I settant’anni di Israele: perché ora la democrazia è in declino

Eyal Chowers

mercoledì 18 aprile 2018, Middle East Eye

L’uso del potere in Israele è ora separato dalla responsabilità. I semi sono stati piantati nel 1948?

In un discorso alla “Globes”, Israel Business Conference [“Conferenza sull’economia di Israele”, il più importante incontro annuale sull’economia del Paese, ndt.] a gennaio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha esposto la sua visione del mondo riguardo alle fonti di potere in Israele.

Innanzitutto, ha detto, gli israeliani hanno imparato a difendersi, sviluppando competenze militari che sono sempre più basate su nuove tecnologie innovative e sull’esperienza in anni di lotta contro il terrorismo.

In secondo luogo, ha sostenuto, Israele ha una florida economia in crescita, con tasse ridotte, un fiorente settore privato e sta avviando un’intensa liberalizzazione. Netanyhau ha citato con orgoglio specifiche imprese come quelle per la sicurezza informatica, per la produzione di parti computerizzate di automobili, per i programmi di salute digitale e per le tecnologie idriche.

Ha previsto che in termini di PIL pro capite Israele presto supererà il Giappone. (Il PIL pro capite di Israele è di 38.000 dollari, la disoccupazione è scesa a circa il 4% e le disuguaglianze economiche, benché ancora significative, si stanno riducendo).

Ha detto che, sulla base dei suoi successi economici e in termini di sicurezza, la terza risorsa di potere di Israele è rappresentata dalla sua reputazione e dai suoi rapporti nella comunità internazionale, che derivano principalmente dall’interesse per la sua economia basata sulla conoscenza e dalle competenze e tecnologie militari innovative.

Infine Netanyahu ha fatto riferimento alla creatività culturale di Israele: l’affascinante dialogo che ha luogo tra un antico passato e un presente che accoglie la contemporaneità. È un dialogo che in effetti contribuisce a un contesto di sviluppo della letteratura, dell’industria cinematografica e televisiva, della musica, della danza, dell’insegnamento e di molti altri settori. E Netanyahu ha ragione: a settant’anni Israele è più forte che mai.

Tuttavia Netanyahu non ha citato la democrazia come una delle quattro risorse di potere di Israele. Probabilmente non si tratta di una dimenticanza: Netanyahu non è Pericle, il padre della democrazia. Gli piace gloriarsi del fatto che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente, ma quando si guarda a tutta la sua carriera, sembra che per lui la democrazia sia più un mezzo per incrementare il potere della Nazione che un nobile ideale valido in assoluto.

Netanyahu è stato la figura chiave nella politica israeliana fin dal 1996, ma in quel periodo non ha mai pronunciato un discorso rilevante sul valore del libero autogoverno, dei diritti individuali, del pluralismo e della tolleranza. Mentre Israele ha effettivamente prosperato in molti aspetti durante gli ultimi decenni – soprattutto grazie al suo popolo dotato e dinamico – la sua democrazia è seriamente in pericolo.

Ma forse i semi della sua attuale tormentata vita politica sono stati presenti fin dall’inizio.

Scrivere il futuro di Israele

Al giurista Zvi Berenzon, un giuslavorista che in seguito diventò giudice della Corte Suprema, venne chiesto di scrivere una delle prime bozze della Dichiarazione di Indipendenza di Israele. All’inizio del maggio del 1948 [quando venne fondato lo Stato di Israele, ndt.] le giornate erano caotiche e la guerra imminente. Era difficile capire il peso che le parole avrebbero avuto poche generazioni dopo.

Eppure Berenzon, con un insieme di preveggenza e ingenuità, suggerì che la dichiarazione includesse quanto segue:

“Noi, il congresso del popolo…con il presente atto annunciamo la fondazione dello Stato ebraico, libero, indipendente e democratico in Eretz Israel (la Palestina), all’interno dei confini definiti dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.”

Benché alcune delle proposte di Berenzon siano state inserite nella bozza finale della dichiarazione, i suoi suggerimenti di introdurre la parola chiave “democratico” e di specificare i confini del futuro Stato vennero respinti dai suoi superiori e dai dirigenti politici, in particolare da Moshe Sharet e da Ben Gurion.

Mentre questa settimana lo Stato di Israele celebra i settant’anni di indipendenza, pare che il principale conflitto con se stesso sia sintetizzato dalla frase eliminata e da tempo dimenticata di Berenzon.

Dal 1948, e soprattutto dopo la guerra del 1967, la domanda è diventata: può Israele occupare tutto il territorio tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano, sottomettere i palestinesi al governo militare e rimanere ancora democratico in modo significativo?

Dato che né la natura del governo né i confini internazionali furono chiaramente definiti dalla dichiarazione, emerse una pericolosa elasticità per mezzo della quale le istituzioni politiche, le leggi costituzionali e le norme democratiche poterono essere gradualmente adeguate per soddisfare l’interesse dell’espansione territoriale.

La direzione è chiara: ci sono circa 400.000 coloni ebrei in Cisgiordania (senza contare Gerusalemme). Politicamente ed ideologicamente, il loro potere sembra decuplicato. Ci si chiede se il grande slancio sionista verso l’antico passato ebraico e la scoperta di un lontano immaginario religioso non abbiano aperto il vaso di Pandora: dopotutto nella Bibbia Dio promette al suo popolo una terra santa, ma non cita, ahimé, la democrazia.

L’ironia sta nel fatto che ai giorni nostri l’ascesa del nazionalismo illiberale è diventata così pronunciata che la versione finale della dichiarazione – per quanto possa essere insoddisfacente – è diventata il principale punto di appoggio per quanti si impegnano a favore di una democrazia che rispetti l’universalità e l’uguaglianza dei diritti individuali e il ruolo di una minoranza nel plasmare le caratteristiche dello Stato.

La cultura politica israeliana non è basata sul linguaggio. Difficilmente ogni discorso, testo e proclama si radica nella memoria collettiva; piuttosto, il mondo israeliano è plasmato per lo più attraverso l’azione e la costruzione, non attraverso le parole, che sono spesso poco affidabili.

Ma forse la dichiarazione è un’eccezione a questa regola – o almeno ci sono quelli che, in mancanza di qualunque altro baluardo, la vedono come la migliore possibilità di difendere la propria visione relativamente liberale.

Dopo che Aharon Barak, l’ex-presidente della Corte Suprema – e forse la persona più rispettata tra i sionisti liberali – ha sostenuto che la dichiarazione rappresenta i fondamentali valori e fini dello Stato ebraico, in Israele si è sviluppato un dibattito molto acceso. La dichiarazione include un impegno a sostenere la libertà, la giustizia e la pace, così come diritti individuali, politici e sociali eguali per tutti. Esorta anche i cittadini palestinesi di Israele a partecipare alla costruzione dello Stato.

Barak ha affermato che, secondo le leggi e la tradizione giuridica israeliane, la dichiarazione, benché non considerata in sé un documento costituzionale, definisce il criterio più elevato in base al quale ogni legge deve essere valutata. Ciò include le “leggi fondamentali”, che sostituiscono una costituzione nazionale.

Tutti concordano,” ha detto Barak in un’intervista a Yediot Ahronot [il giornale israeliano più venduto, di tendenza centrista, ndt.] a febbraio, “che essa (la dichiarazione) definisce i criteri di base con cui dovrebbero essere interpretate le leggi e le leggi fondamentali.” Ha aggiunto che le leggi, comprese quelle fondamentali, devono essere studiate preventivamente in modo che siano coerenti con la dichiarazione.

La Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] è libera di determinare in una nuova legge fondamentale tutto quello che vuole o ci sono limitazioni costituzionali nel suo ragionare e nelle sue deliberazioni?” ha chiesto retoricamente Barak.

Sono in questione specificamente la proposta di una nuova legge sullo “Stato-Nazione ebraico” e la domanda se supererà la revisione giuridica della Corte Suprema.

Come la dichiarazione, che in parte potrebbe sostituire da un punto di vista costituzionale, la legge non menziona la democrazia come costitutiva dello Stato e dichiara il monopolio della nazione ebraica sulla sua natura e identità. Peggio ancora, non promette neppure pari diritti individuali a tutti i cittadini e consente di segregare comunità in base alla religione e/o alla nazionalità.

La Corte e la dichiarazione sotto attacco

Negli ultimi anni i cittadini palestinesi di Israele sono più sparsi sul territorio, e in alcune città vivono fianco a fianco con gli ebrei. Più cittadini palestinesi del Paese sono stati coinvolti nella vita generale di Israele, soprattutto nelle università e nei luoghi di lavoro.

Di fatto gli ultimi due governi di Netanyahu hanno aumentato i finanziamenti per il settore arabo, per esempio alle scuole. Eppure, come il governo incoraggia i cittadini palestinesi ad integrarsi completamente – soprattutto come produttori, lavoratori e consumatori in un’economia neoliberista in espansione – così cerca, allo stesso tempo, di indebolire i loro diritti di cittadinanza dal punto di vista politico e giuridico, per “metterli al loro posto” e ricordargli chi “possiede” lo Stato e le sue risorse.

Con la nuova legge i cittadini palestinesi e altre minoranze potrebbero avere minor accesso alla terra e alla casa, o a finanziamenti per promuovere la loro cultura.

Barak avverte che la legge sullo Stato-Nazione ebraico (se accolta) potrebbe avere profonde conseguenze per la situazione dei palestinesi cittadini di Israele e altrove, e limiterà in generale le sentenze “liberali” della Corte Suprema – un’istituzione spesso dipinta dai partiti di Destra come pericolosamente “antipatriottica”.

Molti anni fa mi è capitato di sedere vicino a Barak durante una cena: a un certo punto, durante la nostra conversazione, ha aperto il suo portafoglio, ha preso una copia della dichiarazione, l’ha aperta con cautela e mi ha spiegato il senso dei diritti promessi dal documento.

Sono rimasto colpito dalla sua sincerità. Era evidente che per lui, un sopravvissuto all’Olocausto che ricorda cosa significhi far parte di una minoranza indifesa, le parole della dichiarazione erano molto attuali e una promessa che Israele dovrebbe concretizzare.

Tuttavia oggi un genere molto diverso di persone governa il sistema giuridico israeliano. La ministra della Giustizia, Ayelet Shaked, per esempio, ha risposto a Barak dicendo che le sue affermazioni relative alla preminenza della dichiarazione sulla legge fondamentale proposta e il ruolo della Corte Suprema di garantire questa preminenza attraverso il controllo giurisdizionale, “demoliscono la democrazia, in quanto è la Knesset che deve definire cosa ha valore costituzionale e cosa non ce l’ha.”

Quindi per Shaked e per i partiti di destra la dichiarazione è diventata un documento “di sinistra”, nonostante la sua notevole enfasi sul legame tra la Nazione e la sua antica terra senza frontiere. Dato che la Corte Suprema fa (con molta cautela) uso della dichiarazione per criticare decisioni discutibili del governo e abolisce alcune delle leggi della Knesset (solo 18 dal 1995), un deputato del partito “Casa Ebraica” ha suggerito che la Corte dovrebbe essere demolita con un bulldozer D-9.

Shaked è di “Casa Ebraica”, un partito di destra dominato dai coloni, benché lei sia laica e viva a Tel Aviv. Ora, all’inizio dei 40 anni, Shaked è un’importante voce della nuova destra israeliana: assolutamente nazionalista, astuta nel far appello al centro laico israeliano e particolarmente desiderosa di utilizzare tutti i mezzi e le risorse del governo per promuovere la sua ideologia.

È un importante esponente di quanti a destra hanno come passatempo preferito attaccare la Corte Suprema perché difende il diritto di proprietà dei palestinesi in Cisgiordania, perché interviene in questioni relative alla sicurezza e ogni tanto critica le forze di sicurezza, e perché protegge, in qualche misura, i richiedenti asilo. Recentemente ha evidenziato che, per la Corte, “il sionismo è diventato lettera morta.”

Shaked cerca di rimodellare la Corte Suprema e i tribunali inferiori con nuove nomine di giudici che non sono “attivisti” e creativi nel loro approccio giuridico, più in consonanza con la legge ebraica e, soprattutto, meno liberali nella loro ideologia. Finora ha avuto una serie di successi.

Il leader del suo partito è Naftali Bennett, il ministro dell’Educazione, che sta introducendo contenuti religiosi ebraici nel curriculum delle scuole e che vorrebbe anche imporre ai professori dell’università un codice etico che garantisca che non possano portare nelle classi la loro “politica” potenzialmente critica. Shaked e Bennett insieme influenzano l’identità del futuro Israele più di qualunque altro ministro.

L’avvilimento degli altri

Fin dal suo inizio il sionismo ha sempre avuto un’ardente relazione con la “volontà” umana, un fondamentale concetto presente nei primi testi del sionismo fin dai tempi di Theodor Herzl, il fondatore del moderno sionismo politico. Era necessaria una grande quantità di tale volontà collettiva per creare un nuovo mondo per gli ebrei in Palestina, ma esso ha anche dovuto essere limitato e circoscritto per fondare istituzioni politiche stabili e democratiche in un dato territorio.

Tuttavia oggi per la maggior parte della destra la democrazia è diventata sinonimo di imporre la volontà della maggioranza, slegata da documenti fondativi, norme che rispettino gli individui in quanto tali e i diritti collettivi delle minoranze o persino dei tribunali. Chiedono l’abolizione del controllo giurisdizionale che Barak e altri giudici hanno introdotto nel 1995, o almeno una sua limitazione.

Proprio questa settimana per la prima volta Netanyahu si è unito a loro. Nei loro discorsi la Knesset è l’unica titolare della sovranità e solo essa rappresenterebbe la reale volontà del popolo. La volontà della maggioranza può quindi non essere controllata, dato che Israele ha una sola camera dei rappresentanti e un presidente senza potere di veto sulle leggi.

In qualunque circostanza questa sarebbe una visione pericolosa, ma lo è particolarmente quando si unisce ad un nazionalismo centrato sulla terra in cui i non-ebrei non giocano alcun ruolo, e in cui le istituzioni dello Stato sono sempre più orientate verso la legittimazione del completamento dell’espansione territoriale di Israele.

