Le forze israeliane mandano avvisi di sgombero a 300 palestinesi in un villaggio beduino

Ma’an News

17 novembre 2017

BETLEMME (Ma’an) – Secondo l’agenzia di informazioni Wafa, di proprietà dell’ANP, venerdì le autorità israeliane avrebbero distribuito avvisi di sgombero a tutti i 300 palestinesi residenti nel villaggio beduino di Jabal al-Baba, nel distretto centrale di Gerusalemme della Cisgiordania occupata.

La Wafa ha riferito che il personale dell’amministrazione civile israeliana, spalleggiato dall’esercito israeliano, avrebbe preso d’assalto il villaggio ed ordinato ai suoi abitanti di lasciare le proprie case.

Secondo la Wafa, Jabal al-Baba comprende 100 edifici, 58 dei quali sono case, mentre i restanti sono strutture per uso agricolo. “Poiché la comunità non è riconosciuta, la popolazione di Jabal al-Baba vive senza elettricità e riceve acqua solo da camion cisterna”, ha detto Wafa.

Negli ultimi anni le forze israeliane hanno demolito decine di case nella zona di Jabal al-Baba, molte delle quali costruite con l’aiuto dell’UE e di organizzazioni umanitarie.

In agosto hanno demolito un asilo infantile del villaggio.

La collina è popolata da circa 55 famiglie di beduini che hanno vissuto nella zona per 65 anni e sono costantemente minacciate di espulsione dalle loro case.

Circa 90 beduini palestinesi, in maggioranza bambini, sono rimasti senza casa quando, nel maggio 2016, le forze israeliane hanno smantellato le case prefabbricate donate dall’UE a Jamal al-Baba.

Jamal al-Baba, come altre comunità beduine della regione, è minacciata da Israele di espulsione forzata per il fatto di essere situata nel conteso “corridoio E1”, creato dal governo israeliano per collegare Gerusalemme est annessa con la grande colonia di Maale Adumim.

Le autorità israeliane pianificano di costruire nell’area E1 migliaia di case per colonie di soli ebrei , il che dividerebbe di fatto la Cisgiordania e renderebbe quasi impossibile la creazione di uno Stato palestinese contiguo – come ipotizzato dalla soluzione di due Stati al conflitto israelo-palestinese.

Le associazioni per i diritti umani e membri della comunità beduina hanno aspramente criticato i piani israeliani di ricollocazione dei beduini residenti vicino alla colonia israeliana illegale di Maale Adumim, sostenendo che lo sgombero espellerebbe palestinesi autoctoni in favore dell’espansione delle colonie israeliane in tutta la Cisgiordania occupata, in violazione del diritto internazionale.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Hamas: il coordinamento per la sicurezza con Israele è la principale minaccia all’unità

Middle East Monitor

10 novembre 2017

Ieri Hamas ha detto che il coordinamento per la sicurezza tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ed Israele danneggerà gli interessi nazionali palestinesi ed influenzerà negativamente le possibilità di promuovere una riconciliazione nazionale.

In una dichiarazione ufficiale il portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha sottolineato che “Hamas è sorpreso dalla ripresa, da parte dell’ANP in Cisgiordania, del coordinamento e della cooperazione per la sicurezza con il nemico sionista, fatto che rappresenta il maggior pericolo per il popolo palestinese, la sua unità ed i suoi legittimi diritti, compreso il diritto a resistere all’occupazione.”

“Il coordinamento per la sicurezza dell’ANP pregiudica la reputazione del popolo palestinese, delle sue lotte e della sua storia”, ha aggiunto.

Barhoum ha chiamato il popolo palestinese a far pressione sull’ANP perché interrompa quelle che ha descritto come azioni “che danneggiano l’interesse nazionale”.

Ha sottolineato che l’ANP deve lavorare per assicurare che i colloqui per la riconciliazione abbiano successo e per promuovere il progetto nazionale palestinese.

Le osservazioni di Hamas sono giunte il giorno dopo che il capo della polizia dell’ANP Hazem Atallah ha comunicato che due settimane fa tutte le forze di sicurezza dell’ANP hanno completamente ristabilito la cooperazione per la sicurezza con Tel Aviv. “E’ per il nostro popolo, per la sicurezza del nostro popolo e per i diritti del nostro popolo”, ha detto.

Il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva interrotto il coordinamento con Israele il 21 luglio, chiedendo che (Israele) rimuovesse i metal detector che aveva installato fuori dal complesso della moschea di Al-Aqsa. Secondo un sondaggio effettuato a settembre dal Centro palestinese di ricerca politica e statistica, circa il 73% dei palestinesi appoggiava la decisione di Abbas.

Di fronte a proteste di massa in tutto il mondo ed al rifiuto dei palestinesi di passare attraverso i metal detector, due settimane dopo Israele ha smantellato le barriere ed ha comunicato che avrebbe installato misure di sicurezza meno invasive. L’agenzia di informazioni Safa [che secondo Israele è legata ad Hamas, ndt.] ha riferito che all’inizio di questa settimana la polizia israeliana ha iniziato a sistemare telecamere ai cancelli della moschea di Al-Aqsa per controllare l’ingresso e l’uscita dei palestinesi dal luogo sacro.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Mettere in chiaro le cose su Yitzhak Rabin

Amira Hass

6 novembre 2017, Haaretz

L’assassinio dell’ex primo ministro nel 1995 non è la ragione principale per cui non è stato creato uno Stato palestinese – nonostante ciò che credeva Yasser Arafat.

Una delle assurde considerazioni che Yasser Arafat soleva fare – e che si possono ancora sentir dire oggi da alcuni dei suoi seguaci – era che, se Ygal Amir [estremista ebreo che uccise il primo ministro Rabin per aver firmato gli accordi di Oslo, ndtr.] non avesse assassinato il primo ministro Yitzhak Rabin nel 1995, il processo di Oslo sarebbe proseguito e sarebbe sfociato in una conclusione positiva: uno Stato palestinese accanto a Israele.

Arafat ed il suo entourage dovevano giustificare gli accordi di Oslo di fronte a se stessi ed al loro popolo. Dovevano scusarsi per i gravi errori che avevano fatto durante i negoziati (inizialmente in modo ingenuo e disattento, in seguito con un misto di ingenuità, negligenza, stupidità, incompetenza, debolezza, crescente impotenza, miopia e considerazioni personali legate alla sopravvivenza e alla corruzione).

La politica israeliana non era e non è formulata sulla base delle decisioni di una sola persona. E certamente non quando si tratta della questione fondamentale del nostro essere sionisti: cosa diavolo fare con questi arabi che si sono introdotti nella nostra patria ebraica. L’orgogliosa risposta sionista a questa domanda può essere trovata oggi nella realtà delle sovraffollate enclave palestinesi, ridotte al minimo dallo spazio ebraico affamato di proprietà immobiliari che dio ci ha promesso. Che egli esista o meno.

Una sola persona non può essere responsabile di questa comoda realtà – nemmeno i più maturi tra i nostri pensatori geopolitici, Shimon Peres o Ariel Sharon, o Shlomo Moskowitz, che dal 1988 al 2013 è stato a capo del supremo comitato di programmazione dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano dei territori palestinesi occupati, ndtr.], che ha consolidato la pianificazione dell’apartheid in Cisgiordania.

Per dare forma alla realtà delle enclave c’è stato bisogno di un’intera rete di ideologi, generali, avvocati, ufficiali, architetti, rabbini, politici, geografi, storici, imprenditori e molti altri ancora. Perciò una sola persona non è sufficiente a fermare una politica impostata da una rete ben determinata e pienamente coordinata. Nemmeno Rabin – nemmeno ipotizzando per un momento che si sia reso conto che un accordo logico avrebbe potuto basarsi solamente su uno Stato palestinese contiguo.

E’ vero, Rabin definì i coloni sulle Alture del Golan “repulsivi”, ma disse anche che si augurava che Gaza affogasse nel mare. Ha anche fatto un ottimo lavoro definendo le aspettative di Israele nei confronti del suo subappaltatore palestinese, quando affermò che l’Autorità Nazionale Palestinese doveva governare senza l’Alta Corte di Giustizia [israeliana] e senza l’associazione [israeliana] per i diritti umani B’Tselem. E poi, più importanti delle sue affermazioni politicamente scorrette, ci sono i fatti sul terreno, avvenuti ancor prima del suo assassinio.

