Ferito da un proiettile in testa e poi arrestato, Mohammed Tamimi non si perde d’animo

Tessa Fox

28 febbraio 2018, Middle East Eye

L’adolescente, come altri dieci palestinesi, è stato arrestato nel quadro della continua repressione da parte di Israele contro il villaggio di Nabi Saleh, noto per la sua resistenza di lunga durata contro l’occupazione.

Nabi Saleh, Cisgiordania occupata – Alle tre del mattino Mohammed Tamimi è stato svegliato dalle urla e dai colpi alla porta d’entrata della casa della sua famiglia.

Mentre era ancora a letto, la porta della sua camera si è aperta ed ha visto dei soldati israeliani avvicinarglisi, mentre suo padre li seguiva.

Sapeva che stava per essere arrestato.

Il villaggio palestinese di Nabi Saleh, a nord ovest di Ramallah, nella Cisgiordania occupata, è abituato alle incursioni notturne delle forze israeliane. Mohammed, 15 anni, come altri dieci giovani palestinesi del villaggio, è stato arrestato alla mattina presto del 26 febbraio. Tutti tranne due hanno meno di 18 anni.

Quello di Mohammed è un caso speciale, dato che è uscito dall’ospedale solo alla fine di dicembre.

Mohammed ha passato quattro giorni in coma ed ha subito due operazioni per togliere un proiettile di acciaio ricoperto di gomma piantato nella parte posteriore del suo cervello dopo essere stato colpito quasi a bruciapelo dalle forze israeliane. La sua ferita gli impedisce di andare a scuola per almeno sei mesi.

La madre di Mohammed, Emthal Tamimi, è sembrata molto preoccupata riguardo al figlio dopo il suo arresto.

Un’esperienza traumatica

Sono impazzita,” ha confermato Emthal Tamimi a Middle East Eye.

Ha chiesto ai soldati di lasciare in pace suo figlio a causa del suo precario stato di salute. “Abbiamo avuto una discussione, gli ho detto che era inutile prenderlo, che è ferito, che tutte le mattine e tutte le sere deve prendere delle medicine,” ha raccontato Emthal. Disobbedendo ai soldati che le avevano ordinato di rimanere in casa, Emthal è corsa dietro a suo figlio mentre era portato dentro una camionetta blindata. “Li ho seguiti e gli ho chiesto di ammanettarlo davanti perché ha male ad una spalla, ma gli hanno lasciato le manette dietro,” ha ricordato.

Contrariamente agli altri giovani di Nabi Saleh, Mohammed è stato liberato il giorno stesso, a metà pomeriggio.

L’avvocato della famiglia ha potuto individuare il luogo in cui i soldati l’hanno portato e farlo liberare. “Sabato ha subito un’altra operazione, è per questo che hanno potuto ottenere il suo ritorno anticipato,” ha spiegato Emthal.

Dopo essere stata avvertita che Mohammed sarebbe stato riportato al villaggio entro un’ora, Emthal ha atteso pazientemente a casa, circondata da amici e dalla sua famiglia. “Spero che stia bene,” ha confidato Emthal, innervosita per il suo stato di salute e per la brutalità dei soldati.

Sempre su di morale

Dopo essere tornato a casa, Mohammed era tutto sorridente.

Ha preso la madre tra le braccia nella sala della loro casa. Emthal avrebbe voluto che questa parentesi fosse durata un più a lungo. Chiaramente non voleva perderlo di nuovo.

Mohammed sembrava rilassato e calmo, ma quando si è seduto vicino a sua madre, è stato sopraffatto dall’emozione e ha trattenuto a stento le lacrime. Tuttavia, quando ha iniziato a parlare, si è messo a scherzare.

Penso che si sia trattato solo di sfortuna,” ha detto.

Poi ha spiegato, scherzando, che le forze israeliane l’avevano arrestato perché aveva spostato i mobili della sua camera.

Quando ho cambiato la posizione del mio letto, sono venuti ad arrestarmi,“ ha dichiarato Mohammed a Middle East Eye. “All’inizio era messa così,” ha spiegato tracciando la stanza con le sue mani, “e loro non sono venuti.”

È la seconda volta. In precedenza mi hanno arrestato una volta, anche quella dopo che avevo spostato il mio letto,” ha indicato Mohammed agitando le braccia e ridendo, nel tentativo di confermare la validità della sua teoria.

Non sapendo più come mettere il letto per evitare di essere arrestato, Mohammed ha affermato che ormai avrebbe “spostato (il letto) in un’altra camera.”

Mohammed si è detto sorpreso di essere stato liberato il giorno stesso del suo arresto, pur tenendo conto del suo stato. “Stavo dormendo, mi hanno svegliato e mi hanno detto che avrei potuto tornare a casa,” ha raccontato.

Gli manca ancora una parte del cranio perché i chirurghi aspettano che il suo cervello si sgonfi per potergliela rimettere.

Non si può esporre ai raggi del sole e deve fare molta attenzione ad evitare urti contro la sua testa.

I soldati israeliani hanno ignorato il fatto che il suo cervello non è protetto. “Mi hanno colpito alle gambe, mi hanno schiaffeggiato in faccia e facevano come se non notassero quello che ho alla testa,” ha dichiarato Mohammed. “Ho fatto del mio meglio per proteggermi la testa perché a loro non importava. Hanno continuato a colpirmi e a darmi delle pedate.”

Liberato per trasmettere un messaggio

Mohammed e il resto della sua famiglia sanno che è stato arrestato con gli altri ragazzi di Nabi Saleh per farne un esempio. Una volta liberato, si ritrova nel ruolo di messaggero degli israeliani per il resto della comunità.

Il primo messaggio che mi hanno affidato (durante la mia detenzione) è stato: “Tutte le notti ne arresteremo sei, fino ad arrivare a quaranta,’” ha riferito Mohammed.

L’altro messaggio è rivolto ai più anziani: arresteranno la maggioranza di loro, tutti quelli che parlano,” ha proseguito, aggiungendo che prenderanno di mira soprattutto i dirigenti della resistenza di Nabi Saleh.

Hanno cercato di farmi dire dei nomi, perché sapevano che avevo paura che mi dessero delle pedate e mi ferissero in testa.” Questi messaggi e questi arresti in massa fanno parte della punizione collettiva che Israele continua ad infliggere a Nabi Saleh dopo che nel 2010 il villaggio ha iniziato a protestare contro l’occupazione israeliana.

Anche Naji Tamimi, il padre di Noor Tamimi, di 20 anni e arrestata insieme a sua cugina Ahed a metà dicembre, è stato minacciato durante l’incursione notturna.

Mi hanno fatto delle domande sulla resistenza a Nabi Saleh, vogliono che io me ne assuma la responsabilità,” ha dichiarato Naji a Middle East Eye.

Gli ho detto che il problema è l’occupazione, che la resistenza è un altro aspetto dell’occupazione. Che se vogliono mettere fine alla resistenza, devono porre fine all’occupazione.”

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Rapporto OCHA del periodo 13-26 febbraio ( due settimane)

Gaza: il 17 febbraio, a sud-est di Rafah, due minori palestinesi di 15 e 17 anni sono stati uccisi ed altri due sono rimasti feriti dalle forze israeliane che hanno aperto il fuoco contro un gruppo di palestinesi che, a quanto riferito, si avvicinava al recinto per entrare in Israele.

Lo stesso giorno, presso la recinzione, ad est di Khan Younis, quattro soldati israeliani sono rimasti feriti per l’esplosione di un ordigno. In conseguenza di questo episodio, le forze israeliane hanno lanciato numerosi attacchi, a quanto riferito contro siti militari ed aree aperte all’interno di Gaza. Tre case adiacenti a questi obiettivi hanno subito danni. Gruppi palestinesi hanno lanciato diversi razzi verso il sud di Israele, uno dei quali ha colpito e danneggiato una casa israeliana.

Sempre a Gaza, al largo di Beit Lahiya, il 25 febbraio, un pescatore palestinese di 18 anni è stato ucciso e altri due sono stati feriti dalle forze navali israeliane che hanno aperto il fuoco contro una barca da pesca. Secondo un portavoce dell’esercito israeliano, il pescatore stava navigando oltre la zona consentita e si è rifiutato di fermarsi, nonostante diversi avvertimenti. In almeno altre 22 occasioni, le forze navali israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso pescatori che navigavano nell’Area di mare ad Accesso Riservato (ARA), provocando il ferimento di un altro pescatore. Finora, nel 2018, in mare, ci sono stati almeno 68 casi di apertura del fuoco [verso pescatori palestinesi] che hanno provocato l’uccisione di cui sopra e undici feriti.

Il 22 febbraio, nella città di Gerico, durante un’operazione di ricerca-arresto, un palestinese è stato ucciso dai soldati israeliani. Una sequenza videoregistrata mostra l’uomo che corre con un grosso oggetto verso un gruppo di soldati che gli sparano da distanza ravvicinata, quindi lo aggrediscono fisicamente e lo trascinano in un veicolo militare. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine penale. Il corpo è stato trattenuto dalle autorità israeliane. Ciò porta a cinque, dall’inizio del 2018, il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in operazioni di ricerca-arresto; le uccisioni nel 2017erano state nove. In aggiunta a quanto sopra, in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est , le forze israeliane hanno condotto 258 operazioni di ricerca-arresto; di queste almeno 61 hanno innescato scontri nel corso dei quali 55 palestinesi sono stati feriti.

Un palestinese è morto per le ferite riportate durante una manifestazione che ha avuto luogo nel precedente periodo di riferimento [30 gennaio -12 febbraio] mentre, nel periodo relativo al presente bollettino, 384 palestinesi, tra cui almeno 115 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in manifestazioni e scontri. Il giovane deceduto aveva18 anni ed era stato ferito durante una manifestazione che si era tenuta il 16 febbraio in Gaza, vicino alla recinzione perimetrale. Dei [384] feriti di questo periodo [13-26 febbraio], 74 si sono avuti in scontri vicino alla recinzione di Gaza ed i rimanenti in Cisgiordania. La maggior parte di questi ultimi si sono verificati durante le dimostrazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh, Ni’lin, Bil’in e Al Mazra’a al Qibliya (tutti a Ramallah), e in manifestazioni contro il riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme come capitale d’Israele. Di queste, le più ampie si sono verificate ad Al Bireh (Ramallah) e al checkpoint di Huwwara (Nablus). Altri feriti sono state segnalati durante scontri all’ingresso di Beit ‘Ummar e del Campo profughi Al ‘Arrub (entrambi a Hebron); altri ancora per l’intervento delle forze israeliane a seguito di scontri tra palestinesi e gruppi di coloni israeliani (vedi sotto). Di tutte le lesioni, 59 sono state causate da armi da fuoco, 102 da proiettili di gomma e 205 da inalazione di gas lacrimogeno, richiedente un intervento medico, o perché colpiti direttamente da bombolette lacrimogene.

