tre colpite da armi da fuoco.

Sempre durante le manifestazioni del 14 settembre, un soldato israeliano è rimasto ferito e una scuola dell’UNRWA è stata danneggiata. Secondo fonti israeliane, i palestinesi hanno lanciato una serie di bottiglie incendiarie e due granate contro le forze israeliane dispiegate lungo la recinzione, ferendo un soldato. In una zona ad est di Khan Younis, forze israeliane hanno sparato con cannone da carro: il proiettile ha colpito il muro di una scuola dell’UNRWA, danneggiando due aule; non sono stati segnalati feriti, ma le lezioni sono state sospese per un giorno.

Altri due palestinesi, tra cui un ragazzo di 16 anni, sono stati uccisi da un attacco aereo israeliano contro un gruppo di palestinesi che, di notte, si erano avvicinati alla recinzione di sicurezza. L’episodio è avvenuto il 17 settembre, a nord-est di Khan Younis.

Nelle Aree ad Accesso Riservato di terra e di mare al largo della costa di Gaza, le forze israeliane hanno aperto il fuoco in almeno 33 casi non collegati alle dimostrazioni. Non sono state segnalate vittime, ma il lavoro di agricoltori e pescatori è stato interrotto. In due casi distinti sono stati arrestati tre pescatori e un ragazzo che, secondo quanto riferito, stava tentando di infiltrarsi in Israele. Inoltre, in quattro occasioni, le forze israeliane sono entrate nella Striscia di Gaza e hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, nel corso di due aggressioni con coltello di cui si è avuta notizia, sono rimasti uccisi un presunto aggressore palestinese e un colono israeliano. Il 16 settembre, presso il raccordo stradale di Gush Etzion (Hebron), un ragazzo palestinese di 17 anni ha accoltellato e ucciso un colono israeliano; successivamente il giovane è stato colpito con arma da fuoco e poi arrestato dalle forze israeliane. Nel secondo caso, il 18 settembre, a Gerusalemme Est, un palestinese di 26 anni è stato colpito a morte dalle forze israeliane dopo aver tentato, a quanto riferito, di pugnalare un israeliano con cui aveva avuto un alterco; in questa circostanza non sono stati segnalati israeliani feriti. Il corpo del presunto aggressore è stato trattenuto dalle autorità israeliane, insieme ai corpi di almeno altri 16 uccisi nei mesi precedenti, in circostanze simili. Dall’inizio del 2018, durante attacchi e presunti attacchi palestinesi, sono stati uccisi sette israeliani e sette aggressori e presunti aggressori palestinesi.

Sempre in Cisgiordania, in diversi episodi, sono stati feriti dalle forze israeliane 103 palestinesi, tra cui 56 minori. Quattordici dei ferimenti, tra cui quello di due minori, sono avvenuti a Ras Karkar (Ramallah) durante le manifestazioni contro la costruzione su proprietà privata palestinese di una nuova strada destinata ai coloni; durante le dimostrazioni settimanali contro l’espansione degli insediamenti e le restrizioni all’accesso a Kafr Qaddum (Qalqiliya), e contro la Barriera e l’espansione degli insediamenti a Bil’in (Ramallah). Nell’area controllata da Israele della città di Hebron, per la seconda settimana consecutiva, le forze israeliane hanno lanciato lacrimogeni nel cortile di una scuola, creando lesioni a 49 minori ed un insegnante. Secondo fonti israeliane, questo fatto è stato conseguente al lancio di pietre, provenienti dal complesso scolastico, contro le forze israeliane. In seguito all’ingresso di israeliani in siti religiosi della Cisgiordania, altri 19 palestinesi sono rimasti feriti in tre scontri con le forze israeliane.

Il 18 settembre, un palestinese di 24 anni è morto in custodia israeliana dopo essere stato presumibilmente picchiato durante l’arresto avvenuto nello stesso giorno in casa sua, nel villaggio di Beit Rima (Ramallah). Non sono ancora stati resi noti i risultati dell’autopsia effettuata dalle autorità israeliane. Nel complesso, in Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto 132 operazioni di ricerca, sei delle quali hanno provocato scontri e 15 dei 103 feriti indicati nel paragrafo precedente. Sono stati arrestati un totale di 128 palestinesi, tra cui 15 minori. Il governatorato di Hebron ha registrato il maggior numero di operazioni.

In Area C e Gerusalemme Est, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, o costretto i proprietari a demolire, dieci strutture. Cinque delle strutture prese di mira erano state costruite da attivisti in solidarietà con la comunità beduina di Khan al Ahmar-Abu al-Helu, a rischio di demolizioni di massa e trasferimento forzato (vedi sotto); quattro strutture, non residenziali, si trovavano nel villaggio di Rantis (Ramallah). A Gerusalemme Est, una famiglia palestinese è stata costretta ad autodemolire un ampliamento della propria casa, provocando lo sfollamento di quattro minori. Con le stesse motivazioni, sono stati emessi ordini di demolizione e di blocco-lavori per almeno altre otto strutture situate in tre comunità dell’Area C.

Il 23 settembre, le autorità israeliane hanno avvertito ufficialmente i residenti della comunità di Khan al Ahmar-Abu al-Helu (35 famiglie: 188 persone, metà minori) che dovranno autodemolire le loro case e altre strutture entro il 1° ottobre; in caso contrario lo faranno le autorità. L’avvertimento segue una sentenza definitiva dell’Alta Corte di Giustizia israeliana, del 5 settembre, che consente [alle autorità israeliane] di procedere alle demolizioni. La comunicazione informa inoltre i residenti che le autorità forniranno assistenza (compreso il trasporto verso un sito di trasferimento) a coloro che rispetteranno l’ordinanza. Nel frattempo, il 14 settembre, le autorità hanno bloccato la principale strada sterrata che porta alla Comunità, innescando scontri con attivisti, mentre il 21 settembre, hanno impedito che una clinica sanitaria mobile potesse accedere alla Comunità.

Nove attacchi da parte di coloni e di altri israeliani hanno provocato il ferimento di tre palestinesi e danni a proprietà palestinesi. Nella zona H2 della città di Hebron, coloni israeliani hanno aggredito con spray al peperoncino un ragazzo palestinese di 11 anni che giocava vicino alla propria casa. Nei pressi del villaggio di Jamma’in (Salfit), altri due palestinesi sono stati colpiti con pietre e feriti da coloni israeliani. Circa 200 ulivi, a quanto riferito, sono stati vandalizzati da coloni israeliani in tre diversi episodi accaduti in At Tuwani (Hebron) e Al Mania (Betlemme). In altri quattro separati episodi, a Khallet Sakariya (Betlemme) e Jalud (Nablus), coloni israeliani hanno vandalizzato veicoli palestinesi, tra cui imbrattamenti con scritte tipo: “questo è il prezzo [che dovete pagare]” e la foratura dei pneumatici di cinque veicoli. La violenza dei coloni è in aumento dall’inizio del 2018, con una media settimanale di cinque attacchi risultanti in ferimenti o danni a proprietà, rispetto ad una media di tre nel 2017 e di due nel 2016.

In Cisgiordania, vicino a Gerusalemme, Betlemme e Ramallah, secondo fonti israeliane, in almeno quattro occasioni, palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani causando danni ad almeno quattro veicoli privati; a Gerusalemme, in uno di questi episodi, un colono israeliano è rimasto ferito.