E queste sono le fondamenta della realtà delle enclave – che sono il contrario di uno Stato: separazione della Striscia di Gaza dalla Cisgiordania; separazione di Gerusalemme est dal resto dell’area palestinese; Area C [circa il 60% del territorio della Cisgiordania, in cui si trovano le principali risorse naturali e, in base agli accordi di Oslo, sotto completo controllo israeliano, ndtr.]; una leadership palestinese indebolita; rafforzamento delle colonie e dei coloni; due sistemi giuridici ineguali – uno per gli ebrei ed uno per i palestinesi; uso del pretesto della sicurezza come strumento di colonizzazione. Questa è una realtà che non può essere costruita in un giorno.

All’epoca di Rabin il blocco della Striscia di Gaza – cioè il regime che iniziò a vietare la libertà di movimento – divenne sempre più rigido. Gli studenti non potevano ritornare nella Striscia di Gaza dopo i loro studi. E poi, improvvisamente, egli concesse di tornare solo agli studenti di Bir Zeit. Alla domanda del perché solo loro, rispose (secondo quanto mi riferì all’epoca un membro del comitato di contatto palestinese): “Quando Arafat mi ha chiesto di permettere agli studenti di tornare, ha nominato solo l’università di Bir Zeit.”

Rabin sostenne la costruzione di una rete di strade di collegamento in Cisgiordania – una condizione importante per attrarre nuovi coloni e per spezzare la contiguità geografica palestinese, rafforzando la fase transitoria [degli accordi di Oslo, ndtr.] in cambio di rendere inutile la fase dello Stato palestinese.

Marwan Barghouti, con un tipico insieme di incredulità e serietà, mi raccontò la seguente conversazione tra Rabin ed Arafat:

Rabin: “Ma come faranno i coloni ad andare a casa nella fase transitoria se non dispongono di strade separate?”

Arafat: “Sono i benvenuti se attraversano le nostre città.”

Rabin: “Ma se qualcuno farà loro del male, noi interromperemo i negoziati e il ridispiegamento.”

Arafat: “Dio non voglia! Ok, allora costruite le strade.”

In qualità di primo ministro e ministro della Difesa, Rabin punì i palestinesi di Hebron per il massacro perpetrato contro di loro da Baruch Goldstein [autore del massacro di 29 palestinesi ed il ferimento di altri 125 ch pregavano nella moschea della Tomba dei Patriarchi, ndtr.] nel 1994. L’esercito, sotto il suo controllo, impose ai palestinesi draconiane restrizioni di movimento– che nel tempo non fecero che peggiorare – e si rese responsabile dell’espulsione dei palestinesi residenti dal centro della città. Rabin fu colui che rifiutò di evacuare i coloni di Hebron dopo il massacro.

Durante il suo mandato come primo ministro iniziò segretamente a Gerusalemme – come di consueto, senza alcuna dichiarazione ufficiale – la silenziosa politica di espulsione (attraverso la revoca dello stato di residenti ai palestinesi nati a Gerusalemme). La lotta contro ciò iniziò solamente dopo che le prove divennero evidenti, nel 1996. La divisione artificiale della Cisgiordania nelle aree A, B e C come guida per il graduale ridispiegamento dell’esercito venne imposta nel corso dei negoziati per l’Accordo Transitorio, firmato nel settembre 1995.

E’ impossibile sapere se Rabin collaborò a quel diabolico inganno, attraverso il quale, sotto le spoglie di un processo graduale e per ragioni di sicurezza, Israele si riservò l’area C come terra per gli ebrei. Ma è stato lui a coniare la frase “Non esistono scadenze sacre”, relativamente all’applicazione degli Accordi di Oslo.

L’assassino riuscì così bene nella sua impresa perché, contrariamente alla propaganda di destra, il governo guidato dai laburisti non aveva intenzione di spezzare il cordone ombelicale con cui era legato ai suoi metodi e obiettivi colonialisti. La disputa con gli oppositori del Likud  non fu mai sui principi, ma solo sul numero e sulla dimensione dei bantustan da riservare ai palestinesi.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Perché l’occupazione non è casuale

Rod Such

 18 settembre 2017 The Electronic Intifada

La più grande prigione al mondo: una storia dei territori occupati, di Ilan Pappe, Oneworld Books (2017)

Secondo “La più grande prigione al mondo”, il nuovo libro dello storico israeliano Ilan Pappe, fin dal 1963 – quattro anni prima della guerra del 1967 – il governo israeliano stava progettando l’occupazione militare ed amministrativa della Cisgiordania.

La pianificazione dell’operazione – nome in codice “Granit” (granito)- ebbe luogo durante un mese nel campus dell’università Ebraica nel quartiere di Givat Ram a Gerusalemme ovest. Gli amministratori militari israeliani responsabili del controllo dei palestinesi si riunirono con funzionari legali dell’esercito, figure del ministero dell’Interno e avvocati privati israeliani per stilare le norme giuridiche ed amministrative necessarie per governare sul milione di palestinesi che all’epoca vivevano in Cisgiordania.

Questi piani facevano parte di una strategia più complessiva per mettere la Cisgiordania sotto occupazione militare. Questa strategia era denominata in codice “Piano Shacham”, dal nome del colonnello israeliano Mishael Shacham che ne era l’autore, e venne ufficialmente presentata dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano il 1 maggio 1963.

Pappe ha sostenuto a lungo che la guerra del 1967 e l’occupazione che ne seguì non furono “l’impero casuale” descritto dai sionisti progressisti. Pappe ritiene che un “Grande Israele” fosse stato prospettato fin dal 1948, e la sua pianificazione sia avvenuta fin dalla guerra di Suez del 1956.

La novità contenuta in “La più grande prigione al mondo” è il resoconto dettagliato da parte di Pappe esattamente di quello che i pianificatori israeliani avevano stabilito nel 1963: ossia “la più grande mega-prigione per un milione e mezzo di persone – un numero che sarebbe cresciuto fino a quattro milioni – che sono ancor oggi, in un modo o nell’altro, incarcerati all’interno dei muri reali o virtuali di questa prigione.”

Sistema di controllo

La descrizione da parte di Pappe degli incontri di Givat Ram ricorda il modo in cui aprì il suo libro più venduto, “La pulizia etnica della Palestina”, con la sua descrizione della “Casa Rossa” a Tel Aviv in cui il “Piano Dalet” (il Piano D) – per espellere quasi un milione di palestinesi – fu ordito 15 anni prima.

E in un certo senso “La più grande prigione al mondo” completa una trilogia, che comprende anche “I palestinesi dimenticati: una storia dei palestinesi in Israele”, che include la storia del popolo palestinese sotto il sionismo dal 1948 ad oggi.

Pappe afferma che il governo israeliano comprese nel 1963 che non sarebbe stato in grado di condurre un’espulsione di massa delle dimensioni della Nakba, espulsione forzata dei palestinesi nel 1948, a causa del controllo internazionale. Ciò spiega perché cominciò a disegnare un sistema di controllo e di divisione che avrebbe garantito una colonizzazione di successo in Cisgiordania, avrebbe privato i palestinesi dei diritti umani fondamentali, non concedendo loro la cittadinanza, e avrebbe garantito che la loro condizione di non cittadini nel loro stesso Paese non sarebbe mai stata negoziabile.

Benché la guerra del 1967 abbia determinato l’espulsione di altri 180.000 palestinesi (secondo le Nazioni Unite) e forse addirittura 300.000 (secondo il libro di Robert Bowker “Palestinian refugees: Mythology, Identity, and the Search for Peace [Rifugiati palestinesi: mitologia, identità e la ricerca della pace]), secondo Pappe gli incontri di Givat Ram e quelli che seguirono prospettarono una specie di amministrazione carceraria per i palestinesi rimasti.

Già il 15 giugno, tre giorni dopo la fine della guerra, una commissione di direttori generali, compresi tutti i ministri del governo responsabili dei territori appena occupati, iniziò ad edificare quella che Pappe chiama una “infrastruttura per l’incarcerazione” dei palestinesi. Tutta questa pianificazione, egli scrive, ora si può trovare in due volumi di resoconti resi pubblici, per un totale di migliaia di pagine, derivanti dai verbali degli incontri del comitato.