Di sicuro ci sono quelli per i quali c’è poca differenza tra individui come Aharon Barak e Ayelet Shaked e le diverse visioni di Israele che ognuno di loro rappresenta. Questi critici vedono Israele come uno Stato occupante, coloniale, nazionalista, militarista, persino illegittimo, alla radice; dopotutto, dicono correttamente, la Corte Suprema ha fatto ben poco per bloccare l’occupazione e l’oppressione di Israele sui palestinesi (anche se è intervenuta su questioni e casi singoli).

Ma per quanti vedono lo Stato ebraico come non meno legittimo di qualunque altro, e che ricordano le molte correnti nel, e la complessità del, movimento ebraico di rinascita nazionale e i suoi risultati senza precedenti (nonostante i suoi gravi difetti), la distanza tra i due Israele fa un’enorme differenza.

Sono tempi duri per la democrazia in tutto il mondo. Viktor Orban in Ungheria, Nicolas Maduro in Venezuela, Vladimir Putin in Russia e Recep Tayyip Erdogan in Turchia sono tra i leader e i Paesi che testimoniano che l’autoritarismo è in ascesa.

Nel contesto più vicino ad Israele, le Primavere Arabe sono fallite, come i processi di democratizzazione nell’Autorità Nazionale Palestinese. Molti libri sono stati dedicati a questo argomento, soprattutto dopo l’ascesa di Donald Trump (vedi per esempio “How Democracies Die” [“Come muoiono le democrazie”, ndt.] di Daniel Ziblatt e Steven Levitsky, come anche “Fascism: A Warning” [“Fascismo: un avvertimento”, ndt.] di Madeleine Albright). 

È inquietante, di fatto deprimente, vedere come in molti diversi contesti, la democrazia possa essere allontanata utilizzando le stesse tecniche poco originali eppure efficaci. Queste includono:

  • identificare nemici della Nazione reali o immaginari – interni o esterni

  • coltivare la paura e un senso di allarme

  • introdurre politiche polarizzanti e dipingere l’opposizione come illegittima

  • personalizzare i partiti e idolatrare un leader “forte”

  • creare un legame diretto tra il leader e le masse attraverso messaggi populisti

  • criticare le élite culturali e intellettuali come non patriottiche esaltando quella militare

  • manipolare e falsificare la legge a piacere

  • cercare di ottenere il controllo diretto o indiretto sui tribunali e sui media

  • tollerare intimidazioni o persino violenze contro cittadini “sleali” e organizzazioni dei diritti umani

Tutto ciò con l’obiettivo di aumentare e centralizzare il potere.

Come in Israele la democrazia è in declino

Israele non è uno Stato autoritario: per certi aspetti, data la sua scena politica caotica, è molto lontano dall’esserlo. Lo Stato di diritto esiste ancora. L’ex-primo ministro Ehud Olmert è appena uscito di prigione, come l’ex-presidente Moshe Katzav, e in febbraio la polizia ha raccomandato che Netanyahu venga sottoposto a processo per varie accuse di corruzione.

Partiti di tutto lo spettro ideologico competono in libere elezioni e il diritto di parola è – per lo più – rispettato. Il procuratore generale e altri garanti della democrazia non sono stati destituiti né si sentono minacciati, e l’apparato amministrativo non viene epurato per ragioni politiche. La democrazia non è in pericolo immediato.

Eppure, purtroppo, negli ultimi anni Israele “ha fatto progressi” in ognuno dei parametri delle democrazie in declino elencati in precedenza. Il capo della polizia Roni Alsheikh, lui stesso un colono, è stato ferocemente attaccato per aver consentito che l’inchiesta su Netanyahu andasse avanti. Al contempo gli scagnozzi del primo ministro stanno pescando nei codici di altri Paesi occidentali alla ricerca di sistemi “legittimi” per proteggere il primo ministro in carica.

Ascoltate un talk show radiofonico locale israeliano e potreste rimanere scioccati dal fanatismo come normale conversazione quotidiana. Se siete un artista, o una personalità dei media, è meglio che non diciate cose considerate antipatriottiche perché potreste perdere la vostra fonte di reddito. Spesso membri palestinesi della Knesset vengono aggrediti. La violenza dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania non è, per lo più, neppure raccontata. Potrei continuare all’infinito.

Le cose sono diventate così gravi che oggi è soprattutto Benny Begin, figlio di Menachem Begin [ex-capo del gruppo terrorista sionista “Irgun”, primo ministro di Destra e premio Nobel, ndt.] e membro della vecchia scuola del Likud, noto per la sua totale sfiducia nell’Autorità Nazionale Palestinese e negli accordi di pace di Oslo, che coerentemente e coraggiosamente lotta per conservare nel suo partito almeno qualche impegno per la cittadinanza universale e uguale, per i diritti di proprietà dei palestinesi in Cisgiordania, per la trasparenza delle inchieste della polizia e delle raccomandazioni giudiziarie – e per un generale senso di correttezza e umanità.

In ogni Paese in cui la democrazia è in declino ciò avviene per diverse ragioni: la difficoltà di affrontare un grande numero di migranti e rifugiati, la grave crisi economica e la disoccupazione, la sfiducia nelle istituzioni politiche, una situazione di emergenza e un crollo della sicurezza.

Tuttavia, come rilevato sopra, nessuno di questi fattori conta nel caso di Israele. Di fatto gli israeliani riferiscono costantemente di essere molto soddisfatti della propria vita privata. Israele è collocato all’11^ posto nel “Rapporto sulla Felicità nel Mondo” del 2017.

No, se la democrazia liberale è in declino in Israele è a causa di altre ragioni. L’occupazione della Cisgiordania – che sia attuata per ragioni religiose, di sicurezza o economiche – richiede l’indebolimento delle istituzioni israeliane e delle forze politiche che possono metterla in questione, che si tratti dei tribunali o di intellettuali delle università. Pone una nazione contro l’altra in un continuo conflitto, e quindi richiede di mettere a tacere ogni voce che sfidi il primato della nazione o dubiti dell’esercito israeliano e delle forze di sicurezza, persino quando il loro comportamento diventa molto discutibile, come attualmente sul confine con Gaza.

Cosa più preoccupante, l’occupazione porta troppi israeliani a svalutare gli altri come esseri umani inferiori per giustificare la loro sottomissione e l’usurpazione della loro terra. Dipinge come traditori quei cittadini che rifiutano questa degradazione come inumana e non-ebraica.

Infatti all’inizio di questo mese il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ha detto che il partito progressista “Meretz”, il cui principale appoggio viene da elettori ebrei, “rappresenta gli interessi palestinesi nella Knesset israeliana.”

Di fatto l’occupazione israeliana della Cisgiordania – che a 51 anni è la più lunga della storia contemporanea – sta modellando la concezione che gli israeliani hanno del governo. Poiché le due popolazioni, di coloni israeliani e di palestinesi, vivono sempre più fianco a fianco in Cisgiordania nell’area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale controllo israeliano, ndt.], i due modelli di leggi e di sovranità esercitata sullo stesso territorio si influenzano sempre più a vicenda.

Le leggi penali israeliane, per esempio, sono gradualmente applicate nei tribunali militari, dato che la maggior parte dei giudici sono avvocati israeliani, civili che stanno facendo il servizio militare. In certa misura essi hanno esteso i diritti dei palestinesi nei tribunali.

Ma l’effetto di gran lunga maggiore dell’occupazione è stato in senso inverso: la penetrazione della logica militare di sovranità nella concezione del governo e del potere nello Stato israeliano. Sotto il potere militare non ci sono tre poteri di governo separati e indipendenti.

Al contrario, i tribunali sono sotto il controllo del comandante militare di zona, e questo comandante è anche il supremo legislatore e arbitro. Con questo modello molto efficace in mente, ben noto alla maggioranza degli israeliani attraverso il servizio militare, gli ultimi sviluppi hanno più senso.

Come il destino del Likud è legato ad un uomo

Ho già sottolineato in precedenza il tentativo di ridurre il potere della Corte Suprema e di indebolire l’idea di una democrazia costituzionale. Tuttavia la Knesset israeliana non se la passa molto meglio. A differenza dell’asserzione di Shaked secondo cui è sovrano, questo parlamento sta soccombendo al potere dell’esecutivo, perdendo la sua capacità di verificare e controllare quest’ultimo, così come di produrre leggi che siano in qualche modo indipendenti dal governo e non segnate da esigenze politiche pressanti.

In Israele le elezioni sono per i partiti, non per singoli candidati, e il governo è formato attraverso un’alleanza tra partiti. Dato che molti dei parlamentari sono o ministri o sottosegretari, la sovrapposizione tra potere esecutivo e legislativo è sempre stata un problema del sistema israeliano.

Ma negli ultimi anni è avvenuto uno sviluppo particolarmente inquietante: gli stessi partiti sono diventati meno democratici. Attualmente cinque partiti della Knesset (religiosi e laici, di destra e di centro) non svolgono elezioni interne. In tre di essi (compreso “Yesh Atid” [partito di centro, ndt.] di Yair Lapid, che è il principale candidato a sostituire il Likud come partito principale), è praticamente il capo del partito che designa da solo i candidati per la Knesset, e la loro carriera dipende totalmente da lui. In totale, 40 parlamentari sono stati eletti in questo modo – un terzo della Knesset.

Poiché questi specifici partiti fanno di solito parte di qualunque coalizione di governo, la loro influenza è particolarmente pronunciata.

Piuttosto che di parlamentari indipendenti, ognuno dei quali si forma la propria opinione sull’argomento in questione, rappresenti diversi interessi e visioni, eserciti il proprio pari diritto e responsabilità ad esprimere le proprie opinioni e agisca in base ad esse nello stesso parlamento che si suppone incarni questi valori, il numero reale di persone che prendono le decisioni è molto ridotto (anche in materia di leggi), garantendo che prevalga uno spirito servile. Partiti che al proprio interno eludono i principi democratici non possono difendere realmente questi principi nella vita pubblica in generale.

È in questo contesto politico che l’attuale capo dell’esecutivo, il primo ministro Benjamin Netanyahu, ha consolidato il proprio potere personale: è diventato l’incontestato leader del maggior partito nella coalizione di governo, il Likud.

Benché il partito sia democratico, vede il proprio destino inesorabilmente legato a quello del suo leader, a tal punto che, mentre si accumulano le prove che Netanyahu ha ricevuto regali in champagne e sigari pari a circa 330.000 dollari da “amici” e che potrebbe aver tentato di influenzare i media attraverso varie forme di corruzione indiretta, il suo sostegno popolare è aumentato.

Invece di dare le dimissioni, Netanyahu insiste di essere vittima di una caccia alle streghe, minando progressivamente gli standard etici dei suoi stessi sostenitori e la loro fiducia nelle istituzioni pubbliche. E una tale cecità etica, coltivata attraverso molti anni di occupazione, diventa funzionale per molti israeliani quando si tratta di avere a che fare con comportamenti eticamente scorretti dei loro dirigenti nella politica interna.

Qualcosa è già cambiato negli ultimi due anni, e Netanyahu è stato adulato in forme inimmaginabili nel passato. Recentemente, per esempio, in una riunione di governo convocata dopo che il primo ministro è tornato da una fortunata visita in India, la ministra della Cultura e dello Sport Miri Regev ha detto davanti alle telecamere:

Tu sei un grande leader, anche se qualcuno in questo Paese non ama dirlo o diffonderlo. Ma bisogna dire la verità…Ci hai reso un grande servizio, con molto orgoglio e dignità…sei stato trattato come il re dell’India. È commovente fino alle lacrime, molte grazie a te per quello che stai facendo per lo Stato di Israele.” (traduzione di Haaretz).

In Israele non ci sono limiti. Netanyahu è stato primo ministro per 12 degli ultimi 20 anni, anche se non consecutivi. Quando ha iniziato la sua carriera politica, Netanyahu aveva acerrimi rivali nel partito, che non solo lo hanno affrontato nelle elezioni interne, ma che hanno esercitato un’influenza politica con cui ha dovuto fare i conti.

Ma ormai da parecchi anni Netanyahu non ha dovuto affrontare sfidanti di rilievo all’interno del partito. Per qualche ragione i membri del partito Likud, condividendo una sorta di amnesia collettiva, sono arrivati a credere che “è nel loro DNA” essere leali al leader del proprio partito praticamente in qualunque circostanza.

Singoli che tentino di sfidare la posizione di comando di Netanyahu sanno che starebbero rischiando tutta la propria carriera politica. Netanyahu, da parte sua, fa tutto il possibile per indebolire i suoi potenziali rivali nel partito, rifiutando, per esempio, di nominare un ministro degli Esteri [attualmente Netanyahu ricopre anche la carica di ministro degli Esteri, ndt.], di cui c’è estremo bisogno, a quanto pare per il timore del potere e del prestigio che un simile ministro potrebbe guadagnare all’interno del partito.

Il partito di governo Likud non si è preoccupato di rendere pubblico un programma elettorale durante le ultime elezioni del 2015. Il suo leader, il primo ministro, ha concesso solo un discorso in tutta la campagna elettorale: al Congresso USA sul programma nucleare iraniano.

L’esercizio del potere si è quindi separato dalle parole e dalla responsabilità. Allora non è solo la Knesset che ora desidera non essere controllata, e Netanyahu ha già fatto ciò a un livello significativo: nessuna parola lo vincola, neppure la sua. E questo, forse, è il segno più inquietante per la democrazia israeliana.

– Eyal Chowers insegna teoria politica all’università di Tel Aviv. Il suo libro “The Political Philosophy of Zionism: Trading Jewish Words for a Hebraic Land” [La filosofia politica del sionismo: scambiare parole ebraiche per una terra ebraica”] è stato pubblicato da Cambridge UP nel 2012.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le Forze di Sicurezza israeliane ignorano continuamente gli attacchi razzisti contro gli alunni palestinesi.

Haaretz

maggio 2018

Gli studenti delle colline meridionali di Hebron sono costretti a scegliere tra l’istruzione e la sicurezza mentre un gruppo di rabbini lancia una nuova campagna a loro favore.