In occasione delle festività ebraiche, tra il 24 settembre e il 2 ottobre, le autorità israeliane hanno annunciato l’interdizione del transito di persone attraverso il valico di Erez (tra Israele e la Striscia di Gaza). Il provvedimento avrà effetto per tutti i palestinesi possessori di permessi, con esclusione dei casi di emergenza.

Il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto, sotto controllo egiziano, ha aperto in entrambe le direzioni per nove giorni, e in una direzione (verso Gaza) solo per un giorno. Un totale di 1.946 persone sono state autorizzate a entrare a Gaza e altre 2.966 persone sono uscite.

þ

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Rapporto della Banca Mondiale: “Economia di Gaza in caduta libera”

25 settembre 2018, Ma’an News

BETLEMME (Ma’an) –Secondo un rapporto pubblicato martedì dalla Banca Mondiale, l’economia nella Striscia di Gaza assediata è in “caduta libera”; il rapporto sollecita un’azione urgente da parte di Israele e della comunità internazionale per evitare “un tracollo immediato”.

Il rapporto è stato pubblicato prima di una riunione ad alto livello del ‘Ad Hoc Liaison Committee [Commissione Ad Hoc di Collegamento] (AHLC)’ della Banca Mondiale, responsabile del coordinamento dell’assistenza allo sviluppo per i palestinesi, del 27 settembre.

Il rapporto segnala che il tasso di disoccupazione tra i giovani di Gaza è del 70%. Inoltre sottolinea le gravi difficoltà che l’economia palestinese deve affrontare ed identifica le future necessità.

Marina Wes, Direttrice Regionale della Banca Mondiale per la Cisgiordania e Gaza, ha detto che “una combinazione di guerra, isolamento e divisioni interne ha ridotto Gaza in una paralisi economica ed ha esacerbato le sofferenze della gente. Una situazione in cui la popolazione lotta per sbarcare il lunario, patisce una sempre peggiore povertà, una crescente disoccupazione e il deterioramento di servizi pubblici come la sanità, l’acqua e la rete fognaria, necessita di soluzioni urgenti, concrete e sostenibili.”

L’economia di Gaza è in caduta libera, registra una decrescita del 6% nel primo trimestre del 2018, con segnali di ulteriore deterioramento da allora in poi.”

Pur se il problema fondamentale resta l’assedio durato quasi 12 anni, un insieme di fattori ha recentemente influito sulla situazione a Gaza, che includono la decisione dell’Autorità Nazionale palestinese (ANP) di ridurre i pagamenti mensili verso Gaza di 30 milioni di dollari, la riduzione di 50-60 milioni di dollari annui del programma di aiuti ed i tagli ai programmi dell’UNRWA [Agenzia dell’ONU per i rifugiati palestinesi, ndtr] da parte degli Stati Uniti.

La stessa ANP accusa un calo delle donazioni finanziarie e ha un deficit annuale di 1,24 miliardi di dollari.

Anche se la situazione attuale in Cisgiordania non è così terribile, la passata crescita dovuta ai consumi è instabile e si prevede un cospicuo rallentamento dell’economia nel prossimo futuro.

Wes ha aggiunto che “la situazione economica e sociale di Gaza è andata deteriorandosi per oltre un decennio, ma lo ha fatto in termini esponenziali nei mesi scorsi, raggiungendo un livello critico. La crescente frustrazione porta a crescenti tensioni che hanno già iniziato a sfociare in disordini e ad ostacolare lo sviluppo umano della numerosa popolazione giovanile della regione.”

Il rapporto insiste sulla necessità di un approccio equilibrato alla situazione di Gaza, che unisca un’immediata risposta alla crisi ad iniziative per costruire le condizioni per uno sviluppo sostenibile.

Tra le risposte immediate vi è il garantire la continuazione della fornitura dei servizi essenziali, come energia, acqua, educazione e salute. Servizi essenziali di questo genere sono cruciali per la vita degli abitanti e per il funzionamento dell’economia.

Un’ altra urgente necessità è “accrescere il potere d’acquisto delle famiglie, per rendere possibile un ritorno alle attività economiche di base e dare impulso a quelle tradizionali di sussistenza, estendendo la zona di pesca al di là delle molto ridotte tre miglia fino ad una distanza di 20 miglia come concordato negli anni ’90.”

La Banca Mondiale ritiene che, oltre ad una risposta alla crisi, “Israele potrebbe dare sostegno a condizioni favorevoli alla crescita economica eliminando le restrizioni al commercio e consentendo la mobilità di merci e persone, senza la quale la situazione economica a Gaza non migliorerà mai.”

Il rapporto della Banca Mondiale aggiunge che l’ANP dovrebbe dare inizio a politiche e progetti necessari allo sviluppo economico sostenibile, compreso il sostegno al commercio di servizi digitali, che potrebbero nel frattempo svolgere un ruolo trainante.

Wes ha sottolineato che “il capitale umano palestinese, con la sua popolazione giovane e relativamente ben istruita, potrebbe rappresentare un immenso potenziale. Una rinnovata attenzione verso la creazione di lavoro darà notevoli risultati in termini di sviluppo economico. È ora tempo per tutte le parti di unirsi e creare un contesto che generi opportunità per questi giovani.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

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Rivendicare la dimensione politica della narrazione palestinese

Hazem Jamjoum

12  settembre 2018, Al Shabaka

Nota del redattore: questo articolo inaugura il “Circolo sulle Politiche di narrazione e dibattito” di Al-Shabaka, un gruppo di analisti politici di Al-Shabaka che collabora al di là dei confini per affrontare la questione se i palestinesi debbano avere una sola e legittima narrazione e, se sì, quale dovrebbe essere. Il circolo politico di Al-Shabaka è un tentativo metodologico specifico di coinvolgere un gruppo di analisti in studi e riflessioni sul lungo periodo intorno ad un punto di fondamentale importanza per il popolo palestinese.

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), un tempo incarnazione del movimento di liberazione palestinese, si è praticamente trasformata in un’entità non sovrana – l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – che che svolge il ruolo di carceriere di un arcipelago di prigioni nella Cisgiordania occupata. La frattura prodotta da questa trasformazione si è manifestata nella società palestinese in tutto il mondo in una serie di gravi lacerazioni nella narrazione storica palestinese. Nel 25° anniversario dell’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, questo articolo fa il punto su uno scenario fra i più significativi per il prosieguo della lotta di liberazione, nonostante la resa dell’OLP a Oslo, e cioè gli approcci alla liberazione basati sui diritti, e ne valuta i pro e contro.1

Trattando di comunità di persone, “narrazione” è la “nostra” storia, chi siamo, da dove veniamo, dove stiamo andando e perché.

Ovunque vi sia stata una dominazione straniera, sono invariabilmente emersi movimenti nazionali anticolonialisti, rivendicando spesso la narrazione immaginaria di un idilliaco passato pre-coloniale (e anacronisticamente nazionale). Questo passato, ci dice la narrazione, è stato lacerato dalla brutalità del colonizzatore e può essere superato solo da un’eroica lotta anti-coloniale che conduca alla liberazione. Questa liberazione è spesso immaginata nella forma di uno Stato indipendente, sovrano e immancabilmente nazionale.

Il “politico” è espressione del potere in un corpo sociale. Per quanto esteso possa essere questo potere, si coagula in specifici assi di interazione che creano gerarchie complesse e concentrate di privilegi e marginalità, condizionando così il limite entro cui gruppi e individui possono costruire la propria storia.2

In effetti, il politico è un luogo di lotta in costante cambiamento. Nei contesti coloniali le linee di potere nazionali e razziali diventano così importanti nelle narrazioni tanto dei colonizzatori quanto dei colonizzati da appiattire sia le società coloniali che quelle native: le strutture interne di subordinazione – come la supremazia maschile in entrambe le società – sono superate dalla narrazione nazionale e rimandate ad una utopica data futura, al “Giorno dell’Indipendenza”, quando l’asse di subordinazione ” principale” (leggi: coloniale) cesserà di esistere.