Quasi subito dopo la conclusione della guerra, Israele iniziò a mettere in atto un piano ideato da Yigal Alon – membro del parlamento israeliano, la Knesset. Il piano era di creare dei “cunei” de-arabizzati, serie di colonie solo di ebrei in Cisgiordania “che avrebbero separato palestinesi da palestinesi ed essenzialmente annesso parti della Cisgiordania ad Israele.”

Questi cunei, inizialmente nella valle del Giordano e sulle montagne orientali, sarebbero stati più tardi perfezionati da Ariel Sharon, ministro dell’Edilizia di Israele e più tardi primo ministro. Alla fine avrebbero assunto le caratteristiche concrete di una prigione, nella forma di posti di blocco, di un muro dell’apartheid e di altre barriere fisiche.

Pappe contesta la tesi secondo cui le colonie israeliane, illegali secondo il diritto internazionale, siano state il risultato di un movimento messianico nazional –religioso, un argomento sostenuto in modo più articolato da Idith Zertal e Akiva Eldar nel loro libro “Lords of the Land: The War Over Israel’s Settlements in the Occupied Territories, 1967-2007.” [“Signori della terra: la guerra sulle colonie israeliane nei territori occupati, 1967-2007]. Al contrario fornisce prove che dimostrano il fatto che i governi sionisti laici, compreso quello di Golda Meir, del partito Laburista, corteggiarono questo movimento e lo utilizzarono per promuovere l’espansione coloniale da parte di Israele.

Percepibile

Non ci volle molto, comunque, prima che lo schema del governo provocasse una resistenza di massa, iniziata con la Prima Intifada del 1987-1993. Gli accordi di Oslo cercarono di affrontare questa resistenza. Pappe mostra che gli accordi di Oslo non ebbero mai l’obbiettivo di arrivare ad uno Stato palestinese e che definirono semplicemente la creazione di piccoli cantoni simili ai bantustan dell’apartheid sudafricano, con benefici aggiuntivi per il fatto che i costi e le responsabilità dell’occupazione vennero in larga misura trasferiti a importanti donatori ed organizzazioni internazionali – soprattutto l’Unione Europea – ed all’Autorità Nazionale Palestinese appena creata.

E’ qui che la metafora della prigione di Pappe diventa più percepibile. Finché l’ANP darà seguito alle proprie responsabilità riguardo alla sicurezza, la resistenza palestinese verrà messa a tacere, i palestinesi potranno vivere in una prigione di minima sicurezza “senza diritti civili ed umani fondamentali”, ma con l’illusione di una limitata autonomia. Appena la resistenza si manifesta, tuttavia, Israele impone i controlli di una prigione di massima sicurezza.

Quindi negli anni seguenti la Cisgiordania è diventata la prigione di minima sicurezza e Gaza- con Hamas alla guida della resistenza – è diventata quella di massima sicurezza. I palestinesi, scrive Pappe, “potrebbero essere sia i detenuti della prigione aperta della Cisgiordania o incarcerati in quella di massima sicurezza della Striscia di Gaza.” Tutto quello che è avvenuto dopo la guerra del 1967, nota Pappe, segue la “logica del colonialismo di insediamento” e quella logica prevede la possibile eliminazione dei palestinesi autoctoni. Tuttavia questo risultato non è inevitabile. Un’alternativa è possibile, afferma Pappe, se Israele smantella le colonie e apre la strada “alla logica dei diritti umani e civili.”

Rod Such è un ex curatore delle enciclopedie “World Boook” ed “Encarta” [una cartacea e l’altra digitale, entrambe pubblicate negli USA, ndt.]. Vive a Portland, Oregon, ed è attivo nella campagna di Portland “liberi dall’occupazione”.

(traduzione di Amedeo Rossi)




I giorni del patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme sono contati?

Ahmad Melhem

23 ottobre 2017,Al-Monitor

Sintesi dell’articolo

La comunità greco-ortodossa in Palestina e in Giordania è in aperta rivolta contro il patriarca Theophilos III per la vendita di terre della chiesa a Israele e a israeliani.

Ramallah, Cisgiordania – I rapporti tra il patriarca Theophilos III di Gerusalemme e di tutta la Palestina e la comunità greco-ortodossa nei territori palestinesi e in Giordania sono più che mai vicini a trasformarsi in guerra aperta. Theophilos, che ha assunto la direzione della chiesa nel 2005, ha presieduto la chiesa mentre una serie di accordi sono stati raggiunti per la vendita o l’affitto di proprietà ecclesiastiche ad Israele, a singoli cittadini e a investitori israeliani. Come stabilito dalla legge giordana n° 27 (1958), il patriarca è responsabile della gestione di tutte le donazioni della chiesa. La chiesa ha proprietà in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, a Gaza e in Israele. Membri della comunità greco-ortodossa scontenti si sono organizzati contro Theophilos nel tentativo di cacciarlo e per spingere le autorità giordane e palestinesi a ritirargli il proprio riconoscimento.

Il 13 ottobre Haaretz ha informato che sei dunam [0,6 ettari, ndt.] di terra su cui si trovano decine di negozi attorno alla Torre dell’Orologio di Giaffa, così come 430 dunam [43 ettari, ndt.] a Cesarea, compresi gran parte del parco nazionale e dell’anfiteatro di Cesarea e un anfiteatro romano, sono stati venduti a imprese straniere anonime. La terra di Cesarea era stata affittata ad Israele, che non è stato informato della vendita. Ciò ha fatto seguito ad un accordo per vendere 500 dunam [50 ettari, ndt.] di terra nei quartieri di Talbiya e Rehavia a Gerusalemme est. Contratti precedenti erano stati raggiunti a Gerusalemme est e in Cisgiordania, anche per terreni nei pressi del monastero di “Mar Elias” a Betlemme.

Il movimento di opposizione – guidato dal “Consiglio Centrale Ortodosso Arabo” e dalla “Gioventù Ortodossa Araba” – ha ricevuto un importante impulso con la partecipazione di fazioni politiche e personalità palestinesi e giordane nella “Conferenza Nazionale in Appoggio alla Causa Arabo-Ortodossa in Palestina”, durata un giorno. I più di 200 partecipanti hanno confermato la propria opposizione al fatto che il patriarcato sia rappresentato da Theophilos, hanno chiesto le sue dimissioni e che venga processato per il suo ruolo nella vendita di terre della chiesa. La conferenza, che si è tenuta il 1° ottobre a Betlemme, ha incluso la partecipazione di Mahmoud al-Aloul, vice presidente e membro del comitato centrale di Fatah; Mustafa al-Barghouti, segretario generale di “Palestinian National Initiative” [“Iniziativa Nazionale Palestinese”, gruppo politico alternativo sia a Fatah che ad Hamas, favorevole alla resistenza non violenta contro l’occupazione, ndt.]; Qais Abdul Karim, vice segretario generale di Democratic Front for the Liberation of Palestine (DFLP) e un certo numero di dirigenti del Popular Front for the Liberation of Palestine (PFLP) [rispettivamente “Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina” e “Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”, due gruppi storici della resistenza armata marxista, in cui dirigenti e militanti di origine cristiana sono numerosi, ndt.].

La conferenza si è conclusa con i partecipanti che hanno emesso 14 decisioni e raccomandazioni, compresa “la dichiarazione del caso della chiesa greco-ortodossa come problema strategico nazionale dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), simile ai problemi di Gerusalemme e dei rifugiati” e “il ritiro del riconoscimento del patriarca come primo passo verso la destituzione dalla sua posizione, la sua imputazione, il rifiuto della sua partecipazione a qualunque cerimonia religiosa e l’individuazione di lui e dei suoi fedeli come esclusi dal contesto nazionale.” La conferenza ha formato un comitato di 17 membri delle fazioni politiche palestinesi e giordane, del consiglio greco-ortodosso e del movimento giovanile greco-ortodosso perché metta in pratica le decisioni della conferenza a livello politico, giudiziario e popolare.

Alif Sabbagh, portavoce della conferenza nazionale e del movimento di opposizione greco-ortodosso, ha detto ad Al-Monitor: “La conferenza è la prima di questo genere. E’ riuscita a radunare le forze palestinesi e giordane in appoggio al movimento greco-ortodosso e ad aggiungere il problema delle proprietà ecclesiastiche all’agenda dell’OLP perché è considerato di importanza nazionale piuttosto che religiosa.”