Nella Striscia di Gaza, due bambini palestinesi (di 6 e 11 anni) sono rimasti feriti in seguito alla detonazione di un ordigno inesploso (UXO). L’episodio è avvenuto a Jabalia (nel nord della Striscia), quando uno dei bambini ha raccolto e cominciato a maneggiare l’ordigno trovato sul terreno, innescando la sua esplosione.

In Cisgiordania, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 20 strutture di proprietà palestinese, sfollando 18 persone, tra cui 10 minori, e colpendo i mezzi di sostentamento di altre 70 persone circa. Tutti i provvedimenti di cui sopra sono stati motivati con la mancanza dei permessi di costruzione. 15 delle strutture prese di mira si trovavano in Gerusalemme Est e cinque in Area C, nelle Comunità di Al Baqa’a, Al Bowereh e Khirbet al Hasaka, a Hebron, e nella Comunità beduina di Jabal al Baba nel governatorato di Gerusalemme. Tre delle cinque strutture in Area C erano state fornite come assistenza umanitaria in risposta a precedenti demolizioni.

In attacchi e incursioni ad opera di coloni israeliani sono stati feriti sedici palestinesi, e proprietà palestinesi sono andate perdute o sono state danneggiate. Quattro degli episodi si sono verificati nei villaggi di Einabus e Asira al Qibliya (Nablus) e, a quanto riferito, sono opera di coloni provenienti dagli insediamenti di Yitzhar, Bracha e dai loro circostanti avamposti: è stato aggredito fisicamente e ferito un vecchio di 91 anni; sono state uccise 17 pecore e rubate altre 37; una abitazione è stata vandalizzata. Nella stessa zona, cinque palestinesi sono stati feriti dai soldati israeliani durante scontri scoppiati dopo un’incursione di coloni all’interno di un villaggio. Nella Zona H2 della città di Hebron, controllata da Israele, coloni israeliani hanno lanciato pietre contro tre case palestinesi e, negli scontri successivi, hanno ferito sei palestinesi, tra cui due minori. Altri quattro palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da coloni in quattro distinti episodi verificatisi in altre località della Cisgiordania. Sei veicoli di proprietà palestinese sono stati danneggiati in cinque episodi di lancio di pietre. Dall’inizio del 2018, la violenza dei coloni è in aumento, con una media settimanale di sei attacchi, contro una media di tre nel 2017 e di due nel 2016.

Da media israeliani sono stati segnalati almeno tredici episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani con conseguenti danni a cinque veicoli. Gli episodi si sono verificati su strade vicino a Umm Safa e Sinjil (Ramallah), vicino a Tuqu’, Beit’ Ummar e nei pressi del Campo profughi di Al ‘Arrub (Hebron) e vicino ad Al Khadr (Betlemme). Inoltre, nella zona di Shu’fat a Gerusalemme Est sono stati segnalati danni alla metropolitana leggera.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, sotto controllo egiziano, è stato aperto per due giorni in entrambe le direzioni e per un giorno in una sola direzione, consentendo a 1.665 persone di attraversare (1.317 in uscita, 348 in entrata). Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah. Dall’inizio del 2018 il valico è stato aperto per 6 giorni (nel 2017 lo era stato per 36 giorni); in alcuni di questi giorni, l’attraversamento è stato consentito solo in una direzione.

Nella Striscia di Gaza proseguono le interruzioni di energia elettrica fino a 20 ore al giorno, compromettendo gravemente l’erogazione dei servizi. Rispetto al periodo precedente ciò rappresenta un leggero aumento dei blackout elettrici, attribuibile alla interruzione della fornitura di energia elettrica egiziana, determinata dal malfunzionamento tecnico delle tre linee di alimentazione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Una controversa definizione di antisemitismo incontra resistenze riguardo a preoccupazioni per la libertà di parola

Ben White

22 febbraio 2018, Middle East Monitor

In Gran Bretagna gruppi filoisraeliani stanno incontrando resistenze ai loro tentativi di utilizzare una controversa definizione di antisemitismo per zittire l’attivismo in solidarietà con la Palestina. Università e autorità locali hanno dato ascolto alle preoccupazioni riguardanti la libertà di parola, un incoraggiamento per gli attivisti per i diritti della Palestina che attualmente stanno tenendo, o si stanno preparando a tenere, iniziative per la “Israeli Apartheid Week [Settimana dell’apartheid israeliana, ndt.] (IAW) nelle università di tutto il Paese.

Nel dicembre 2016 il governo britannico ha annunciato di aver “adottato” la definizione di antisemitismo accolta all’inizio di quell’anno dall’“International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, ndt.] (IHRA). Descritta come “straordinariamente imprecisa” da David Feldman, direttore del “Pears Institute for the Study of Anti-Semitism” [Istituto Pears per lo Studio dell’Antisemitismo, ndt.], la definizione è promossa dall’IHRA ed è accompagnata da un elenco di 11 esempi su come oggi si possa manifestare l’antisemitismo, che comprendono critiche a Israele.

Fin da quando il governo di Theresa May ha dato il suo (non legale, non vincolante) appoggio, in Gran Bretagna un certo numero di gruppi ha dedicato tempo e risorse considerevoli per cercare di ottenere appoggio alla definizione da parte di consigli comunali e istituzioni dell’educazione superiore, tra gli altri. Tuttavia quasi subito c’è stato un rifiuto da parte di chi ha visto nella definizione e nel modo in cui è stata utilizzata, consistenti pericoli per la libertà di parola e per l’attivismo politico legittimo.

Nel marzo 2017 la direttrice della “London’s School of Oriental and African Studies” [Scuola di Studi Orientali ed Africani di Londra, ndt.] (SOAS), Valerie Amos, ha detto alla BBC che la sua università non intende adottare questa definizione. “Ho consultato su questo il nostro ‘Centro di Studi Ebraici’,” ha spiegato, “che ha fondamentalmente detto che questa definizione è discutibile.”

Quello stesso mese l’avvocato dei diritti umani Hugh Tomlinson, patrocinante della Corona [corrispettivo inglese dell’avvocato di cassazione in Italia, ndt.], ha pubblicato un parere legale che evidenzia “gravi errori” nella definizione e nelle linee guida allegate.

Nel maggio 2017 il sindacato dell’università e dei college – che rappresenta 110.000 professori e altri membri del personale – ha approvato a stragrande maggioranza una mozione che respinge l’uso della definizione dell’IHRA e che evidenzia “tentativi ispirati dal governo di mettere al bando iniziative di solidarietà con la Palestina “ come l’”Israel Apartheid Week”.

Ora anche la “London School of Economics” [Scuola di Economia di Londra, ndt., una delle più prestigiose istituzioni accademiche inglesi, ndt.] (LSE) si è unita a quanti, pur accettando la definizione di antisemitismo di 38 parole formulata dall’IHRA, hanno esplicitamente respinto l’elenco di esempi suggeriti, che include critiche a Israele. “La Scuola intende chiarire che criticare il governo di Israele, senza ulteriori prove che suggeriscano intenzioni antisemite, non è antisemitismo,” ha scritto un dirigente della LSE in una lettera lo scorso mese. “La Scuola non accetta neppure che tutti gli esempi che l’IHRA elenca come esemplificazioni di antisemitismo ricadano nella definizione di antisemitismo, a meno che non ci siano ulteriori prove per suggerire intenzioni antisemite.” L’autenticità della lettera, pubblicata su un sito filoisraeliano, mi è stata confermata da un dirigente della LSE.

Frattanto “Università del Regno Unito”, l’influente organizzazione rappresentativa delle università, ha resistito ai tentativi da parte di gruppi filoisraeliani perché manifestasse il proprio appoggio alla definizione dell’IHRA. Secondo un portavoce, che ha parlato con me all’inizio del mese, “Università del Regno Unito” non ha una posizione in merito.

In una richiesta a una commissione parlamentare d’inchiesta in corso sulla libertà di parola nelle università, il “Comitato dei Deputati degli Ebrei Britannici” ha detto ai parlamentari che le università dovrebbero “adottare la definizione dell’IHRA per consentire loro di esprimere giudizi meditati su cosa sia o non sia considerato antisemitismo.” Il Comitato ha riconosciuto: “Tuttavia c’è una preoccupante resistenza da parte delle università ad adottarla e la libertà di parola viene addotta come la principale ragione della loro riluttanza.”

Questa riluttanza è ben fondata. Lo scorso anno, un evento dell’IAW all’università del Lancashire Centrale è stato annullato dai dirigenti dell’università sulla base del fatto che avrebbe trasgredito la definizione dell’IHRA (e in seguito a pressioni da parte di gruppi filoisraeliani). Questa settimana la “Campagna contro l’Antisemitismo” ha affermato di augurarsi che ci siano “successi simili” nell’ottenere che iniziative dell’IAW organizzate dagli studenti quest’anno vengano annullate. Anche l’”Alleanza Israele-Gran Bretagna – un progetto della Federazione Sionista – sta fondando sulla definizione dell’IHRA i propri “sforzi per bloccare…eventi (dell’IAW)”.

Frattanto l’onorevole conservatore Matthew Offord martedì ha detto in parlamento che “le parole “settimana dell’apartheid israeliano” sono palesemente antisemite,” in base alla definizione dell’IHRA. Quindi, ha sostenuto, i ministri dovrebbero prendere in considerazione il fatto di “portare avanti le leggi necessarie per impedire (iniziative dell’IAW).”

Anche a Bruxelles gli effetti agghiaccianti della definizione dell’IHRA, così come viene utilizzata dai gruppi filoisraeliani, sono già stati dimostrati nei tentativi per far annullare un evento del parlamento europeo che ospita il difensore palestinese dei diritti umani Omar Barghouti. In una lettera al presidente del parlamento europeo Antonio Tajani i gruppi filoisraeliani sostengono che Barghouti e il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), di cui è co-fondatore, sono colpevoli rispettivamente di affermazioni e di obiettivi “antisemiti” “in base alla (definizione dell’IHRA).”