Nella maggior parte dei casi in Asia, Africa e America Latina, la transizione postcoloniale ha comportato la trasformazione delle leadership della liberazione in un nuovo genere di dispotismo.3 Questi gruppi dirigenti hanno indossato il mantello della lotta mentre svolgevano corrotte attività di autoritarismo in quanto Stati sovrani in un contesto neo-coloniale – e dal 1980, anche neoliberista. Per i palestinesi queste nuove forme di dominazione e immiserimento strutturali agiscono aggravando la brutalità dell’espansione coloniale in corso, intensificata dal fatto che le strutture dell’Autorità Nazionale Palestinese sono la prima linea di difesa di Israele, in conformità agli accordi di pace di Oslo.

L’approccio basato sui diritti: cedere la politica all’Autorità Nazionale Palestinese

Cercando di superare l’impasse costituito dagli accordi di Oslo e dal grave squilibrio di potere militare e diplomatico che ha portato a quello storico atto di sottomissione, alcuni palestinesi inseriti strategicamente nel fiorente settore delle ONG hanno visto nel sistema giuridico internazionale una possibilità di liberazione. Mosso dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale, quest’ultimo ha sottolineato il diritto di individui e comunità ad essere liberi da crudeltà e dominazioni arbitrarie. L’adozione da parte palestinese di una strategia “basata sui diritti” per contrastare l’impasse di Oslo aveva lo scopo di aggirare il monopolio internazionale dell’ANP come rappresentante dei palestinesi.

Questo approccio ha riunito insieme gruppi e individui dell’intero spettro politico e istituzionale in un amalgama che è arrivato ad autodefinirsi “società civile” palestinese. Questa tendenza ha evitato di rivendicare una rappresentanza politica dei palestinesi, concentrandosi invece sulla rappresentanza “civile”, morale-giuridica. L’ANP e la “società civile” hanno quindi iniziato una elegante ‘dabka’ (danza palestinese, ndtr.): la difesa basata sui diritti eviterebbe di pestare i piedi ai politici, lasciando all’ANP la scelta delle campagne che rientrano nella propria narrazione in quanto tutore delle preoccupazioni nazionali palestinesi, pur mantenendo i piedi ben piantati nei pragmatici anti-principi della divisione e dell’irrisolto processo di pace.

Questa strategia della società civile basata sui diritti ha avuto un grande successo, come ben si vede nel prolungato slancio delle campagne di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS), nonostante che la crisi di legittimazione della leadership sia dell’OLP che dell’ANP abbia contrassegnato gli ultimi decenni di politica palestinese. Sottolineo la parola “nonostante” perché la dirigenza dell’Autorità Palestinese ha regolarmente adottato misure per sabotare l’azione della campagna BDS. I successi basati sui diritti, tuttavia, hanno avuto un costo: spostando l’enfasi sull’ambito giuridico, la lotta palestinese, almeno su scala internazionale, rischia di perdere di vista la sua natura fondamentalmente politica.

Questo è esemplificato dalla frase: “Chiediamo il diritto al ritorno”. È  una formula che omette di dire che i palestinesi espulsi hanno già diritto al ritorno. La richiesta politica dovrebbe essere il ritorno effettivo dei palestinesi e, insieme ad esso, tutte le conseguenze politiche per un progetto coloniale che nega questo ritorno per scopi di ingegneria demografica di supremazia razziale. Se qualcuno ti sequestra, il problema non è che il tuo diritto alla libertà sia stato violato, ma che non sei più libero.

Le implicazioni più generali del cedere “il politico” all’ANP nell’arena internazionale non si limitano al modo in cui concettualizziamo e formuliamo obiettivi di liberazione della Palestina, quali esigere il ritorno oppure rivendicare il diritto al ritorno. Dato il primato del nazionalismo nella narrazione OLP-ANP (“Siamo la Nazione palestinese, abbiamo diritto a uno Stato palestinese”), quali sedi abbiamo per discutere di classe, genere e liberazione sessuale all’interno della società palestinese in tutto il mondo?

Come ci relazioniamo con le lotte regionali e globali per la giustizia socio-politica, e come vogliamo che si relazionino con noi? È una questione di particolare importanza, poiché la maggior parte dei palestinesi ha sperimentato le deportazioni della perdurante Nakba e continua a condurre la lotta di liberazione oltre i confini del territorio sotto il controllo coloniale israeliano.

A un certo livello, concentrare l‘attenzione sul formalismo del diritto ci priva del linguaggio e dello spazio per pensare sino in fondo a queste domande. Ad un altro livello, questi ambiti giuridici hanno un significativo effetto determinante su quali movimenti e strutture politiche scegliamo come alleati e, soprattutto, su come e su quali basi impostiamo tali alleanze e rapporti di solidarietà. La ben nota American Civil Liberties Union [Unione Americana per le Libertà Civili, potente Ong statunitense che si occupa di diritti civili e libertà individuali, ndtr.] (ACLU) può essere un alleato potente e molto apprezzato per arginare l’ondata di violazioni dei diritti costituzionali che, per esempio, gli organizzatori BDS devono affrontare negli Stati Uniti. Tuttavia, c’è una chiara linea oltre la quale un’istituzione professionale con un mandato legale come l’ACLU non può andare – una linea che si ferma molto prima di porre pubblicamente la propria autorità a favore di una “causa controversa” come la liberazione palestinese.

Un movimento popolare organizzato come i “Dream Defenders” [‘Difensori di Sogni’, organizzazione americana per i diritti umani, ndtr.], al contrario, , non si pone simili limiti. Non si impegna per la liberazione palestinese in quanto galvanizzato dalle sfumature dell’esegesi del diritto internazionale sfornata dalla società civile palestinese. Secondo l’analisi dei ‘ “Dream Defenders”, la lotta palestinese è una lotta politica contro l’ingiustizia di un colonialismo di insediamento razzista, che assomiglia e gode di una “relazione speciale” con lo Stato coloniale razzista che i “Dream Defenders” contrastano con la propria lotta. La linea che distingue il sostegno istituzionale dalla solidarietà nella lotta raramente è sottile: segna la differenza tra i contributi attentamente pianificati da parte di soggetti consolidati e la solidarietà che rischia in prima persona di coloro che non hanno nulla da perdere se non le proprie catene.

La politica dei diritti, dei gentleman della legge e delle istituzioni legali, ha offerto alla “società civile” palestinese un modo per aggirare l’impasse di Oslo permettendo ai suoi leader – e ai nostri unici legittimi rappresentanti – l’accesso alla buona società.4 Questo è potuto accadere a costo di abbassare la guardia, e cioè ad una condizione per cui l’ordine legale internazionale stabilisce non solo un limite alle nostre richieste politiche, ma anche il linguaggio che usiamo nel ragionarci immaginando cosa possa significare per noi liberazione. Questo basso livello, o “giuristizzazione” e depoliticizzazione della politica palestinese ha fatto sì che istituzioni ben finanziate e altamente professionalizzate – quelle, come l’ACLU, con il massimo da perdere in termini di accessi, finanziamenti e problemi di pubbliche relazioni – diventino sia partner privilegiati che modelli per la nostra stessa organizzazione politica quando ci imbarchiamo in una “difesa” basata sui diritti.