■ Da più di dieci anni, i bambini palestinesi sono vittime di violenza su base etnica mentre si recano a scuola.
■ I sospettati sono estremisti israeliani appartenenti ai vicini insediamenti
■ Le forze di sicurezza israeliane spesso e volentieri ignorano gli attacchi
I politici chiudono un occhio davanti a tale disinteresse
■ Una nuova campagna mira a porre fine a questo comportamento scorretto

In mezzo alle violenze dei coloni, andare a scuola è un atto di coraggio:

Per il ventiduenne Ali del villaggio di Tuba, Cisgiordania, decidere di studiare è un modo per reagire. Negli ultimi dieci anni, i coloni estremisti israeliani hanno terrorizzato lui e altri bambini della sua comunità mentre si recavano a scuola nel villaggio di A Tuwani. E continuano ancora oggi. In questi villaggi palestinesi, che cercano di sopravvivere nell’isolata e arida regione della Cisgiordania nota come le colline meridionali di Hebron, la violenza su base etnica e le tattiche di intimidazione contro i bambini sono diventate abituali, ma non meno orribili. Attivisti internazionali scortano i bambini palestinesi verso le loro scuole, e fanno il monitoraggio degli attacchi condotti da estremisti israeliani provenienti dall’avamposto illegale di Havat Maon.

Gli attacchi contro gli studenti palestinesi nella regione sono diventati così usuali che la Commissione per la Tutela dei Minori della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] ha discusso la questione. Ali ha ammesso che, a causa della sua paura, trovava delle scuse per non andare a scuola, e racconta episodi spaventosi in cui i coloni hanno usato i loro stessi figli per tendere imboscate ai bambini palestinesi che vi si recavano. Nonostante ciò, le forze di sicurezza israeliane spesso ignorano gli attacchi contro i palestinesi in generale e contro gli studenti di A Tuwani in particolare (come qui documentato) e il problema va oltre gli attacchi, riguardando anche le risposte inefficienti o del tutto assenti delle autorità israeliane. Per quanto ne sappiamo, le forze di sicurezza non hanno intensificato i tentativi di prendere i responsabili, e nessun sospettato è stato arrestato né tanto meno portato davanti alla giustizia.

Le forze di sicurezza offrono invece una soluzione inadeguata e francamente assurda: una jeep militare per scortare i bambini quando vanno e tornano da scuola ogni giorno. La scorta, il più delle volte, arriva in ritardo, sempre che arrivi. Questa “soluzione” costringe gli alunni palestinesi a scegliere tra la sicurezza e il diritto all’istruzione. Rifiutandosi di permettere che questi estremisti gli impediscano di sviluppare a pieno le proprie capacità, Ali ha superato la sua paura e ha completato le superiori. Oggi sta per laurearsi e considera la sua formazione una sfida diretta alla violenza dei coloni estremisti e all’oppressione con cui ha dovuto confrontarsi vivendo sotto il controllo militare israeliano.

Ora, i “Rabbis for Human Rights” (RHR) [“Rabbini per i Diritti Umani”, ndt.], un gruppo israeliano di rabbini sionisti per i diritti umani, si è unito al collettivo italiano di attivisti “Operazione Colomba” (legato alla chiesa cattolica) per far pressione sul governo israeliano affinché venga posto fine a quella che considerano una vergogna per lo Stato ebraico. Hanno lanciato una campagna di lettere di protesta in cui chiedono agli ebrei americani di indirizzare i loro valori progressisti e la loro influenza politica per fare un appello al governo israeliano affinché sia garantita la sicurezza dei bambini palestinesi che, tra profonda povertà ed emarginazione, ambiscono ad avere un’istruzione.

Rispetto ad altre zone della Cisgiordania, i villaggi dellarea di A Tuwani raramente sono stati coinvolti nel conflitto violento. Questa zona isolata e rurale, in cui spesso le persone vivono in grotte senza elettricità, acqua corrente o altre infrastrutture, è geograficamente, economicamente e culturalmente lontana dal fulcro della società palestinese. Nonostante ciò, i suoi abitanti pagano un caro prezzo per il solo fatto di essere arabi. Israele sta affrontando numerose minacce per la sicurezza che a volte mettono alla prova la sua capacità di aderire ai principi dei diritti umaniosservano i RHR, ma quando parliamo di proteggere gli scolari palestinesi nella tranquilla comunità rurale di A Tuwani, lontana da qualsiasi zona di conflitto, non è possibile concepire alcuna giustificazione logica per questo sconvolgente fallimento morale che esige la nostra indignazione come ebrei e come israeliani”.

Il crimine più facile da risolvere resta, chissà come, irrisolto.

Per loro natura, gli attacchi contro gli studenti di A Tuwani sono il crimine più semplice da risolvere: avvengono su un ben definito, breve tratto di strada che le forze di sicurezza pattugliano costantemente, ad intervalli di tempo sempre uguali e noti (quando i bambini vanno a scuola o tornano a casa) e succedono da anni con le stesse modalità. Inoltre, gli assalitori provengono per lo più da un piccolo avamposto vicino, Havat Maon, la cui popolazione è molto ridotta, quindi i sospetti (per lo più giovani adulti) non sono difficili da individuare. Per giunta, gli assalti sono ampiamente documentati.

Alla luce di tutto ciò, ci si aspetterebbe tutta una serie di arresti e processi per questi delinquenti razzisti. Invece, per quanto ne sa il gruppo per i diritti umani, nessuno è mai stato arrestato in relazione agli attacchi.

Questo fallimento non è il risultato di una mancanza di capacità delle forze di sicurezza. Anzi, le forze di sicurezza israeliane sono giustamente celebri per la cattura di terroristi e criminali, soprattutto in Cisgiordania. Questo fallimento dipende dal fatto che la sicurezza dei palestinesi, anche dei bambini piccoli, viene considerata una questione secondaria. Non si tratta, quindi, semplicemente di atti razzisti di un gruppo marginale di bulli: è piuttosto una politica di applicazione della legge discriminatoria da parte delle forze di sicurezza israeliane e del governo che le supervisiona. Nella nuova campagna, i “Rabbini per i Diritti Umani” fanno appello al mondo ebraico affinché aiuti a porre fine a questa vergognosa violazione dei valori ebraici. “Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto.”. (Levitico 19).

(traduzione di Elena Bellini)




Storie della catastrofe: Palestina

Rami Almeghari, Mohammed Asad e Anne Paq

16 maggio 2018,  Electronic Intifada

Settant’anni fa i palestinesi hanno subito la Nakba, o catastrofe, quanto la maggioranza di loro lasciò o fu obbligata dalle milizie sioniste a lasciare la Palestina per far posto alla creazione dello Stato di Israele e garantire una maggioranza ebraica. Circa 750.000 persone finirono per diventare profughi registrati dalle Nazioni Unite. Molti altri se la cavarono da soli. Non gli venne mai consentito di tornare alle loro terre o case, che vennero confiscate dal nascente Stato, e molti dei loro villaggi vennero successivamente distrutti. Qui alcuni sopravvissuti raccontano le loro storie.

Khoury Bolous, 84 anni, di Haifa. Originariamente di Iqrit, nei pressi del confine con il Libano.

Iqrit era un piccolo villaggio cristiano di circa 500 abitanti molto vicino alla frontiera della Palestina con il Libano. Il villaggio subì la pulizia etnica nel 1948 e venne distrutto nel 1951, tranne la chiesa. I suoi abitanti divennero sfollati interni – quello che Israele definì “presenti assenti”

Eravamo contenti. Avevamo fichi, hummus e ulivi. Seminavamo di tutto, tranne zucchero e riso. Mio padre aveva molta terra, circa 100 dunum [10 ettari, ndt.]. Facevamo la farina, coltivavamo lenticchie e fagioli, ogni tipo di verdure e olive. L’unica cosa che mio padre comprava era il tabacco. Morì quando ero molto giovane, e mio fratello maggiore prese il suo posto. La nostra casa era fatta di grandi pietre ed era stata costruita da mio nonno.

Nel 1948 non ci fu resistenza nel villaggio. Le forze sioniste entrarono nel villaggio e alzammo bandiera bianca. Non avevamo armi. Ci dissero di andarcene ad al-Rama, che sarebbe stato solo per due settimane e che era solo per la nostra sicurezza. Venimmo trasportati da camion militari. Ma io non andai insieme agli altri. Mio fratello mi disse di andare in Libano a Qouzah, da nostra zia, per salvare gli animali. Camminai verso il Libano con 5 mucche, un cammello, un asino e un cavallo. Attesi il messaggio che mio fratello avrebbe dovuto mandarmi quando fossero tornati a Iqrit, ma il messaggio non arrivò mai.

Dopo un mese sentii dire che alcune persone stavano andando a Iqrit per raccogliere frutta e così decisi di andare. Avevo paura di attraversare la frontiera ma lo feci. Non era rimasto niente nella nostra casa, tutto era stato rubato. Persone che incontrai mi dissero che non sarei riuscito ad arrivare ad al-Rama, così tornai in Libano e vi rimasi per due anni. Poi incontrai un passeur, Alì, e con un gruppo partimmo di notte per la Palestina. Avevamo paura, era pericoloso. Alla fine all’alba, vicino ad al-Rama, continuai da solo attraverso i campi. Quando raggiunsi il villaggio, vidi qualcuno di Iqrit che mi portò dalla mia famiglia. Non potevano credere che fossi riuscito a fare una cosa simile. Non ci potevo credere neppure io.

Un Natale sentimmo che Iqrit era stato totalmente distrutto. Il mukhtar [capo villaggio, ndt.] ed altri erano andati su una collina di fronte al villaggio e confermarono la notizia. Era un disastro sentire questa notizia. Volevano uccidere ogni nostra speranza di tornare. Ma non ci riuscirono.

Alla fine ebbi un permesso ed iniziai a lavorare come macellaio ad Haifa. Mi sposai nel 1960 ed andai ad Haifa. Tornavamo spesso a Iqrit, dormendo nella chiesa. Fui arrestato alcune volte per essere stato lì. Ci portavamo i bambini per le vacanze.

Siamo come i rifugiati. Quello che abbiamo in comune è la speranza del ritorno. Vogliamo solo andare a casa, questo è un nostro diritto fondamentale. Voglio tornare e costruire una piccola casa.

Reportage di Anne Paq

Saed Hussein Ahmad al-Haj, 85 anni, campo di rifugiati di Balata, nella città di Nablus della Cisgiordania occupata. Originario di al-Tira, nei pressi di Ramla.

Sono stato fortunato rispetto ad altri profughi. Ho avuto successo nel lavoro ed ho tre macellerie. Ho dei figli. Ma è sempre mancato qualcosa. Mi sono sempre dato da fare, ma non c’è una vera allegria perché non vivo nella casa in cui sono nato.

Il mio villaggio era noto soprattutto per le sue greggi e per i suoi prodotti. Era un piccolo villaggio, circa 2.000 abitanti. All’epoca la nostra vita era semplice. La scuola era così precaria che ci sedevamo sul pavimento. Ho passato la mia vita giocando all’aperto con i vicini.

Mio padre commerciava pecore e mucche. Vendeva anche il latte. Avevamo una piccola casa fatta di pietre e 2 dunum [0,2 ettari] di terra coltivata a grano, sesamo, fichi e ulivi. All’epoca tutto aveva un sapore migliore. Ci nutrivamo direttamente con i prodotti della terra. Potevamo anche andare facilmente al mare e grazie al commercio ci incontravamo con ogni genere di persone.

Nel 1948 avevo circa 15 anni. Una notte vedemmo arrivare verso di noi dei soldati. In un primo momento pensammo che fossero arabi. Ma poi iniziarono a sparare. Le pallottole volavano sopra la mia testa e pensai che sarei morto. Corsi da mio padre, che mi disse di andare verso est con le pecore. Allora ne avevamo sei. Me ne andai da solo, ma sentii sparare, così lasciai le pecore e corsi a casa.

Ce ne andammo con gli altri abitanti del villaggio. Prima arrivammo ad al-Abbassiyya, dove c’erano alcuni gruppi della resistenza palestinese. Poi ci incamminammo verso Deir Ammar, vicino a Ramallah.

Non ci portammo niente. Tutti parlavano di Deir Yassin (dove le forze sioniste avevano commesso un massacro). Eravamo spaventati già prima che arrivassero i sionisti. Avremmo dovuto rimanere e morire là. Avremmo dovuto lottare. Per lo meno non abbiamo mai venduto le nostre case. Siamo stati buttati fuori contro la nostra volontà.

Pochi giorni dopo che ce ne eravamo andati, entrai di soppiatto nel villaggio di notte. Ma quando entrai nella nostra casa, tutto – la farina, l’olio d’oliva, i mobili – era distrutto e sparso per la casa.

Tornammo al nostro villaggio, una volta, con mio padre. Fu dopo il 1967 [anno della guerra dei Sei giorni e della conquista israeliana della Cisgiordania, ndt.]. Bussò alla porta, e rispose uno [ebreo, ndt.] yemenita. Mio padre gli disse: “Questa è la mia casa.” Ma lo yemenita rispose solo: “Era casa tua, Ora è la mia.”

Reportage di Anne Paq

Wafta Hussein Khleif, 82 anni, campo di rifugiati di Dheisheh nella città di Betlemme della Cisgiordania occupata. Originaria di Deir Aban, nei pressi di Gerusalemme.

Tutti i figli maschi di Wafta sono stati arrestati da Israele in un momento o nell’altro, e uno sta scontando più di 20 anni di prigione. Uno dei suoi nipoti è stato ucciso durante un’incursione dell’esercito israeliano a Betlemme nel 2008. Aveva 17 anni.

Mangiavamo quello che coltivavamo. Tutto veniva dalla terra. Non compravamo niente. Vivevamo in una fattoria che aveva un cortile interno. Avevamo più di 1 dunum di terra con 200 ulivi, galline e pecore. C’erano ebrei che vivevano vicino a noi. Erano amici e venivano al villaggio a comprare latte. Non avevano neanche un mulino, per cui usavano quello del villaggio.

Nel 1948 ci furono molti scontri. Ci furono spari e bombardamenti aerei. Non avevamo armi, solo coltelli e falci. Scavammo una trincea attorno al villaggio. Durante quei giorni ci furono tre morti. Quando venimmo a sapere del massacro di Deir Yassin, come misero in fila gli uomini e gli spararono, fu troppo. Prendevano anche le ragazze. Fu allora che scappammo. Se fossi stata al nostro posto, che cosa avresti fatto?