Aghlab Khoury, un attivista della “Gioventù greco-ortodossa”, ha detto ad Al-Monitor: “Questa conferenza intendeva principalmente revocare la legittimità popolare del patriarca e considerarlo persona non grata in base ai sentimenti nazionali di palestinesi e giordani. Un altro importante risultato è stato la richiesta alle autorità giordane e palestinesi di ritirare il riconoscimento ufficiale al patriarca Theophilos III e di impegnarsi con le istituzioni greco-ortodosse nel mondo per smascherarlo.” In un comunicato stampa del 4 ottobre il Consiglio Ortodosso Libanese, guidato da Robert al-Abiad, ha espresso “la propria solidarietà ed il proprio appoggio ad ogni decisione e raccomandazione emessa dalla conferenza nazionale.” Il consiglio ha anche condannato “la vendita di terra santa su cui ha camminato Gesù Cristo.”

Khoury ha inoltre sottolineato: “Il comitato che è scaturito dalla conferenza ha il compito di organizzare un incontro con il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas e con il re Abdullah II di Giordania per trasmettere loro tutte le decisioni della conferenza e per chiedere loro di ritirare la fiducia al patriarca.” Nel contempo il movimento di opposizione greco-ortodosso farà pressione sui dirigenti politici palestinesi e giordani per realizzare le richieste della conferenza.

Khoury ha rilevato: “Il prossimo futuro assisterà a un intenso movimento per tenere incontri e colloqui con le istituzioni locali in modo che offrano il proprio appoggio al boicottaggio del patriarca e facciano pressione sulle autorità politiche perché rispondano alla richiesta popolare di rimuoverlo dalla sua posizione.”

Dopo aver partecipato alla conferenza, Abd al-Karim, del DFLP, ha detto ad Al-Monitor: “Il movimento (di opposizione) non si limita più alla congregazione ortodossa, in quanto le proprietà della chiesa non sono solo di questa fede religiosa, ma sono parte di una causa nazionale più complessiva per conservare la proprietà (palestinese) della terra.” Ha aggiunto: “La raccomandazione della conferenza di non collaborare con il patriarca e le sue richieste che le autorità importanti, cioè Palestina e Giordania, ritirino il proprio riconoscimento al patriarca saranno aggiunte all’agenda del Comitato Esecutivo dell’OLP. Il comitato studierà questi punti e si consulterà con la Giordania per emanare una decisione comune che possa essere messa in pratica.”

Il movimento di opposizione greco-ortodosso ha già presentato una denuncia al procuratore generale dell’ANP Ahmad Barrak per rendere legalmente responsabile Theophilos. La legge n° 27 stabilisce la gestione delle proprietà ecclesiastiche da parte del patriarca, ma non cita il suo diritto di vendere o affittare le terre della chiesa. Secondo Sabbagh la denuncia, firmata da 309 persone e presentata il 30 agosto, chiede che Barrak indaghi su Theophilos per il suo coinvolgimento nel consegnare la terra della chiesa a israeliani. Ha aggiunto: “Presenteremo anche una denuncia contro il patriarca alla procura generale giordana, e solleveremo la questione della mancanza di trasparenza del patriarca nella gestione della terra della chiesa e della sua corruzione amministrativa e finanziaria.”

L’opposizione greco-ortodossa sta progettando di rafforzare le succitate attività organizzando manifestazioni e proteste contro Theophilos. Tali eventi arriveranno fino a Natale e si intensificheranno durante le feste, quando i contestatori tenteranno di impedirgli di entrare nelle chiese in Cisgiordania e in Israele.

Il movimento ha tenuto la sua prima protesta l’8 ottobre nel villaggio arabo di Reineh, in Israele. Personalità religiose cristiane e politiche, compreso il membro della Knesset [il parlamento israeliano, ndt.] Jamal Zahalka, hanno partecipato alla manifestazione, così come attivisti politici di Balad (Assemblea Democratica Nazionale) [gruppo politico della sinistra marxista israelo-palestinese, ndt.], del Movimento Islamico [gruppo politico israelo-palestinese di ispirazione islamica, ndt.] e del PFLP. Quel giorno i manifestanti hanno cercato di impedire al patriarca di entrare in una chiesa del villaggio. L’esercito israeliano è intervenuto per proteggere la sua incolumità.

Il movimento di base contro il patriarca deve continuare e raggiungere il suo acme durante il Natale, quando non permetteremo al patriarca di mettere piede nella chiesa della Natività,” afferma Sabbagh. “Esporremo la bandiera palestinese sulla chiesa della Natività e sulle chiese greco-ortodosse sotto sovranità palestinese al posto delle bandiere greche.” Sabbagh ha anche evidenziato: “Nelle precedenti celebrazioni del Natale abbiamo consentito l’ingresso in chiesa del patriarca in seguito all’intromissione del presidente Abbas, ma quest’anno non accetteremo nessun intervento. Come congregazione religiosa ortodossa, appoggiata da forze palestinesi, impediremo al patriarca di entrare in chiesa.”

Ahmad Melhem è un giornalista e fotografo palestinese per Al-Watan News [giornale in arabo edito in Oman, ndt.] con sede a Ramallah. Scrive per una serie di giornali arabi.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Cara Europa, prendi nota: se lo vuoi, si può fare pressione su Israele

Amira Hass

23 ottobre 2017, Haaretz

 

Un recente caso riguardante pannelli solari olandesi dimostra che Paesi amici possono far retrocedere Israele quando viola il diritto umanitario internazionale.

I giudici dell’Alta Corte hanno di nuovo trovato una scappatoia; ancora una volta, non dovranno discutere il fondamentale, vergognoso fatto che Israele non sta collegando migliaia di palestinesi (da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e i Territori Palestinesi Occupati, ndt.]) al sistema nazionale elettrico e idrico. Questa volta la via d’uscita è stata trovata nel villaggio di Jubbet ad-Dhib, ai piedi della collina di Herodion, a sudest di Betlemme. Esso necessitava di un sistema elettrico ibrido (solare e diesel), che è stato installato dall’organizzazione umanitaria israelo-palestinese Comet-ME, poiché Israele non aveva adempiuto al suo obbligo internazionale di connetterlo alla rete elettrica.

Tutti coloro che accusano l’Alta Corte di essere di sinistra possono stare sereni. Ha perso centinaia di occasioni per sentenziare che non fornire acqua ed elettricità è illegale in base al diritto internazionale, illegale in base alle leggi israeliane ed inaccettabile in base alla legge ebraica. Centinaia di volte – stando al numero di petizioni che sono state presentate – la corte ha avuto la possibilità di imporre allo Stato di collegare le comunità palestinesi al sistema elettrico e idrico, ma ha evitato di farlo, spesso adducendo motivi tecnici. Già quando l’attuale ministra della Giustizia Ayelet Shaked [di estrema destra, ndt.] era ancora una bambina, la corte sistematicamente ha continuato a perdere le occasioni di impedire alla reputazione della moralità ebraica di cadere nel fango del nazionalismo e nella passione per l’espulsione.

L’escamotage di Jubbet ad-Dhib è stato mostrato ai giudici dal generale di brigata Ahvat Ben Hur, ma è stato niente di meno che il primo ministro Benjamin Netanyahu a creare quella opportunità. Il governo olandese, che aveva finanziato il sistema elettrico ibrido, era furibondo per la confisca dei pannelli solari e Netanyahu ha fatto una promessa scritta agli olandesi che i pannelli confiscati al villaggio da Israele in giugno sarebbero stati restituiti. E allora che cosa fa Ben Hur, il responsabile diretto della confisca da parte dell’Amministrazione Civile [il governo militare israeliano sui territori occupati, ndt.]? Informa il procuratore di Stato, che ha informato l’Alta Corte, di aver deciso la restituzione dei pannelli.

Ben Hur non lo ha fatto per onorare l’obbligo dello Stato verso una popolazione protetta. Piuttosto, ha fatto ricorso ad un tecnicismo. Ha spiegato che i pannelli sono stati confiscati otto mesi dopo che erano stati installati e messi in funzione. Quindi la petizione scritta dagli avvocati Michal Sfard e Michal Pasovsky è diventata inutile. E’ una vergogna. Sarebbe stato interessante capire quali acrobazie avrebbero trovato i giudici per rispondere alle argomentazioni (accettate anche dal governo olandese) secondo cui negare l’accesso all’elettricità e distruggere gli impianti elettrici sono atti che violano il diritto umanitario internazionale.