Tuttavia, mentre i sostenitori di Israele vedono chiaramente la definizione dell’IHRA come un mezzo per l’eliminazione dell’attivismo in solidarietà con la Palestina e delle voci palestinesi, c’è una discussione interessante, ed una mancanza di chiarezza, riguardo a in cosa consista esattamente la definizione. La “definizione di antisemitismo non vincolante dal punto di vista legale” dell’IHRA è pubblicata in rete all’interno di un riquadro nero chiaramente evidenziato. È un testo di 38 parole, che dice quanto segue: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio nei confronti degli ebrei: manifestazioni verbali e fisiche di antisemitismo sono dirette verso individui ebrei e non ebrei e/o loro proprietà, verso istituzioni e strutture religiose della comunità ebraica.” Lo stesso testo è comparso, anch’esso in un riquadro nero a parte, nel maggio 2016 su un comunicato stampa dell’IHRA che annunciava l’adozione della definizione.

Queste 38 parole sono poi seguite da un testo più lungo, che include l’elenco degli esempi di come si può manifestare l’antisemitismo contemporaneo; questa è la parte in cui è inclusa, in modo discutibile, la critica contro Israele. Tuttavia questi esempi sono effettivamente parte della definizione stessa?

Secondo l’ufficio permanente dell’IHRA a Berlino la risposta è no. In un messaggio mail datato 12 settembre 2017 un rappresentante dell’IHRA ha confermato che la definizione consiste solo nel “testo nel riquadro”, mentre gli esempi intendono “servire come illustrazione” di come “possa manifestarsi” l’antisemitismo.

Sembra che questa conferma sia stata un passo falso o, quanto meno, non è stata ripetuta. Mi sono rivolto all’ufficio permanente dell’IHRA a questo proposito e, stranamente, mi è risultato impossibile, sia con email che al telefono, avere una chiara conferma su cosa sia effettivamente la definizione. In una conversazione di cinque minuti all’inizio di questo mese un funzionario dell’IHRA ha ribattuto alla mia richiesta di chiarire se la definizione consista solo nel testo di 38 parole dicendo che io dovrei “fare riferimento all’informazione sul nostro sito”, o “semplicemente inserire un link sul sito dell’IHRA.” Quando ho fatto notare che certe istituzioni hanno accolto il testo di 38 parole, ma non l’elenco di esempi che lo accompagna, il funzionario ha riconosciuto che “dipende dalla discrezionalità delle istituzioni e delle autorità adottare qualunque cosa ritengano utile,” ma si è di nuovo rifiutato di rispondere alla semplice domanda.

Mentre l’IHRA è curiosamente reticente nel chiarire quello che costituisce la definizione, altri hanno già deciso: una dichiarazione che ho ricevuto dal portavoce della Commissione Europea fa una chiara distinzione tra la “definizione” da una parte e “gli esempi non esaustivi” dall’altra.

Alcune autorità locali in Gran Bretagna hanno allo stesso modo adottato solo il testo di 38 parole; recenti esempi includono il consiglio comunale di Manchester e il consiglio regionale del South Northamptonshire. Quando il consiglio comunale di Liverpool ha accolto solo la definizione di 38 parole, un attivista filoisraeliano si è infuriato – spingendo gli “Amici di Israele di Merseyside” ad affermare che i due testi sono, di fatto, “la definizione effettiva.”

La confusione – e l’ambiguità probabilmente intenzionale da parte dell’IHRA – su cosa costituisca la definizione, l’opposizione alla libertà di parola e il rozzo tentativo di censura da parte di quanti (falsamente) sostengono che la definizione “dimostra” che iniziative come l’IAW sono antisemite, sono tutti ben noti. È per questo che la storia della definizione dell’IHRA è ripresa nel resoconto del suo infausto predecessore, la proposta di definizione provvisoria dell’EUMC [Centro Europeo per il Monitoraggio del Razzismo e della Xenofobia, ndt.]. Alla fine è stata screditata ed abbandonata dopo che sostenitori di Israele l’hanno utilizzata – nelle parole di uno degli estensori della definizione – “con la delicatezza di un martello”.

Nonostante questi tentativi, l’attivismo in solidarietà con la Palestina e in particolare la campagna BDS sono cresciuti e si sono estesi in tutta Europa, compresa la Gran Bretagna, in rapporto diretto con le politiche di un governo israeliano che continua a colonizzare la Cisgiordania e a devastare la Striscia di Gaza.

Gli apologeti di Israele non smetteranno di ridefinire l’antisemitismo per prendere di mira la solidarietà con i palestinesi. Tuttavia è improbabile che soffochino un movimento contro l’apartheid che, in un’epoca segnata da Trump e dalla annessione israeliana, in tutto il mondo troverà solo più adesioni sia dentro che fuori dai campus.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Dopo una brutale aggressione al figlio minorenne, una famiglia palestinese querela Israele e l’impresa olandese che fornisce cani all’esercito [israeliano]

Yumna Patel

26 febbraio 2018, Mondoweiss

Quando aveva 15 anni, Hamza Abu Hashem è stato aggredito da cani dell’esercito israeliano ed ha riportato gravi ferite alle gambe, alle braccia e alla schiena.

In un video dell’aggressione, che è avvenuta il 23 dicembre 2014 nel villaggio di Beit Ummar nel sud della Cisgiordania occupata, si possono sentire soldati israeliani dire “dagliele, figlio di puttana” e “chi ha paura?”, mentre il ragazzo piangeva e urlava di dolore.

Dopo che il video è stato reso pubblico, Michael Ben-Ari, un ex deputato del partito di destra “National Union Party”, lo ha postato sulla sua pagina Facebook dicendo: “I soldati stanno dando una lezione al piccolo terrorista. Diffondete! In modo che ogni piccolo terrorista che pensi di fare del male ai nostri soldati saprà che ci sarà un prezzo da pagare.”

Hamza è stato arrestato immediatamente dopo l’aggressione, per la quarta volta da quando aveva 11 anni, e condannato a tre mesi e mezzo di prigione con l’accusa di aver lanciato pietre – un crimine che è costato a lui e ai suoi cinque fratelli il carcere per decine di volte in due decenni.

Prima di essere trasferito in prigione è stato ricoverato in ospedale in Israele per una settimana, con le mani incatenate al letto per tutto il tempo e senza che la sua famiglia potesse visitarlo.

Adesso, quattro anni dopo l’aggressione che gli ha lasciato la mente ed il corpo segnati per tutta la vita, Hamza, insieme alla sua famiglia, sta facendo causa al governo israeliano per l’aggressione, ed anche all’impresa olandese che per più di 20 anni ha fornito ad Israele cani da attacco.

Secondo un reportage del 2015 del giornale olandese NRC, ‘Four Winds K9’, l’impresa a cui Hamza sta facendo causa, risulta aver esportato in Israele “cani di servizio” per 23 anni.

Nel reportage, NRC cita il proprietario di ‘Four Winds K9, Tonny Boeijen, che avrebbe detto di aver spedito in Israele ogni anno decine di cani addestrati all’attacco, e che il 90% dei cani dell’esercito israeliano venivano addestrati dalla sua impresa.

In seguito alle pressioni di politici olandesi e di organizzazioni come l’Ong palestinese per i diritti umani Al-Haq, nel giugno 2016 l’impresa ha comunicato che avrebbe interrotto l’esportazione di “cani da attacco” ad Israele ed avrebbe fornito allo Stato solo dei “segugi”, mentre la comproprietaria dell’impresa Linda Boeijen ha detto a NRC: “Non intendiamo violare i diritti umani.”

Ma per i genitori di Hamza, Ahmad e Hamda, questo non è abbastanza. “Dobbiamo mettere fine alla vendita di tutti i cani all’esercito israeliano di occupazione”, hanno detto a Mondoweiss nel loro salotto, mentre sullo schermo televisivo scorreva il video dell’aggressione ad Hamza.

Vogliamo sottolineare che non si tratta di soldi”, ha detto categoricamente Ahmad, dicendo a Mondoweiss che la famiglia non ha richiesto un solo shekel in nessuna delle sue denunce.

È intervenuta Hamda: “Nel corso degli anni, mio marito e tutti i miei sei ragazzi sono stati incarcerati molte volte da Israele, ed abbiamo pagato decine di migliaia di dollari di cauzione all’occupante. Tuttavia, non è il denaro che vogliamo.”

Scuotendo la testa, Hamda ha detto a Mondoweiss che l’ultima volta che la sua famiglia di 10 persone si è riunita è stato durante l’ultimo Ramadan, appena prima che il figlio maggiore Thaer, che è tuttora in carcere, fosse nuovamente arrestato. Prima di allora, dice che non ricorda nemmeno l’ultima volta in cui si sono trovati tutti insieme.

L’associazione per i diritti dei prigionieri Addameer ha calcolato che circa il 40% degli uomini palestinesi viene arrestato da Israele ad un certo punto della propria vita.

L’impresa olandese ha cercato di chiudere la faccenda con noi, dicendo che avrebbero dato a Hamza circa 10.000 euro se avessimo ritirato la denuncia e non avessimo pubblicato nulla della sua vicenda”, ha continuato. “Che insulto è questo? Pensano che vogliamo del denaro? No, vogliamo che i diritti di tutti i bambini palestinesi vengano protetti, ecco che cosa vogliamo.”

Per Ahmad e Hamda vi sono due principali obiettivi che sperano di raggiungere attraverso la loro denuncia. Primo, nella loro denuncia contro il governo israeliano – che ammettono abbia poca probabilità di ottenere giustizia – l’obiettivo è rendere responsabili i soldati che hanno aggredito Hamza ed i politici come Ben-Ari, che loro dicono abbia in seguito istigato alla violenza contro i bambini. “Israele non assicura quasi mai giustizia ai palestinesi vittime dell’occupazione, ma, anche se solo simbolicamente, dobbiamo portarli in tribunale per i loro crimini”, ha detto Ahmad, aggiungendo che è stato dopo aver visto i commenti di Ben-Ari riguardo a Hamza che si è deciso a sporgere denuncia.

Secondo, per Ahmad e Hamda il presupposto della loro denuncia contro ‘Four Winds K9 è che per anni l’impresa ha scientemente venduto cani ad una potenza occupante che viola sistematicamente i diritti e le leggi internazionali.