Non c’era tempo. Prendemmo quello che potevamo portarci dietro. Mio nonno Hussein dovette essere trasportato su un cammello. Ci fermammo sotto un carrubo appena fuori dal villaggio. Pensavamo che saremmo tornati presto. Gli uomini tornarono per raccogliere le olive ma vennero attaccati dai sionisti.

Andammo a Jabba e rimanemmo con i loro amici, e da lì a Betlemme. Affittammo una spelonca da una famiglia cristiana che mio padre trasformò in una stanza con un tetto di zinco. Poi mi sposai con mio marito Muhammad al-Afandi e andai al campo di Dheisheh. Vivemmo in una tenda per tre o quattro anni. Lì nacquero i nostri primi tre figli.

Se Dio vuole, torneremo. Se non io, i miei figli, o i loro figli, o i figli dei figli, o i figli dei figli dei figli. Lasceremo tutto in un attimo e andremo, anche se questo significasse vivere di nuovo in una tenda.

Reportage di Anne Paq

Muhammad Khalil Leghrouz, 93 anni, campo di rifugiati di Aida nella città di Betlemme della Cisgiordania occupata. Originario di Beit Natif, a ovest di Betlemme.

Muhammad piange ancora quando parla di suo fratello Thaer, che venne ucciso dai miliziani sionisti nel 1948 all’età di 15 anni.

Beit Natif era tutto frutti e verdure. Coltivavamo di tutto. C’erano molti contadini. E c’erano molte mucche e pecore. Sono cresciuto con le pecore. Giocavo con loro dalla mattina alla sera. Non sono andato a scuola. La mia famiglia aveva una grande fattoria, costruita con vecchie pietre.

Nel 1948 venimmo attaccati. Ci furono sparatorie. Dovemmo scappare, passando su corpi lungo il tragitto per uscire dal villaggio. Mio fratello Thaer venne colpito a morte e lo seppellimmo subito. Lasciammo ogni cosa – le pecore e i gioielli di mia madre. Mio padre dovette essere trasportato su un cammello, perché non poteva camminare. Non voleva andarsene, ma lo presi sulle mie spalle, lo obbligai a salire sul cammello. Voleva morire là.

Prima andammo a Beit Ommar, poi a Hebron, a Betlemme e a Husan, dove incontrai mia moglie Fatima. Insieme venimmo a vivere nel campo profughi di “Aida” e ci fermammo lì. Non sono mai tornato al mio villaggio.

Mio padre non ha mai potuto dimenticare. “Torneremo”, continuava a dire.

Reportage di Anne Paq

Hakma Attallah Mousa, 108 anni, campo profughi “Spiaggia”, Gaza City. Originaria di al-Sawafir al-Shamaliya, a circa 30 km oltre il confine di Gaza.

Hakma ha più di 80 nipoti e pronipoti, ma persino i suoi familiari sono incerti sul numero esatto.

Mio padre Attallah Mousa era il mukhtar della nostra famiglia. Ricordo ancora il diwan (sala di ricevimento) di mio padre, dove accoglieva gli ospiti e aiutava a risolvere i problemi del villaggio.

Andavo a mungere le nostre mucche per fare il formaggio e lo yogurt. Avevamo pecore e galline. La mia famiglia possedeva più di 100 dunam [10 ettari] di terra su cui i miei fratelli seminavano grano, lenticchie e orzo. La nostra vita si basava sull’agricoltura. Grazie a Dio, abbiamo avuto dei momenti bellissimi.

Mia madre venne ferita quando stavamo scappando. Venne colpita dopo che avevamo preso alcune delle nostre cose e stavamo uscendo dal villaggio. L’abbiamo trasportata fino ad un ospedale a Gaza City. Morì poche settimane dopo.

Figlio mio, vogliamo tornare al nostro villaggio, e lo faremo. Vogliamo tornare alla nostra patria.

Reportage di Rami Almeghari

Hassan Quffa, 88 anni, campo profughi di Nuseirat, nella zona centrale della Striscia di Gaza occupata. Originario di Isdud, nei pressi di Ashdod.

Eravamo contadini, coltivavamo la nostra terra generazione dopo generazione. All’epoca l’agricoltura era molto diffusa e i cedri erano rigogliosi. La mia famiglia da sola possedeva circa 90 dunum [9 ettari]. Ero solito accompagnare mio zio Abdelfattah al nostro diwan dove incontrava la gente del posto e a volte gli inglesi. All’epoca le autorità britanniche andavano da mio zio, facendo affidamento su di lui come intermediario tra le autorità e gli abitanti del posto.

Giocavo a baseball. Eravamo sette per una partita. Dopo aver giocato, andavamo al bar “Ghabaeen” a bere caffé e a chiacchierare.

Le feste di matrimonio duravano da tre a sette giorni. Alla fine dei festeggiamenti gli zii di una sposa l’accompagnavano a casa del marito, di solito su un cavallo.

Quando i miliziani dell’ Haganah [il principale gruppo armato sionista, ndt.] iniziarono a sistemare posti di blocco nella zona di Ashdod, bloccando il passaggio, cominciammo ad prendere le armi. Un giovane su quattro aveva un fucile, nel tentativo di difenderci contro gli attacchi dell’Haganah. Eravamo solo contadini. Le bande sioniste erano ben addestrate ed equipaggiate, con l’aiuto degli inglesi. In effetti quando gli eserciti arabi arrivarono a combattere, ci sentimmo sollevati.

Ma l’unità dell’esercito arabo vicino a noi venne sconfitta. Le loro armi erano vecchie. Ovunque c’erano soldati arabi morti. Comprendemmo che non potevamo far altro che scappare.

Voglio tornare. Voglio che tutti noi torniamo. Quella è la mia casa. Ho il diritto di tornare. Spero di farlo prima di morire.

Reportage di Rami Almeghari

Amna Shaheen, 87 anni, attualmente vive a Gaza City, originaria del villaggio di Ni’ilya, nei pressi di Ashkelon.

Mio nonno Ibrahim era l’imam del villaggio e insegnava ai bambini il Corano e qualche argomento islamico. Ovviamente alle ragazze, compresa me, non era consentito imparare.

Mio padre aveva un gregge e io solevo aiutarlo. Avevo solo un fratello, che era malato.

Cacciavo via le volpi che cercavano sempre di prendere le nostre anatre. Per nutrire il gregge portavo qualche foglia verde, alcune dal nostro sicomoro. Mio padre commerciava in angurie e noi conservavamo quelle angurie sotto l’albero.

Fu quando venimmo a sapere di Deir Yassin che gli abitanti del villaggio iniziarono a fuggire. Durante il giorno i miliziani [sionisti] arrivarono per mandarci via, ricordo che mio cugino ed io stavamo pelando patate.

Due mesi dopo che eravamo scappati, mio padre è stato ucciso. All’epoca stavamo vivendo nel campo profughi di Jabaliya, a Gaza. Aveva comprato due mucche e stava andando a comprare paglia e fieno per le mucche. Ma in quel momento le jeep dell’esercito israeliano erano di pattuglia e i soldati iniziarono a sparare. Venne colpito quattro volte.

Anche se mi offrissero centinaia di milioni di dollari, non rinuncerei al mio diritto di tornare alla mia casa in Palestina. Cosa me ne farei di quei soldi?

Reportage di Rami Almeghari

Ismail Hussein Abu Shehadeh, 92 anni, originario ed attualmente abitante di Jaffa, nei pressi di Tel Aviv.

Adesso Jaffa non vale niente. Prima la città era stupenda. Era chiamata la “sposa del Medio Oriente.” Esportavamo arance in tutto il mondo. Arrivava gente da tutte le parti per lavorare qui.

Mio padre era un soldato dell’impero ottomano. Se ne andò nel 1914 per combattere nella Prima Guerra Mondiale. Tornò indietro a piedi. Questa probabilmente è la ragione per cui decise di rimanere quando i sionisti attaccarono Jaffa. Non voleva scappare di nuovo, e ci impedì di farlo. “O morite qui oppure scappate e vi sentirete umiliati per tutta la vostra vita,” ci disse. Pregava la gente di non andarsene. Solo 35 famiglie rimasero dopo la resa, appena 2.000 abitanti sui 120.000 che stavano qui.

Nel 1948 gli attacchi furono molto violenti. Il capo della città, il dottor Youssef Aked, ci riunì per dire che Jaffa stava per essere assediata e che la gente doveva scegliere tra andarsene e rimanere. Qualcuno chiese al dottore cosa egli avrebbe fatto, ed egli rispose che sarebbe fuggito con la sua famiglia. In seguito a ciò, molti lo fecero, anche perché si parlava molto di quello che era successo a Deir Yassin.

Solo poche persone con una certa autorità rimasero. Ci fu un altro incontro in cui si decise di arrenderci a condizione che non ci fossero distruzioni o saccheggi. Dei rappresentanti andarono a Tel Aviv con una bandiera bianca. I sionisti arrivarono con un megafono e dichiararono che ora Jaffa era sottoposta all’autorità sionista. Poi entrarono e si comportarono in modo avido. Rubarono proprietà. Ci nascondemmo nei frutteti per un mese. Poi la gente venne spinta nel quartiere di Ajami, dietro una recinzione elettrificata. Alcuni morirono di stenti. Ma noi riuscimmo a stare fuori dalla recinzione.

Nonostante le promesse sioniste metà di Jaffa venne demolita. Abu Laban, che aveva negoziato la resa, andò a lamentarsi me venne picchiato. Gli ruppero le costole e venne messo a sedere su un asino. Poi iniziarono a prendere di mira la gente. Una persona che si rifiutò di lasciare i frutteti venne uccisa.

Dopo il 1948 mi sposai e iniziai a lavorare nella regione di Tiberiade per circa sei anni. Venni assunto da israeliani per aggiustare motori o per portare l’acqua a nuove comunità ebraiche. Ero l’unico palestinese lì. Abbiamo mantenuto rapporti professionali. Mia moglie e i figli neonati stavano lottando per avere da mangiare e per un certo periodo tornai a Jaffa solo una volta al mese.

Il mio lavoro terminò quando arrivò l’elettricità. Lavorai in una fabbrica di Jaffa, aggiustando motori, ma nel 1956 alcuni operai ebrei mi aggredirono a causa della sconfitta israeliana a Suez [si riferisce alla guerra per il controllo del canale di Suez tra Egitto e Francia e Gran Bretagna, a cui Israele si alleò, ndt.], per cui me ne andai. Poi ebbi un’officina meccanica nel porto, e cercai di fare il pescatore, ma senza successo. Nel 1982 lo Stato di Israele iniziò a chiedere tasse e più documenti. Dovetti vendere tutto. Alla fine aprii una drogheria ma poi dovetti smettere per ragioni di salute.

Rami Almeghari è giornalista e docente universitario a Gaza.

Anne Paq è una fotografa freelance francese e fa parte del collettivo di fotografi ActiveStills [collettivo di fotografi israeliani, palestinesi e internazionali che lotta contro le ingiustizie e le discriminazioni, in particolare in Israele/Palestina, ndt.].

Mohammed Asad è un fotogiornalista che vive a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

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A Gaza non è una “Marcia di Hamas”. Sono decine di migliaia di persone disposte a morire

Amira Hass

15 maggio 2018, Haaretz

La definizione delle manifestazioni da parte dell’esercito israeliano ne riduce la gravità, ma involontariamente assegna anche ad Hamas la parte di un’organizzazione politica responsabile e articolata

Di recente in una serie di occasioni rappresentanti di Fatah hanno detto, riguardo alla “Marcia per il Ritorno” di Gaza: “Siamo lieti che i nostri confratelli di Hamas abbiano compreso che il modo corretto sia una lotta popolare disarmata.” La scorsa settimana il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha affermato qualcosa del genere durante il suo discorso al Consiglio Nazionale Palestinese.

Ciò ha indicato sia cinismo che invidia. Cinismo perché la posizione ufficiale di Fatah è che la lotta armata guidata da Hamas ha danneggiato la causa palestinese in generale e la Striscia di Gaza in particolare. E invidia perché ciò implica che, come ha ribadito la dichiarazione dell’esercito israeliano, un appello di Hamas è sufficiente a portare decine di migliaia di manifestanti disarmati ad affrontare i cecchini israeliani sul confine.

Invece appelli di Fatah e dell’OLP in Cisgiordania, compresa Gerusalemme, non portano più di poche migliaia di persone nelle strade e scaramucce con la polizia e l’esercito. È successo di nuovo lunedì, quando l’ambasciata degli USA è stata spostata a Gerusalemme. Il numero di manifestanti palestinesi a Gaza è stato molto maggiore di quello in Cisgiordania.

La decisione delle manifestazioni della “Marcia per il Ritorno” è stata presa insieme da tutti i gruppi politici di Gaza, compreso Fatah. Ma il gruppo più organizzato – quello che ha fornito la logistica necessaria, equipaggiato i “campi del ritorno” (punti di incontro e di attività che sono stati sistemati a poche centinaia di metri dal confine con Gaza), controllato le informazioni, mantenuto i contatti con i manifestanti e dichiarato uno sciopero generale per protestare contro lo spostamento dell’ambasciata – è Hamas. Persino un membro di Fatah lo ha tristemente ammesso ad Haaretz.

Ciò non vuol dire che tutti i manifestanti siano dei sostenitori di Hamas o simpatizzanti del movimento che hanno obbedito ai suoi ordini. Per niente. I dimostranti vengono da ogni settore della popolazione, gente che ha un’affiliazione politica e quelli che non ce l’hanno.

Chiunque ha paura rimane a casa, perché l’esercito [israeliano] spara a tutti. I pazzi sono quelli che si avvicinano al confine, e sono di tutte le organizzazioni o di nessuna di loro,” ha detto un partecipante alla manifestazione.