L’affermazione di Ben Hur ha permesso al procuratore ed ai giudici di evitare anche di affrontare il fatto che l’Amministrazione Civile aveva fatto un uso improprio di un ordine militare. Gli ordini di sequestro consegnati ai residenti di Jubbet ad-Dhib il giorno della confisca citavano l’articolo 60 dell’ordinanza relativa alle norme di sicurezza. Questo articolo definisce possibile il sequestro cautelativo per un reato penale che sia stato commesso utilizzando l’impianto che si prevede di sequestrare. L’ordine di confisca non specificava quale crimine fosse stato presumibilmente commesso con i pannelli solari. Le indagini degli avvocati su questo punto presso l’Amministrazione Civile sono rimaste senza risposta. Quindi probabilmente (stando alla risposta del portavoce del COGAT [Coordinamento delle Attività Governative nei territori, ndtr.] ai giornalisti) il presunto crimine è relativo alla normativa urbanistica ed edilizia. Ma questo è un reato amministrativo che non ricade sotto l’ordinanza militare relativa alle misure di sicurezza. Le procedure per occuparsi di questo sono differenti – ordini di interruzione lavori ed ordini di demolizione, audizioni, argomentazioni contro l’ordine, appelli, trattative, una petizione all’Alta Corte.

Sfard e Pasovsky affermano che, per quanto a loro conoscenza, questa è stata la prima volta che l’Amministrazione Civile ha fatto uso dell’articolo 60 per confiscare un impianto. Non è successo per caso, hanno scritto nella petizione: “ O i pannelli solari non sono materiali ‘da costruzione’ e quindi la loro installazione senza permessi non è una violazione della legge in base alla quale può essere adottato un provvedimento esecutivo (come noi riteniamo), oppure l’ambito giuridico che afferisce alla costruzione di queste strutture è la normativa urbanistica ed edilizia, e le procedure esecutive devono essere avviate solamente in virtù ed in accordo con essa.”

Evidentemente qualcuno ha fatto forti pressioni sull’Amministrazione Civile ed i suoi giuristi e squadre di demolizione per scollegare dall’elettricità il villaggio – che è circondato da avamposti non autorizzati e ben trattati di coloni. Le leggi urbanistiche ed edilizie non permettevano la confisca e perciò al loro posto è stato citato un irrilevante articolo della legislazione militare.

Qualcosa di ancora più potente stava dietro a questo qualcuno: una decisa assistenza legale e la posizione dell’Olanda. I dettagli sono già stati descritti, ma, lo ammetto, mi fa particolarmente piacere riscriverli un’altra volta. La restituzione dei pannelli solari è stata preceduta da: la protesta e condanna da parte del ministro degli esteri olandese; la protesta del primo ministro olandese Mark Rutte in un incontro bilaterale con il primo ministro israeliano pochi giorni dopo il sequestro; due audizioni al parlamento olandese riguardo al sequestro; interrogazioni presentate da tre partiti del parlamento olandese; le chiare e dettagliate risposte da parte del ministro degli esteri olandese e del ministro della Cooperazione Internazionale e dello Sviluppo. All’interno di queste attività parlamentari, è stata data informazione dell’incontro di Netanyahu con la sua controparte olandese ed in seguito della promessa scritta di restituzione dei pannelli solari.

L’ufficio del primo ministro [israeliano] non ha rilasciato commenti ad Haaretz.

Olanda e tutta Europa, prendete nota: quando lo volete, si può fare pressione su Israele. Sapete che la violazione da parte di Israele del diritto internazionale a Jubbet ad-Dhib non è un evento eccezionale. Quindi, per favore, continuate, per il bene dei palestinesi e degli ebrei che vivono in questo Paese.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)

 




Il blocco della Cisgiordania e di Gaza dura da 26 anni

 

Amira Hass,

16 ottobre 2017 Haaretz

 

Quando Israele annuncia una chiusura dei territori occupati, crea la falsa impressione che i palestinesi normalmente abbiano libertà di movimento – cosa che non avviene dal gennaio 1991.

Alcuni articoli pubblicati su Haaretz prima della festa di Sukkot (festa del pellegrinaggio, una delle più importanti festività ebraiche, che dura 8 giorni tra settembre e ottobre, ndtr.) mi hanno ricordato la grande distanza tra il 21 di Schocken Street (gli uffici di Haaretz) e Qalandya, Nablus o Jayyous. Mi hanno ricordato (ancora e ancora) quanto malamente io abbia fallito nei miei tentativi di descrivere, spiegare ed illustrare la politica israeliana di restrizione della libertà di movimento. Poiché ho scritto migliaia di pagine sulla politica di chiusura nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania fin da quando è stata istituita nel gennaio 1991, riconosco la mia personale responsabilità sulla questione.

Parecchi miei colleghi di Haaretz (anche in un editoriale) hanno giustamente criticato l’ordine della leadership politica e militare israeliana di vietare l’uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania durante l’intera festa di Sukkot. I giornalisti hanno sottolineato la crudeltà di recare danno alla vita di decine di migliaia di lavoratori con una punizione collettiva, con un blocco.

Ma questi articoli hanno creato la falsa impressione che i checkpoint siano normalmente aperti per tutti e, di conseguenza, giustificano in qualche modo il termine usato dall’apparato militare – “attraversamenti”, come se fossero valichi di frontiera tra due Stati uguali e sovrani.

Dalle critiche contenute negli articoli sembra che, proprio come l’israeliano medio può salire su un autobus o su una macchina e viaggiare verso est in qualunque giorno della settimana ed a qualunque ora, un comune palestinese possa analogamente imboccare le stesse superstrade di lusso e dirigersi ad ovest. Verso il mare. O a Gerusalemme. Dalla sua famiglia in Galilea; a sua scelta, per quasi tutti i giorni e a qualunque ora, tranne durante lo Shabbat [festa ebraica del riposo che avviene di sabato ndt] e i giorni di festività.

Ripetiamolo ancora una volta: il blocco non è mai stato tolto da quando venne imposto alla popolazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est) il 15 gennaio 1991. Come potremmo definirlo oggi, più di 26 anni dopo? Il blocco è il ripristino della Linea Verde (confine de facto dello stato di Israele fino al 1967, ndtr.) – ma solo in una direzione e per un solo popolo. E’ inesistente per gli ebrei, ma esiste sicuramente per i palestinesi (insieme al suo nuovo rafforzamento, la barriera di separazione in Cisgiordania).

A volte il blocco è meno rigido; a volte di più. In altri termini, a volte parecchi palestinesi ottengono permessi di ingresso in Israele, a volte pochi, o nessuno del tutto, o quasi nessuno (a Gaza). Ma è sempre una minoranza di palestinesi a cui Israele concede i permessi – soprattutto perché alcuni settori dell’economia israeliana (in particolare quello dell’agricoltura e dell’edilizia, e anche il servizio di sicurezza dello Shin Bet) hanno bisogno di loro.

Per quasi due decenni, e per propri calcoli politici interni, Israele ha rispettato il diritto dei palestinesi alla libertà di movimento – con poche eccezioni – e loro entravano in Israele e viaggiavano tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania senza dover chiedere un permesso a tempo limitato.

Ma dal 1991 Israele ha negato il diritto alla libertà di movimento a tutti i palestinesi in queste aree, con poche eccezioni, in base a criteri e quote che stabilisce e modifica come gli conviene.

Il gennaio 1991 è storia antica per molti lettori e soggetti interessati, alcuni dei quali sono addirittura nati dopo quella data. Ma per tutti i palestinesi che hanno più di 42 anni, il gennaio 1991 è una delle tante date che segnano un altro arretramento e un altro cambiamento in negativo nelle loro vite.

Nella storiografia della nostra dominazione sui palestinesi, il 15 gennaio 1991 dovrebbe essere studiato come una pietra miliare (non la prima né l’unica) dell’apartheid israeliano. Un Paese che va dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordano), due popoli, un governo la cui politica determina le vite di entrambi i popoli; il diritto democratico di eleggere un governo è garantito ad un solo popolo e a parte del secondo. Questo è risaputo. Due sistemi giuridici separati; due sistemi di infrastrutture separati e ineguali – uno potenziato per un popolo, uno sgangherato e deteriorato per l’altro.