L’impresa, e tutte le imprese del mondo, dovrebbero sapere che quando vendono ad Israele stanno facendo profitti grazie all’oppressione, alle uccisioni e all’incarcerazione di bambini”, ha detto Ahmad, e Hamda ha annuito. “Lo scopo di tutto questo è ottenere giustizia, sì, ma anche di impedire che ciò che è avvenuto a mio figlio accada ad altri bambini ed altre persone, in Palestina e in tutto il mondo.”

Segnato per tutta la vita

Oggi, a 19 anni, Hamza – che ha perso gran parte della sua infanzia in diverse prigioni israeliane per il reato di lancio di pietre – è più maturo dei suoi anni per come si comporta e per come parla, ma dice di essere ancora colto da un’indescrivibile, infantile paura quando vede dei soldati israeliani con i loro cani, costantemente presenti a Beit Ummar.

Adesso, tutte le volte che vedo proteste o disordini nel villaggio, sono terrorizzato e cerco di scappare via il più presto possibile”, ha detto Hamza a Mondoweiss, mentre camminavamo nello spiazzo dove anni fa è stato aggredito.

Ero stato arrestato molte volte dall’occupante israeliano prima dell’aggressione, ma quella è stata di gran lunga la cosa più spaventosa accaduta a me e alla mia famiglia”, ha detto.

Seguito da Seja, la sua sorellina più piccola, Hamza ha indicato le decine di bambini che giocavano a calcio in una strada vicina, “Ciò che è ancor più spaventoso della mia aggressione, tuttavia, è che ci sono persone che intendono fornire all’occupante cani e armi, che in ogni momento possono essere usati contro questi bambini.”

Ecco perché non cederemo a tentativi di corruzione o minacce”, ha detto, “è una questione che è molto più grande di me. Si tratta del diritto di ogni bambino palestinese di vivere un’infanzia normale, una cosa che a me non è stata concessa.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Protezione per i ladri di terra

Editoriale Haaretz, 27 febbraio 2018

Un governo è obbligato a proteggere i diritti delle persone sotto occupazione. Ayelet Shaked lo sta rendendo difficile.

La motivazione del recente disegno di legge, promosso dalla ministra della Giustizia Ayelet Shaked, che toglie l’autorità di esaminare le petizioni dei palestinesi della Cisgiordania all’Alta Corte di Giustizia e la attribuisce alla Corte Distrettuale di Gerusalemme, è stata sintetizzata dalla ministra sulla sua pagina Facebook. In seguito alla legge, ha scritto, “Il ricorso automatico all’Alta Corte da parte dei palestinesi e dalle associazioni di sinistra finanziate da denaro straniero non avverrà più.”

Il significato del disegno di legge approvato domenica dalla Commissione Ministeriale per la Legislazione è che l’Alta Corte non sarà più il tribunale di prima istanza per i reclami palestinesi sulle decisioni relative a pianificazione e edificazione, ingresso e uscita dai territori e richieste di libertà di informazione. La rivoluzione prodotta da questa legge mira a rendere ancor più difficili le azioni dei palestinesi danneggiati da azioni governative.

Ciò che è peggio, la promessa di Shaked che la nuova legge ridurrà la pressione sulla corte non è convincente, dato che nessuno garantisce che questi casi non saranno alla fine impugnati presso la Corte Suprema. Shaked semplicemente non tollera l’intervento dell’Alta Corte contro il furto di terre e la costruzione illegale su terreni palestinesi, intervento che ha già portato alla demolizione di case di coloni e la restituzione dei terreni su cui erano state costruite quelle case ai proprietari, come è successo ad Amona e Netiv Ha’avot. Shaked intende porre una barriera tra i palestinesi e l’Alta Corte di Giustizia sotto forma della Corte Distrettuale di Gerusalemme.

Nel 2000 è stata approvata la Legge sui Tribunali per le Questioni Amministrative, in base alla quale certe questioni legali su cui la legge è chiara e coerente, e non necessita di frequenti aggiornamenti, sono state spostate dall’Alta Corte di Giustizia alle corti distrettuali. Ma qualunque caso di carattere fondamentale, o che riguardi decisioni del governo centrale, viene ancora esaminato dai giudici della più alta corte.

Nel caso dei palestinesi, che sono soggetti al governo militare in un’area sotto occupazione, il loro timore di vedere messi a repentaglio i propri diritti umani si realizza quotidianamente, da cui l’importanza di consentire all’Alta Corte di continuare ad occuparsi delle loro istanze. Lo scopo era di attribuire adeguato peso al diritto internazionale, alle iniquità perpetrate dal governo ed all’obbligo di Israele di rispettare i diritti dei palestinesi. Questi principi, che sono considerati dall’attuale governo come ostacoli al totale ed aggressivo controllo dei territori, non sono abitualmente presi in considerazione dalla corte distrettuale.

Shaked sostiene: “Non meno importante è porre fine alla discriminazione contro i residenti di Giudea e Samaria (nome storico della Cisgiordania, ndtr). I loro diritti devono essere uguali a quelli di ogni altro cittadino.” Il cinismo di Shaked non ha limiti. In un luogo in cui non vi è eguaglianza tra lo status di un residente palestinese e quello di un israeliano, ed un grande solco separa i diritti dei due gruppi di residenti, il governo è obbligato a proteggere realmente i diritti di coloro che sono soggetti all’occupazione. Questa nuova legge deve essere immediatamente abrogata.

Questo articolo è l’editoriale di apertura di Haaretz, pubblicato sui giornali ebraici e inglesi in Israele.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Un palestinese detenuto dai militari muore a Gerico in seguito alle percosse dei soldati israeliani

Jack Khoury, Yaniv Kubovich

22 febbraio 2018 | Haaretz

I militari dicono che l’uomo avrebbe minacciato i soldati con una sbarra di ferro. Le riprese mostrano i soldati che sopraffanno il palestinese sbattendolo a terra. Testimonianze: non è stata trovata alcuna ferita da arma da fuoco nel corpo.

Un palestinese è morto dopo essere stato arrestato martedì durante la notte da soldati israeliani nella città di Gerico, nei Territori Occupati. Una ONG palestinese ha affermato che l’uomo è stato percosso a morte dai soldati.

La risposta ufficiale dei militari sostiene che l’uomo sia stato ucciso dai soldati mentre li minacciava con una sbarra di ferro. Fonti militari hanno poi sostenuto che si sarebbe sparato all’uomo durante l’arresto, ma sul corpo non è stata trovata alcuna ferita da proiettile. Dunque si sta imponendo l’opinione che l’uomo sia morto per le percosse subite da parte dei soldati.

Un video visibile in rete mostra un incidente in cui un palestinese viene assalito da soldati israeliani durante un’operazione militare a Gerico. L’esercito ha confermato che il palestinese è morto più tardi per le ferite riportate. Il video mostra i soldati che sopraffanno il palestinese e continuano a picchiarlo mentre è steso a terra circondato da molti soldati.

I militari hanno confermato che il video documenta un incidente accaduto mercoledì notte a Gerico, ma sostiene che le riprese non permettono di capire pienamente l’incidente.

L’esercito israeliano ha sostenuto che durante un raid nella città della Cisgiordania sono scoppiate delle rivolte in cui “un terrorista armato di una sbarra di ferro ha minacciato i soldati cercando di attaccarli. I militari hanno risposto sparando, e affrontando il terrorista da vicino sono riusciti a fermarlo. Gli hanno trovato addosso un coltello. E’ stato portato via dalla zona dai militari per essere curato. Più tardi è stato dichiarato morto.”

Una dichiarazione precedente dell’esercito affermava che l’uomo avrebbe attaccato i soldati con un coltello e tentato di rubare un fucile, aggiungendo che sarebbe stato curato sul posto dai medici militari. Il video non mostra alcun tentativo di rubare un fucile. Più tardi, l’esercito ha ritrattato la dichiarazione e ne ha rilasciata una nuova.

Il ‘Palestinian Prisoners’ Club’ ha identificato l’uomo nel trentatreenne Yasin al-Saradih.

La dichiarazione afferma che l’uomo è stato picchiato e ferito con inalazione di gas lacrimogeno. La sua famiglia ha detto ad Haaretz che al-Saradih non soffriva di malattie né di altri disturbi di salute, che era single e che faceva ogni specie di lavoro, dall’ edilizia all’agricoltura. Era anche calciatore e giocava nel centro Alhalhel di Gerico.

Nel 2002 era stato ferito da un proiettile durante la seconda intifada, ma non faceva parte di alcuna fazione palestinese né di alcuna organizzazione. La sua famiglia dice che, per quanto ne sapessero, non era ricercato da alcuna struttura di sicurezza.

Secondo la famiglia, spesso i giovani trascorrono la notte in centro città, specialmente chi non ha un lavoro fisso. Quando l’esercito israeliano entra in città, si hanno spesso scontri e scoppi di violenza.

Eid Barahmeh, capo del Prisoners’ Club di Gerico, ha detto ad Haaretz che Yasin è stato arrestato intorno alle 2 di notte. Due ore dopo è stata notificata la morte alla famiglia. Secondo Barahmeh, il corpo di al-Saradih è stato trasferito all’Istituto Legale di Abu Kabir, e un medico incaricato dalla famiglia era presente all’autopsia.

L’esercito ha confermato che il video si riferisce ad un incidente avvenuto durante la notte a Gerico.

Lo scorso venerdì, due palestinesi sono stati uccisi e altri due feriti dalle granate israeliane mentre si avvicinavano al confine di Gaza, ha detto il Ministro della Sanità palestinese. Le salme sono state identificate come Salem Mohammed Sabah e Abdullah Ayman Sheikha, entrambi diciassettenni di Rafah.

Durante lo stesso fine settimana, l’esercito ha colpito 18 obbiettivi nella striscia di Gaza in seguito ad un intensificarsi delle attività sul confine. Sabato un razzo sparato da Gaza ha colpito una casa in un insediamento israeliano, causando danni materiali.

(Traduzione di Luciana Galliano)




Dalla destra israeliana un appello alla deportazione di centinaia di migliaia di persone. E poi? Una Nakba?