Le affermazioni dell’esercito ai giornalisti secondo cui è una “marcia di Hamas” stanno riducendo il peso di questi avvenimenti e l’importanza di decine di migliaia di gazawi che sono disposti ad essere feriti, rafforzando al contempo ironicamente lo status di Hamas come organizzazione politica responsabile che sa come cambiare la tattica della sua lotta, che inoltre sa giocare il proprio ruolo.

Lunedì, con l’uccisione alle 19 di non meno di 53 abitanti di Gaza, non c’era posto per il cinismo o l’invidia. Abbas ha dichiarato un periodo di lutto ed ha ordinato le bandiere a mezz’asta per tre giorni, insieme ad uno sciopero generale martedì. È lo stesso Abbas che stava pianificando una serie di sanzioni economiche contro la Striscia nell’ennesimo tentativo di reprimere Hamas.

Che ne siano consapevoli o meno, volontariamente o meno, gli abitanti della Striscia di Gaza, con i loro morti e feriti, stanno influendo sulla politica interna palestinese. Nessuno oserebbe ora imporre queste sanzioni. Il tempo dirà se qualcuno arriverà alla conclusione che, se Israele sta uccidendo così tante persone durante manifestazioni disarmate, essi possano tornare ad attacchi armati da parte di singoli – come vendetta o come una strategia che porterà a minori vittime palestinesi.

Secondo gli operatori sul campo del centro per i diritti umani “Al Mezan” nelle prime ore di lunedì mattina bulldozer dell’esercito sono entrati nella Striscia di Gaza ed hanno spianato i banchi di sabbia costruiti dai palestinesi per proteggersi dai cecchini.

Circa alle 6,30 del mattino l’esercito ha sparato anche contro le tende dei “campi del ritorno”, e molte di queste sono andate in fiamme. Secondo “Al Mezan”, alcune delle tende bruciato erano utilizzate per il pronto soccorso.

Il sito web “Samaa” ha informato che cani della polizia sono stati mandati nei “campi del ritorno” e che l’esercito ha spruzzato acqua puzzolente nelle zone di confine. Le frenetiche convocazioni di importanti personaggi di Hamas nella Striscia di Gaza perché si incontrassero con l’intelligence egiziana al Cairo sono stati comprese anche prima che si sapesse che gli egiziani hanno trasmesso minacciosi messaggi israeliani a Ismail Haniyeh e Khalil al-Hayya, vice del leader di Hamas nella Striscia di Gaza, Yahya Sinwar.

Tutti nella Striscia di Gaza sanno che gli ospedali sono oltre il limite della capienza e che le equipe mediche sono impossibilitate a curare tutti i feriti. “Al Mezan” ha fatto sapere di una delegazione di medici che avrebbe dovuto arrivare dalla Cisgiordania ma a cui è stato impedito di entrare da parte di Israele.

Tutti sanno che le persone ferite che sono state operate sono state dimesse troppo presto e che c’è carenza di medicine indispensabili per i feriti, compresi gli antibiotici. Anche quando ci sono medicine, molti dei feriti non possono pagare neppure il minimo richiesto per ottenerle, e quindi tornano pochi giorni dopo dal dottore con un’infezione. Tutto ciò si basa su informazioni di fonti mediche internazionali.

Tutti i segnali, gli avvertimenti, le molte vittime nelle ultime settimane e le informazioni inquietanti dagli ospedali non hanno tenuto lontano le decine di migliaia di manifestanti di lunedì. Il diritto al ritorno e l’opposizione allo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme sono obiettivi e ragioni validi, accettabili da tutti.

Ma non fino al punto che masse di abitanti della Cisgiordania e Gerusalemme est si unissero ai loro fratelli della Striscia di Gaza. Là l’obiettivo più auspicabile per cui manifestare è l’ovvia richiesta e quella più facile da mettere subito in atto – restituire ai gazawi la loro libertà di movimento e il loro diritto di mettersi in contatto con il mondo esterno, soprattutto con i membri del loro stesso popolo al di là del filo spinato che li circonda. Questa è la richiesta della gente qualunque e non una questione privata di Hamas, dato che i suoi dirigenti e militanti sanno molto bene che una volta entrati nel valico di Erez tra Israele e la Striscia verrebbero arrestati.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Israele ripropone i miti sulla Nakba per giustificare gli odierni massacri a Gaza

Jonathan Cook – Nazareth

14 maggio 2018, The Palestine Chronicle

Lunedì e martedì i palestinesi commemorano l’anniversario della Nakba, o Catastrofe, l’espulsione di massa e l’espropriazione di 70 anni fa, quando il nuovo Stato di Israele si è formato sulle rovine della loro patria.

Come risultato, la maggioranza dei palestinesi è stata trasformata in rifugiati, cui Israele nega il diritto di tornare nelle proprie case.

Lunedì in decine di migliaia sono hanno manifestato nei territori occupati per protestare contro settant’anni di rifiuto da parte di Israele di chiedere perdono o porre fine al suo dominio oppressivo.

L’iniziativa di lunedì di trasferire l’ambasciata USA a Gerusalemme, città sotto occupazione militare, ha solamente aumentato il risentimento palestinese, e la percezione che l’Occidente stia ancora coinvolto nella loro espropriazione.

Il centro della protesta è Gaza, dove dalla fine di marzo ogni venerdì palestinesi inermi si dirigono in massa alla barriera di confine che tiene intrappolati due milioni di loro. In cambio hanno affrontato una pioggia di munizioni letali, proiettili rivestiti di gomma e nuvole di gas lacrimogeni. Decine sono stati uccisi e molte centinaia mutilati, compresi minori.

Ma da più di un mese Israele sta lavorando per condizionare la percezione occidentale delle proteste, e la sua risposta ad esse, in modo da screditare l’esplosione di rabbia dei palestinesi. In un comunicato troppo facilmente accolto da dall’opinione pubblica di alcuni Paesi occidentali, Israele ha presentato le proteste come una “minaccia alla sicurezza”.

Funzionari del governo israeliano hanno persino sostenuto davanti alla Corte Suprema del Paese che i manifestanti non hanno alcun diritto, che i cecchini dell’esercito sono legittimati a sparare, anche se non si trovano in pericolo- perché Israele sarebbe in “stato di guerra” con Gaza per difendersi.

Domenica notte l’aviazione israeliana ha sganciato volantini su Gaza avvertendo i palestinesi di non avvicinarsi alla barriera. “L’esercito israeliano è determinato a difendere i cittadini d’Israele e la sua sovranità contro i tentativi terroristici di Hamas sotto la copertura di violenti scontri,” diceva il volantino. “Non vi avvicinate alla barriera e non prendete parte alla manifestazione di Hamas, che vi danneggia.”

Molti americani ed europei, preoccupati del flusso di “migranti economici” che si riversa nei loro Paesi, simpatizzano immediatamente con le preoccupazioni di Israele e con le sue azioni.

Finora la stragrande maggioranza dei manifestanti di Gaza sono stati pacifici e non hanno provato ad attraversare la barriera.

Ma Israele afferma che Hamas ha sfruttato le proteste di queste settimane a Gaza per incoraggiare i palestinesi ad assaltare la barriera. Indirettamente si afferma che i dimostranti hanno provato a passare “un confine” ed a “entrare” illegalmente in Israele.

La realtà è piuttosto diversa. Non c’è nessun confine perché non c’è nessuno Stato palestinese. Israele ha ha fatto in modo che fosse così. I palestinesi vivono sotto occupazione, con Israele che controlla ogni aspetto della loro vita. A Gaza, anche l’aria e il mare sono sotto il controllo di Israele.

Invece il diritto dei profughi palestinesi a ritornare a quelle che erano le proprie terre, ora in Israele, è riconosciuto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.

Ciononostante, fin dalla Nakba Israele ha costruito una contro-narrazione scorretta, miti che gli storici, facendo ricerche negli archivi, hanno progressivamente fatto a pezzi.

La prima affermazione, che i dirigenti arabi dissero ai 750.000 rifugiati palestinesi di fuggire nel 1948, venne in realtà inventata dal padre fondatore di Israele, David Ben Gurion. Egli sperava che avrebbe sviato la pressione statunitense affinché Israele rispettasse il suo dovere di consentire ai rifugiati di tornare.

Anche se i rifugiati avessero scelto di andarsene mentre infuriava la battaglia, invece di aspettare di essere espulsi, non sarebbe stato giustificabile negargli il diritto al ritorno a guerra finita. È stato questo rifiuto che ha trasformato la fuga in pulizia etnica.

In un altro mito non supportato da documenti, Ben Gurion avrebbe detto ai rifugiati di tornare.

In realtà Israele ha definito i palestinesi che cercavano di ritornare alle loro terre come “ infiltrati”. Ciò ha autorizzato gli ufficiali della sicurezza israeliana di sparare a vista contro di loro, in quelle che furono di fatto delle esecuzioni come politica di deterrenza.

In settant’anni non è cambiato un granché. La maggioranza della popolazione di Gaza oggi discende dai rifugiati portati nel 1948 all’interno dell’enclave. Da allora sono rimasti chiusi in gabbia come bestiame. Questa è la ragione per cui le proteste odierne dei palestinesi si svolgono sotto le insegne della “Marcia del Ritorno”.

Per decenni Israele non solo ha negato ai palestinesi la prospettiva di uno Stato ridotto al minimo. Ha organizzato i territori palestinesi in una serie di ghetti – e, nel caso di Gaza, l’ha assediata per 12 anni, soffocandola in quella che è una catastrofe umanitaria.

Ciononostante, Israele vuole che il mondo consideri Gaza come uno Stato palestinese in embrione, teoricamente liberato dall’occupazione nel 2005 quando ha evacuato alcune migliaia di coloni ebrei.

Di nuovo, questa narrazione è stata creata solamente per ingannare. Hamas non ha mai avuto il permesso di governare Gaza, tanto quanto l’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas governa la Cisgiordania.

Ma, facendo eco agli eventi della Nakba, Israele ha definito i manifestanti come “infiltrati”, una narrazione che ha lasciato molti osservatori stranamente indifferenti al destino dei giovani dimostranti per la libertà palestinesi.

Ancora una volta, le esecuzioni delle recenti settimane, che sarebbero state perpetrate dall’esercito israeliano a scopo di legittima difesa, sono intese [in realtà] a scoraggiare i palestinesi dal chiedere i propri diritti.

Israele non sta difendendo i suoi confini ma i muri delle gabbie che ha costruito per salvaguardare il continuo furto di terra palestinese e preservare i privilegi degli ebrei.

In Cisgiordania la prigione si riduce di dimensione ogni giorno in quanto i coloni ebrei e l’esercito israeliano rubano altra terra. Nel caso di Gaza, la prigione non può essere ulteriormente ridotta.

Per molti anni, i capi di governo del mondo hanno punito i palestinesi per l’uso della violenza e biasimato Hamas per il lancio dei missili fuori da Gaza.

Ma ora che i giovani palestinesi preferiscono praticare una disobbedienza civile di massa, la loro tragedia a malapena riceve attenzione, tanto meno simpatia. Invece sono criticati perché “vogliono violare il confine” e minacciare la sicurezza di Israele.

Sembra che l’unica lotta legittima dei palestinesi sia quella di stare tranquilli, permettendo che le loro terre vengano saccheggiate e che i loro figli muoiano di fame.

I leader occidentali e l’opinione pubblica hanno tradito i palestinesi nel 1948. Dopo 70 anni non c’è alcun segnale che l’Occidente stia per cambiare linea.

Jonathan Cook ha vinto il “Premio Speciale per il Giornalismo Martha Gellhorn”. I suoi libri comprendono“Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [“Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rimodellare il Medio Oriente”] (Pluto Press) e “Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair”[“Palestina in dissolvenza: gli esperimenti israeliani sulla disperazione umana] (Zed Books). Il suo sito è www.jonathan-cook.net. Una versione di questo articolo è apparsa precedentemente in “The National”, Abu Dhabi. Ha offerto quest’ articolo a “The Palestine Chronicle”.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)




Rapporto OCHA del periodo 24 aprile – 7 maggio (due settimane)

La serie di manifestazioni di massa lungo la recinzione perimetrale che separa Gaza da Israele, iniziata il 30 marzo, è proseguita per la settima settimana consecutiva.

Le dimostrazioni si svolgono all’interno della Striscia di Gaza, a partire da cinque tendopoli situate a 600-700 metri dal confine con Israele. Alcune centinaia di manifestanti, su decine di migliaia di persone, hanno tentato di aprire un varco nella recinzione, hanno bruciato pneumatici e lanciato pietre contro le forze israeliane ed hanno fatto volare aquiloni incendiari verso il territorio israeliano. I soldati israeliani hanno sparato proiettili gommati, gas lacrimogeni e proiettili di arma da fuoco, impiegando anche cecchini schierati lungo la recinzione. Il 27 aprile l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha invitato Israele a garantire che le sue forze di sicurezza non ricorrano all’uso eccessivo della forza ed ha anche chiesto che [coloro che ne sono stati] responsabili siano chiamati a renderne conto: nelle proteste svoltesi il 4 maggio è stata rilevata una significativa diminuzione dell’uso di armi da fuoco. Il 30 aprile, l’Alta Corte di Giustizia Israeliana ha tenuto un’audizione in risposta ad una petizione, presentata da due gruppi di Organizzazioni Non Governative, contro le “regole di autorizzazione ad aprire il fuoco” applicate dalle autorità israeliane nel contesto delle attuali manifestazioni palestinesi. Il caso è in corso.

Durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto], nel contesto delle manifestazioni sopra menzionate, sei palestinesi, tra cui un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane e 1.216, tra cui 201 minori, sono stati feriti. Le vittime includono un giornalista morto per le ferite riportate durante il precedente periodo di riferimento [10-23 aprile]. Altri sei palestinesi, incluso un minore, sono stati uccisi, a quanto riportato, dopo essere penetrati in Israele attraverso la recinzione; quattro dei corpi sono trattenuti dalle autorità israeliane.