E non meno importante: libertà di movimento per un popolo; diversi gradi di restrizione del movimento, fino alla totale assenza di libertà di muoversi, per l’altro. Il mare? Gerusalemme? Gli amici che vivono in Galilea? Sono tutti lontani da Qalqilyah (cittadina palestinese in Cisgiordania, ndtr.) come la luna – e non solo durante la festa di Sukkot.

E’ importante anche la tecnica di come è stato in realtà attuato il blocco. Un cambiamento drastico non accade mai all’improvviso, non è mai dichiarato pubblicamente. Viene sempre presentato come una reazione – non come un’iniziativa. (Gli israeliani vedono il blocco come un mezzo per impedire gli attacchi suicidi , ignorando appositamente che è iniziato molto prima che quelli cominciassero.

Dal 1991 la negazione della libertà di movimento è solo diventata più tecnologicamente sofisticata: strade separate, checkpoint e metodi di perquisizione più umilianti e dispendiosi di tempo; costanti identificazioni biometriche; un sistema infrastrutturale che consente il ripristino dei checkpoint intorno alle enclave della Cisgiordania e le mantiene separate tra di loro. La gradualità calcolata e la mancata comunicazione preventiva di questa politica e dei suoi obbiettivi, la chiusura interna delle enclave palestinesi circondate dall’area C (sotto il controllo israeliano, ndtr.) – tutto questo normalizza la situazione.

Il blocco (come elemento fondamentale dell’apartheid) è percepito come lo stato naturale e permanente, la situazione standard di cui la popolazione non si accorge più. Ecco perché un peggioramento temporaneo della situazione, annunciato anticipatamente, desta attenzione o rilevanza.

Comunque, io non sono un tipo megalomane, quindi non assumo tutta la responsabilità sulle mie spalle. L’incapacità delle parole di descrivere e spiegare a fondo i tanti aspetti della dominazione israeliana sui palestinesi è un fenomeno sociologico e psicologico, che non è attribuibile all’impotenza di uno o due scrittori. Le parole non pervengono – anche per coloro che si oppongono al blocco – in tutto il loro significato, perché è dura vivere costantemente con la consapevolezza e la comprensione che abbiamo creato un regime di oscurità per i non ebrei; che il nostro demone che pianifica di peggiorare le cose è abilissimo e che noi viviamo benissimo accanto agli orrori che abbiamo creato.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 26 settembre – 9 ottobre 2017 (due settimane)

Il 26 settembre, ad un cancello della Barriera vicino all’insediamento di Har Hadar (nel governatorato di Gerusalemme), un 37enne palestinese ha sparato e ucciso tre israeliani: due guardie di sicurezza e un poliziotto di frontiera, ed ha ferito un altro poliziotto di frontiera. L’aggressore è stato colpito e ucciso sul posto ed il corpo è trattenuto dalle autorità israeliane.

Il Coordinatore Speciale dell’ONU per il Processo di Pace in Medio Oriente, Nickolay Mladenov, ha fortemente condannato l’attacco. L’episodio di cui sopra fa salire a 14 il numero di israeliani (di cui nove membri delle forze di sicurezza) uccisi da palestinesi dall’inizio del 2017, mentre sale a 23 il numero di palestinesi (di cui sei minori) autori e/o sospetti autori di attacchi, uccisi nello stesso periodo.

Dopo l’attacco, le forze israeliane hanno chiuso i due ingressi principali del villaggio di Beit Surik (governatorato di Gerusalemme), dove viveva l’aggressore e, per un periodo di tre giorni, hanno limitato l’accesso alla strada principale che collega al resto della Cirgiordania questo ed altri otto villaggi circondati dalla Barriera. Come conseguenza, l’accesso ai servizi e ai mezzi di sussistenza delle circa 35.000 persone residenti in questi villaggi è stato gravemente compromesso. Le forze israeliane hanno anche individuato e messo sotto sorveglianza la casa della famiglia dell’aggressore.

Il 4 ottobre, nella città di Kafr Qasim in Israele, è stato trovato il corpo di un colono israeliano 70enne con ferite da coltello. Secondo media israeliani, fonti di sicurezza israeliane hanno indicato che l’uomo è stato ucciso da palestinesi per “ragioni nazionaliste”. Due palestinesi del villaggio di Qabatiya (Jenin), sospettati dalle autorità israeliane dell’uccisione, sono stati arrestati dalle forze israeliane.

62 palestinesi, tra cui 23 minori e due donne, sono stati feriti nei territori palestinesi occupati [Cisgiordania e Striscia di Gaza] in scontri con le forze israeliane. Sei dei ferimenti sono avvenuti nella Striscia di Gaza, durante le proteste in prossimità della recinzione perimetrale, ed i restanti in Cisgiordania. La maggior parte delle lesioni (42) sono state registrate durante nove operazioni di ricerca e arresto in Biddu, Beit Surik, Silwan, Campo profughi di Shu’fat (governatorato di Gerusalemme) e nel Campo profughi di Jalazun ed in Al Bireh a Ramallah. Altri scontri che hanno causato lesioni si sono verificati durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya), An Nabi Saleh e Ni’lin (entrambi a Ramallah); all’entrata di Beit ‘Ummar e nel Campo profughi di Al’ Arrub (entrambi a Hebron); ed a seguito dell’ingresso di coloni israeliani in un sito religioso vicino a Gerico.

Nel complesso, le forze israeliane hanno condotto 121 operazioni di ricerca-arresto in Cisgiordania ed hanno arrestato 205 palestinesi, di cui nove minori. Il numero più alto di operazioni (36) è stato effettuato nel governatorato di Hebron, mentre il maggior numero di arresti (53) è stato compiuto nel governatorato di Gerusalemme. Ancora in Cisgiordania, durante il periodo di riferimento [due settimane], le forze israeliane hanno allestito almeno 156 chekpoint “volanti”, più del doppio della media dall’inizio dell’anno.

A motivo delle feste ebraiche, per dieci giorni durante il periodo di riferimento, le autorità israeliane hanno imposto una chiusura generale nella Cisgiordania. A tutti i titolari di documenti di identità della Cisgiordania, inclusi i lavoratori ed i commercianti con permessi validi, è stato impedito di entrare in Gerusalemme Est ed in Israele attraverso tutti i punti di controllo, ad eccezione dei casi medici urgenti, degli studenti e dei dipendenti palestinesi delle ONG internazionali e delle agenzie delle Nazioni Unite.

Nella Striscia di Gaza, in almeno dieci episodi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento verso civili palestinesi presenti in Aree ad Accesso Riservato, in terra e in mare; non ci sono stati feriti. Inoltre, in un caso, le forze israeliane sono entrate nella Striscia, ad est di Deir El-Balah, nella zona centrale, ed hanno svolto operazioni di spianatura e di scavo in prossimità della recinzione perimetrale.

Le autorità israeliane, citando la mancanza di permessi di costruzione, hanno demolito tre strutture ed hanno sequestrato materiali e attrezzature in varie comunità in Area C, con ciò colpendo i mezzi di sussistenza di più di 800 palestinesi. Faceva parte delle strutture prese di mira un tratto di strada agricola, finanziata da un donatore, la quale consentiva l’accesso ai terreni agli agricoltori di tre comunità nella valle del Giordano settentrionale; durante questa operazione, è stata danneggiata parte di una rete di irrigazione, finanziata da donatori, che forniva acqua alla stessa area. In altri due episodi, le forze israeliane hanno sequestrato fogli di lamiera zincata da utilizzare nella costruzione di una struttura residenziale nella Comunità pastorale di Mak-hul, nella valle del Giordano settentrionale e una serie di materiali e attrezzature utilizzati per la costruzione di una scuola nella Comunità beduina di Abu Nuwar, nel governatorato di Gerusalemme.

Quattro comunità di pastorizia nella valle del Giordano settentrionale (Mak-hul, Humsa-Al Bqai’a, Al Farisiya – Ihmayyer e Al Farisiya – Nabe ‘Al Ghazal) sono diventate ad alto rischio di sfollamento a seguito di sentenze dell’Alta Corte di Giustizia israeliana, emesse all’inizio di ottobre 2017, che hanno annullato la sospensione degli ordini di demolizione in queste Comunità. Si stima che più di 200 strutture in queste Comunità possano, da ora, essere demolite in qualsiasi momento, con ciò ponendo circa 170 persone, di cui 90 minori, a rischio di sfollamento.