Bradley Burston

13 febbraio 2018,Haaretz

Che cosa dovremmo pensare? Che ci sono problemi che possiamo soltanto espellere? Bene, perché no? Per qualcuno, frustrato dalla mancanza di politiche chiare, è un pensiero accattivante. Ma ecco perché no.

All’inizio di questo mese un articolo su “Makor Rishon” [giornale israeliano vicino alla destra religiosa ed ai coloni, ndt.], portabandiera ideologico della destra israeliana, affermava: “E’ giunto il tempo per una campagna pubblica per la deportazione degli illegali.” L’autore, Tzachi Levy, citava dati governativi che mostrano che almeno 230.000 non cittadini risiedono in Israele senza permesso, compresi, ha detto, non meno di 100.000 palestinesi della Cisgiordania, alcuni nelle città arabe israeliane, altri a Gerusalemme est, altri ancora tra i beduini del Negev.

Levy ha detto che le persone senza documenti costituiscono sia una minaccia alla sicurezza, sia il pericolo di “un tentativo di mettere in atto un ‘diritto al ritorno’ (dei palestinesi) dalla porta di servizio, sfruttando lo stato sociale israeliano.”

Che cosa dovremmo pensare? Che ci sono dei problemi che possiamo solamente espellere? Bene, perché no? Per qualcuno in Israele, frustrato da un governo che ha poche politiche chiare su qualunque questione, compreso il futuro della Cisgiordania, della Palestina e della democrazia all’interno di Israele, questo è un pensiero accattivante.

Il mese scorso, quando Raziel Shevach, un rabbino della Cisgiordania, paramedico e padre di sei figli, è stato ucciso in un attacco armato terroristico, il ministro dell’Agricoltura Uri Ariel, di estrema destra, ha invitato immediatamente il governo “ad espellere la famiglia dell’assassino per creare un deterrente.” Non vi era nessuna indicazione che la famiglia dello sparatore fosse in alcun modo coinvolta.

Ma ecco perché no:

Nella psiche nazionale sia degli israeliani che dei palestinesi l’orrore trasmesso dallo spettro della deportazione e dell’esilio non ha eguali. In molti modi lo stesso ebraismo, le sue scritture, la sua liturgia, il suo fulcro sono uno sforzo di superare e affrontare il dolore di migliaia di anni di esilio. In molti modi la cultura, la nazionalità e l’essere popolo dei palestinesi sono inseparabili dalla memoria e dall’angoscia evocate dal termine Nakba, la catastrofe – l’esodo di oltre 700.000 palestinesi che fuggirono o vennero espulsi dalle loro case nel periodo della guerra del 1948.

Persino in quest’epoca apparentemente moderna vi sono molti, da entrambe le parti, che affermerebbero senza riserve che, se dovessero scegliere, preferirebbero sinceramente la morte rispetto all’espulsione dalla propria casa e dalla propria terra.

Questo è il motivo per cui, in momenti in cui si fanno appelli da parte della destra israeliana ad usare la deportazione come strumento per risolvere i problemi di Israele, l’appello stesso può avere effetti incendiari.

Questo è uno di quei momenti.

Per settimane attivisti e commentatori di sinistra hanno messo in guardia che le deportazioni di massa di richiedenti asilo africani potrebbero servire come una specie di prova da parte del governo condotta in vista di una futura “soluzione” su basi demografiche, senza compromessi e fuori dalle vie diplomatiche, alle questioni poste da una numerosa, popolazione palestinese priva di diritti in Cisgiordania – lo spettro del

trasferimento” di popolazione e, in questo processo, della dissoluzione degli ultimi legami rimasti tra Israele e la democrazia.

Ora, benché non sia chiaro se suonino come avvertimento o come auspicio, toni simili si sono sentiti provenire dalla destra.

Che cosa dovremmo pensare quando Eldad Beck [famoso giornalista israeliano di centro destra, ndt.], un sostenitore del piano del governo di deportare decine di migliaia di richiedenti asilo africani, richiama la nostra attenzione sull’articolo di opinione di “Makor Rishon”, commentando così in un post su Facebook di sabato:

Non escluderei la possibilità che la lotta per sventare la deportazione di infiltrati dall’Africa sia in realtà finalizzata a promuovere una lotta contro una più significativa deportazione di infiltrati arabi.”

Per di più, mentre l’amministrazione Netanyahu – sfidando gli appelli di esperti di diritto internazionale e l’indignazione espressa da ampi strati del mondo ebraico e del pubblico israeliano – proseguiva i preparativi per espellere molti dei 37.000 richiedenti asilo africani residenti in Israele, la ministra della Giustizia di estrema destra Ayelet Shaked lunedì ha esternato un semplice ma sconvolgente messaggio in difesa del governo: la pulizia etnica al servizio del sionismo. Per essere precisi, Shaked non ha usato né il termine sionismo né la forte espressione pulizia etnica. Non ne aveva bisogno.

Citando le leggi emanate per preservare demograficamente una maggioranza ebraica in Israele – Shaked ha affermato che “lo Stato dovrebbe dire che è giusto conservare la maggioranza ebraica anche al prezzo della violazione dei diritti.”

Difendendo la determinazione del governo a tenere il termine “eguaglianza” fuori dalla proposta di legge sullo Stato-Nazione ebraico, Shaked ha detto: “ci sono luoghi in cui il carattere dello Stato di Israele come Stato ebraico deve essere mantenuto, e questo a volte avviene a scapito dell’eguaglianza.”

E, per paura che il vero motivo della deportazione da parte del governo dei richiedenti asilo africani sia frainteso rispetto a ciò che è – una malaccorta, non necessaria retata razzista ed una persecuzione che fa di migranti rispettosi della legge dei capri espiatori, invece di occuparsi dei reali problemi sociali degli israeliani nel sud di Tel Aviv – Shaked ha rilanciato: parlando lunedì al Congresso su giudaismo e democrazia, ha detto che, se non fosse stato per il muro che Israele ha costruito sul confine egiziano col Sinai, che riduce efficacemente il flusso dei richiedenti asilo, “qui assisteremmo ad una specie di strisciante conquista da parte dell’Africa.”

Lasciamo da parte, per il momento, il fatto che il governo, procedendo con le deportazioni, agisce in modo opposto al parere di alcuni dei suoi più forti sostenitori, in particolare il procuratore e difensore di Israele Alan Dershowitz [famoso avvocato e docente di diritto internazionale statunitense, sostenitore incondizionato di Israele, ndt.], che all’inizio di quest’anno ha detto: “Non si può evitare l’odore di razzismo quando c’è una situazione in cui 40.000 persone di colore vengono deportate in massa, senza che siano prese in considerazione individualmente ed ogni caso analizzato nel merito.”

O la conclusione di Dershowitz che la “Legge sul Ritorno”, che concede automaticamente il diritto alla cittadinanza a chiunque venga riconosciuto come ebreo dai dirigenti di Israele, “non dovrebbe essere una legge che esclude altri dal venire valutati come cittadini.”

E lasciamo da parte anche i punti deboli che non vedono gli avamposti [insediamenti illegali dei coloni israeliani in Ciagiordania, ndt.] nell’argomentazione di Makor Rishon, che afferma:” In uno Stato di diritto, chiunque si trovi qui illegalmente dovrebbe essere gentilmente mandato via da Israele.”

E tralasciamo anche, per il momento, le menzogne che il governo ha detto e continua a diffondere, a sostegno di un piano che ha dimostrato sempre più di essere utilizzato dal Likud e dallo Shas [partito religioso di destra, ndt.] nelle campagne di incitamento contro la popolazione nera.

E’ ora di chiedere che cosa stia facendo al popolo di questo Paese il discorso – e le prove – di un Israele che cerca di deportare lontano i suoi problemi.

E’ ora di chiedere se ciò che si sta tradendo siano esattamente la compassione e la generosità del “cuore ebraico”, che i ministri del governo esaltano così spesso come un dato di fatto.

Per fare un esempio, Mr. Macho ringhia in difesa dell’espulsione di bambini. Ecco Levy di “Makor Rishon” che biasima il governo per aver deciso, almeno in questa fase, di esentare alcune famiglie dalla deportazione – compresi bambini che non hanno mai conosciuto una patria e una cultura oltre Israele:

Dovunque nel mondo le famiglie migrano e i bambini si adattano.

Chiaramente, non è piacevole tornare in un Paese del Terzo Mondo, ma smettiamola con il politicamente corretto – non stiamo mandando nessuno a morire e, anche se la situazione non è bella, Israele non può caricare sulle sue deboli spalle tutti i problemi del Terzo Mondo.”

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Rapporto OCHA del periodo 30 gennaio – 12 febbraio 2018 ( due settimane)

Il 30 gennaio, nel villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), durante un episodio di lancio di pietre, un ragazzo palestinese di 16 anni è stato ucciso dalle forze israeliane.

Il ragazzo è stato colpito al collo con arma da fuoco, secondo quanto riferito, dopo aver lanciato pietre contro due veicoli militari israeliani che attraversavano il villaggio. Secondo testimoni oculari e fonti della comunità locale, in quel momento nel villaggio non erano in corso scontri. Le autorità israeliane hanno annunciato l’apertura di un’indagine da parte della polizia militare. Dall’inizio del 2018, questo è il quarto ragazzo palestinese ucciso nei territori occupati in episodi di lancio di pietre; gli altri minori sono stati uccisi in Iraq Burin (Nablus), Deir Nidham (Ramallah) e nel Campo profughi di Al Bureij (Deir Al-Balah).

Un colono israeliano e un palestinese sono stati uccisi in due distinte aggressioni con coltello. Un colono israeliano di 29 anni è stato accoltellato e ucciso al raccordo stradale di Ariel (Salfit); l’aggressore è fuggito. A quanto riferito, si tratta di un palestinese 19enne, cittadino di Israele. Il 7 febbraio, un giovane palestinese di 18 anni ha ferito con coltello una guardia di sicurezza dell’insediamento di Kermei Tsur (Hebron) e successivamente è stato ucciso da un’altra guardia; il suo corpo è stato trattenuto dalle forze israeliane. Il 12 febbraio, due soldati israeliani sono entrati inavvertitamente nella città di Jenin dove sono stati circondati da un folto gruppo di palestinesi; prima di essere soccorsi da poliziotti palestinesi sono stati bersagliati e feriti con lanci di pietre.