Dall’inizio delle manifestazioni nella Striscia di Gaza, 40 palestinesi, tra cui cinque minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane durante le proteste. Altri 13 palestinesi, tra cui un minore, sono stati uccisi in circostanze diverse all’interno di Gaza e vicino al recinto perimetrale tra Gaza e Israele. A quanto riferito, sei di loro sono stati uccisi mentre tentavano di attraversare la recinzione con Israele, o dopo averla attraversata. I loro corpi sono trattenuti dalle autorità israeliane. In Gaza, secondo il Ministero Palestinese della Salute, 8.536 palestinesi, tra cui almeno 793 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Il 54% dei feriti (4.589 persone) sono stati ricoverati in ospedale; di questi, 2.064 erano stati colpiti con armi da fuoco. Non ci sono invece notizie di feriti israeliani.

Il 5 maggio, in una casa a nord di Deir Al Balah, un ordigno è esploso in circostanze non chiare: sei membri di un gruppo armato palestinese sono rimasti uccisi e altri tre sono rimasti feriti. Diverse altre case hanno subito danni.

Per far rispettare le restrizioni di accesso alle Aree Riservate, sia di terra lungo la recinzione, sia di pesca lungo la costa di Gaza, le forze israeliane hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori in almeno 31 occasioni. In due dei casi (a Beit Lahiya e Khan Yunis, lungo la recinzione), due palestinesi sono stati feriti. In diversi episodi, le forze israeliane hanno arrestato 10 persone, di cui cinque minori; a quanto riferito, stavano tentando di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale: cinque di loro sono stati rilasciati. In diverse occasioni, il 27 aprile e il 5 maggio, le forze israeliane hanno lanciato diversi raid aerei e sparato colpi di cannone sulla Striscia di Gaza, a quanto riferito contro siti militari, provocando danni, ma non feriti.

In Cisgiordania, durante proteste e scontri, 230 palestinesi, tra cui 26 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Il 91% di questi ferimenti si sono verificati durante scontri collegati a manifestazioni di solidarietà con i palestinesi di Gaza per la “Grande Marcia del Ritorno”. Il maggior numero di feriti si è avuto negli scontri di Al Lubban ash Sharqiya (Nablus), seguiti da scontri vicino a Qusra e vicino al DCO di Al Bireh (Ramallah). La metà dei ferimenti sono stati causati da proiettili gommati, seguiti da lesioni derivanti da inalazione di gas lacrimogeno richiedente cure mediche (42%) e da armi da fuoco (4%). In un’altra circostanza, il 26 aprile, le forze israeliane hanno lanciato lacrimogeni e bombe assordanti nel cortile della scuola di Burin (Nablus), durante la pausa pranzo degli studenti, provocando una sospensione delle lezioni per il resto della giornata. Almeno 250 minori sono stati coinvolti. Secondo fonti israeliane, questo episodio ha fatto seguito al lancio di pietre contro veicoli di coloni israeliani.

In due episodi, per consentire esercitazioni militari israeliane, le forze israeliane hanno sfollato, per otto ore ogni volta, cinque famiglie (29 persone, tra cui 17 minori) della comunità di pastori di Humsa al Bqai’a nella Valle del Giordano settentrionale. Questa comunità è, inoltre, costretta ad affrontare periodiche demolizioni e restrizioni di accesso; fatti che destano preoccupazione in merito al rischio del loro trasferimento forzato.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno condotto complessivamente 127 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 151 palestinesi. Nel governatorato di Gerusalemme è stata compiuto il numero più alto di ricerche (31) e di arresti (39). Inoltre, a Gerusalemme, la polizia israeliana ha emesso ordini che, per sei mesi, vietano a tre impiegati palestinesi del Waqf islamico [fondazione pia] di entrare nel Complesso di Haram al Sharif / Monte del Tempio. Nella Striscia di Gaza, in due occasioni, le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo nelle vicinanze della recinzione perimetrale.

Per mancanza dei permessi di costruzione, in nove comunità palestinesi dell’Area C, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 30 strutture, provocando lo sfollamento di 41 persone, tra cui 17 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 90 circa. Quattordici delle strutture prese di mira si trovavano nelle comunità di pastori palestinesi di Massafer Yatta (Hebron), all’interno di un’area chiusa dall’esercito israeliano e da questi riservata all’addestramento militare (“zona 918 per esercitazioni a fuoco”). In questa zona, il contesto coercitivo viene inasprito, creando pressione sui residenti per indurli a partire. Trentacinque persone di queste Comunità, tra cui 14 minori, sono state sfollate: il numero più alto di sfollati registrato in un solo giorno dall’inizio del 2018. Quattro delle strutture erano rifugi residenziali, forniti come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni. Sale così a 19, dall’inizio del 2018, il numero di strutture finanziate da donatori e successivamente distrutte o sequestrate. In un altro caso, nella città di Ya’bad (Jenin), in Area B, citando la violazione delle normative ambientali, le forze israeliane hanno demolito anche una fabbrica di carbone di legna appartenente a tre famiglie palestinesi, colpendo il mezzo di sostentamento di 15 persone.

Ancora sulle demolizioni: a Gerusalemme Est, presso cinque comunità palestinesi, sono state demolite undici strutture; quattro di queste, a Silwan e Qalandiya, sono state autodemolite dai proprietari stessi. Le sette strutture demolite dalle autorità israeliane includevano un edificio di tre piani in Al Isawiya e sei strutture di sussistenza a Beit Safafa e Shu’fat. In totale, otto persone, tra cui due minori, sono state sfollate ed altre 91 sono state economicamente colpite. Dall’inizio del 2018, quasi un quarto delle strutture demolite (ed anche delle persone sfollate o comunque toccate dalle demolizioni) in Gerusalemme Est, si trovavano nel quartiere di Al Isawiya.

In Cisgiordania, in otto episodi di violenza da parte di coloni, due palestinesi, tra cui una giornalista, sono stati feriti e proprietà palestinesi sono state vandalizzate. Il 29 aprile, a Kafr ad Dik (Salfit), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito una giornalista palestinese mentre stava documentando un caso di confisca di un terreno. Inoltre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un 23enne palestinese. In tre diversi episodi, presunti coloni israeliani hanno forato le gomme di 17 veicoli palestinesi e spruzzato scritte tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di sei case palestinesi dei villaggi di Jalud (Nablus), di Turmus’aaya e di Deir Ammar (entrambi in Ramallah). Nella zona H2 di Hebron, controllata dagli israeliani, coloni hanno attaccato, con lancio di pietre, tre case palestinesi, scatenando scontri con i residenti. In un altro episodio, verificatosi nel villaggio di Qusra e riportato da fonti della Comunità locale, coloni, a quanto riferito dell’insediamento di Yitzhar, hanno danneggiato 14 alberi e hanno forato le gomme di un trattore agricolo. In quest’area, l’accesso ai terreni da parte dei proprietari palestinesi richiede un’autorizzazione speciale rilasciata dalle autorità israeliane. La violenza dei coloni è in aumento: dall’inizio del 2018, la media settimanale di attacchi che causano lesioni personali o danni materiali è pari a cinque; nel 2017 era stata di tre e nel 2016 di due.

Sono stati segnalati almeno cinque casi di lancio di pietre e due casi di lancio di bottiglie incendiarie da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: secondo media israeliani sono stati causati danni a cinque veicoli privati vicino a Hebron, Ramallah, Betlemme e Gerusalemme.

Il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto per tre giorni (dal 28 al 30 aprile) in entrambe le direzioni e un giorno in una direzione, consentendo un totale di 357 ingressi e 1.511 uscite da Gaza. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo per 17 giorni; 11 giorni in entrambe le direzioni e 6 giorni in una sola direzione. Secondo le autorità palestinesi in Gaza, oltre 23.000 persone, compresi casi umanitari prioritari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

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Nuove prove di crimini di guerra a Gaza inviate alla CPI

Ali Abunimah

30 aprile 2018, Electronic Intifada

Secondo Tareq Zaqoot, un ricercatore del gruppo per i diritti umani “Al-Haq”, almeno 28 palestinesi hanno perso un arto inferiore in conseguenza del fatto che cecchini israeliani hanno sparato contro i partecipanti alle manifestazioni della “Grande Marcia del Ritorno” nei pressi della frontiera di Gaza con Israele.

Zaqoot, che si trova a Gaza, e la sua collega Rania Muhareb nella città di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, hanno raccontato a “the Real News” [sito nordamericano indipendente di notizie, ndt.] come stiano documentando i crimini israeliani per ottenere giustizia a favore delle vittime.

Muhareb ha rivelato che “Al-Haq”, insieme al “Centro Palestinese per i Diritti Umani” e ad “Al Mezan”, ha già “presentato una denuncia alla Corte Penale Internazionale in cui indica i nomi delle vittime e delle uccisioni perpetrate dalle forze di occupazione israeliane dal 30 marzo.”

Non solo abbiamo specificato i nomi degli uccisi, abbiamo anche evidenziato l’intenzione di uccidere e di sparare per uccidere manifestanti palestinesi, il che rappresenta un crimine di guerra di omicidio premeditato,” ha aggiunto Muhareb.

Muhareb cita come esempio di tali prove la recente intervista tradotta da “Electronic Intifada” in cui il generale israeliano Zvika Fogel spiega l’accurato processo attraverso il quale i cecchini ricevono l’autorizzazione di sparare al “piccolo corpo” di un bambino.

Questi gruppi per i diritti umani avevano consegnato in precedenza dei dossier di prove alla CPI in cui documentavano crimini contro palestinesi nella Cisgiordania occupata e durante i precedenti attacchi israeliani contro Gaza.

All’inizio di questo mese il procuratore generale della CPI ha emanato un avvertimento pubblico senza precedenti, secondo cui i dirigenti israeliani potrebbero dover affrontare un processo per la violenza contro civili palestinesi disarmati a Gaza. Nelle ultime due settimane durante le proteste lungo il confine le forze di occupazione israeliane hanno ucciso almeno 39 palestinesi, compresi cinque minori e due giornalisti.

I manifestanti chiedono la fine dell’assedio israeliano contro Gaza e il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi espulsi ed esclusi dalle loro terre in Israele perché non sono ebrei.

Si ha notizia che domenica altri tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione in seguito ad incidenti in cui secondo l’esercito israeliano i palestinesi avrebbero cercato di aprire una breccia nella barriera di confine con Gaza.

Parvenza di legalità

Lunedì l’Alta Corte israeliana ha tenuto un’udienza sulle richieste di vari gruppi per i diritti umani che chiedono la revoca delle regole dell’esercito per aprire il fuoco, che hanno portato all’impressionante bilancio di morti e feriti a Gaza.

La politica dell’esercito israeliano che consente di aprire il fuoco contro manifestanti a Gaza è palesemente illegale,” ha affermato Suhad Bishara, avvocatessa di uno di questi gruppi, “Adalah”. “Questa politica concepisce i corpi umani (palestinesi) come un oggetto sacrificabile, senza valore.”

Il gruppo [israeliano] per i diritti umani “B’Tselem” ha invitato i soldati a sfidare questi ordini illegali di sparare per uccidere e mutilare.

Prima dell’udienza, i militari israeliani si sono rifiutati di rendere pubblici gli ordini di aprire il fuoco, sostenendo che sono riservati.

Israele ha cercato di presentare le proteste di massa a Gaza come un complotto orchestrato da Hamas per coprire attività “terroristiche”.

Israele non è stato in grado di mostrare alcuna prova di attività armate durante le proteste e i suoi portavoce hanno fatto ricorso a montature – come false accuse secondo cui un video diffuso in rete mostra una ragazza di Gaza che dice degli israeliani “li vogliamo uccidere.”

Lunedì, durante l’udienza, pubblici ministeri dello Stato di Israele hanno continuato a insistere con questo discorso, sostenendo che “informazioni di intelligence riservate” mostrano che le proteste fanno “parte delle ostilità di Hamas contro Israele.”

La Corte israeliana ha aggiornato la seduta senza prendere una decisione, tuttavia storicamente il suo ruolo è stato quello di fornire una parvenza di legalità alle sistematiche violazioni israeliane dei diritti umani palestinesi e di contribuire a far passare Israele a livello internazionale come uno Stato che rispetta il principio di legalità, nonostante decenni di impunità senza controlli e di comportamenti illegali.

Contro le prove

Durante il fine settimana il quotidiano [israeliano] Haaretz ha citato la dichiarazione di un anonimo ufficiale dell’esercito israeliano secondo cui “la maggior parte delle uccisioni di palestinesi da parte dell’esercito israeliano durante le proteste sul confine di Gaza sono state causate da cecchini che miravano alle gambe dei manifestanti, mentre la morte è stato un risultato non intenzionale perché il manifestante si è chinato, un cecchino ha sbagliato il colpo, un proiettile è rimbalzato o circostanze simili.” Secondo l’ufficiale, ha affermato Haaretz, “gli ordini di aprire il fuoco sul confine consentono ai cecchini di sparare solo alle gambe di persone che si avvicinano alla frontiera, e che il petto di una persona può essere preso di mira solo in presenza di un’evidente volontà dell’altra parte di utilizzare armi e di minacciare la vita di israeliani.”

Ma ciò è in netto contrasto con le prove raccolte da ricercatori per i diritti umani e l’affermazione potrebbe indicare che alcuni ufficiali israeliani sono preoccupati delle conseguenze internazionali della politica di uccisioni e mutilazioni premeditate e calcolate. La scorsa settimana Amnesty International ha dichiarato che nella maggior parte dei casi mortali che ha preso in considerazione “le vittime sono state colpite alla parte superiore del corpo, compresi testa e petto, alcune alle spalle.”

Testimoni oculari, prove video e fotografiche suggeriscono che molti sono stati uccisi o feriti deliberatamente mentre non rappresentavano alcun pericolo immediato per i soldati israeliani,” ha aggiunto Amnesty.

Allo stesso modo “Adalah” ha sostenuto che “il 94% dei feriti a morte sono stati colpiti nella parte superiore del corpo (testa, collo, volto, petto, stomaco e schiena).”

Sono stati feriti più di 5.500 palestinesi, di cui 2.000 da proiettili veri.

Nessun israeliano risulta essere stato ferito in seguito alle proteste a Gaza.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Le tappe israeliane del Giro d’Italia saranno un giro di ingiustizie

Flavia Cappellini

Venerdì 4 maggio 2018, Middle East Eye

La più bella corsa al mondo nel più bel Paese del mondo.” Questa è una descrizione popolare del Giro d’Italia, un’epica avventura ciclistica che dura tre settimane attraverso 3.546 km.