In tre diverse azioni di coloni israeliani, due palestinesi sono stati feriti e sono stati segnalati danni materiali. Nei pressi di Qabalan (Nablus), coloni israeliani hanno fisicamente assalito e ferito un palestinese, membro delle forze di sicurezza palestinesi; un altro uomo, una donna e una ragazza sono stati feriti in un episodio di lancio di pietre al raccordo stradale di Beit ‘Einoun (Hebron). Secondo fonti locali palestinesi, la raccolta di 70 ulivi è stata rubata, da coloni israeliani a quanto riferito, in una zona vicino a Kafr Qaddum (Qalqiliya) cui i palestinesi possono accedere solo previo coordinamento con l’autorità israeliana.

Durante il periodo di riferimento, il valico di Rafah, controllato dall’Egitto, è rimasto chiuso in entrambe le direzioni. Nel corso del 2017 il valico è stato parzialmente aperto per soli 29 giorni. Secondo le autorità palestinesi di Gaza, oltre 20.000 persone, tra cui casi umanitari, sono registrate ed in attesa di attraversare.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

la versione in italiano è scaricabile dal sito Web della Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, alla pagina:

https://sites.google.com/site/assopacerivoli/materiali/rapporti-onu/rapporti-settimanali-integrali

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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Hamas ribadisce: il braccio armato non è oggetto di discussione nei colloqui di riconciliazione

Ma’an News

7 ottobre 2017

GAZA (Ma’an) – Un portavoce del movimento Hamas ha ribadito sabato che il futuro del braccio armato del gruppo non è oggetto di discussione nei colloqui di riconciliazione che stanno per iniziare con il movimento Fatah, previsti per martedì al Cairo.

Hazem Qassem ha detto a Ma’an che “le armi della resistenza sono legali. Servono a proteggere i palestinesi e liberare le loro terre (dall’occupazione israeliana) – perciò questo non dovrebbe essere un argomento di discussione.”

Il portavoce di Hamas ha detto che in realtà ciò che dovrebbe essere discusso è il “rafforzamento” del potere di Hamas in quanto movimento di resistenza armata.

Comunque Qassem ha affermato che tutti gli argomenti che “ostacolano la riconciliazione” dovrebbero essere discussi martedì, compresa l’assunzione del controllo della Striscia di Gaza da parte del Governo di Consenso Nazionale; poi lo spostamento dell’attenzione della riconciliazione da Gaza alla Cisgiordania; ed infine lo svolgimento di elezioni presidenziali, legislative e del Consiglio Nazionale per governare entrambe le parti dei territori occupati.

Giovedì Hamas ha detto che il governo palestinese di consenso nazionale era subentrato ufficialmente al movimento come autorità amministrativa nella Striscia di Gaza sotto assedio, che è stata governata de facto da Hamas dal 2007.

Fatah, il partito principale del governo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nella Cisgiordania occupata, ed Hamas sono stati coinvolti in un conflitto fin dalla vittoria di Hamas nelle elezioni legislative del 2006, scatenando una lotta violenta tra I due movimenti, con il consolidamento da parte di Hamas, un anno dopo, del suo controllo sul territorio.

Il primo ministro palestinese Rami Hamdallah ha detto al consiglio dei ministri, che si è riunito per la prima volta in tre anni a Gaza martedì, che il suo governo assumerà la piena responsabilità di tutti i settori della vita a Gaza “in totale coordinamento e partnership con tutte le fazioni e le forze palestinesi.”

Tuttavia, il controllo sulla sicurezza da parte di Hamas e la sua natura di movimento di resistenza armata ha costituito un ostacolo per l’ANP, che coopera con Israele sulle questioni connesse alla sicurezza, come stabilito negli accordi di Oslo – una politica ripetutamente condannata da Hamas, che accusa l’ANP di prendere di mira i suoi aderenti in Cisgiordania arrestandoli per ragioni politiche ed in coordinamento con Israele.

Poiché Hamas ha invitato il governo di consenso a prendere il controllo di Gaza, il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas ha detto di non essere disponibile ad accettare che Hamas mantenga il suo braccio armato, le Brigate Izz al-Din al-Qassam. “Non accetterò che si riproduca l’esperienza di Hezbollah in Libano” a Gaza, ha detto Abbas in un’intervista con i media egiziani. Hezbollah fa parte del governo libanese, ma conserva il proprio esercito.

Abbas ha detto che, nonostante il suo “forte desiderio di vedere andare in porto questa riconciliazione”, questo non avverrà a meno che l’ANP non “governi la Striscia di Gaza esattamente come governa la Cisgiordania.”

I passaggi sul confine, la sicurezza e tutti i ministeri devono essere sotto il nostro controllo”, pare abbia detto. Hamas tuttavia ha detto più volte che consegnare le armi non è oggetto di discussione nel processo di riconciliazione.

(Traduzione di Cristiana Cavagna)




L’unità dei palestinesi è finalmente arrivata?

Omar Karmi

6 Ottobre 2017, The Electronic Intifada

Te ne stai seduto per una vita aspettando un autobus, recita il vecchio detto, e poi ne arrivano tre allo stesso tempo.

Sembra che sia successo qualcosa del genere adesso sul fronte politico interno palestinese. Fino a giugno i politici palestinesi sembravano giunti a un punto morto, senza nessuna prospettiva di unità, nessun progresso con Israele e nessuna speranza per Gaza. Poi sono arrivate, proprio una dietro l’altra, due iniziative che coinvolgono entrambe Hamas, e l’ultima promette una svolta nella riconciliazione tra Hamas e Fatah.

Tuttavia, nonostante tutto l’apparente ottimismo, rimangono ostacoli fondamentali, che rendono prudenti in merito all’accordo.

Sono state create speranze

Alla fine dello scorso anno, sondaggi hanno mostrato un diffuso pessimismo sulle possibilità di unità, in parte perché le posizioni sembravano molto radicate. Niente che sia successo nella prima metà del 2017 ha smentito questa sensazione.

A marzo Hamas ha annunciato la creazione di un comitato amministrativo per governare Gaza, ignorando lo sdegno di Ramallah, dove l’Autorità Nazionale Palestinese ha affermato che questa mossa minava i tentativi di unità.

In aprile Mahmoud Abbas, il leader dell’ANP e capo di Fatah, sembrava suonare la campana a morto per questi tentativi. Ha reintrodotto le tasse sul combustibile destinato a Gaza, ha rifiutato di pagare Israele per l’elettricità destinata all’immiserita striscia costiera, ha tagliato i finanziamenti per le medicine e le cure mediche là e decurtato i salari per gli ex- dipendenti pubblici, che erano stati stipendiati per rimanere a casa dopo che Hamas aveva preso il controllo [di Gaza].

Due milioni di palestinesi sono stati lasciati solo con poche ore di elettricità al giorno, con il rischio di produrre una catastrofe umanitaria in piena regola, a lungo pronosticata.

Poi, in giugno, Hamas improvvisamente ha annunciato un sorprendente accordo con Muhammad Dahlan, un tempo capo della sicurezza a Gaza, nemico giurato di Hamas e da molto tempo rivale di Abbas, che era stato cacciato da Fatah nel 2011 in presenza di imputazioni di corruzione che alla fine sono cadute.

L’accordo ha previsto la fine dell’isolamento di Gaza con un’apertura del valico di Rafah verso l’Egitto e un finanziamento dagli Emirati Arabi Uniti.

E altrettanto all’improvviso, in settembre, Hamas ha annunciato che stava smantellando il suo comitato amministrativo, che avrebbe consentito all’ANP di assumere le responsabilità di governo a Gaza e che avrebbe appoggiato elezioni presidenziali e parlamentari.

Questa settimana il governo dell’ANP ha tenuto la sua prima riunione a Gaza in tre anni e il primo ministro Rami Hamdallah è stato accolto da una grande folla. L’ottimismo che una possibile svolta verso l’unità e la riconciliazione possa essere raggiunta sembra il maggiore di quanto sia mai stato da quando la divisione tra Hamas e Fatah è sfociata nella violenza 10 anni fa.

Debolezza in comune

C’è un modello preciso che spiega perché gli autobus tendono a ammucchiarsi (com’è a quanto pare noto nell’industria dei trasporti). Purtroppo la politica è più complicata, ma parecchi fattori spiegano perché la politica palestinese – così stagnante per tanto tempo – sia entrata così improvvisamente in una fase di iperattività. La debolezza sia di Hamas che di Fatah è il fattore principale.