È un’ulteriore ragione per cui l’Autorità Nazionale Palestinese non percepisce alcuna minaccia al suo ruolo in prima linea di difesa del colonialismo israeliano di insediamento dalle campagne basate sui diritti: tali campagne operano con la stessa logica, linguaggio e limiti del compromesso tra gentiluomini che l’OLP ha adottato nella sua metamorfosi in ANP. Faremmo bene a ricordare che ogni grande vittoria palestinese non avrebbe potuto essere raggiunta senza i sacrifici dei poveri “Andala” [popolare figura di bambino palestinese ideata dal famoso artista vignettista Naji Al- Ali, ucciso nel 1987, ndtr.] della società palestinese, all’interno e all’esterno del territorio della Palestina del Mandato [britannico]. Anche se alcuni indossano collane con Andala, che valgono più di tutto quello che ci vuole a mantenere per diversi mesi la famiglia di un bambino rifugiato, ciò non dovrebbe farci dimenticare che ogni grande resa palestinese è stata il prodotto dei compromessi fra gentleman della buona società.

Consideriamo, ad esempio, la centralità dei lavoratori e dei contadini nello sciopero generale del 1936 e la rivolta armata che durò fino al 1939, e il ruolo delle grandi famiglie di proprietari terrieri palestinesi nel porre fine a entrambi i movimenti di massa. Si potrebbe anche confrontare il servizio di intelligence libanese (il temuto deuxième bureau [secondo ufficio]) – contro il quale si ribellò il movimento dei rifugiati palestinesi perché venisse cacciato dai campi in Libano negli anni Sessanta – all’attuale ruolo dell’ “ambasciata” dell’OLP in Libano, che agevola la raccolta di informazioni e il monitoraggio dei palestinesi in quel paese. È molto più importante in questo articolo contrapporre il movimento di massa dei palestinesi da entrambi i lati della “Linea Verde” [il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ndtr.] iniziato negli anni Settanta e culminato nell’Intifada del 1987 al ruolo della danarosa élite palestinese nel sostenere “la pace dei coraggiosi” [definizione data da Arafat agli accordi di Oslo, ndtr.].

Cosa succede alle campagne BDS? Al massimo, ci dovrebbe essere maggiore partecipazione e sostegno al BDS, specialmente da parte di coloro che ne riconoscono le possibilità politiche e i limiti nella cornice legale. È ben oltre il mandato delle campagne BDS affrontare le politiche sociali delle comunità palestinesi, per non parlare della politica delle strategie di liberazione e delle “soluzioni”. Le organizzazioni BDS non pretendono di essere organizzazioni rappresentative o assemblee, anzi, non possono esserlo, e dal momento che prendono di mira prevalentemente terze parti –imprese, fondi di investimento, istituzioni culturali, accordi interstatali – che non sono né lo Stato israeliano né il regime collaborazionista palestinese, non possono essere ritenute responsabili dei fallimenti del movimento di liberazione in generale.

È altrettanto importante rendersi conto che il tentativo di rendere Israele moralmente e legalmente responsabile a livello internazionale non è una politica in sé e per sé, meno che mai una strategia di liberazione. È una tattica ausiliaria che, al massimo, contribuisce a creare le giuste condizioni per una lotta politica che ponga fine al progetto sionista di insediamento coloniale che ha istituito uno Stato etnico esclusivista e patriarcale in Palestina. Ciò che ho cercato di evidenziare qui sono le insidie dell’elevare una tattica – l’uso di forum e istituzioni legali internazionali a sostegno degli obiettivi di liberazione – allo stato di strategia della liberazione. Vale la pena notare che la tattica della “lotta armata” ha goduto di una simile esaltazione in quanto soluzione mirabolante che avrebbe liberato la Palestina.

Alla ricerca di una narrazione della mobilitazione politica per arrivare alla liberazione

Come accennato, quando i movimenti di liberazione basano le loro strategie di liberazione e le loro narrazioni sulla solidarietà delle istituzioni internazionali, sono costretti a rispettare la lingua e la logica di quelle istituzioni. Una delle migliori illustrazioni storiche di ciò viene proprio dall’esperienza dell’OLP. Dopo la guerra del 1967, il principio della spartizione della Palestina raggiunse lo status del “consenso internazionale” attraverso le interpretazioni della risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite [che prevedeva il ritiro delle truppe israeliane dai territori occupati e il reciproco riconoscimento degli Stati, ndtr.]. Molti Stati arabi erano davvero ansiosi di sottoscriverlo, per eludere l’OLP e parlare in nome dei palestinesi accettando quel consenso a nome dei palestinesi. La spartizione è stata praticamente data come precondizione per il riconoscimento internazionale dell’OLP come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, e la leadership dell’OLP ha visto quella legittimazione come condizione preliminare per la liberazione. In altre parole, non ci sarebbe stato alcun discorso di “pistola e ramo d’ulivo” da parte di Yasser Arafat all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel novembre 1974 se la Lega Araba non avesse appoggiato l’OLP come detentore del monopolio politico palestinese al summit di Rabat un mese prima. Tale riconoscimento, a sua volta, non si sarebbe verificato se l’OLP non avesse avallato ufficialmente la spartizione della Palestina nel suo programma di dieci punti del giugno 1974.

Anche con il senno di poi, non possiamo biasimare del tutto Arafat per aver riconosciuto sia la debolezza dell’OLP nello squilibrio internazionale del potere quanto il pericolo che altre entità più potenti potessero usurpare il diritto ad una rappresentanza autonoma che i palestinesi avevano faticato tanto a conquistare. Allo stesso modo, i rappresentanti politici palestinesi negli anni 2000 hanno dovuto trovare un modo per eludere la dura realtà dei fatti, cioè che il programma del 1974 avesse dato il via alla trasformazione della leadership politica palestinese in un’appendice del potere coloniale di insediamento mantenendone il monopolio sulla rappresentanza politica palestinese. Analogamente, posto che operare nell’ambito della società civile globale richiede il linguaggio del diritto internazionale e il consenso internazionale come base comune per la comunicazione e il processo decisionale, non possiamo criticare i sostenitori delle campagne basate sui diritti di fare tutto il possibile per usare l’accordo internazionale riguardo ai diritti umani per accusare Israele delle sue violazioni.

Piuttosto che cercare un capro espiatorio, spero invece di trasmettere l’urgenza di promuovere forum e azioni in cui le questioni politiche siano al centro dell’attenzione, al di sopra e al di là delle limitazioni a livello nazionale o del consenso dell’opinione pubblica internazionale. Non è un invito ad abbandonare il diritto internazionale. Piuttosto, si vuole sostenere il ritorno allo spirito originario dell’Intifada del 2000, quando i leader che sarebbero diventati la “società civile palestinese” stavano formulando insieme sia gli inizi del BDS che i modi di usare il regime legale internazionale per aggirare l’impasse politica di Oslo.

Nel 2004, quando la Corte Internazionale di Giustizia emise il suo verdetto [di condanna, ndtr.] sulle conseguenze del muro di separazione di Israele, l’ormai famoso romanziere China Miéville [scrittore, fumettista, saggista ed attivista britannico, ndtr.] stava concludendo il suo libro Between Equal Rights. Dopo essersi informato sul modo in cui gli organizzatori politici palestinesi cercavano di rispondere alla storica sentenza, prima che andasse in stampa Miéville ha aggiunto al manoscritto quanto segue:

… proprio memori della realtà politica che sta alla base della concezione e stesura del diritto internazionale, i palestinesi sono pronti a mettere da parte la “legalità internazionale” della loro stessa vittoria giudiziaria internazionale per tentare invece di usarla per mobilitare l’opinione pubblica extra-legale. È la consapevolezza che è la pressione popolare dal basso piuttosto che il diritto internazionale a rappresentare la migliore speranza per la causa palestinese e che la sentenza giudiziaria internazionale più “progressista” funziona meglio fuori dal campo del diritto internazionale.”