Il ciclismo su strada è uno sport unico a livello mondiale, in quanto non ci sono barriere tra atleti e spettatori. Alessandro Baricco, un famoso scrittore italiano, una volta ha scritto: “Andare a vedere il ciclismo è qualcosa che, se ci pensi, non ci credi…Tutti nel paese sono fuori di casa, facendo un picnic con un thermos, una radio, giacche a vento e i programmi aperti per capire chi sia ogni ciclista. Una festa!”

Le prime tre tappe della corsa, quest’anno denominata dagli organizzatori il “Giro della Pace”, saranno in Israele. Per la prima volta, il Giro inizierà fuori dall’Europa, prima di attraversare l’Italia e finire a Roma, collegando lo Stato dove nacque il fascismo e che alla fine gli si oppose e lo Stato nato dopo l’Olocausto. Il Giro d’Italia, uno dei più famosi eventi sportivi italiani, è diventato parte dei festeggiamenti per il 70^ anniversario della fondazione di Israele, e gli organizzatori sperano di lanciare un messaggio di tolleranza. Una bellissima narrazione, ma è probabile che a molti non sfugga che c’è un elefante nella stanza.

Politica inevitabile

Oggi Israele e Palestina sono ancora al centro di tensioni internazionali, dal movimento internazionale per il boicottaggio di Israele alle accuse di antisemitismo. L’organizzazione di un grande evento sportivo nel mezzo di tutto ciò non può evitare la politica – soprattutto perché milioni di persone vedranno la corsa attraversare uno dei territori più accanitamente contesi al mondo.

RCS Sport, l’organizzatore del Giro d’Italia, ha battuto la rivale ASO (che organizza il Tour de France e la Vuelta de España) con uno storico primato, tenendo la grande inaugurazione della corsa al di fuori dei confini europei.

Scegliere Israele ha un senso dal punto di vista logistico. Il volo intercontinentale per portare centinaia di atleti, il personale delle squadre e gli sponsor dalla terza tappa in Israele alla quarta in Sicilia è solo di poche ore sul Mediterraneo. Per sfruttare questa opportunità, RCS Sport era verosimilmente ben cosciente della necessità di evitare polemiche.

Mauro Vegni, il direttore di corsa del Giro d’Italia, ha ribadito che “non mischiamo lo sport con la politica,” e che questo è il “Giro della Pace da Gerusalemme a Roma”. Ha spiegato che le tre tappe israeliane sono state tracciate in base alle raccomandazioni del ministero degli Esteri italiano. Rimangono all’interno dei confini riconosciuti dalle Nazioni Unite – di prima della guerra del 1967. Il Giro evita i territori occupati dove, al momento, lo Stato di Israele sta violando le leggi internazionali.

Questa cautela diplomatica è sufficiente a tener lontano il giro da ogni polemica? Forse vale la pena di prendere in considerazione, tappa per tappa, come questa cooperazione geopolitica si sia sviluppata tra sport e leggi internazionali, in nome della separazione tra sport e politica.

Prima tappa: Gerusalemme

La prima tappa della corsa sarà una gara a cronometro di 9.7 km a Gerusalemme. Secondo la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) e le Nazioni Unite, non c’è un’unica sovranità su Gerusalemme; Gerusalemme ovest è amministrata da Israele, ma Gerusalemme est è riconosciuta come parte del territorio della Cisgiordania, illegalmente occupata dalle forze israeliane e rivendicata dai palestinesi come futura capitale di uno Stato autonomo.

Com’era prevedibile, la prima tappa del Giro si svolge rigorosamente nelle strade di Gerusalemme ovest, la zona internazionalmente riconosciuta come parte dello Stato di Israele. Quando il materiale promozionale ufficiale del Giro d’Italia, pubblicato in novembre, l’ha definita come “Gerusalemme ovest”, la reazione del governo israeliano è stata immediata. Con un comunicato congiunto il ministro israeliano della Cultura e dello Sport Miri Regev e il ministro del Turismo Yariv Levin [entrambi del partito di destra Likud, ndt.] hanno dichiarato: “Non ci sono Gerusalemme ovest e Gerusalemme est, ma una sola Gerusalemme, la capitale di Israele…Queste pubblicazioni sono una violazione degli accordi con il governo israeliano, e se non vengono cambiate, Israele non parteciperà all’evento.”

Poche ore dopo, gli organizzatori del Giro hanno tolto la parola “ovest” dal loro materiale pubblicitario, affermando: “RCS Sport vuole chiarire che la partenza del Giro d’Italia avrà luogo nella città di Gerusalemme. Presentando il tracciato della corsa, è stato utilizzato materiale tecnico che contiene le parole “Gerusalemme ovest”, attribuibile al fatto che la corsa si svilupperà logisticamente in quella zona della città. Si sottolinea che questa parola, priva di ogni valutazione politica, è stata immediatamente eliminata da ogni materiale legato al Giro d’Italia.”

Secondo gli organizzatori, ignorare lo status legale internazionale di Gerusalemme – sancito dalla CIG e da cinque risoluzioni ONU – è considerato privo di ogni significato politico, piegandosi alla narrazione israeliana che presenta la Città Santa come la capitale indivisibile di Israele.

Seconda tappa: da Haifa a Tel Aviv

La seconda tappa si corre il 5 maggio da Haifa, il centro mediterraneo della cultura arabo-israeliana, lungo la costa fino a Tel Aviv, l’attuale capitale di fatto di Israele. Israele è stato fondato 70 anni fa e il Giro d’Italia che arriva in città sarà parte dei festeggiamenti per il suo anniversario.

Al contrario ad Haifa gli eventi legati al 70^ anniversario della nascita del Paese sono noti con un altro nome: la Nakba. Ciò si traduce dall’arabo come la “catastrofe”, quando più di 700.000 arabi scapparono o vennero espulsi dalle loro case.

Ogni anno, in occasione dell’anniversario della nascita di Israele, la popolazione araba chiede il riconoscimento della risoluzione 194 dell’ONU, che afferma che i rifugiati che desiderino tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini devono poterlo fare il prima possibile, e che debbano essere pagati indennizzi per le proprietà di quelli che scelgano di non tornare. Haifa è la città simbolo di questo esodo.

Secondo l’Ong israeliana “Zochrot”, un gruppo che intende mantenere viva la memoria storica della Nakba tra la popolazione israeliana, la quantità di abitanti arabi espulsi o uccisi o che scapparono dalla città nel 1948 fece scendere la popolazione di origine palestinese da 75.000 a 3.500. Nel contempo la popolazione ebraica di Haifa salì a più del 90%.

I rifugiati della Nakba e i loro discendenti ora vivono soprattutto a Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, in Libano e in Siria. Quest’anno, la popolazione di Gaza ha intrapreso la “Grande Marcia del Ritorno”, proteste simboliche per chiedere il riconoscimento del diritto dei rifugiati del 1948 a tornare nella loro patria. Il 5 maggio, mentre il gruppo di ciclisti del Giro d’Italia attraverserà le strade di Haifa, probabilmente migliaia di persone staranno ancora aspettando di lasciare Gaza per ottenere il diritto al ritorno, come stabilito dall’ONU.

Finora 45 civili sono morti in queste proteste, compresi due giornalisti. Tutti sono stati uccisi dalle forze israeliane lungo il confine tra Gaza e Israele, a meno di 70 km dal traguardo della seconda tapa del Giro. Inoltre tra le migliaia di feriti ci sono stati 30 atleti palestinesi, compreso il ciclista Alaa al-Dali, 21 anni, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito dalle forze israeliane.

Terza tappa: da Beer-Sheva a Eilat

Infine, l’ultima tappa avrà luogo il 6 maggio nel deserto del Negev: 229 km dalla capitale della provincia, Beer-Sheva, alla città turistica di Heilat, sul Mar Rosso. A prima vista il deserto del Negev sembra una grande distesa di sole e sabbia, con lunghi tratti segnati sulle mappe come terra demaniale. Di fatto ci sono continui progetti di costruzione per sistemarvi la crescente popolazione di Israele – ma alcune di queste terre sono abitate dall’ultima popolazione nomade rimasta nel Negev, in villaggi che non sono stati subito riconosciuti dallo Stato. Con il tempo, alcuni insediamenti sono stati riconosciuti e altri distrutti. Ci sono ancora 35 villaggi non riconosciuti sotto minaccia di demolizione.

Il percorso del Giro passa nei pressi del più grande villaggio non riconosciuto, Wadi al-Naam, che ospita 13.000 persone ai margini della strada principale che attraversa il deserto. Mentre la corsa ciclistica passerà sulla strada asfaltata, gli abitanti di Wadi al-Naam avranno molte difficoltà a veder passare il gruppo, in quanto il loro villaggio non ha quasi nessuna infrastruttura e manca persino di una strada adeguata che lo colleghi al resto della regione.

Non solo non ci sono strade: il villaggio non è collegato al sistema idrico né alla rete elettrica, e nei pressi è stata fondata un’industria chimica, “Neot Hovav”. Non è quindi sorprendente che vi sia stato registrato uno dei tassi di mortalità infantile più alti di Israele. Human Rights Watch ha denunciato come incostituzionale l’assenza di servizi essenziali in questa zona, in quanto ogni cittadino dello Stato dovrebbe avere gli stessi diritti di proprietà, eguaglianza e dignità.

Dimostrazione di controllo

Quando una corsa ciclistica attraversa un Paese, in genere i suoi cittadini accolgono la competizione nelle strade senza barriere, senza protezioni e senza dover pagare un biglietto. Si può giocare una partita di pallone a porte chiuse, ma non si può controllare una corsa di 200 km lungo strade che per tre settimane attraversano case, popolazioni e infrastrutture locali.

Per riuscirvi, un’importante corsa necessita della cooperazione della popolazione locale. C’è bisogno di sicurezza e del controllo sul territorio. Ospitare un simile evento è, di per sé, sia una forma di promozione turistica che l’affermazione da parte dello Stato del pieno controllo sulla gente che vive sul territorio.

In queste circostanze, è legittimo perlomeno chiedersi se il governo israeliano stia cercando di utilizzare il Giro d’Italia per promuovere una nuova e più accesa narrazione nazionalistica, ad iniziare da Gerusalemme come capitale di Israele. La natura di questo sport pone una sfida nel garantire la sicurezza del territorio per una corsa sicura. Infatti nella presentazione del Giro d’Italia a Gerusalemme, il governo israeliano ha dichiarato che questo avvenimento sarebbe stato la più vasta operazione di sicurezza dalla nascita dello Stato di Israele. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, come sempre, sembra fiducioso.

Flavia Cappellini è una produttrice televisiva che si occupa di media, sport e ciclismo. In precedenza ha lavorato per la RAI e per l’inglese “Press TV” e ha conseguito un titolo di laurea specialistica in “Media dalla città” all’università di Londra.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Giro d’Italia: il ciclista palestinese ferito a Gaza ‘disgustato’ dalla gara a tappe in Israele

Maha Hussaini

Mercoledì 2 maggio 2018, Middle East Eye

Alaa Al-Dali, che ha perso una gamba dopo essere stato colpito mentre protestava vicino alla barriera di confine di Gaza, afferma che la gara a tappe a Gerusalemme è un incoraggiamento agli abusi israeliani.

Un ciclista palestinese, che ha perso una gamba dopo che un cecchino israeliano gli ha sparato mentre manifestava vicino alla barriera di confine di Gaza, ha accusato gli organizzatori e i corridori del Giro d’Italia di incoraggiare la violenza israeliana accettando che la gara si disputi nel Paese.

Alaa al-Dali ha subito otto operazioni ed alla fine gli è stata amputata una gamba dopo essere stato colpito mentre partecipava alle proteste della “Grande Marcia per il Ritorno” il 30 marzo.

Il ventunenne era in lizza per gareggiare per la Palestina nei giochi asiatici a Giakarta in agosto, ed ha detto a Middle East Eye che l’esercito israeliano ha “distrutto il suo sogno”.

Il Giro d’Italia, una delle corse di ciclismo più prestigiose, inizia a Gerusalemme venerdì ed Israele ospiterà altre due tappe prima che la gara ritorni in Italia, suscitando la condanna degli attivisti per i diritti dei palestinesi e dei partecipanti alla campagna di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS).

Al-Dali ha fatto appello alla comunità internazionale perché imponga sanzioni ed un boicottaggio sportivo verso Israele, invece di permettergli l’“onore” di ospitare la gara.

“È molto triste sapere che la gente godrà del mio sport preferito nel Paese il cui l’esercito ha distrutto i miei sogni”, da detto al-Dali. “Non è bello. Sono scioccato e disgustato da questa notizia.”

La gara servirà solo a evidenziare il divario tra “l’occupante e l’occupato”, ha aggiunto.

“Questa è una contraddizione all’ennesima potenza. Simili eventi dovrebbero simboleggiare pace e umanità. Non riesco a vedere nulla di pacifico nello spararmi e rendermi disabile per essermi trovato a circa 200 metri dalla barriera di confine.”

Il fratello maggiore di Al-Dali, il venticinquenne Muhammed, ha detto a MEE che i medici hanno deciso di amputargli la gamba a causa dei danni alle ossa e ai tessuti.

Ma ha detto di credere che ci sarebbe stata una possibilità di salvare la sua gamba se Israele non gli avesse negato il permesso di farsi curare in Cisgiordania.

Il sistema sanitario di Gaza è stato devastato da un blocco di 11 anni imposto da Israele dopo la vittoria di Hamas alle elezioni, che ha gettato l’enclave in una crisi umanitaria.

‘Occhi chiusi di fronte alle nostre sofferenze’

“Gli organizzatori ed i partecipanti non solo chiudono gli occhi sulle nostre sofferenze, in quanto atleti a cui vengono negati i diritti fondamentali, ma stanno anche incoraggiando le autorità israeliane ad imporre ulteriori restrizioni ed a continuare nei loro soprusi contro di noi”, ha detto Alaa al-Dali.