Tre palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane durante tre distinte operazioni di ricerca-arresto. Due di queste ricerche sono state effettuate il 3 ed il 6 febbraio nei villaggi di Birqin e Yamoun (entrambi a Jenin) e, a quanto riferito, erano finalizzate all’arresto dei presunti responsabili dell’attacco con armi da fuoco che, il 9 gennaio, ha provocato la morte di un colono israeliano. Sempre a quanto riferito, l’uomo ucciso a Yamoun era armato e, secondo le autorità israeliane, è risultato coinvolto nell’attacco del 9 gennaio. Un altro uomo, accusato del coinvolgimento nello stesso attacco, è stato ucciso dalle forze israeliane il 18 gennaio, durante un’operazione di ricerca. La terza uccisione registrata durante questo periodo (un giovane di 19 anni) è avvenuta il 6 febbraio, durante scontri con le forze israeliane scoppiati nella città di Nablus, nel corso di un’operazione di ricerca finalizzata all’arresto del presunto colpevole dell’aggressione con coltello avvenuta all’incrocio di Ariel (vedi sopra).

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 211 operazioni di ricerca-arresto di cui almeno sette hanno innescato scontri e conseguenti ferimenti (vedi sotto). Durante queste operazioni sono stati arrestati, in totale, 330 palestinesi, tra cui almeno 51 minori. A Gerusalemme Est, i residenti hanno tenuto dimostrazioni e recitato le preghiere del venerdì all’ingresso del quartiere di Al ‘Isawiya, come protesta per le ricorrenti operazioni di ricerca-arresto da parte delle forze israeliane.

Nei Territori palestinesi occupati, nel corso di scontri, le forze israeliane hanno complessivamente ferito 464 palestinesi, tra cui 92 minori. 365 di questi ferimenti (78%) sono stati registrati durante manifestazioni contro il riconoscimento da parte degli Stati Uniti (6 dicembre 2017) di Gerusalemme quale capitale di Israele. 85 delle lesioni totali sono state segnalate vicino alla recinzione perimetrale di Gaza e le rimanenti in Cisgiordania: il maggior numero nella città di Al Bireh vicino al DCO [District Coordination Office] di Beit El e, a seguire, al checkpoint di Huwwara (Nablus) e nelle vicinanze dell’ingresso nord della città di Qalqiliya. La maggior parte degli altri ferimenti (147) sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto: nella città di Nablus (l’operazione più vasta, in cui è stato ucciso un palestinese di 19 anni – vedi sopra), nel villaggio di Beita (Nablus) e nei villaggi di Birqa e di Al Yamun (entrambi a Jenin). Analogamente al precedente periodo di riferimento, più della metà delle lesioni (245, pari al 53%) sono state causate da inalazioni di gas lacrimogeno necessitanti cure mediche, seguite da ferite da proiettili di gomma (122, pari al 26%).

Il 7 febbraio, nell’area H2 della città di Hebron controllata dagli israeliani, 58 minori in età scolare e due insegnanti hanno subito lesioni a causa dell’inalazione di gas lacrimogeno: in cinque scuole le lezioni sono state interrotte. Secondo fonti israeliane, le forze israeliane hanno lanciato bombolette di lacrimogeni in risposta al lancio di pietre, da parte di minori, contro veicoli di coloni israeliani. Nelle cinque scuole le lezioni sono state sospese per il resto della giornata, coinvolgendo oltre 1.200 studenti. Sempre nell’area H2, nel corso di alterchi verificatisi in diversi checkpoint, tre palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e feriti da soldati israeliani, mentre un ragazzo palestinese di 15 anni che stava tornando a casa è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani.

Il 5 febbraio, le forze israeliane hanno svolto esercitazioni di addestramento militare nella parte settentrionale della Valle del Giordano, in prossimità della Comunità pastorale di Al Farisiya Ihmayyer, danneggiando circa 7 mila mq di terra coltivata e determinando la necessità di ricovero in ospedale di un bambino di quattro mesi. La Comunità si trova in un’area dichiarata da Israele “zona per esercitazioni a fuoco” ed è considerata ad alto rischio di trasferimento forzato. Le “zone per esercitazioni a fuoco” coprono quasi il 30% dell’Area C e ospitano circa 6.200 persone in 38 comunità che vivono situazioni di elevato bisogno umanitario.

In tre diverse occasioni, gruppi armati palestinesi di Gaza hanno lanciato verso il sud di Israele tre razzi, tutti caduti, a quanto riferito, in aree non abitate di Israele. Questi lanci sono stati seguiti da attacchi aerei israeliani, che hanno provocato danni ad un sito militare di un gruppo armato palestinese, ma anche a cinque appartamenti di un vicino edificio residenziale.

In Gaza, in almeno 46 casi, le forze israeliane, al fine di imporre le restrizioni di accesso, hanno aperto il fuoco verso agricoltori e pescatori presenti in zone limitrofe alla recinzione perimetrale ed in zone di pesca lungo la costa: due pescatori sono stati colpiti da proiettili rivestiti di gomma e arrestati; successivamente sono stati rilasciati. Inoltre, quattro minori palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane mentre tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione. In un caso, nelle vicinanze della recinzione perimetrale di Khan Yunis, le forze israeliane hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo.

In area C e Gerusalemme Est, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 25 strutture, tra cui una scuola finanziata da donatori. L’esecuzione di tali provvedimenti ha causato lo sfollamento di 33 palestinesi, tra cui 18 minori, mentre altri 135 ne sono stati diversamente colpiti. Il 4 febbraio, nella Comunità di beduini e rifugiati di Abu Nuwar (in zona C, alla periferia di Gerusalemme), sono state demolite due aule scolastiche che ospitavano 26 alunni palestinesi di 3a e 4a elementare. Questa è una delle 46 comunità beduine della Cisgiordania centrale che subisce un contesto coercitivo (compresi i progetti di ricollocazione da parte delle autorità israeliane) ed è a rischio di trasferimento forzato. Si stima che almeno 44 scuole (36 nella zona C e 8 a Gerusalemme Est) siano in attesa di ordini di demolizione o di blocco-lavori. Delle altre strutture prese di mira durante il periodo di riferimento, 15 erano a Gerusalemme Est (Silwan, Beit Hanina e Al ‘Isawiya) e nove nell’Area C, compresa la Comunità di pastori di Um al Jmal (Tubas) e in Wadi Qana (Salfit ).

Un palestinese è stato ferito e sono stati segnalati danni alle proprietà in distinti episodi che hanno coinvolto coloni israeliani o che si sono verificati in prossimità di insediamenti israeliani. Nelle vicinanze di Qabalan (Nablus), coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e ferito un palestinese. Nell’area di Silwan, a Gerusalemme Est, e vicino a Khirbet Zakariya (Betlemme), otto veicoli palestinesi sono stati vandalizzati da coloni. In tre diversi episodi, secondo fonti locali, circa 246 alberi di proprietà palestinese, su terreni appartenenti a palestinesi dei villagi di Bitillu (Ramallah), Yasuf (Salfit) e Burin (Ramallah) sono stati vandalizzati da coloni israeliani provenienti, secondo quanto riferito, dagli insediamenti di Nahliel, Rechalim, Yitzhar. Inoltre, in tre diversi episodi, 12 palestinesi, tra cui un minore, sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane intervenute a seguito di risse tra palestinesi e coloni israeliani. Questi episodi si sono verificati dopo l’ingresso di coloni in terreno privato nel villaggio Madama (Nablus), e in seguito a risse presso Abu Dis (Gerusalemme) e vicino all’insediamento colonico di Kokhav Ya’kov a Gerusalemme.

Secondo resoconti di media israeliani, sono stati segnalati almeno 14 episodi di lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli israeliani: feriti tre coloni israeliani, inclusa una donna, e danni a cinque veicoli privati. Gli episodi si sono verificati sulle strade vicine ai villaggi di Tuqu’a (Betlemme), Beit ‘Ur at Tahta e Ni’lin (Ramallah), nella città di Abu Dis e nel villaggio di Hizma (Gerusalemme). Dal 1 febbraio, l’esercito israeliano ha chiuso l’ingresso principale del villaggio di Hizma, affermando che ciò veniva attuato in risposta al lancio di pietre [ad opera di palestinesi] contro veicoli di coloni israeliani transitanti sulla strada 437. La chiusura ha condizionato direttamente gli spostamenti di circa 7.000 palestinesi che vivono nel villaggio.

Nel periodo di riferimento, il valico di Rafah sotto controllo egiziano è stato aperto, per tre giorni, in entrambe le direzioni, consentendo l’attraversamento a 1.894 persone (890 in uscita, 1.004 in entrata). Secondo le autorità palestinesi a Gaza, oltre 23.000 persone, compresi i casi umanitari, sono registrate e in attesa di attraversare Rafah.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

þ

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




La crisi per la corruzione di Netanyahu: ne faranno le spese i palestinesi

Danny Rubinstein

Giovedì 15 febbraio 2018, Middle East Eye

L’iniziativa di imputare il primo ministro israeliano per corruzione potrebbe spingerlo ancor di più nelle braccia della destra nazionalista: i palestinesi ne subiranno le conseguenze

In quanto anziano giornalista israeliano che ha scritto di palestinesi praticamente fin dalla fine della guerra del 1967 [la “guerra dei Sei Giorni”, ndt.], desidero testimoniare che nelle ultime settimane i palestinesi hanno continuato a dire che la loro situazione attuale è la peggiore di sempre.

Ed è ulteriormente peggiorata in seguito al terremoto politico provocato dalla raccomandazione della polizia israeliana che Netanyahu venga imputato di corruzione. Più la situazione di Netanyahu vacilla, più dovrà appoggiarsi alla sua base tradizionale: la destra ed i coloni. Ed il prezzo verrà pagato dai palestinesi. Per spiegare il rapporto tra Netanyahu ed i palestinesi dobbiamo tornare indietro a un episodio del suo passato.

Qualche anno fa, durante una sorta di incontro a Gerusalemme tra israeliani e palestinesi, il poeta israeliano Avoth Yeshurun (il nome d’arte di Yehiel Perlmutter), si alzò e si rivolse al poeta arabo Hanna Abu Hanna.

Solo un poco”

Yeshurun spiegò di essere arrivato come un pioniere nella terra di Israele, dopo le persecuzioni in Europa, per costruire una nuova società ebraica, una società giusta. Parlò a lungo della sua scoperta di una società ed una cultura arabe che per centinaia di anni erano state all’avanguardia della civilizzazione nel mondo. “Voi arabi siete grandi e forti,” disse.