La scelta di Miéville dell’espressione “opinione pubblica” rappresenta il tipo di mobilitazione politica di massa a cui in quegli anni ci si riferiva a livello internazionale con “globalizzazione dell’intifada” – una mobilitazione che andasse ben oltre la lotta per ottenere uno Stato in cui i VIP palestinesi potessero sfruttare persone molto poco importanti senza interferenze da parte del colonialismo di insediamento. La globalizzazione dell’intifada è stata la politica delle manifestazioni per il ritorno dei rifugiati nel 2011, ed è stata la politica delle “Marce del Ritorno” simili ma ben più estese nella Striscia di Gaza degli ultimi mesi.

Questa mobilitazione ha distrutto la narrazione illusoria del conseguimento dello Stato attraverso le sottigliezze di un ordine internazionale che non ha mai mostrato alcuna propensione a far valere i propri standard morali-legali nei confronti di Israele. Ancora una volta, erano gli esausti Andala a gettare in campo i propri corpi mentre i gentiluomini sfruttavano ciò che rimaneva dei loro cadaveri a brandelli per farne miglior uso nei salotti VIP.

È tempo che la politica che sta alla base dell’intifada globale sia considerata fondamentale nel plasmare il modo in cui usiamo il diritto internazionale come uno dei tanti strumenti di lotta, non il contrario. La narrazione che ci aiuta a vedere e ad agire chiaramente ai fini della mobilitazione politica verso la liberazione deve essere messa al centro dell’attenzione – non la narrazione che esibisce la nostra vittimizzazione nazionale “basata sui diritti” di fronte alla piccola nobiltà della buona società, nella speranza che l’élite palestinese possa assicurarsi un buon posto da cui godersi la grottesca orgia dello sfruttamento che consuma il nostro mondo.

Hazem Jamjoum

Membro del gruppo di commentatori politici di Al-Shabaka, Hazem Jamjoum è laureato in Modern Middle East History presso la New York University. I suoi testi si concentrano, tra gli altri temi, sugli approcci politico-economici al colonialismo israeliano e alla formazione delle élite palestinesi, e sulle critiche alle “soluzioni” di gestione del conflitto basate sulla spartizione.

(traduzione di Luciana Galliano)

1 Al-Shabaka è grato per gli sforzi compiuti dai difensori dei diritti umani per tradurre i suoi pezzi, ma non è responsabile di alcun cambiamento di significato.

2 L’importanza di questi elementi – come classe, genere, razza, abilità, sessualità e così via – non risiede nel loro essere identità che esistono in natura, ma nella loro costruzione sociale come identità che conferiscono uno status ai loro possessori. In altre parole, il loro significato è funzione dei regimi di disuguaglianza che li rendono significativi come categorie politiche, non come singoli indicatori di identità di per sé.

3 Fra le analisi più profonde rimangono quelle scritte come predizioni: Frantz Fanon, The Pitfalls of National Consciousness (Grove Press 1961 – Le insidie della coscienza nazionale), I dannati della terra (Einaudi 2007, ed. orig. The Wretched of the Earth, Grove Press 1961).

4 In un passaggio memorabile dell’autobiografia di Shafiq al-Hout [scrittore e politico dell’OLP, ndtr.] (che non c’è nella traduzione inglese), l’importante personaggio, all’opposizione nell’OLP, racconta di essere stato scherzosamente sgridato per aver criticato la quantità di tempo trascorso dai leader dell’OLP nei salotti VIP. Chi lo ha redarguito ha cinicamente spiegato che l’accesso dell’OLP nei salotti VIP è stato il principale, se non l’unico, esito positivo del sacrificio dei martiri palestinesi.




Ho chiesto all’unica giornalista israeliana in Palestina di mostrarmi qualcosa di scioccante – e questo è ciò che ho visto

Robert Fisk

 a Bir Naballa, Cisgiordania

18 settembre, The Indipendent 

È la vecchia strada da Ramallah a Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate. Tutto ciò ora finisce, ovviamente, al muro

Mostrami qualcosa che mi scioccherà, ho detto ad Amira Hass. Così l’unica giornalista israeliana nella Cisgiordania palestinese – o in Palestina, se si crede ancora a una parola così in disuso – mi ha portato lungo una strada fuori Ramallah che ricordavo come un’autostrada che portava a Gerusalemme. Ma ora, appena sopra una collina, si trasforma in una strada semi-asfaltata, una serie di porte arrugginite di negozi chiusi e spazzatura. Lo stesso vecchio odore estivo di scarichi fognari si insinua su per la strada. Giace, verde e tranquillo, in uno stagno alla base del muro.

O il “Muro”. O, per scribacchini più prudenti, il “Muro di Sicurezza”. O, per anime più delicate, la “Barriera di Sicurezza”. O per penne ancora più sciatte la “Barriera”. O, se ti preoccupi davvero delle implicazioni politiche, la “Recinzione”. La Recinzione – come i familiari pali e travi di legno che si possono trovare lungo il confine di un campo. O – se vuoi davvero spaventare i direttori di televisione e far arrabbiare gli israeliani – il “Muro della Segregazione”, o persino il “Muro dell’apartheid”. Perché presto parleremo dei “Bantustan” palestinesi che si ritrovano tagliati fuori dal Muro, da strade solo per israeliani e dal vasto impero delle colonie israeliane su terra araba.

Fidati di Amira perché ti dia degli spunti. Della frase “Bantustan palestinese” è disseminata la sua irata digressione mentre mi porta in giro nelle enclave palestinesi in Cisgiordania e, dopo un’ora o due, al Muro: torreggiante otto metri sopra di noi, severo, mostruoso nella sua determinazione, ritto e serpeggiante tra blocchi di abitazioni e che si insinua in uad [letti asciutti di torrenti, ndtr.] e si ritorce indietro su se stesso finché trovi due muri uno dietro all’altro, un muro doppio ma lo stesso muro, così sono i tornanti alpini di questa creatura. Scuoti la testa per un momento quando – improvvisamente, sicuramente per via di qualche errore di calcolo – non c’è assolutamente nessun muro ma una via commerciale o una semplice collina di boscaglia e pietre. E poi il massiccio progetto colonialista degli insediamenti israeliani, tutto alberi verdi e case con il tetto rosso e strade ordinate e, sì, più muri e recinzioni di filo spinato e muri ancora più grandi. E poi la bestia vera e propria. Il Muro.

Ma la parte di muro a cui Amira Hass mi porta – guida turistica e analista della società israeliana, ammette, non vanno insieme – è un posto veramente miserabile. Non epico come Dante. Forse un corrispondente di guerra potrebbe descriverlo meglio. È la vecchia strada tra Ramallah e Gerusalemme, lungo la quale si trovano ricchezze perdute, speranze dimenticate e case una volta amate, che ora finisce, ovviamente, al Muro.