Secondo Ashraf al-Qedra, portavoce del ministero della Sanità palestinese a Gaza, dall’inizio delle proteste della Grande Marcia per il Ritorno, in cui i palestinesi stanno protestando per il loro diritto al ritorno nelle terre e nelle case occupate da Israele nel 1948 e nei successivi conflitti, almeno 44 palestinesi sono stati uccisi ed altri 7.000 feriti, comprese decine di persone rimaste disabili.

Venerdì la prima tappa del Giro d’Italia vedrà gli atleti correre una corsa a cronometro di 9.7 km. a Gerusalemme ovest, che terminerà sotto le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, nella Gerusalemme est occupata.

Poi Israele ospiterà tappe da Haifa a Tel Aviv e da Beer Sheva attraverso il deserto del Negev fino al porto di Eilat, sul Mar Rosso.

La gara ospita alcuni dei più famosi ciclisti al mondo, compreso Chris Froome, che cerca di diventare il primo campione, nell’era del ciclismo moderno, a conquistare contemporaneamente tutti e tre i titoli dei grandi tour sportivi, il Tour de France, la Vuelta de España e il Giro d’Italia.

La gara ospita anche squadre sponsorizzate dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrain.

La partenza della gara è particolarmente significativa poiché coincide con le celebrazioni del 70^ anniversario del giorno dell’indipendenza di Israele, e avviene solo pochi giorni prima che i palestinesi celebrino l’anniversario della Nakba, o catastrofe, in cui più di 750.000 persone furono espulse con la forza dalle loro terre nel maggio 1948.

Una mappa illustrata del percorso della gara pubblicata sul Twitter del Giro mostra la Città Vecchia di Gerusalemme e la moschea della Cupola della Roccia.

Il movimento BDS ha condotto una campagna perché la corsa venisse spostata fin da quando è stato annunciato il percorso l’anno scorso, avvertendo che far partire la gara in Israele avrebbe assunto il significato di un “timbro di approvazione” delle “violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani dei palestinesi.”

“Proprio come sarebbe stato inaccettabile per il Giro d’Italia partire dal Sudafrica dell’apartheid negli anni ’80, è ora inaccettabile far partire la gara da Israele, in quanto questo servirà solo come sigillo di approvazione dell’oppressione di Israele sui palestinesi”, ha dichiarato il movimento sul suo sito web ufficiale.

In seguito alla comunicazione del percorso della gara lo scorso novembre, le associazioni per i diritti hanno emesso un comunicato congiunto chiedendo agli organizzatori di RCS Sport di spostare la partenza della gara da Israele, che, secondo loro, “accrescerà il senso di impunità di Israele.”

In risposta, RCS Sport, l’organizzatore del Giro, ha detto che la gara si sarebbe svolta in Israele come parte dell’“internazionalizzazione” dell’evento e come “un mezzo per esportare nel mondo tutto ciò che è italiano”.

A settembre il direttore della gara Mauro Vegni ha detto: “La realtà è che vogliamo che questo sia un evento sportivo e che si tenga lontano da ogni questione politica.”

Saied Timraz, vicepresidente di Palestinian Motorsport, Motorcycle and Bicycle Federation, ha affermato che è “irragionevole” tenere un evento così prestigioso in Israele allo stesso tempo in cui gli atleti palestinesi vengono privati dei loro diritti fondamentali dalle autorità israeliane.

“Israele usa lo sport per mascherare le sue flagranti violazioni contro i palestinesi. Ha un particolare interesse ad ospitare questo evento in quanto esso consente ai partecipanti di ammirare i luoghi e promuovere una immagine civilizzata di Israele”, ha detto Timraz a MEE.

“Benché lo sport e la politica debbano mantenersi separati, nulla può giustificare dare un premio agli oppressori.”

Secondo Timraz, lo scorso novembre le autorità israeliane hanno rifiutato a lui ed altri sei atleti palestinesi i permessi per uscire da Gaza per gareggiare nel campionato arabo di atletica del 2017, organizzato dalla Associazione Atletica Araba in Tunisia.

“Non è la prima volta che ci negano i permessi per partecipare ad eventi internazionali”, ha detto Timraz.

“Le autorità israeliane vogliono imporre severe restrizioni ai palestinesi che intendono partecipare ad eventi che darebbero voce alle loro sofferenze e mostrerebbero il vero volto dell’occupazione.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)





Rapporto OCHA del periodo 10 – 23 aprile 2018 (due settimane)

La serie di dimostrazioni di massa, iniziate il 30 marzo nel contesto della “Grande Marcia del Ritorno”, è continuata a Gaza durante il periodo di riferimento [di questo Rapporto, cioè fino al 23 aprile]

Le manifestazioni hanno avuto luogo in cinque campi di tende situate a circa 600-700 metri dalla recinzione perimetrale con Israele. Alcune centinaia di manifestanti, su decine di migliaia, si sono avvicinati ed hanno tentato di fare una breccia nella recinzione, bruciare pneumatici, gettare pietre e, secondo fonti israeliane, lanciare bombe incendiarie ed altri ordigni esplosivi alle forze israeliane, o di collocarli lungo la recinzione. Queste ultime hanno usato proiettili di gomma, gas lacrimogeni e proiettili di arma da fuoco; un centinaio di cecchini sono stati schierati lungo la recinzione.

Dall’inizio delle proteste, fino al termine del periodo di riferimento, 34 palestinesi, tra cui quattro minori, sono stati uccisi dalle forze israeliane. Inoltre, cinque palestinesi sono stati uccisi a Gaza in altre circostanze ed altri due, entrati in Israele attraverso la recinzione, sono stati colpiti ed uccisi; i loro corpi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane. A Gaza, secondo il Ministero Palestinese della Salute, dal 30 marzo un totale di 5.511 palestinesi, tra cui almeno 454 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane. Di questi, 3.369 persone (il 61%) sono state ricoverate in ospedale; 1.739 dei ricoverati erano stati colpiti da proiettili di arma da fuoco. Non sono stati segnalati ferimenti di israeliani. Il gran numero di vittime tra i manifestanti palestinesi disarmati, e l’alta percentuale di feriti da proiettili di arma da fuoco, ha suscitato preoccupazioni sull’uso eccessivo della forza. I medici dell’ospedale Shifa di Gaza riferiscono di aver curato lesioni non più viste dai tempi delle ostilità del 2014; alcune di tali lesioni possono causare inabilità permanente. Ciò solleva interrogativi sul tipo di munizioni usate dalle forze israeliane.

Per ulteriori informazioni e grafici: https://www.ochaopt.org/content/humanitarian-snapshot-mass-casualties-context-demonstrations-gaza-strip-0

Durante il periodo di riferimento, nove palestinesi, compreso un minore, sono stati uccisi dalle forze israeliane e 1.739 sono stati feriti nel contesto delle dimostrazioni nella Striscia di Gaza (inclusi nel conteggio di cui sopra). I nove morti sono costituiti da otto uomini ed un 14enne che, secondo fonti mediche, è stato colpito alla testa da un proiettile mentre si trovava a circa 50 metri dalla recinzione. Il Coordinatore Speciale delle Nazioni Unite per il Processo di Pace in Medio Oriente ha espresso indignazione per l’uccisione e ha chiesto un’indagine. L’Esercito Israeliano ha dichiarato che sarà svolta un’inchiesta su questo episodio. Il Coordinatore Umanitario, Jamie McGoldrick, ha chiesto tutela dei manifestanti palestinesi e finanziamenti urgenti per fronteggiare le esigenze umanitarie critiche generate dal massiccio aumento delle vittime a Gaza dal 30 marzo.

In diverse occasioni, nei giorni 12, 17 e 18 aprile, le forze israeliane hanno effettuato molteplici attacchi aerei e sparato colpi di carro armato su Gaza, mirando, a quanto riferito, a siti militari; un membro di un gruppo armato palestinese è stato ucciso e cinque altri sono rimasti feriti. È stato inoltre segnalato il danneggiamento di una casa.

In Cisgiordania, 331 palestinesi, tra cui 49 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane durante proteste e scontri. Per l’85% circa, queste lesioni si sono verificate durante scontri scoppiati dopo le proteste in solidarietà con la Grande Marcia del Ritorno, svolta a Gaza. Gli scontri a Kafr Qalil (Nablus) hanno fatto contare il più alto numero di feriti; seguono i feriti conteggiati negli scontri avvenuti nei pressi del DCO di Al Bireh (Ramallah) e nella città di Abu Dis (Gerusalemme). La maggior parte delle lesioni (70%) sono state causate da inalazione di gas lacrimogeno necessitante trattamento medico, seguite da lesioni causate da proiettili di gomma (20%) e da pallottole di arma da fuoco (3%). In altri tre episodi, avvenuti in Cisgiordania, 24 palestinesi, tra cui due minori, sono stati feriti durante scontri con le forze israeliane intervenute a seguito di alterchi e scontri tra residenti palestinesi e coloni entrati in vari siti religiosi.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 183 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 203 palestinesi, di cui 24 minori. Più di un terzo di queste operazioni hanno innescato scontri con i residenti. Nel Governatorato di Hebron è stata effettuato il più alto numero di arresti (55, di cui quattro minori) ed il maggior numero di operazioni (51).

Citando la mancanza di permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 16 strutture in sei località in Area C: non ci sono stati sfollamenti dalle abitazioni, ma le demolizioni/sequestri hanno riguardato i mezzi di sussistenza di 362 persone. Undici delle strutture oggetto dei provvedimenti di cui sopra si trovavano nell’Area C dei villaggi di Shuqba e Jibiya (entrambi in Ramallah), di Al ‘Auja (Jericho) e della comunità beduina palestinese di Sud ‘Anata (Gerusalemme). Quattro delle strutture mirate erano utilizzate come aule e due come servizi igienici di una scuola elementare che serve 24 studenti nella comunità pastorale di Khirbet Zanuta nel sud di Hebron. Una delle strutture interessate dai provvedimenti sopraccitati era utilizzata come aula scolastica dalla comunità beduina di Jabal al Baba, nell’Area C del Governatorato di Gerusalemme, ed era stata fornita come assistenza umanitaria in risposta a demolizioni precedenti. Questa specifica demolizione ha interessato 290 persone, di cui 151 minori. Jabal al Baba è una delle 46 comunità beduina palestinesi nella Cisgiordania centrale ad alto rischio di trasferimento forzato. Le forze israeliane hanno inoltre demolito un autolavaggio ed un parco giochi pubblico per bambini (entrambi situati vicino al checkpoint di Qalandiya e Kafr Aqab), pregiudicando il sostentamento di 86 persone; hanno anche demolito un laboratorio nel villaggio di Beiti Anan, in Gerusalemme (Area B), dove hanno sequestrato computer, stampanti ed altre attrezzature; a quanto riferito il sequestro è stato motivato da attività di incitamento; sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di 17 persone.

Il 23 aprile, nella città di Jenin, le autorità israeliane hanno demolito una casa per motivi punitivi, sfollando sette persone, tra cui due minori. La casa demolita apparteneva alla famiglia del palestinese, attualmente imprigionato, che, nel gennaio 2018, partecipò ad un attacco in cui un colono israeliano venne ucciso. Dall’inizio del 2018, due case sono state demolite o sigillate per motivi punitivi, sfollando sette palestinesi.

Per mancanza di permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno emesso almeno 19 ordini di demolizione o di blocco-lavori contro strutture appartenenti a tre comunità nell’Area C. Le strutture comprendono undici case abitate in Khirbet Ghwein (Hebron), sette strutture di sostentamento in Ni’lin, ed una struttura abitativa nella comunità di Jawaya, nella zona di Yatta (Hebron).

In Cisgiordania tre palestinesi sono stati feriti da coloni israeliani e proprietà palestinesi sono state vandalizzate nel corso di undici episodi di violenza. Il 10 aprile, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese vicino Tell (Nablus). Secondo fonti della Comunità locale, in tre episodi distinti, circa 140 ulivi su terreni appartenenti a palestinesi dei villaggi di Rujeib, Burin ed ‘Urif (tutti a Nablus) sono stati vandalizzati da coloni israeliani provenienti, a quanto riferito, dagli insediamenti colonici di Yitzhar e Bracha. Inoltre, in altri cinque diversi episodi, coloni israeliani hanno bucato le gomme di 113 veicoli palestinesi, hanno spruzzato scritte del tipo “questo è il prezzo che dovete pagare” sui muri di dieci case palestinesi ed hanno incendiato una moschea nei villaggi di Lubban Ash Sharqiya e Aqraba (entrambi in Nablus), di Rammun e Burqa (entrambi a Ramallah), e di Beit IKSA (Gerusalemme). Due studenti palestinesi (11 e 12 anni) sono stati feriti e il loro scuolabus ed una casa hanno subìto danni in due separati episodi di lancio di pietre e di bottiglie incendiarie da parte di coloni sulle strade nei pressi di Durai (Hebron) e nella zona H2 della città di Hebron. La violenza dei coloni è andata aumentando dall’inizio del 2018, con una media settimanale di cinque attacchi recanti lesioni o danni alla proprietà, rispetto ad una media di tre attacchi nel 2017 e due nel 2016.

Secondo rapporti di media israeliani, quattro coloni israeliani, tra cui una donna, sono rimasti feriti e quattro veicoli sono stati danneggiati su strade vicino a Betlemme, Hebron, e Gerusalemme a seguito del lancio di bottiglie incendiarie e pietre da parte di palestinesi.

In Gaza, per la terza settimana consecutiva, continuano a verificarsi interruzioni di corrente fino a 20 ore al giorno; ciò pregiudica gravemente l’erogazione dei servizi essenziali, tra cui quelli sanitari, l’acqua potabile ed il trattamento delle acque reflue. La Centrale Elettrica di Gaza, a causa della mancanza di carburante, è totalmente inattiva dal 12 aprile, mentre le tre linee dell’elettricità egiziana sono fuori servizio dal 10 febbraio.

Il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è stato aperto per tre giorni (dal 12 al 14 aprile) in entrambe le direzioni, permettendo il rientro nella Striscia di 400 persone e l’uscita di 2.500. Dall’inizio del 2018, il valico è stato aperto solo tredici giorni; otto giorni in entrambe le direzioni e cinque giorni in una direzione. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, più di 23.000 persone, inclusi casi umanitari ad alta priorità, sono registrate ed in attesa di attraversare il valico.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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