In qualche modo Hamas è stato preso in un perfetto movimento a tenaglia. Pesantemente disarmato da Israele, tre devastanti attacchi in 10 anni hanno fatto pagare un prezzo sia nel corpo che nello spirito. Gaza è stata isolata dal mondo con un decennale blocco israelo-egiziano, le cui conseguenze economiche sono state catastrofiche.

Poi Hamas ha perso il suo sostenitore più importante quando i Paesi del Golfo si sono mossi per isolare il Qatar, con il risultato dello spostamento dei dirigenti di Hamas finora residenti là e la perdita di una fondamentale fonte di entrate.

Abbas, nel contempo, ha pochi risultati della sua decennale ricerca di un processo di pace senza prospettive da presentare. Le colonie illegali nei territori occupati proliferano e Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, è stato lieto di affermare che le colonie “sono destinate a rimanere per sempre.”

Nel 2012 l’ANP ha ottenuto un voto dell’ONU che ha promosso la Palestina allo status di “Stato non membro”, ma si è trattato di un passo indietro rispetto all’intenzione originaria di garantirsi la condizione di Stato membro a pieno titolo nel 2011. Con l’economia “quasi stagnante”, il profondamente impopolare Abbas è diventato sempre più autocratico. Ha represso il dissenso e schierato le forze di sicurezza palestinesi contro la sua stessa popolazione per soffocare la resistenza all’occupazione israeliana.

Entrambe le parti avevano bisogno di sfuggire alla rispettiva empasse, con la situazione umanitaria che premeva con maggiore urgenza su Hamas.

Interessi regionali

Hamas ha puntualmente fatto il primo passo ed ha costituito il suo comitato amministrativo. Abbas ha reagito con pressioni finanziarie, una scommessa molto rischiosa che lo ha visto disposto ad apparire come se stesse facendo causa comune con Israele contro Hamas.

Hamas allora ha annunciato un nuovo statuto, in cui si definisce come non legato alla “Fratellanza musulmana” [gruppo politico islamista presente in molti Paesi arabi, soprattutto in Egitto, ndt.], una mossa specificamente mirata a mettersi in contatto con Egitto e Stati del Golfo.

In seguito a tutto questo è arrivato l’accordo con Dahlan, che ha cambiato la dinamica ed ha chiaramente colto di sorpresa Abbas. Non solo ora si è trovato ad affrontare il ritorno di un rivale su cui pensava di aver avuto la meglio alla settima assemblea generale di Fatah dello scorso anno, ma aveva ora di fronte un Hamas con un appoggio finanziario potenziale degli EAU [Emirati Arabi Uniti, ndt.] e rapporti che diventavano rapidamente cordiali con l’Egitto.

Il ruolo del Cairo è cruciale. Stanco della ribellione del Sinai che mostra pochi segni di diminuzione, l’Egitto sta cercando di assicurarsi l’aiuto di Hamas per avere la garanzia che Gaza non diventi un rifugio per i miliziani del Sinai o una fonte di armamenti. Hamas si è dimostrato disponibile – pur avendo sempre rigettato le accuse di aver appoggiato le milizie salafite che hanno dichiarato la propria fedeltà al gruppo “Stato Islamico”. I dirigenti islamisti di Gaza hanno soffocato il contrabbando e iniziato a creare una zona di sicurezza lungo il confine con l’Egitto.

Nel contempo l’Egitto ha promesso di alleggerire la chiusura a Rafah, consentendo teoricamente non solo che il passaggio venisse aperto regolarmente, ma che potesse essere utilizzato sia per le merci che per le persone. Questa sarebbe una mossa estremamente significativa e potrebbe finalmente portare qualche sollievo all’ economia assediata di Gaza.

Intanto gli EAU, scontenti per il fatto che Abbas avesse respinto i tentativi sostenuti dai sauditi, dagli EAU e dall’Egitto di far tornare Dahlan – che risiede a Dubai ed è vicino ai dirigenti del Paese – dopo l’anno di isolamento, hanno promesso di rendere più appetibile l’accordo costruendo una centrale elettrica sul lato egiziano di Rafah e di pagare una compensazione alle famiglie per i danni subiti durante gli scontri tra Hamas e Fatah nel 2007, come un modo per sanare vecchie ferite.

L’accordo con Dahlan ha dato ad Hamas un vantaggio nei colloqui per l’unificazione. Non più isolato, ha negoziato con un’opzione potenziale di riserva. E facendo il primo passo e smantellando il comitato amministrativo, Hamas ha lanciato decisamente il pallone nel campo di Abbas.

Ostacoli

Finora la reazione a Ramallah [sede dell’ANP in Cisgiordania, ndt.] non è stata promettente. La convocazione di una riunione del governo a Gaza è stata un passo puramente simbolico, e, mentre è stata calorosamente accolta nelle strade di Gaza, non è sostanziale.

Molto più infausta per ogni negoziato di successo è stata un’intervista che Abbas ha rilasciato ad una stazione TV egiziana, in cui ha insistito che Hamas dovrebbe consegnare le proprie armi e consentire il totale controllo su Gaza alle forze di sicurezza dell’ANP controllate dalla Cisgiordania – con tutto quello che ciò comporta in termini di cooperazione per la sicurezza con Israele.

Questa è una scomunica nei confronti di Hamas, che al massimo accetterebbe un cessate il fuoco a tempo indeterminato, o hudna, ma la cui vera ragion d’essere come “movimento per la liberazione nazionale palestinese e gruppo della resistenza” è basata sul diritto internazionalmente stabilito a resistere all’occupazione.

La condizione di Abbas è definita dalla logica di un processo di pace che richiede non solo la fine della resistenza armata contro l’occupazione israeliana come una precondizione per i negoziati, ma che quelli che si trovano sotto occupazione si autocontrollino a questo scopo.

Abbas teme anche la perdita del sostegno internazionale dell’Occidente, che considera Hamas un gruppo terroristico. Anche se ci potrebbe essere una via d’uscita a questo proposito, a seconda di quale ruolo possa giocare Hamas in un qualunque accordo di unità, è molto stretta.

Netanyahu ha già messo in chiaro la sua posizione: Israele non accetterebbe nessuna “finta riconciliazione” ed ha ripetuto la sua richiesta che tutte le parti di un processo di pace debbano in primo luogo “riconoscere lo Stato di Israele e, ovviamente, lo Stato ebraico.”

Per superare le obiezioni israeliane Abbas ha bisogno dell’accordo di Washington, e Washington non accetterà niente meno di quello che chiede Israele per un accordo di unificazione. Con tutto il parlare che si è fatto alla Casa Bianca riguardo a mediare l’”accordo definitivo”, niente di quello che l’amministrazione Trump ha detto o fatto finora ha deviato significativamente o anche solo un poco dall’ortodossia filo-israeliana di Washington.

Aspettando l’autobus

Abbas potrebbe decidere di dare la priorità alle necessità palestinesi sulle condizioni imposte dall’esterno. Un fronte palestinese unificato, nonostante lo sconforto che i sondaggi d’opinione hanno rivelato sulla questione, è ancora una priorità che può portare folle plaudenti nelle strade di Gaza.

Ma Abbas, 82 anni, sta adocchiando quello che può ben essere il suo ultimo tentativo di un accordo negoziato. In questo caso, si profila un’altra situazione di stallo.

Questa volta Hamas potrebbe stare solo calcolando di avere una via d’uscita sotto forma dell’accordo con Dahlan e che, avendo fatto i primi passi, il fallimento della riconciliazione sarebbe imputato interamente ad Abbas.

E’ un azzardo: Hamas ha bisogno di alleggerire il blocco di Gaza. Ha bisogno che l’Egitto lo garantisca, e, se la riconciliazione dovesse fallire, ha bisogno del Cairo perché accetti di farlo in mancanza della copertura dell’ANP di Abbas. Ma il Cairo ha interessi divergenti che possono favorire un accordo con Hamas.

Il vantaggio degli autobus che si affollano è che, se il primo è pieno, il secondo, con molto spazio, sarà subito dietro. Se Abbas, e dietro di lui Washington, impone troppe condizioni, Hamas può cercare l’accordo con Dahlan, che ne pone di meno.

Omar Karmi è un ex corrispondente del giornale “The National” [giornale di Abu Dhabi, negli EAU, ndt.] da Gerusalemme e da Washington.

(traduzione di Amedeo Rossi)