“Ora, se questo non è scioccante, non so cosa lo possa essere,” dice Amira. “Questa è la distruzione della vita della gente – è la fine del mondo. Vedi qui? Andavamo dritti verso Gerusalemme. Ora non più. Questa era una via trafficata e qui puoi vedere come la gente ha investito in case con un po’ di grazia, la solidità delle case, la pietra. Guarda i cartelli in ebraico – perché questi palestinesi solevano avere molti clienti israeliani. Persino il nome ‘falegname’ è in ebraico.”

Ma quasi tutti i negozi sono chiusi, le case sprangate, erbacce e rami secchi lungo i marciapiedi rotti. I graffiti sono patetici, il sole senza pietà, il cielo così incrostato di calore che il grigio del muro a volte si fonde nel grigio pietra del cielo. “È penoso” dice Amira Hass, senza emozione. “Questo posto – ho sempre mostrato questo alla gente; sempre, sai, probabilmente un centinaio di volte ormai, e non smette mai di scioccarmi.”

Il liquame, una volta che ci fai l’abitudine, è in qualche modo adeguato. È come un posto in cui l’immaginazione si è esaurita, lasciando dietro solo uno squallido stagno, il verde sempre più luminoso perché il Muro sta acquisendo la patina del tempo.

Il silenzio non è opprimente – come potrebbe essere in un romanzo – ma richiede una risposta. Chiedo ad Amira cosa ci dice il Muro. “Penso a quello che dice a me…”, comincia. “Poiché si rende conto di non poter cacciare via i palestinesi, deve nasconderli. Deve occultarli ai nostri occhi. Qualcuno deve uscire per lavorare là per gli ebrei. E ciò è visto come se gli si facesse un favore. Gli israeliani non entrano, perché noi israeliani non abbiamo bisogno di queste zone – non ci servono – questa è spazzatura, questo è liquame. Il Muro dice quanto forte è la necessità di essere puri – e quante persone hanno preso parte a questo atto di violenza? Dicono che è a causa degli attacchi suicidi, ma l’infrastruttura giuridica e amministrativa per questa separazione esisteva da prima del Muro, per cui il Muro è una specie di manifestazione grafica o concreta o tangibile di leggi di separazione che c’erano già.”

Ed è un’israeliana che mi parla, la tenace e instancabile figlia di una madre partigiana bosniaca che dovette consegnarsi alla Gestapo e di un ebreo rumeno sopravvissuto all’Olocausto, e il cui socialismo, penso, le ha dato un coraggio forte, marxista.

Lei probabilmente non è d’accordo, ma penso a lei come a una figlia della Seconda Guerra Mondiale, anche se è nata 11 anni dopo la morte di Hitler. Suppone che le siano rimasti da 100 a 500 lettori israeliani; grazie a dio, dicono molti di noi, il suo giornale, “Haaretz”, esiste ancora.

La madre di Amira rimase colpita, lungo la strada dalla stazione del treno di Bergen Belsen nel 1944, dalle casalinghe tedesche che arrivavano per vedere la fila di prigionieri distrutti, da come le donne tedesche “stavano lì a guardare”. Amira Hass, sospetto, non starà mai lì a guardare. È cresciuta abituandosi all’odio e alla violenza del suo stesso popolo. Ma lei è realista.

“Guarda, non possiamo ignorare che per un certo periodo (il Muro) è servito alla funzione immediata della sicurezza,” dice. Ed ha ragione. La campagna palestinese di attentati suicidi è stata stroncata. Ma il Muro è stato anche una macchina per l’espansione [territoriale]; si è insinuato nelle terre arabe che non erano parte dello Stato di Israele più di quanto lo fossero le vaste colonie che ora ospitano circa 400.000 ebrei in Cisgiordania. Non ancora, in ogni caso.

Amira porta occhiali rotondi che la fanno sembrare un po’ come uno di quei dentisti che tutti abbiamo incontrato, che studiano con disappunto, cinismo e una certa demoralizzazione il terribile stato dei nostri denti. Scrive così. Ha appena finito un lungo articolo per Haaretz – sarà pubblicato tra due giorni, una feroce dissertazione sugli accordi di Oslo del 1993 che arriva quasi a provare che gli israeliani non hanno mai inteso l’accordo di “pace” come finalizzato a dare uno Stato ai palestinesi.

“La situazione dei Bantustan, riserve o enclave palestinesi,” scrive nel triste venticinquesimo anniversario degli accordi di Oslo, “è un fatto concreto… contrariamente a quello che avevano ritenuto i palestinesi, molte persone nel campo pacifista israeliano all’epoca e i Paesi europei, da nessuna parte [Oslo] stabiliva che l’obiettivo fosse la fondazione di uno Stato palestinese nei territori occupati nel 1967.” Amira dice che ad ‘Haaretz’ “il problema è che i correttori di bozze – li chiamo i ragazzi – cambiano ogni paio di anni e ogni volta mi chiedono: ‘Come sai che Oslo non riguardava la pace?’…Ora il giornale è orgoglioso perché ha qualcuno che aveva ragione. Vent’anni fa pensavano che fossi matta.”

Il giro di Hass continua attorno a quella che definisce come “la prigione a 5 stelle”. Ci soffermiamo sulla città di Ramallah, temporanea pseudo-capitale dell’inesistente Stato palestinese. Lei immagina – lo fa spesso – che un marziano arrivi in Cisgiordania dallo spazio. Il marziano, dice, noterebbe che le case palestinesi hanno cisterne nere sul tetto – perché la loro acqua arriva razionata dall’Autorità Nazionale Palestinese – mentre le colonie ebraiche hanno un acquedotto. “Non hanno di che preoccuparsi.” Le colonie sulle colline – “così lussureggianti, così attraenti, con un’aria molto buona” – hanno tetti rossi spioventi, in stile europeo. Ora le famiglie palestinesi più ricche stanno imitando i tetti rossi dei loro occupanti.

Il marziano di Amira Hass ricompare: “Vede una città tentacolare (Ramallah), edifici eleganti…ci sono cinema, negozi e commerci. Laggiù vede le auto. Il nostro extraterrestre dice: ‘Qual è il problema? Perché vi lamentate dell’occupazione?’ Per cui il problema è che c’è l’illusione di non essere sotto occupazione in questo spazio limitato, in un luogo in gabbia, in questa prigione a cinque stelle…I contorni, i confini sono molto chiari. Ma le persone all’interno dei confini si sono abituate a un certo tipo di normalità che adesso per loro è molto difficile lasciare.”

“Fondamentalmente sanno che se si impegnano in un’altra ondata di resistenza possono perdere persino questo – persino il poco che hanno, questa normalità… Per me una delle prove migliori che qui c’è un certo tipo di normalità sono i palestinesi con cittadinanza israeliana che ogni fine settimana vengono in questo bantustan palestinese per sfuggire al razzismo israeliano e all’arroganza che affrontano quotidianamente in Israele – e vengono qui per sfuggirvi, per trovarsi in un ambiente totalmente palestinese.”

L’analisi è severa e con una prospettiva storica. “I palestinesi sanno che questa non è l’indipendenza. Ma ora ritengono che non ne varrebbe la pena. Durante gli ultimi due o tre anni, quando qualche giovane era impegnato in attacchi all’arma bianca e c’era qualche studente che veniva qui ai posti di blocco per scontrarsi con l’esercito israeliano, si emozionavano per loro. Ma non vedevi le masse uscire per affrontare l’esercito. Ora non si tratta di paura, non è la polizia palestinese che li blocca. Adesso, con la divisione palestinese tra Hamas e Fatah, i palestinesi nel fondo della loro ‘saggezza’ politica, e con l’America – Trump – e tutto questo, [sanno che] non c’è ragione di sacrificarsi per niente.”