Avete avuto le prime scuole di medicina al mondo; avete portato l’algebra in Europa insieme al sistema decimale e allo zero; avete rilanciato la filosofia aristotelica; avete guidato il mondo nell’arte, nella poesia, nella scienza, nella geografia e nell’astronomia, e avete rapidamente conquistato la vastità dell’Est e parte dell’Europa.”

Yeshurun guardò Hanna Abu Hanna e gridò: “Ecco quello che vi chiedo: spostatevi un poco, solo un poco. Voi dominate dall’oceano occidentale (il Marocco) fino al Golfo Persico, 300 milioni di persone, lasciate un po’ di spazio per noi, spostatevi un poco, solo un poco!!!”

Ricordo molto bene quell’incontro perché chi parlò dopo fu un anonimo giovane arabo che si alzò per affrontare Avoth Yeshurun e disse, in sostanza: “Cosa intendi per spostarci un poco? Cosa sarebbe un poco? Sono nato a Jaffa e tutta la mia famiglia vi aveva vissuto per centinaia di anni, e non mi sono spostato un poco, mi sono spostato di un bel po’, mi sono spostato del tutto. Noi siamo rifugiati. Abbiamo perso tutto. La casa e il giardino sono persi, la famiglia si è sparpagliata dappertutto. Questo è ‘un poco’?”

Debole – e forte

Tra i palestinesi che ho conosciuto, c’è sempre stata una tensione tra la loro identificazione come arabi e quella come palestinesi. In quanto arabi fanno parte di una nazione vasta, potente e prospera, ma come palestinesi sono deboli e impotenti. Recentemente abbiamo commemorato i 100 anni dalla emanazione della dichiarazione Balfour (novembre 1917), che nella cronologia palestinese è considerata l’inizio del conflitto tra la Palestina ed Eretz Yisrael [la Terra di Israele, ndt.].

E nel corso di questo secolo i palestinesi hanno continuamente cercato l’aiuto del grande e potente mondo arabo nella loro lotta contro l’Yishuv (pre-Stato) ebraico [la comunità degli ebrei sionisti in Palestina prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948, ndt.] prima e contro Israele poi. I Paesi arabi tentarono di aiutare i palestinesi. Ci furono un tentativo durante la rivolta araba del 1936-39 e ovviamente le guerre del 1948 e poi del 1967 e dell’ottobre 1973. Ma tutti questi tentativi fallirono.

Spesso a Yasser Arafat è stato chiesto cosa avesse determinato il problema palestinese ed egli ha sempre dato la stessa risposta: “Siamo stati traditi dagli arabi.” Arafat pensava che gli arabi avessero tradito i palestinesi quando firmarono l’armistizio del 1949 con Israele, e che li tradirono di nuovo quando non consentirono ai palestinesi di continuare la loro lotta popolare contro Israele.

Lui stesso venne incarcerato in Egitto quando era studente al Cairo. In seguito fu imprigionato in Libano, in Siria (1966), e perseguitato in Giordania durante il “Settembre Nero” [repressione dei palestinesi da parte dell’esercito giordano, ndt.] nel 1970. La ragione fu sempre la stessa: Arafat e i suoi nazionalisti palestinesi lealisti chiedevano che gli Stati arabi li aiutassero a lottare – e ormai da molto tempo i governanti arabi si sono rifiutati.

Il “tradimento arabo” dei palestinesi continua tuttora – più che mai. Si prenda, ad esempio, l’Egitto, lo Stato arabo più grande e forte e quello che ha lottato per i palestinesi più di quanto abbia fatto qualunque altro Paese arabo. Il regime del Cairo sotto il generale al-Sisi è in una pessima situazione. Oggi la popolazione egiziana è circa di 100 milioni di abitanti. I problemi economici sono senza precedenti.

Una volta il presidente Sadat disse a noi, un gruppo di israeliani, che comprendeva i problemi di sicurezza di Israele. “Avete sempre paura che gli arabi vi attacchino, ma la nostra paura è diversa: ogni giorno temiamo che, alla sera, non avremo abbastanza da mangiare.”

Oltre alla terribile sfida economica di alimentare un centinaio di milioni di egiziani, il regime del Cairo è minacciato dai gruppi estremisti islamici. L’ISIS [lo Stato islamico, ndt.] è attivo nella penisola del Sinai; recentemente ha operato un attacco contro una moschea a ovest di El Arish e ucciso più di 300 fedeli. Il generale al-Sisi ha grandi problemi ad affrontare l’estremismo islamico.

In questo contesto posso immaginare il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che arriva per un incontro al Cairo con al-Sisi e gli dice: “Mi devi aiutare. Gli israeliani hanno costruito altre 50 unità abitative nella loro colonia di Ma’ale Adumim ed hanno espulso e demolito le case di decine di famiglie palestinesi, e un soldato ha arrestato una ragazza a Nabi Saleh, nei pressi di Ramallah…”

In un immaginario scenario piuttosto stravagante come questo, il generale al-Sisi starebbe pensando che Abu Mazen ha perso la testa. L’Egitto sta affrontando problemi di vita o di morte di decine di milioni di persone e Abu Mazen sta parlando al leader egiziano di qualche casa mobile parcheggiata in qualche colonia. Questi sono i problemi dei palestinesi?

In questo contesto la cooperazione militare e di intelligence tra Israele e l’Egitto è migliore di quanto non sia mai stata. Israele aiuta l’Egitto nella sua guerra contro gli estremisti islamici nel Sinai. L’Egitto è diventato un vero alleato di Israele.

La situazione è simile tra Israele e la Giordania, dove il re Abdullah ha problemi economici da affrontare, con centinaia di migliaia di rifugiati siriani, e deve respingere militanti islamici sulle frontiere con la Siria e l’Iraq. La cooperazione di intelligence tra Israele ed Amman è un fatto consolidato e ben noto da molto tempo.

Alleati arabi

E c’è di più. C’è anche una cooperazione politica di livello piuttosto alto tra Israele, Arabia saudita ed Emirati. Israele, i sauditi e gli Stati del Golfo hanno un nemico comune: l’Iran. I sauditi stanno combattendo gli iraniani in Yemen – dove gli iraniani lanciano missili verso il territorio saudita – così come sul suolo siriano e libanese. Quindi ha preso forma una specie di alleanza strategica tra Israele e gli Stati arabi sunniti contro l’Iran sciita. Tutto sotto il patrocinio del presidente americano Donald Trump.

In Medio Oriente i palestinesi non hanno prospettive. Assolutamente nessuna. Nessun Paese arabo li aiuterà, ma potrebbe piuttosto danneggiarli. Benjamin Netanyahu ed il suo governo lo sanno. Possono fare tutto quello che vogliono ai palestinesi. E quindi il governo israeliano di destra continua a costruire e sviluppare le colonie della Cisgiordania.

Il 60% della Cisgiordania che, in base agli accordi di Oslo, è controllato da Israele, è stato quasi completamente annesso a Israele. Praticamente ogni settimana sentiamo di nuove leggi o regolamenti che discriminano gli arabi in Cisgiordania e in Israele. Nell’ultima settimana, per esempio, è stata approvata una legge speciale per accordare all’università della colonia di Ariel lo stesso status di cui godono le istituzioni accademiche all’interno di Israele.

Riguardo a Gaza, non c’è praticamente più niente da dire. I due milioni di palestinesi a Gaza sono stati sotto assedio per un decennio. Gli egiziani ed il regime di Ramallah fanno molto poco per aiutarli. Il risultato è che Gaza è sull’orlo di un disastro umanitario di massa. C’è energia elettrica solo da quattro a otto ore al giorno. L’acqua non è potabile. La disoccupazione è circa del 50%. L’economia è limitata alla generosità delle organizzazioni umanitarie internazionali, guidate dall’ONU, che recentemente hanno fatto notizia quando Trump ha annunciato progetti per ridurre drasticamente il loro bilancio.

Non tanto bene

Come già detto, oggi la situazione dei palestinesi è la peggiore da molto tempo a questa parte. Una società frammentata sprofondata nell’indigenza e sottoposta al potere limitato dell’Autorità Nazionale Palestinese, le cui forze di sicurezza sono diventate, in gran parte, complici di Israele.

Molti israeliani pensano che, finché i palestinesi stanno male, noi qui in Israele stiamo bene.

È così nei conflitti a somma zero. Ma nel nostro caso, non è così.

In Israele ci sono ambienti progressisti che pensano che anche noi siamo in una brutta situazione. Ormai da qualche tempo qui molte organizzazioni dei diritti umani hanno operato come l’opposizione più decisa al governo di Netanyahu.

La prova sta nella dura campagna di attacchi del regime contro le Ong. “Breaking the Silence” e i suoi soldati della riserva apertamente critici contro la condotta dell’esercito in Cisgiordania, “B’Tselem”, “Machsom Watch”, l’“Association for Civil Rights in Israel” [“Associazione per i Diritti Civili in Israele, ndt.], il “New Israel Fund” [“Nuovo Fondo Israele, ndt.]: tutte esistono da almeno 20 anni, ma solo ultimamente il governo Netanyahu le ha definite come il “Nemico numero uno”.

Netanyahu gode di ampio prestigio internazionale. È invitato nelle capitali internazionali, da Delhi a Varsavia, da Mosca a Washington. I suoi problemi sono principalmente in patria. Le critiche sono per lo più degli ambienti progressisti, all’interno di Israele, che non possono sopportare la realtà di quanto sta succedendo ai palestinesi. Egli sostiene sempre che tutte le critiche dirette contro il suo comportamento corrotto vengono da circoli progressisti di sinistra che cercano di rovesciare il suo governo.

Persino la raccomandazione della polizia di imputarlo di corruzione è vista da Netanyahu come nient’altro che un ulteriore tentativo politico da parte della sinistra traditrice di fare un colpo di stato. Quindi il grande timore è che l’attuale situazione lo spinga ancor di più nelle braccia della destra nazionalista e verso nuovi passi contro i palestinesi e contro i suoi nemici di sinistra. Mentre la presa di Netanyahu sul potere si indebolisce, i palestinesi e la sinistra progressista in Israele rischiano di pagarne il prezzo.