Lei guida, supera una base militare dove evidenzia le parole scritte – in inglese – con la bomboletta su un muro. “Gli ebrei hanno fatto l’11 settembre.” Con simili parole i palestinesi non potrebbero incolpare in modo più assoluto la loro società agli occhi dell’Occidente? Ma ci sono altre scritte. In un piccolo villaggio palestinese, forse a 200 metri dalla colonia ebraica di Beit El – telecamere puntate verso l’esterno lungo la sua recinzione – [Amira] sottolinea le parole scritte con lo spray sul muro di una casa palestinese dopo che i coloni hanno fatto un’incursione nel villaggio. “Giudea e Samaria”, dice in ebraico, riferendosi alla Cisgiordania. “Verrà versato sangue.” Aisha Fara ci mostra il tetto della sua casa, dove il pannello solare è stato rotto da piccole pietre – sparate con la fionda da studenti religiosi, dice, solo tre giorni prima – e nonostante i suoi 74 anni non usa mezzi termini. Intuisco in silenzio che è nata nel 1944 nella Palestina originaria del Mandato [britannico], lo stesso anno in cui la madre di Amira è stata mandata a Bergen-Belsen.

“I ladri sono arrivati prima del tramonto,” dice Fara dei lanciatori di pietre. “Hanno bruciato per tre volte i nostri alberi. Ma i ladri non restano per sempre. E la gente spaventata tornerà alle proprie case, se dio vuole…Mi chiedi chi sono (i coloni)? Voi li avete mandati. Voi li avete tutti nelle vostre telecamere…Voglio che i porci americani lo sappiano – non siamo pellerossa!” Amira ascolta con attenzione. “Per lei la storia è una lunghissima catena di espulsioni,” dice di Aisha Fara. “Ci sono cose su cui smetti di scrivere. La solita routine.”

Ciò, penso, ha ferito Amira Hass, il modo in cui una storia giornalistica viene lasciata perdere una volta che diventa un avvenimento quotidiano. Un lancio di pietre, un incendio, un’altra colonia. E i privilegi di essere cittadino israeliano sono sempre presenti. “In certo modo, quando siamo stati bombardati, era più facile perché ero con gli altri. È una cosa che posso percepire – la paura delle bombe, ovviamente, la condivido. Ma per esempio il fatto di essere rinchiusi, è una cosa che non posso capire. Non posso comprenderlo. Per me un muro è semplicemente una cosa brutta lungo la strada per Gerusalemme. Ma per i palestinesi è dove finisce il mondo. Quando vado a Gerusalemme non posso dire ai miei vicini che ci vado – mi vergogno. Mi sento in imbarazzo… perché per loro Gerusalemme è come la luna.”

Quindi vivrà tutto il resto della sua vita tra i palestinesi della Cisgiordania, l’unica inviata israeliana dalla parte dura della storia? “Non avrei mai pensato che avrei vissuto a El-Bireh, ma ora è la città dove ho vissuto più a lungo che in qualunque altro posto,” risponde. “Non l’ho mai pianificato – ma è quello che è successo. E so che se dovesse succedere qualcosa – se me ne dovessi andare, sia perché smetto di lavorare o gli israeliani mi dicono di andarmene o me lo dicono i palestinesi, fa lo stesso, non riuscirò mai a tornare in un quartiere esclusivamente ebraico. Andrò ad Acri o ad Haifa [città israeliane, ndtr.]…Ad Haifa ci sono palestinesi.”

Quando mi appresto a tornare a Gerusalemme, sulla “luna”, ringrazio Amira Hass per il suo tour istruttivo, accademico ed anche giornalistico e – agli occhi dei suoi non-lettori israeliani – per un commento altrettanto terribile delle mail di odio che le hanno mandato. “Ho la tendenza a dire alla gente quello che non vuole sentire,” dice. A me sembra una vera giornalista. E capisco allo stesso tempo che lei non sarà mai una spettatrice.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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Secondo una delegazione di Europarlamentari, la demolizione di Khan al-Ahmar è un crimine di guerra.

Ma’an News

21 Settembre 2018, Ma’an News

Betlemme – Giovedì scorso otto membri dell’Unione Europea hanno espresso la loro opposizione al piano israeliano di demolizione del villaggio beduino di Khan al-Ahmar, a Gerusalemme Est, e hanno incoraggiato Israele a riconsiderare la sua decisione.

Gli otto europarlamentari che si oppongono alla decisione di Israele sono i delegati di Belgio, Francia, Paesi Bassi, Polonia, Svezia, Regno Unito, Germania e Italia.

L’ambasciatore olandese, Karel Van Oosterom, al termine del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha letto una dichiarazione che condanna la decisione dell’Alta Corte israeliana di demolire Khan al-Ahmar.

Continueremo a promuovere la negoziazione della soluzione a due Stati, con Gerusalemme capitale” di entrambi gli Stati israeliano e palestinese, si legge nella dichiarazione, che fa riferimento al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte dell’amministrazione Trump.

All’inizio di questa settimana, una delegazione di europarlamentari per le relazioni con la Palestina ha visitato Khan al-Ahmar, mettendo in guardia con preoccupazione che la sua demolizione potrebbe essere considerata un crimine di guerra.

L’Unione Europea e il resto della comunità internazionale hanno fortemente condannato la demolizione in quanto parte del piano di espansione degli insediamenti, e perché dividerebbe la Cisgiordania occupata, impedendo la possibile futura fondazione di uno stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale.

Neoklis Sylikiotis, a capo della delegazione, ha affermato che l’Europarlamento continuerà a opporsi alla demolizione di Khan al-Ahmar e di altri villaggi beduini nella stessa area, tutti minacciati di trasferimento forzato dai loro territori. “Il trasferimento forzato di popolazioni in stato di occupazione è una seria violazione della Quarta Convenzione di Ginevra ed è considerato un crimine di guerra”.

Sylikiotis ha aggiunto che “la delegazione sostiene la lotta palestinese per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione, opponendosi contemporaneamente all’occupazione e all’apartheid israeliani”, sottolineando come l’UE si opponga all’occupazione dei territori palestinesi e sostenga la soluzione a due stati.

Da luglio Khan al-Ahmar è sotto minaccia di demolizione da parte delle forze israeliane; la demolizione comporterebbe il trasferimento forzato di più di 35 famiglie palestinesi, come parte del piano israeliano di espansione del vicino insediamento illegale di Kfar Adummim.

Nonostante il diritto internazionale proibisca la demolizione del villaggio e la confisca delle proprietà private, le forze israeliane continuano nel loro piano di espansione con trasferimenti forzati e violando i diritti umani fondamentali della popolazione.

Israele ha costantemente tentato di sradicare le comunità beduine dall’area di Gerusalemme Est per permettere l’espansione degli insediamenti nella zona, che trasforme in futuro tutta la parte orientale della Cisgiordania in zona di insediamenti.

(Traduzione di Veronica Garbarini)




Perché Israele demolisce: Khan Al-Ahmar come rappresentazione di un genocidio più vasto

 Ramzy Baroud

19 settembre 2018, Palestine Chronicle

Come avvoltoi, i soldati israeliani sono calati su Khan Al-Ahmar il 14 settembre, ricreando una scena sinistra con la quale gli abitanti di questo piccolo villaggio palestinese, situato a est di Gerusalemme, sono fin troppo familiari.

La posizione strategica di Khan Al-Ahmar fa sì che la storia che sta alle spalle dell’imminente demolizione israeliana del pacifico villaggio sia unica fra le distruzioni di case e vite palestinesi in tutta Gaza assediata e nella Cisgiordania occupata.

Nel corso degli anni, Khan Al-Ahmar, una volta parte di un vasto e continuo paesaggio palestinese, è risultato sempre più isolato. Decenni di colonizzazione israeliana di Gerusalemme Est e della Cisgiordania hanno lasciato Khan Al-Ahmar intrappolato tra massicci progetti coloniali israeliani in grande espansione: tra gli altri Ma’ale Adumim e Kfar Adumin.

Lo sfortunato villaggio, l’adiacente scuola e i suoi 173 residenti sono l’ultimo ostacolo al progetto ‘E1 Zone’, un piano israeliano che mira a collegare le colonie ebraiche illegali della Gerusalemme Est occupata con Gerusalemme Ovest, tagliando così del tutto fuori Gerusalemme Est dalle adiacenti aree palestinesi in Cisgiordania.

Come il villaggio di Al-Araqib nel Neqab (Negev), demolito da Israele e ricostruito 133 volte dai suoi residenti, gli abitanti di Khan Al-Ahmar stanno affrontando soldati armati e bulldozer militari a petto nudo e con tutta la solidarietà locale e internazionale che possono ottenere.

Tuttavia, nonostante le circostanze particolari e il contesto storico unico di Khan Al-Ahmar, la storia di questo villaggio non è che un capitolo nella lunga narrativa di una tragedia che si è protratta nel corso di settanta anni.

Sarebbe un errore parlare della distruzione di Khan Al-Ahmar o di qualsiasi altro villaggio palestinese al di fuori del più ampio contesto di demolizione che è al cuore della particolare specie di colonialismo di insediamento israeliano.

È vero che altre potenze coloniali usarono la distruzione di case e proprietà e l’esilio di intere comunità come tattica per soggiogare le popolazioni ribelli. Il governo del mandato britannico in Palestina usò la demolizione delle case come tattica di “deterrenza” contro i palestinesi che osarono ribellarsi all’ingiustizia durante gli anni ’20, ’30 e ’40, fino a quando Israele lo rimpiazzò nel 1948.

La strategia israeliana è ben più complicata di una semplice “deterrenza”. Ormai è inciso nella psiche israeliana che la Palestina debba essere distrutta perché Israele possa esistere. Pertanto, Israele sta conducendo una campagna apparentemente infinita per cancellare tutto ciò che c’è di palestinese perché, dal punto di vista israeliano, rappresenta una minaccia esistenziale.

Questo è l’esatto motivo per cui Israele vede la naturale crescita demografica palestinese come una “minaccia esistenziale” per l’ “identità ebraica” di Israele.

La cosa può essere giustificata solo da un grado irrazionale di odio e paura accumulatisi attraverso le generazioni, al punto da rappresentare ora una psicosi collettiva degli israeliani che i palestinesi continuano a pagare a caro prezzo.

La ricorrente distruzione di Gaza è sintomatica di questa psicosi israeliana.

Israele è un “paese che quando spari ai suoi cittadini, risponde con ferocia – e questa è una buona cosa”, è stata la spiegazione ufficiale offerta da Tzipi Livni, il ministro degli Esteri israeliano nel gennaio 2009, per giustificare la guerra del suo paese alla Striscia di Gaza già bloccata. La strategia “feroce” di Israele ha portato alla distruzione di 22.000 case, scuole e altre strutture durante una delle più letali guerre di Israele nella Striscia.

Alcuni anni dopo, nell’estate del 2014, Israele è diventato di nuovo “feroce”, portando a distruzioni e perdita di vite umane ancora maggiori.

La massiccia demolizione israeliana di case palestinesi a Gaza e in ogni altro luogo è iniziata decenni prima di Hamas. Non ha nulla a che fare con i metodi di resistenza che i palestinesi usano nella loro lotta contro Israele. La demolizione israeliana della Palestina, che si tratti di strutture fisiche reali o dell’idea, della storia, della narrativa e persino dei nomi delle strade, è una decisione in tutto e per tutto profondamente israeliana.

Una rapida analisi degli eventi storici dimostra che Israele ha demolito case e comunità palestinesi in diversi contesti politici e storici, in cui la “sicurezza” di Israele non era affatto in gioco.

Circa 600 città, villaggi e luoghi palestinesi sono stati distrutti tra il 1947 e il 1948 e circa 800.000 palestinesi sono stati esiliati per far spazio alla creazione di Israele.

Secondo il Land Research Centre (LRC), Israele aveva già distrutto 5.000 case palestinesi a Gerusalemme quando occupò la città nel 1967, portando all’esilio permanente circa 70.000 persone. Insieme al fatto che quasi 200.000 gerosolimitani furono cacciati durante la Nakba, la Catastrofe del 1948, e alla lenta e continua pulizia etnica, la Città Santa è stata costantemente distrutta fin dalla fondazione di Israele.

In effetti, tra il 2000 e il 2017 oltre 1.700 case palestinesi sono state demolite, spostando circa 10.000 persone. Questa non è una politica di “deterrenza” ma di cancellazione – lo sradicamento della stessa cultura palestinese.

Gaza e Gerusalemme non sono nemmeno esempi unici. Secondo il rapporto dello scorso dicembre del comitato israeliano contro le demolizioni di case (ICAHD), dal 1967 “sono state demolite circa 50.000 case e strutture palestinesi, espellendo centinaia di migliaia di palestinesi e incidendo sui mezzi di sostentamento di migliaia di altri”.

Mettendo insieme la distruzione dei villaggi palestinesi con la creazione di Israele e la demolizione di case palestinesi all’interno dello stesso Israele, l’ICAHD computa il numero totale di case distrutte dal 1948 a oltre 100.000.

Di fatto, come riconosce il gruppo stesso, questa stima è piuttosto prudente. Certo che lo è! Solo a Gaza e negli ultimi dieci anni, in cui abbiamo assistito a tre importanti guerre israeliane, sarebbero state distrutte circa 50.000 case e strutture.

Quindi, perché Israele distrugge implacabilmente, impunemente e senza rimorsi?

Per la stessa ragione per cui ha approvato delle leggi per cambiare i nomi storici delle strade dall’arabo all’ebraico. Per lo stesso motivo, ha recentemente approvato la legge razziale dello stato nazione, glorificando tutto ciò che è ebraico e ignorando e declassando completamente l’esistenza degli indigeni palestinesi, la loro lingua e la loro cultura – che risalgono a millenni.

Israele demolisce, distrugge e riduce in polvere perché, nella mentalità razzista dei governanti israeliani, non ci può essere spazio tra il Mare e il Fiume se non per gli ebrei; i palestinesi – oppressi, colonizzati e disumanizzati – non fanno minimamente parte dei calcoli spietati di Israele.

Non è solo questione di Khan Al-Ahmar. Si tratta della stessa sopravvivenza del popolo palestinese, minacciato da uno stato razzista che è stato autorizzato a “essere feroce” per 70 anni, senza controllo e senza ripercussioni.

– Ramzy Baroud è giornalista, autore e editore di Palestine Chronicle. Il suo prossimo libro è The Last Earth: A Palestinian Story (Pluto Press, Londra). Baroud ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi Palestinesi presso l’Università di Exeter ed è studioso non residente presso il Centro Orfalea per gli Studi Globali e Internazionali, Università della California a Santa Barbara. Il suo sito web è www.ramzybaroud.net.

(trad. di Luciana Galliano)