Danny Rubinstein è un giornalista e scrittore israeliano. In precedenza ha lavorato per “Haaretz”, dove è stato analista delle questioni arabe e membro del comitato editoriale.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




La difficile situazione dei lavoratori palestinesi in Israele

Senussi Bsaikri

Middle East Monitor 11 maggio 2014

L’economia palestinese è in stato di totale collasso con una tasso di disoccupazione in Cisgiordania del 31%. Ne consegue che il numero dei palestinesi che cerca lavoro in Israele è in aumento, nonostante le difficoltà da affrontare.

Su una cifra stimata di un milione di lavoratori palestinesi che vivono in Cisgiordania, solo un piccolo numero ha il permesso di lavorare legalmente in Israele. Nel 2009 non più di 23.000 palestinesi hanno avuto il permesso di lavoro. Tuttavia circa 40.000 palestinesi continuano a lavorare in Israele, quasi la metà illegalmente.

Ne consegue che la maggior parte di questi lavoratori sono sfruttati dai datori di lavoro consapevoli della loro condizione illegale, e qualche volta non vengono nemmeno pagati. Se si lamentano sono semplicemente consegnati alle autorità. I 25.000 palestinesi che si stima entrino illegalmente in Israele ogni anno vivono nella costante paura di essere catturati dalla polizia. Secondo Moshe Ben Shi, un portavoce della polizia israeliana di confine, vengono arrestati annualmente 15.000 lavoratori palestinesi illegali.

Condizioni difficili di vita e di lavoro

in un rapporto di Al Jazeera del novembre scorso (2013) un lavoratore palestinese di Tulkarem in Cisgiordania ha descritto i Territori Occupati come “una grande prigione, in cui mancano le condizioni fondamentali della vita”, da cui decine di migliaia di lavoratori palestinesi entrano in Israele senza permesso con un viaggio che richiede fino a 24 ore, anche se Tulkarem si trova in linea d’aria a solo pochi minuti da Israele. Un altro lavoratore ha riferito alla stessa fonte che rimanere in Cisgiordania era assimilabile a “una lenta morte” per cui egli e altri come lui “vanno verso l’ignoto(in Israele) senza un permesso di lavoro”. Un terzo uomo ha detto che “gli uomini non hanno paura della prigione, nè dell’oppressione dell’occupazione”, quello di cui hanno paura più di qualsiasi altra cosa è di rimanere disoccupati.

Secondo il rapporto molti lavoratori vivono all’aria aperta senza la minima dotazione necessaria ai bisogni fondamentali della vita. Non vi sono nè utensili per cucinare nè acqua per lavarsi o per fare il bucato. Quando dormono appendono i loro vestiti ai rami degli alberi e si sdraiano a terra con le scarpe pronti a scappare se la pattuglia della polizia israeliana dovesse comparire

Non vediamo le nostre famiglie per mesi. Qualche volta ti dimentichi dei tratti del viso dei tuoi figli– che crescono mentre sei via… siamo umiliati e perseguitati… lavoriamo dall’alba al tramonto per dei salari molto bassi” ha detto un lavoratore. “Immagina” ha detto un altro, “ vivere così, un giorno dentro, uno fuori, o lavorare per qualcuno per molti giorni che poi lui rifiuta di pagarti e minaccia di denunciarti alla polizia”

Le decisioni politiche peggiorano le condizioni dei lavoratori palestinesi

Le autorità israeliane spesso prendono decisioni che hanno gravi ripercussioni sui lavoratori palestinesi in Israele. Per esempio, il fondo pensione israeliano non permette più di assicurare i lavoratori palestinesi, ed è stata stabilita una tassa annuale di 1.000 dollari per ogni lavoratore palestinese che lavora all’interno della Linea Verde ( la linea dell’armistizio del 1967).

Nel 2007 il governo israeliano ha deciso di sottoporre i lavoratori palestinesi alla legge giordana, ciò che ha avuto come conseguenza la perdita da parte di decine di lavoratori di quei pochi privilegi che possedevano, mentre i lavoratori israeliani nelle stesse condizioni hanno continuato a godere dei benefici della legge israeliana. Gli osservatori ritengono che queste decisioni costringeranno molti lavoratori a lasciare il loro lavoro non essendo in grado di pagare la tassa.

Nonostante una decisione della Suprema Corte costringa i datori di lavoro e il governo israeliano a garantire ai lavoratori palestinesi la previdenza e i diritti alla pensione in base ai contributi da loro versati, le autorità israeliane non hanno applicato la direttiva della Corte. Inoltre, è stato reso noto che un lavoratore medio palestinese versa il 17,5% del suo salario per quelle idennità, senza ricevere nulla in cambio. Da molti ciò è considerato un modo per il governo israeliano di incassare grandi somme di denaro extra senza un aumento della spesa, solamente privando i lavoratori palestinesi del loro diritti.

Questo è un indice del livello di discriminazione verso i palestinesi e viola tutta la normativa internazionale sul lavoro. Contravviene anche all’Accordo Economico di Parigi siglato da Israele e dall’OLP che non permette nessuna riduzione di salario e diritti senza il consenso delle due parti.

La politica di Israele nei confronti dei lavoratori palestinesi

Le autorità israeliane hanno indebolito [la forza contrattuale de] i lavoratori palestinesi, in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e in Israele. Non esiste alcun sindacato o movimento collettivo sindacale che si occupi dei diritti dei lavoratori.

È da notare che le politiche israeliane per l’occupazione hanno spinto i giovani palestinesi ad abbandonare la scuola e trovare lavoro presso le imprese israeliane. Sono stati offerti significativi incentivi finanziari che hanno indotto un gran numero di giovani ad abbandonare la scuola e l’istruzione superiore per andare a lavorare nelle fabbriche, nelle aziende agricole e nei cantieri edili.

Per molti osservatori ciò non è esente da pericoli, particolarmente dopo la prima intifada del 1987. L’emergere di una forza lavoro molto poco istruita avrà un grande effetto sulla struttura e natura della società palestinese. Tuttavia, le restrizioni israeliane sull’attività economica palestinese negli ultimi 60 anni di occupazione hanno reso debole il mercato del lavoro palestinese; ciò scoraggia i giovani in particolare a cercare migliori lavori attraverso l’istruzione. L’economia palestinese non è stata in grado di accogliere un gran numero di persone che cercavano lavoro

La dirigenza dell’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] non ha migliorato la situazione dei lavoratori. Al contrario le condizioni sono peggiorate. il numero di occupati nelle istituzioni dell’ANP ha raggiunto le 160.000 unità, una cifra che non rappresenta le reali necessità del settore. La copertura dei salari di questa enorme forza lavoro ha impedito all’ANP di assistere altri lavoratori con il sostegno di cui abbisognavano.

La politica di chiusura in tutti i Territori Occupati e l’assedio di Gaza hanno duramente colpito la popolazione palestinese e la possibilità di trovare un lavoro. Come parte della repressione dei palestinesi, il governo israeliano ha incoraggiato l’impiego di lavoro a basso costo di persone provenienti da altri Paesi, peggiorando una situazione già pessima per i palestinesi.

Provvedimenti restrittivi sono in vigore riguardo l’occupazione di lavoratori palestinesi nei territori controllati da Israele e comprendono le seguenti[condizioni]:

– Devono ottenere un certificato di sicurezza per poter lavorare

Devono possedere una carta d’dentità magnetica contenente tutti i dettagli personali del lavoratore

– Devono pagare una tassa fino a 500 dollari al mese sia che lavorino che no.

Tali misure restrittive significano che si è formato un mercato del lavoro nero, con i lavoratori palestinesi vittime di un aperto e palese sfruttamento

Attraversare le barriere di sicurezza è il peggiore ostacolo che persino i lavoratori legali devono affrontare. Ogni giorno,devono mettersi in coda per ore per passare e poi trovare un mezzo di trasporto sino al loro posto di lavoro. Le misure di sicurezza comprendono ispezioni fisiche e controlli magnetici simili a quelli in aeroporto. Una conseguenza grave sulla salute delle frequenti esposizioni alle radiazioni durante il controllo di sicurezza è l’alto tasso di tumori fra i palestinesi. In molte occasioni, ai lavoratori viene impedito l’ingresso in Israele senza che vengano date spiegazioni. Perciò molti scelgono di rimanere la notte sul posto di lavoro per evitare di passare ogni giorno la sicurezza. Naturalmente questo significa che per lunghi periodi sono separati dai loro familiari anche se in linea d’aria si trovano molto vicini.

Effetti psicologici e sociali

Vivendo fra speranza e disperazione, avendo sempre a che fare con enormi insicurezze e umiliazioni, molti lavoratori palestinesi soffrono di problemi psicologici

Molti risultano disturbati, arrabbiati e pieni di odio per quello che gli israeliani gli stanno imponendo. Simili difficoltà e intimidazioni finiscono col creare un essere umano complesso, incapace di dividere le responsabilità della famiglia, in particolare l’educazione dei figli.

Vittime di truffe

Secondo l’agenzia di notizie Ma’an, alcuni funzionari israeliani, compresi un agente della sicurezza, un dirigente dell’amministrazione e un impiegato del Ministero dell’interno israeliano, insieme ad altri 23 israeliani e 11 palestinesi, hanno costituito una banda criminale che ha truffato migliaia di lavoratori palestinesi negli ultimi tre anni. La banda introduce clandestinamente in Israele i palestinesi e facilita l’emissione e la vendita di falsi permessi di lavoro riscuotendo il 40% del guadagno dei lavoratori

L’inchiesta condotta da Ma’an dice che dopo due giorni che i lavoratori sono entrati in Israele con documenti falsi, i loro nomi vengono dati dalla banda alle autorità israeliane che revocano il permesso in base alla mancanza di lavoro. La cancellazione del permesso di lavoro comporta la perdita dei diritti, stimabili in milioni di shekel israeliani.

Conclusione

La maggior parte dei lavoratori palestinesi che lavorano in Israele hanno bisogno di un sostegno per combattere una sofferenza finanziaria , psicologica e di sfruttamento. Molti si sentono perduti, abbandonati e alienati dalla comunità nella quale vivono e hanno un disperato bisogno di aiuto per poter condurre una vita onesta senza perdere la dignità. La comunità internazionale ha il dovere di costringere il governo israeliano ad attenersi al diritto internazionale e agli accordi sul lavoro assicurando così che i lavoratori palestinesi non vengano discriminati.

(Traduzione di Carlo Tagliacozzo)